Il 25 novembre è “La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” e di solito i luoghi comuni nei mezzi di comunicazione di massa e nei luoghi di ritrovo declinano essenzialmente verso il tema della violenza fisica con recenti neologismi come “stalker” e “femminicidio”. Le discussioni sembrano appiattite ed hanno reazioni polari che oscillano da una visione apocalittica a una di irrilevanza. Le condizioni sulle sperequazioni sul lavoro, sulla gestione del tempo per la cura dei famigliari e di sé, e sull’accesso alle istituzioni addette alla formazione, sono migliorate sensibilmente dagli anni settanta e ne hanno usufruito tutti: maschi e femmine. Per una inerziale semplificazione dei temi, i giudizi di merito volgono sul corpo della donna e sul dubbio a proposito della veridicità della violenza: ancora oggi si discute se la colpa e la responsabilità sia della vittima. E ci si sofferma su un singolo evento e non sul sistema di reti sociali, per le quali il sistema di repressione, l’ordinamento giuridico, l’assistenza minima economica e di sussistenza, amplificano la violenza e la condizione di soggezione.
In questo dibattito il maschio che dice? E’ relegato solo nella figura dell’indifferente o del violento ? O di colui che inventa motti di spirito e luoghi comuni nei mezzi di comunicazione di massa e nei ritrovi gregari tipici del sesso “forte”?
Gli uomini dovrebbero mostrare la volontà di riconoscere il fenomeno e se fossero stati testimoni di eventi di tale genere, che esprimano onestamente giudizi su di sé e sui propri atteggiamenti.
Era una domenica di tardo pomeriggio di fine maggio nel 1985, con aria calda e cielo chiaro. Ero seduto con amici sulle scale dell’entrata principale del municipio di Marino (località in provincia di Roma).
Palazzo Colonna – Municipio di Marino (Roma)
Apparve una donna con il vestito a festa correre in piazza chiedendo aiuto, e dietro un uomo corpulento più anziano e trasandato che la rincorreva. La gettò a terra e la schiaffeggiò. Il fatto si svolse in meno di 10 secondi. Non facemmo in tempo a muoverci. Increduli ci guardammo inerti e imbambolati. Nel frattempo, accorse un adulto molto più giovane dell’assalitore e lo intimò di fermarsi. Ne arrivò un altro: si seppe che quest’ultimo era un agente in borghese. L’energumeno si calmò e la donna si rialzò e si ricompose. Noi, in piedi, come burattini. Poi arrivarono conoscenti di quella coppia e parlarono animatamente. Infine, tutti se ne andarono e la donna con loro.
Di lato, vi erano signore sedute sul balcone e altre su sedie fuori i rispettivi ingressi di casa. Alcune le conoscevo da sempre: quante volte mi dissero di stare attento alle macchine in corsa, quando più piccolo con altri giocavamo rincorrendoci per le strade, oppure quando offrivano ai figli e ai nipoti e a me, la merenda. Erano persone che infondevano la stabilità, la sicurezza e il senso del tempo. Amabili: una traccia della propria infanzia.
Il loro sguardo era torvo e arcigno: era la prima volta che osservavo quelle facce. Non capivo, e poi ascoltai i loro duri commenti verso la donna che fu appellata con male parole, come una poco di buono con tutto il rosario di aggettivi correlati. Non captai nessun giudizio verso l’uomo. Le zie “acquisite” ora apparivano come statue piene di freddo e fuliggine.
Le case mi apparvero nere con un cielo senza riflesso ed ebbi l’immagine della prima pagina del romanzo “Nel vicolo Protocny” di Il’ja Grigor’evič Ėrenburg, dove un uomo prende a mattonate in testa una donna per strada. E quello che per me, anche se orribile, era sentito come una finzione narrativa, ora ritornava contorcendomi le viscere, balbettando parole sconnesse come i miei due amici accanto.
E ci guardammo ancora arrossendo, umiliati per la nostra deficiente azione e per la paura diffusa nella pelle rabbrividita. E dopo lungo tempo, davanti allo specchio e senza giustificazioni, io compresi che la vergogna provata dopo l’evento, era anch’essa una scusa: pensavamo a noi stessi, non a quella donna. Il groviglio d’emozioni era una rete che allontanò la violenza e l’assurdità di quella scena. L’avevo sotterrata nelle strade della mia mente. Ero diventato, mio malgrado, un complice di quella violenza. Lo specchio rispose che in quell’istante si frantumò il luogo sicuro d’infanzia: fui cacciato dal Paradiso.
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