Sono passati mesi, qui, oggi, nel mese di Luglio 2023, dall’assedio di Mariupol. In quest’opera vi sono i resoconti, i fatti, di documenti di alcuni attori di questa vicenda che lì, e attorno, è purtroppo ancora in svolgimento. Non parlano comodamente da un divano. Molti di loro ne sono stati vittime. Feriti comunque nell’animo, oltre che nel fisico, anche per la perdita delle loro famiglie e della comunità. Il processo di distruzione ha coinvolto le dimore, i quartieri, le vie, le scuole: l’intero paesaggio. Mariupol non può essere appellato come se fosse un cimitero, perché anche quello è stato distrutto.
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E loro sono i più fortunati, perché sono vivi.
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È utile conservare tutto ciò, in modo che si possano richiamare gli eventi, le persone e riutilizzare l’incontro tra il giornalista e altri studiosi e indagatori, in modo che il futuro non agisca univocamente nel traslare le interpretazioni in una univoca direzione di negazione e ancor peggio di consapevole sviamento.
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Per il pubblico, qui in Italia, quest’opera è un invito a non incedere in una postura pigra di uno spettatore del Colosseo, acefalo e voluttuosamente voglioso di sangue per estraniare il dramma, considerare i fatti come favole, o peggio ancora giustificare inconsciamente le proprie inclinazioni pornografiche nel provare l’acre soddisfazione nello spiare il dolore altrui.
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Quest’opera è un esempio di un processo di ricerca che è metodologicamente ben impiantato, attraverso la dichiarazione degli intenti, il dispiegamento degli indicatori di rilevazione, la messa in opera delle procedure di indagine, di inchiesta e di intervista. In più vi è la cura della sistemazione e della scelta di ciò che si è raccolto. La spiegazione di ciò che è considerato notizia è collocata in una struttura semantica che ha per base il <<fatto>>.
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Vi è una consapevole parsimonia nel correlare le relazioni tra gli eventi se non attraverso un lavoro artigianale, e quindi limitato, di ciò che si è rilevato dalle interviste e dalla visione sul campo. Vi è il valore aggiunto di rendere disponibile al lettore il ventaglio delle supposizioni e la logica di costruzione dei giudizi.
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È un lavoro onesto che invita il pubblico ad ascoltare in modo disciplinato ed eticamente corretto. È una possibilità ulteriore per evitare l’inclinazione verso considerazioni superficiali, o dettate univocamente dai pregiudizi che riguardano il proprio vivere e nulla entrano in quel luogo totalmente stuprato.
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Andrea Nicastro non scrive dal suo divano e non assume il ruolo di predicatore morale circa gli accadimenti in corso come se fosse un turista impermeabile a tutto. Non ha neanche il tono del giornalista che si atteggia a eroe titanico perché affronta la discesa agli inferi, sapendo di riveder le stelle degli applausi del pubblico. L’opinione di massa acefala vogliosa di racconti mitici e quindi semplici, cui spalmare emozioni ed istinti un tanto a serata prima di bersi un caffè o di usare lo stuzzicadenti, mentre commenta tra sé e sé di saperla lunga.
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No. Qui il narratore sta assieme alle vittime, anche perché non si aspettava quello che via via accadde ogni giorno, lì, a Mariupol: la città che nel giro di qualche orbita solare sarebbe divenuta un cielo di piombo e una terra di sangue. Le testimonianze e le memorie, sono raccolte nella penuria di acqua, di luce, di vestiti invernali e denaro.
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Ecco perché gli aggettivi non sono così sempre declinati al superlativo, perché chi narra, descrive la distruzione che ha appena spostato il suo corpo e la sua camera per le detonazioni. È anche il suo corpo che parla, tra l’udito e lo sconquasso delle ossa.
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Ottantadue giorni: millenovecento sessantotto ore. Questa è la storia che si fa attraverso la pratica giornalistica, viva, partecipata e concreta.
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11-12 “[…] Di alcuni eventi sono stato testimone diretto, di altri cronista, raccogliendo centinaia di storie, impressioni, frammenti di chi usciva vivo durante e dopo quegli ottantadue infiniti giorni di assedio medievale. La forma del romanzo, invece che del reportage, mi ha permesso di mescolare facce e vite, sommarle, dividerle, dare loro consistenza. O almeno provarci. In ogni personaggio ci sono i racconti di dieci persone diverse più, magari, il ricordo di un fantasma incrociato nelle notti dei bombardamenti. Prima di farvi leggere queste pagine le ho ripulite dalla cronaca più cruda perché mi rendo conto che credere alla realtà è più difficile che credere a ciò che creiamo con la fantasia. La prima ci spiazza, la seconda, figlia dell’esperienza, sappiamo in qualche modo riconoscerla. Esiste invece un qualcosa, magia l’ho chiamato, che uomini e donne sanno concepire nei momenti più drammatici. È un intuito o un agire che ha spesso soccorso l’umanità dai suoi stessi mostri. E ha salvato anche me da Mariupol. Lo troverete, spero, nel racconto assieme allo stupefacente dolore di quell’assedio e alla scintilla di umano che ho visto resistere anche nelle atrocità […]”
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53-54 “[…] a me che non è mai piaciuto seguire le notizie, adesso che siamo senza elettricità, adesso a me manca anche la tv, la predica uguale per tutti, qualcuno che mi dica come fare. Mi manca. Mi manca terribilmente. Non voglio pensare da solo, che lo facciano altri per me. Se c’è qualcuno incapace di vivere in un assedio, ecco, sono io.[…]”
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Mariupol e l’Ucraina, proprio perché tese all’autodeterminazione, minano il mito fondativo della Russia, sia come impero sia nella sua incarnazione dei soviet. Ancor di più frammenta la monolitica la narrazione cristiana russa di essere la portatrice del messaggio trascendente. Mariupol per la sua economia del ferro e del carbone, che propone nuovi modelli di relazioni sociali dal basso, si trasforma in una occasione di sorgente di mutamento per l’intera Russia, la quale risponde con una crudele volontà di annichilire e negare l’aspirazione alla libertà.
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Qui alcuni passi. Aggiungerò solo note di raccordo. Loro, queste persone in carne ed ossa stanno offrendo ora questo presente che diverrà storia, dolorosa per la quale noi tutti dovremo misurarci, per eventuali omissioni, ipocrisie, pregiudizi di comodo.
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58-59 “[…] In quel periodo anche Mariupol ha cominciato a cambiare. Poi si è sciolto di colpo pure l’impero che difendeva il comunismo e per Mariupol è stata una corsa. La Russia era rimasta affezionata all’idea che uno decidesse per tutti anche perché soffriva di nostalgia per quando tutto il comunismo del mondo aveva a Mosca la sua capitale. Mariupol, invece, ha voltato pagina. Ha smesso di essere solo la città delle acciaierie e delle montagne di carbone come voleva la Madre russa e comunista e ha cominciato a riempirsi di computer e università. Tra gli operai sporchi di fumo e carbone hanno cominciato a circolare giovani, frizzanti, con le mani delicate di chi non ha mai lavorato con pala e piccone, giovani che volevano costruirsi un futuro su misura. Sono convinta che la Russia ha deciso di essere crudele con Mariupol proprio perché la città era cambiata troppo. L’assedio era contro quei nuovi abitanti che non si ricordavano più che cosa volesse dire essere comunisti o obbedire al capo. Per anni e anni a Mariupol avevano vissuto solo minatori e operai con la testa bassa, ma alla vigilia dell’assedio la città era piena di gente curiosa, libera, un po’ cosacca che guardava dritto davanti a sé. La Russia non riusciva a sopportarli […]”
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86-7 «Per il forno, non ti preoccupare [Pavel: nota mia: soldato russo richiamato a combattere, ora panettiere che sognava di migliorare l’attività di fornaio]. Sono contento di stare qui, so di essere fortunato a non andare come te a combattere. Penserò a tutto io, tu impegnati a tornare sano e salvo. Questa guerra non mi piace.» «Perché? Cos’ha di diverso da quelle che hai fatto tu?» «In Afghanistan c’eravamo noi e c’erano gli altri. Tra noi ci si capiva. Noi eravamo noi, i nemici, nemici. Noi potevamo riconoscere i compagni da ogni respiro, da un verso, da un colpo di tosse. Degli afghani non sapevamo nulla e non ci importava niente. Potevamo ammazzarli tutti per quel che ci interessava e avremmo dormito sereni. Erano come marziani. Avevano vestiti diversi, parole diverse, anche la loro puzza era un’altra dalla nostra. Qui invece ci siamo noi da tutt’e due le parti. Quelli che sono dentro Mariupol cercheranno di ucciderti, conoscono le nostre procedure, hanno studiato le stesse manovre, hanno le stesse armi. Sanno come pensiamo. È una guerra innaturale. Quelli di là sono come Caino con Abele. Siamo stati attaccati alla stessa mammella e adesso decidono di accoltellarci alle spalle. Bastardi. Traditori. Nazisti di sicuro. Ma come può essere una guerra normale se è tuo fratello che ti vuole ammazzare?» «Me la caverò.» «Lo accetti un consiglio dal tuo garzone?» «Dai, cosa dici?» «Stai con le forze speciali o, se non ci riesci, stai vicino a qualche mezzo costoso. La fanteria è sacrificabile. I soldati sono numeri, non contano nulla, per i generali le armi valgono molto di più. Le forze speciali, beh, loro sanno proteggersi da sole. Anche dai comandanti carogna e ti assicuro, ce ne sono a bizzeffe in ogni operazione di comandanti carogna. Fatti amico delle forze speciali e quando tornerai il forno sarà uno specchio, uguale a come l’hai lasciato.»
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120 Ogni bomba era diversa. Dal negozio senza vetri si sentivano molto meglio che in cantina. Ce n’erano di quelle che sembravano tuoni estivi, rombi prolungati dopo un primo scoppio. Altre, dallo schiocco acuto, erano come schiaffi di un gigante isterico: arrivavano sempre ravvicinate, cinque o sei alla volta perché il gigante era furioso e solo dopo una scarica di schiaffoni si stancava di colpire. Altre ancora erano cupe, potenti, ma isolate, te le immaginavi con la nuvoletta di polvere a forma di fungo in lontananza. Altre avevano il suono di porte sbattute dal vento. Facevano meno paura di tutte perché sembravano davvero lontane. Poi c’erano gli spari, raffiche in genere, tre colpi alla volta, difficile capire quanto vicini se non quando parevano biglie da biliardo che si toccano l’una con l’altra, allora potevi essere sicuro che fossero lontane. Infine, c’era il rumore dei jet che sentivi dove già non erano più, pericolosissimi perché imprevedibili come i missili o qualunque cosa sospirasse prima di esplodere. Quei veloci rantoli trasportati nell’aria erano gentili perché davano il tempo di ripararsi. Un avviso sul filo dei secondi, tre, quattro al massimo, ma abbastanza per scappare all’interno se si stava cucinando.
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121-122 Il missile cadde al di là del parco senza che vedessero l’esplosione. Videro solo l’onda d’urto che investiva il lato del palazzo dove avrebbero voluto rifugiarsi. La videro arrivare nella terra che si sollevava, nell’asfalto che si crepava, nei loro corpi che si schiacciavano contro il cordolo del parco fino a che l’onda di energia si schiantò contro l’edificio. Una scena che non avrebbero dimenticato per il resto della vita. I vetri delle finestre si gonfiarono come bolle di sapone, le lesene di pietra si curvarono, il muro oscillò. Una frazione di secondo in cui la fisica dei giorni di pace smise di avere senso: la materia era diventata molle. La stessa energia che piegava i muri come fossero di tela aveva attraversato anche i loro corpi. Sentirono la mano appoggiata al muretto fondersi con la pietra, le loro braccia, le teste e gli organi interni muoversi ciascuno per proprio conto. Videro i vetri gonfi come palloncini esplodere in minuscole schegge. E infine, un attimo dopo, il rumore più spaventoso che avrebbero mai sentito, alle loro spalle, al di là del parco. Rimbalzarono dal muretto alla terra gelata. Il cuore ricominciò a battere tutto d’un colpo, all’impazzata. Le gambe non rispondevano. Respirarono assieme come quando si emerge da sott’acqua, avidi d’aria. Erano vivi. La terra e il muretto a cui erano rimasti aggrappati, erano tornati a essere duri. Il palazzo, che per pochi istanti era sembrato un drappo al vento, appariva di nuovo rigido. Le finestre sventrate, i cornicioni sbrecciati, la strada, pulita prima dell’esplosione, era coperta da un tappeto di frammenti.
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175 «Chiedi alla donna come hanno fatto a scappare a piedi.» Olga ricacciò un ciuffo di capelli sotto il berretto di lana e guardò la telecamera che aveva davanti. Raccontò del carro armato e dei cecchini che li osservavano dalle finestre sventrate dei palazzi. Raccontò dell’umiliazione di sentirsi senza valore, senza diritti, in balia di uomini armati. La paura che qualcuno potesse sparare loro a ogni angolo. Raccontò dei cadaveri abbandonati per strada, del loro tentativo di cambiare marciapiede perché i bambini non li vedessero. Parlò dei posti di blocco e degli uomini perquisiti e del cibo che avevano ricevuto. Parlò del contadino che li aveva raccolti, un angelo, disse, capitato su una strada dell’inferno quando le vesciche ai piedi non permettevano più loro di camminare. Raccontò dello speculatore che li aveva portati sino a Zaporizhya, di come quel brodo bollente non riuscisse a scaldarli. Quanto risultava obliquo, difficile da spiegare, controverso, scomparve dalla traduzione. Secondo l’interprete e quindi secondo il servizio che andò in onda, la famiglia era sfuggita a un carro armato russo e aveva dovuto strisciare lungo i muri per evitare i cecchini mandati da Mosca a trucidare chiunque cammini per le strade. Rimasero le vie piene di cadaveri, ma i bambini costretti a scavalcarli non dormivano più per gli incubi. Ai posti di blocco poi scomparve l’acqua e il cibo e restarono le perquisizioni dei maschi, ricerche violente e ingiustificate, così come svanì il tassista profittatore mentre il contadino si trasformò in coraggioso patriota, forse un partigiano, che li aveva portati gratuitamente sino lì. «Sperate di tornare un giorno a Mariupol?» «Mariupol non esiste più.»
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