L’operato del giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Antonin Scalia (1933-2016) fornisce un’occasione per comprendere lo spirito più profondo circa l’intima struttura su cui poggia la nazione degli Stati Uniti.
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Logica e argomento versus fede e opinione. Scalia afferma che il soggetto, l’individuo, l’attore, colui che impersona un ruolo, un giudice, è sì fondamentale, ma non è il fondamento della validità del giudizio, e non è l’origine esclusiva di ciò che è vero, tradotto nella pratica di ciò che è bene e opportuno fare.
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In vita fu un cattolico osservante e un conservatore, ma ciò non fu determinante nei suoi orientamenti, scritti e sentenze che contribuì a stilare e ad approvare in più di trenta anni di attività in qualità di giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti.
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“[…] [Al] contrario di presidenti, ministri, senatori e deputati, i giudici federali non svolgono (o non dovrebbero svolgere) un’attività politica, dovendo invece discernere accuratamente e applicare onestamente le scelte politiche fissate, dai rappresentanti del popolo, nelle leggi, tranne quando queste ultime sono in conflitto con il testo della Costituzione, le tradizioni che fanno da sfondo a quest’ultimo o i precedenti vincolanti della Corte suprema. Proprio come non c’è un modo cattolico di cucinare un hamburger, così non c’è un modo cattolico di interpretare un testo, analizzare una tradizione storica, o stabilire il significato e la legittimità di precedenti decisioni giudiziarie – eccetto, naturalmente, fare queste cose onestamente e perfettamente[4] […]”
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La fiducia in una giurisprudenza dell’intenzione originaria riflette una profonda adesione all’idea di democrazia. La Costituzione rappresenta il consenso che il popolo ha espresso nei confronti delle istituzioni e dei poteri del governo. La Costituzione è la volontà fondamentale del popolo: ecco perché è la legge fondamentale.
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Scalia ha perfezionato e sviluppato all’interno delle prassi proprie della giurisprudenza, il senso «politico» dell’originalismo e del testualismo.
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L’originalismo oltre a essere un metodo interpretativo è una teoria sulla genesi dell’obbligazione politica, fondata su due assiomi:
primo: in un sistema democratico imperniato sulla separazione dei poteri, l’autorità di legiferare spetta ai rappresentanti investiti della legittimazione popolare;
secondo: gli individui osservano le regole perché ne riconoscono la legittimità, e ne riconoscono la legittimità perché hanno avuto parte, diretta o indiretta, nella loro formazione.
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I giudici devono quindi applicare lealmente le leggi, lasciando che sia l’elettorato a premere per una loro modifica là dove esse dovessero risultare inadeguate. Si tratta, in altre parole, di mantenere viva la ripartizione di poteri e responsabilità tra elettori, eletti e magistrati, senza accedere a un modello che potrebbe invece definirsi «collaborativo», ossia uno in cui, semplificando, l’istituzione giudiziaria sia parte attiva della promozione del cambiamento sociale.
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Questa impostazione è stata considerata nell’ultimo trentennio del secolo scorso una pratica ad alto tasso di conservatorismo, considerando però che nei parametri moderni degli ultimi anni andrebbe distinto il conservatorismo politico-partitico dal conservatorismo proprio delle attitudini giudiziali.
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In un discorso tenuto all’Università Gregoriana di Roma nel 1996, Scalia affermò che il ricorso alla tradizione del diritto naturale è incompatibile con un sistema democratico, giacché autorizzerebbe i giudici a imporre alla maggioranza della popolazione ciò che questa potrebbe non volere. Venti anni dopo, proprio qualche giorno prima di morire ribadì ancora il concetto: “[…] Non ci si può sottrarre al dettato della legge. Questo condurrà a un mondo perfetto? Certo che no: alcune leggi sono stupide, e alcune sono malvagie; ciò, però, condurrà a un mondo migliore di quello in cui i giudici sono liberi di applicare la loro idea di diritto naturale ed equità. Il primato del diritto sarà sempre secondo al primato dell’amore, ma dobbiamo lasciare quest’ultimo per il prossimo mondo […]”
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È opportuno chiarire che l’originalismo/testualismo, come lo stesso Scalia ha sempre riconosciuto, non è in verità una sua invenzione. L’idea che il significato delle parole della legge sia fissato al momento dell’adozione della legge stessa, e che quest’ultima possa essere modificata solo per via legislativa, era dominante nel primo abbondante secolo di giurisprudenza statunitense.
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A partire dalla New Deal Revolution, però, l’originalismo/testualismo perse importanza, per poi apparentemente tramontare del tutto durante gli anni sessanta per un’idea di una giurisprudenza propositiva verso una legislazione avente un orientamento teso ad una ridefinizione positiva dei diritti civili e sociali e nelle relazioni istituzionali tra gli Stati e gli organismi federali.
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Scalia, invece, ridette vita nuova a ciò che fu obliato nelle pratiche giuridiche e negli studi dottrinali. Durante i suoi trent’anni alla Corte suprema, infatti, soltanto lui e Thomas (due giudici su nove) impiegavano coerentemente la metodologia testualista e originalista. Oggi, dopo poco più di cinque anni dalla sua morte, è l’orientamento prevalente nella Corte (cinque su nove).
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In questo libro sono trattati gli sviluppi, le critiche e la messa a punto dell’impostazione testualista e originalista e si rimanda alla lettura del testo, che è redatto da copiosi contributi ben sintetizzati.
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Quello però che potrebbe interessare un lettore italiano, che vive in una Repubblica orleanista e non basato sul Common Law (orale) del Commonwealth e di quello scritto che è proprio degli USA, è il rapporto che potrebbe avere l’approccio di Scalia nella comparazione con l’approccio che noi abbiamo con il diritto.
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Luigi Mengoni ritiene che l’approccio di Scalia sia distante dalle posizioni del normativismo puro che riduce l’interpretazione ad una attività che coglie significati normativi già compiutamente precostituiti e immutabili, ritenuto non sostenibile, perché il giudice partecipa comunque al processo di formazione del diritto, attraverso un atto di decisione che individui, fra i vari possibili, il significato normativo applicabile al caso in questione. D’altro canto, il vincolo letterale delimita il senso del testo. In altri termini “[…] l’interpretazione resta subordinata alla legge, in quanto circoscritta dal vincolo di congruenza con le parole del testo e con la razionalità complessiva in cui la decisione deve integrarsi […]”
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Dalla valutazione del giurista Mengoni si potrebbe ritenere che tutto ciò sia il vero intendere di Scalia che è quindi inscrivibile nella cultura giuridica italiana.
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Un altro giurista Nicolò Zanon, invece, argomenta che Scalia abbia portato una procedura di trasparenza: “[…] «mentre negli Stati Uniti il dibattito sulle teorie dell’interpretazione pare assai vivace, […] ed è quindi sintomo di un pluralismo assai ricco», nella dottrina italiana manca «altrettanta vivacità di pensiero» e pare, anzi, che in essa si diano un po’ per scontate tante cose. Un atteggiamento vagamente «neocostituzionalista», un’adesione tendenzialmente acritica a teorie interpretative per «valori», senza alcuna consapevolezza di quel che le teorie dei valori sono e implicano, l’esaltazione di ogni scelta giurisprudenziale, la quale deve, ovviamente, ampliare l’area dei diritti dell’individuo («più diritti per tutti»), la conseguente adesione, spesso acritica, a tutto ciò che la giurisprudenza decide, meglio se in contrapposizione a ciò che il legislatore voleva. Con scarsa consapevolezza delle implicazioni politico-costituzionali di quel che si sostiene. Ed è possibile che questa scarsa vivacità finisca per riflettersi anche sulla giurisprudenza costituzionale, che non viene stimolata o criticata su questi terreni, e perciò non vi si impegna[65] […]”
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Vi è, quindi, nel dibattito attuale un dissidio tra una visione «maggioritarista» di Scalia che intende il giudice impotente, rispetto all’operato delle maggioranze che hanno il compito di definire soluzioni nuove a problemi non coperti dalla legge, a quella che ritiene la funzione giudiziaria necessariamente impegnata a interpretare e rendere concrete le aspirazioni di rinnovamento sociale, attraverso l’organo giudiziale.
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I due poli suddetti se presi alla lettera avrebbero la conseguenza o di creare una struttura giudiziale che diventerebbe o un puro meccanismo di trasmissione di parole di ordine politico, o un ceto detentore del vero interpretare i processi sociali per coordinarli, con il rischio di generare una struttura a dir poco dittatoriale.
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All’interno di questi dibattiti, più che mai attuali, in particolar modo relativi all’aborto, all’eutanasia, alla nozione di nucleo famigliare, ai nuovi spazi di azione tra l’individuo e l’ambiente e tra l’individuo e le strutture amministrative locali e nazionali, le impostazioni metodologiche e le indicazioni operative di Antonin Scalia si caratterizzano per un approccio prevalentemente pragmatico con la concezione del carattere «limitato» delle Costituzioni, così da riscoprire la maggiore flessibilità dello strumento della legge ordinaria.
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La ricchezza degli argomenti definiti da Scalia, si esprime nel sollecitare nuovi modi nel porsi domande circa le relazioni tra la giustizia, la democrazia e la mutevole ridefinizione del bilanciamento tra i poteri.
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