Riuscii a comporre in modo organico le poesie, delle quali alcune pubblicate nei due libri, perché non praticai il mio modo usuale di scrittura, caratterizzata da una preliminare visione sistemica, seguita da una stesura analitica in settore delimitati, dove io ne ero al di fuori: freddo e calcolatore. Io divenni l’oggetto, nella veste della mia sensibilità tesa ad agire in modo analogo a una cassa armonica, amplificando le sensazioni che provavo e incanalandole in strutture concettuali che d’incanto uscivano già formate. Il giorno dopo, rileggendo quello che scrivevo in versi mi domandavo: “Ma ero io? Come ci sono riuscito? “
Queste domande non otterranno la risposta, perché hanno un presupposto che nega qualsiasi argomento: vi è un “io” sotto inteso!
Riesco a scrivere in flusso continuo, soltanto se mi dimentico. Naturalmente dopo segue la correzione. Emerge ciò che a livello metaforico è detto inconscio. Se penso di programmare tutto e di progettare quello che devo scrivere in versi o in prosa, mi blocco, oppure scrivo un programma di informatica, un trattato, un resoconto, un mini saggio, o un argomento filosofico su quel tema in cui all’inizio avevo la pretesa di romanzare o di versificare.
L’impegno ad ascoltare quella che metaforicamente talvolta è detta la parte energetica di sé, quella veramente creativa associata al “femminile” che ognuno di noi ha, anche se lo releghiamo nell’inconsapevolezza. Iniziai a rifletterci senza volerla limitare, perché ogni atto di volizione verso uno scopo immediato, avrebbe ottenuto l’effetto opposto. Non imponevo nulla, astenendomi da selezionare coscientemente un punto di vista nel determinare un orizzonte creativo, senza volerlo, almeno nelle intenzioni, racchiudere o incatenare.
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Ripresi gli appunti datati a partire dal 1989 per l’ennesima volta nel mese di agosto del 2017. Ridevo per i termini usati, stupito nel rilevare una logica inusitata nel discorrere e nell’elaborare trame, approfondendo concetti più che mai attuali, anche se espressi con altri termini nei dibattiti pubblici. E ancora una volta mi chiesi: “Ma ero proprio io? E adesso ne sarei capace di questi slanci?”
Ebbene la risposta è affermativa: sviluppai in modo coerente quelle trame monche e incerte nella forma, perché mi lasciai andare e mi venne in mente l’analogia della bimba o del bimbo che gioca. In quei momenti il bimbo è serissimo, talvolta muto e totalmente impegnato in quel che fa. E se sbaglia, ricomincia daccapo. Si pensi al bimbo che, disteso sul pavimento, prende una matita e un foglio e inizia a scribacchiare. Le linee, progressivamente, acquisiscono forme più regolari. E continua, fino a infittire gli spazi del foglio. Si alza. Ne prende un altro e ricomincia in modo sempre più raffinato, moltiplicando le varietà del tratto, del segno e variando consapevolmente l’impugnatura. Non chiama la madre. Forse borbotta e parla con amici immaginari e inventa una storia.
Il tratto comune rispetto a tutti i bimbi che si comportano in questo modo è che si dimenticano delle loro voglie momentanee. Dal cantare filastrocche o dal disegnare, o nel modellare la creta, o roteando bambolotti in aria, in quel momento creano e ricreano un mondo.
La biografia itinerante dei tentativi e degli errori, costituisce la mappa per fondare una struttura tesa a comporre l’opera.
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Certamente l’idea non scaturì per aver preso tra le mani quei vecchi appunti, in verità era il tarlo fisso che riemerse, pressato appunto dai me stesso più giovani. Lo sentivo dentro. Nei decenni passati lessi molto di romanzi, di poesie e non solo di quello. Cercai di ricordare le innumerevoli volte che per motivi di lavoro, di diletto, di curiosità e di necessità momentanee, ripresi i dizionari, i manuali di versificazione e le grammatiche, sia a livello scolastico sia di livello filologico. Basta. Avevo letto troppo. Inutile leggere ancora. Alcune stesure degli anni passati arrivarono quantitativamente a centinaia di pagine, ma non era più un romanzo, bensì un trattato, anzi un insieme di ricerche, riflessioni e piccoli saggi su argomenti molto specifici. Altri ancora nei decenni successivi, cioè dopo il 2000, apparivano nella forma di uno Zibaldone. Ecco avevo tanto, tantissimo materiale che paradossalmente non mi permetteva di iniziare, perché mi tratteneva nei fondali.
Era inutile portare tutto innanzi ancora una volta, sicché decisi di ritornare alla fonte, cioè all’idea principale. E mi convinsi. Provai verso la fine di agosto del 2017. Scappai subito. Compresi che stavo ripetendo lo stesso schema, come se dovessi svolgere un compito. No. Doveva partire dalla mia emotività, come per le poesie.
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Cominciai con leggerezza il primo settembre 2017, senza pretendere di scrivere alcunché. E come mio solito cominciai vedendo dei quadri in internet relativi a un tema specifico, indugiando alla fantasia senza regole.
Annotai la data nella prima riga e scrissi di getto quasi tre pagine. Mi resi conto poi alla fine, dopo neanche 30 minuti, che all’inizio era un dialogo, e poi divenne una narrazione, quasi da monologo interiore, simile al mio altro scritto pubblicato in ebook “Tutto sotto controllo. Un corpo allo specchio”: un racconto breve con una voce sola narrante.
Non è un caso, perché nella scrittura in prosa, dopo le prime righe, in particolare per i neofiti, non si regge la concentrazione per interpretare i ruoli di chi parla o agisce, e si ritorna nel proprio io. Se si parla di un concetto o di una idea, e la si associa a un personaggio, alla fine per non perdere le idee, i luoghi, le immagini, ci si rifugia nel monologo. Va benissimo, ma non è il romanzo, eventualmente è l’embrione della situazione, dalla quale si incardinano i protagonisti, i dialoghi per porli in relazione alle trame che si snoderanno per tutto lo scritto, di decine e centinaia di pagine.
In quelle tre prime pagine avevo già in mente alcuni protagonisti, ma non erano ben delineati e mi confondevo con i nomi. L’inconscio mi diceva: “Fermo. Stai attento. Non puoi continuare così velocemente. La situazione è ottima ed è da sviluppare, ma devi descrivere il loro fisico, i loro nomi, i loro tratti. Continua comunque, ma fra qualche giorno ti dovrai fermare”.
E così accadde: per i giorni successivi scrissi in media una o due pagine al giorno. Cercando in rete, determinai il primo luogo in cui iniziarono gli eventi. Agivo come un rabdomante, ma trovai una difficoltà: pensavo come un poeta e non come uno scrittore in prosa. Mi usciva fuori una prosa poetante. Quasi melodica. Illeggibile per il lettore, a meno che non fosse un poeta avvezzo agli stili e di poco dissociato come lo ero io in quel momento!
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