L’uomo che guardava passare i treni. Traduzione di Paola Zallio
L’homme qui regardait passer les trains © 1938 GEORGES SIMENON LIMITED
© 1986 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
È un libro che prefigura gli eventi futuri, offrendo un tono di drammatizzazione agli eventi quotidiani e ripetitivi. La noia quotidiana diventa il fulcro per lo straordinario.
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“[…] E ormai il dado era tratto! Il tempo di fumare due o tre millimetri di sigaro, stirarsi, ascoltare l’accordo degli strumenti all’auditorium di Hilversum, e Kees fu preso nell’ingranaggio. Da quel momento ogni istante contava assai più di tutti quelli che lui aveva vissuti fino allora, ogni suo gesto assumeva la stessa importanza di quelli degli uomini di Stato, dei quali i giornali annotano le minime sfumature. […]”
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“[…] «Cerchi di capire bene, se non è troppo ubriaco, quello che le dirò… Innanzitutto voglio che lei sappia che non sto tentando di comprarla… De Coster non compra nessuno, e se le ho confidato tante cose è perché la so incapace di andare a raccontarle… Chiaro? Adesso mi metto nei suoi panni… Di fatto lei non ha più un soldo e, conoscendo quelli dell’Immobiliare, si riprenderanno la casa alla prima scadenza inevasa… Sua moglie non glielo perdonerà… Tutti crederanno che lei sia stato mio complice… Sì, potrà anche trovare un altro posto, ma sarà comunque ridotto alla stessa situazione di suo cognato Merkemans… Ho mille fiorini in tasca… Se rimane qui non posso niente per lei… Non saranno cinquecento fiorini a cavarla d’impaccio… Ma se per caso prima di domani le riuscirà di capire… Tenga, vecchio mio!». […]”
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“[…] «Ora, se non ha troppo sonno, può accompagnarmi fino al treno… Ho un biglietto di terza classe…». Era un vero treno della notte, sonnacchioso, sordido, abbandonato in fondo a un binario. Il capostazione, col berretto rosso, aspettava solo di aver dato il segnale per andare a letto. […]”
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Rimasto solo, Kees fantastica sulle sue rivincite. Leggendo si avverte fisicamente il malessere e la vertigine per l’alcool e anche per lo svelamento della sua posticcia morale di quindici anni che cominciò a vacillare. I pensieri vorticarono assieme al senso dell’equilibrio nel letto. Il lettore è coinvolto in una tensione, in cui gli eventi vorticano continuamente in un ritmo serrato. Popinga Kees inizia a scrivere sul taccuino rosso come se fosse una partita a scacchi, e anche per mantenere la memoria della sua inconscia paura di rimanere nell’anonimato.
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“[…] Tutto poteva permettersi! Poteva essere tutto ciò che desiderava ora che aveva rinunciato a essere a ogni costo, per tutti quanti, Kees Popinga, procuratore!
[…]”
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Simenon usa molto bene i particolari. Il muro di calce, le luci accecanti nel garage segreto dove rubano le macchine. Il caffè bollente. L’uomo alto con la tuta. Si avverte la corporeità nelle descrizioni così apparentemente semplici, con un solo aggettivo. L’atmosfera cupa e fumosa del bar, della vita quotidiana, prefigura ciò che pensano i protagonisti. Il rimo della scrittura conferisce il movimento e determina una struttura narrativa, corposa, colorata, gonfia. Di sangue e carne, con tatto, sapori, odori.
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“[…] Kees non aveva voglia di dormire. Andò ad affacciarsi alla finestra, o per meglio dire all’abbaino, e lasciò errare lo sguardo su un paesaggio straordinario: in lontananza prati ammantati di neve, poi rotaie, fabbricati, travi di ferro, ammassi confusi del materiale di una grande stazione, vagoni senza locomotiva che si muovevano piano piano, locomotive senza vagoni che segnavano rabbiose il passo, fischi, grida, e sparuti alberi sfuggiti al massacro, che disegnavano mesti il nero viluppo dei rami contro un cielo diaccio. […]”
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“[…] Lui era più forte di tutti loro, incluso Louis, inclusa Jeanne Rozier… Tutta la banda era come prigioniera del garage, come maman lo era della casa, Claes della clientela e di Éléonore, Copenghem del circolo degli scacchi di cui ambiva la presidenza… Lui, Popinga, non era prigioniero di nulla, di nessuno, di nessuna idea, di niente di niente, e la prova…
[…]”
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Il protagonista varia continuamente il suo agire in modo equivalente al gioco degli scacchi, nel girare gli alberghi, fumare i sigari e le pipe; portare una valigetta. Cambiare sempre. Metodicamente: evitare i metodi.
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“[…] «Insomma, ho continuato a essere procuratore per abitudine, marito di mia moglie e padre dei miei figli per abitudine, perché non so chi ha deciso che così doveva essere e non altrimenti. «E se io, proprio io, avessi deciso altrimenti? «Lei non può immaginare fino a che punto, una volta presa questa decisione, tutto diventi semplice. Non occorre più occuparsi di quel che pensa il Tale o il Talaltro, di quel che è permesso o proibito, dignitoso o meno, corretto o scorretto.
[…]”
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“[…] «Ma possibile che nessuno capisca come ’prima’ qualcosa in me non funzionava? ’Prima’ se avevo sete non osavo dirlo, né tanto meno entrare in un caffè. Se avevo fame, e mi offrivano qualcosa in casa di amici, per educazione mormoravo: «“No, grazie!”. «Se mi trovavo su un treno, mi facevo obbligo di fingere di leggere o di guardare il paesaggio, e non mi sfilavo i guanti anche se mi stringevano le dita, perché così prescrivono le buone maniere.
[…]”
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“[…] «Dunque, non sono né pazzo né maniaco! Solo che a quarant’anni ho deciso di vivere come più mi garba senza curarmi delle convenzioni né delle leggi, perché ho scoperto un po’ tardi che nessuno le osserva e che finora sono stato gabbato.
[…]”
La stessa città di Parigi offre occasioni per la discesa all’inferno. L’attentato al suo io paranoico, nella determinazione sovrastimata dell’immagine di sé. Riceve colpo su colpo: la truffa alla sua intelligenza, l’indifferenza, e la costrizione alla normalità che odiava.
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Si rende conto di non poter esprimere la follia, essendo costretto nel racconto: avverte il carcerario che si avviluppa attorno a ogni suo intento.
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