Tanto è stato scritto riguardo a tale capolavoro che divenne un classico, per impostare le trame, tra intrighi dei potenti (nobili, proprietari terrieri, banchieri, clero) e nuovi attori che dalle guerre napoleoniche apparvero come soggetti autonomi nei racconti e nei romanzi: il popolo, gli intellettuali d’assalto. E ancor di più, la messa in questione tra la lingua, il popolo, il regno, il territorio, la libertà e l’autonomia giuridica.
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La guerra non fu più solo intesa come una espansione territoriale e imperiale, perché si volle rendere visibile una nuova equazione geografica tra lo Stato e il regno, il ducato e il principato, con il popolo che è ora caratterizzato da una omogeneità culturale e linguistica. Ciò fu inteso come una proiezione, non la realtà di fatto di quel tempo.
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Stendhal (ovvero Marie-Henri Beyle) partecipò alle guerre rivoluzionarie e poi napoleoniche. Attraversò anche il territorio italico, e qui soggiornò nei diversi regni conquistati. Conobbe gli italiani, ma non quelli che noi riteniamo tali oggi. No: gli italiani che erano dell’Impero Austriaco, del Regno Sabaudo, del Granducato di Toscana, dei Regni Pontifici, dei vari ducati di Parma e di Modena, e così via.
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I potenti si sentivano sì italiani, ma come un’unione (e non un’unità) culturale che derivava da una radice storica per i vari dialetti in una lingua che si formò dal latino. Noi oggi riteniamo scontata a livello formale (non sostanziale perché molti stereotipi li abbiamo anche oggi e li consideriamo reali e viventi tra di noi) l’unità linguistica e giuridica dei soggetti nel territorio, tra l’individuo e le istituzioni, le norme e la cultura, all’interno di un territorio ben delimitato che ha una prassi del diritto pubblico. Oggi vi è la legislazione formale che associa a un territorio omogeneo quella unità di analisi detta “popolo”.
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È un tema più che mai attuale, specialmente per noi, qui in Italia, abituati a un paese lungo, costeggiato dal mare, che si sente tale perché omogeneo, credendo quindi che altrove sia così.
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I parmensi si vedevano magari più vicini al Granducato di Toscana che al regno Sabaudo, più vicini all’imperatore D’Austria che allo Stato Pontificio. E tutti guardavano molto male il Regno delle Due Sicilie, che poi fu anche Regno di Napoli, ove al suo interno vi erano amministrazioni territoriali diverse, come quelle tra le isole, le capitanate, e i grandi centri metropolitani.
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Stendhal ne fu un testimone diretto, infatti parla molto di noi, comparando il modo di agire dei popoli italici sia a livello “alto” sia a quello “popolare”.
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È un romanzo moderno, e non è un caso che altri scrittori come Alexander Dumas ne abbiano attinto per ricavare spunti relativamente alla prigionia, alle questioni relative alle guerre intestine in Italia, e alla figura della donna. Le protagoniste femminili, dalle duchesse alle cameriere, agiscono in piena autonomia cognitiva e di azione nel rapportarsi ai corrispettivi maschili. Le donne ragionano in modo sottile sulle tecniche di comunicazione e di interpretazione circa gli eventi e i processi mentali dei maschi. Ciò è una novità rispetto ai romanzi del settecento, dove vi sono donne eroiche, abili, perfide, intelligenti, capaci, ma queste dipendevano in primo luogo dall’emotività e dal vizio. Si praticava un approccio laico della visione religiosa secondo la quale, una donna capace è una strega che è serva del demonio.
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Nel romanzo le donne eticamente sono sullo stesso piano, sia le figure negative sia quelle commendevoli rispetto agli uomini. Certo vi è l’amore romantico che tenta di sublimare i contrasti e Stendhal che seguiva il suo pubblico, veicola la trama secondo questa logica, anche in modo affrettato, rispetto alla complessità delle descrizioni e degli eventi narrati nella prima parte del romanzo. Ciò dipende anche dalla necessità di ricavi monetari per la distribuzione dei romanzi, pubblicati a puntate nelle riviste settimanali o mensili. Ecco perché ogni tanto si rilevano ripetizioni e riassunti degli eventi. O talvolta vi siano stacchi netti da una scena all’altra. E forse per motivi contrattuali, o personali, Stendhal ebbe fretta di finire.
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Occorre considerare che lui tra la vita militare e di corte, partecipò a vicende dure, rocambolesche, con alti e bassi, vivendo da nomade. Per quanto riguarda la descrizione delle battaglie e delle rivolte, siamo nel periodo dopo Waterloo: quello che va dalla restaurazione fino ai moti del 1830. Il libro è ambientato in un periodo di apparente ritorno alla tradizione, ma si vede come i nobili oramai avessero il terrore del “popolo” che appariva sempre più una espressione di interessi diversi e articolati. Il periodo di “pace” in realtà fu una pentola a pressione di conflitti che emersero momentaneamente a livello locale.
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Stendhal era innamorato degli italici e del loro modo di agire. Vi sono, infatti, richiami alle loro modalità di comunicazione e di relazione. Nel romanzo vi sono ripetute comparazioni rispetto ai popoli nordici. La lettura di quest’opera è anche un’occasione per rilevare come ragionassero e si vedessero gli italici lombardi sotto l’Austria, i nobili dei vari ducati, l’aristocrazia e il popolo sabaudo.
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La bellezza delle sue opere risalta anche nel modo in cui esprime i sentimenti e le riflessioni interiori dei personaggi, in un modo delicato conducendo per mano il lettore, mostrando infatti la causa delle loro azioni successive. La narrazione, a parte gli stacchi, derivati dalle puntate sulle riviste, segue un filo logico lineare all’interno di più storie parallele. E su questo è un autore superlativo. Una forza della natura, data anche la sua vasta produzione letteraria.
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Rispetto ai nostri giorni si rileva un pudore nel mostrare scene scabrose di sesso, di violenza e di guerra. E ricordiamo che lui la guerra la fece per davvero. Non è un caso che alcune descrizioni dei campi di battaglia siano dirette, sintetiche, scarne, ma efficaci, appropriate, ed evocate con poche parole. Eppure non calca la mano. In certi casi, relativamente alla malattia, alle ferite, al sangue e allo sporco, il suo timbro è veloce, da apparire tenue ed ovattato. Ciò dipende in primo luogo dalla sua sensibilità. Era una persona curiosa, che voleva apprendere, leggere e migliorarsi. Man mano negli anni divenne sempre più sofisticato: sapeva vivere nel quotidiano e a corte. Anzi era addirittura severo con alcuni ambienti nobili e letterari per la superficialità.
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L’uomo sacrificava lo scrittore per non apparire eccessivamente “volgare”. In generale, però, la sensibilità del tempo era molto più vicina alla malattia e alla guerra che offendono il corpo rispetto ai contemporanei. Non vi erano riflessioni riguardo la relazione tra il conflitto e la carneficina. Noi, e oggi diremmo fortunatamente, siamo molto più sensibili al dolore e alla presenza del cadavere, del caduto in guerra putrescente, all’amputazione e alla menomazione.
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La morte non era configurata come un elemento astratto, ma si individuava nel fato che portava le malattie, e nello scontro tra ladri, malfattori e militari. Però Stendhal ci informa di un primo slittamento semantico: le guerre napoleoniche causarono vere e proprie stragi di massa che, per quei tempi, corrispondevano a devastazioni continue e generalizzate, e non più a scontri individuati in luoghi precisi. La razzia e l’attacco ai civili non fu più una conseguenza della disfatta e dell’occupazione, ma una tecnica complementare all’azione della battaglia. Gli eserciti si specializzarono distaccandosi sempre più dai civili, i quali divennero un obiettivo tattico.
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La “Certosa di Parma” fu una miniera di spunti per i grandi romanzi dei decenni successivi in ordine alle guerre, alle avventure di corte tra gli amori e gli intrighi e alle nuove determinazioni delle politiche e delle relazioni internazionali.
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Più di tutto, però, perché Stendhal scrive in un modo meraviglioso: mai un predicato o un aggettivo fuori posto, mai descrizioni ridondanti, a parte i raccordi delle puntate editoriali. Si respira aria di letteratura montana: aria fresca e corposa che riempie i polmoni.
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