14 gennaio 2013
Come si fa a scrivere una poesia? Sia essa di ottimo stile, pacchiana, stupida, manifestamente sciatta, originale?
Anche se si ha l’erudizione di versificazione, retorica e stilistica, può apparire il blocco. Se si pensa ad un compito, alla pubblicazione, all’esistenza di un pubblico effettivo immediato, il foglio rimarrà bianco. Se si utilizzano riti propiziatori stabili e se si programma il lavoro, il foglio forse rimarrà bianco.
Se si forza la rima, forse appariranno pagine sparse di righe in prosa, e questo non è un male. E allora? Nel preciso atto del comporre che si crede poetico, forse non esiste una regola, ma un criterio operativo (mutevole): lasciar andare il “deve”, affinché le emozioni non siano forzate.
Lasciar andare le analisi per sentire il corpo fisicamente, non ontologicamente, o soggettivamente, nel senso etico o erotico, magari dopo, ma proprio il corpo, qui e ora.
Maurits Cornelis Escher, Drawing Hands 1948.
Lasciar venire tutto quello che travolge dall’esterno.
Lasciar venir il timore e la paura.
In seguito apparirà il tempo delle riflessioni, analisi e correzioni. Ma non è un investimento, perché non si hanno interesse e garanzie. Il premio è sempre uno: se stessi.
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