§CONSIGLI DI LETTURA: SOLDATEN

Soldaten. Combattere uccidere morire.
Le intercettazioni dei militari tedeschi
prigionieri degli Alleati
Sönke Neitzel (Autore), Harald Welzer (Autore),
S. Sullam (Traduttore), Garzanti, Milano, 2013  
(Prima Edizione 2011)

Allacciate le cinture. Non vi lasciate ingannare: non è solo un libro che ci informa di ciò che fu, perché è anche una mappa di un viaggio possibile verso noi stessi. E non è una gita turistica.

Non si tratta soltanto del genocidio, delle stragi e dell’orrore. No, qui si va nel sottoscala del luogo più profondo del buio del “male assoluto”, perché è evocato in carcere tra i commilitoni tedeschi imprigionati, aventi la convinzione di non essere ascoltati.

Questo volume ci schianta non solo perché mostra il nostro sapere superficiale di ciò che fu. Subiamo un tarlo che corrode la patina di normalità, per lasciar emergere l’orrore più profondo del cuore nero… che potremmo averlo anche noi, ognuno di noi dentro di sé. Nella lettura ci si interroga se anche noi si abbia viva e presente la voragine della morte.

Sono trascritti i modi di interloquire che non hanno lo scopo di rivolgersi alle mogli, ai famigliari, agli avvocati, quindi non sono censurati, con fini opportunistici, di negazione, di deresponsabilizzazione, per cercare di salvarsi, o anche di negare a se stessi il proprio terribile e tragico operato. Sono sinceri e colloquiali. Sanno di non essere ascoltati, e quindi emerge l’inconscio. Lasciano emergere le memorie, anche quelle che a loro non sono ben manifeste in ordine al senso, ai motivi più profondi del loro operato terribile e orrorifico, oltre la vicenda bellica e di scontro che già di sé è una espressione massima di violenza.

Questo parlare serve anche a catalogare il proprio passato assieme ad altri, per non impazzire. Sapere che vi sono altri che assieme a te hanno condiviso quelle esperienze e che attribuiscono nelle profondità emotive inespresse il senso delle parole e delle gesta, allontana la solitudine della propria responsabilità, che ha e avrà gli specchi della vergogna, della condanna, e i segni degli sguardi delle vittime. Sono sinceri nel cercare di dire l’inespresso perché tentano di mantenere lontana la morte, e quindi l’insensatezza della loro esistenza che ha avuto un segno soltanto nel regime della crudeltà.

E proprio perché parlano di un oceano nascosto, il lettore ha l’occasione di riflettere sulla multiforme composizione dell’animo umano, e di come, ed è qui ciò che ci terremota il cuore, un nostro simile, e quindi anche noi stessi che ci riteniamo normali, possa compiere ciò che la storia, la società, il nostro sistema di valori indicano come l’aberrazione: la negazione del nostro dirci esseri umani.

Quei discorsi trascritti di nascosto, attraverso i microfoni e gli agenti travestiti da prigionieri, e dalle spie, invitano a riformulare la domanda che ognun di noi conosce nel profondo, e che ha pudore a esprimerla agli altri e di fronte allo specchio mentre ci si guarda: “Ma…. Anche io potrei compiere tutto ciò? Se cambiassero le condizioni storiche e ambientali, sarebbe così facile divenire un mostro?”

La lettura di questa opera di studio, narrata con uno stile quasi da “memoriale”, fornisce l’occasione di estendere i nostri dubbi, aiutandoci a non essere noi principalmente l’oggetto di giudizio. Tale stratagemma aiuta emotivamente a sostenere lo sguardo dell’abisso che è già dentro di noi, e quindi ci facilita nell’intento di una migliore consapevolezza nell’affrontare l’imprevisto che potrebbe attirarci nell’abisso.

Questi prigionieri non parlano per informare principalmente: usano frasi sconnesse, con richiami e associazioni e rimandi su uno stesso racconto. Si parlano tra loro per intavolare relazioni lì nel carcere per un simulacro di comunanza di vedute per quello che hanno compiuto, anche e principalmente per allearsi in una ricerca di un fondo emotivo simile. Una fratellanza di crudeltà, considerata da loro necessaria, e quindi che non sia passibile di giudizio o di messa in questione. I racconti e i loro dialoghi hanno un tono di una cruda evidenza: si comportarono da sadici assassini perché era così che andava. Non vi è un motivo: è ciò che accadde. Questo è il punto: ne parlano come se stessero in un bar a bere assieme, parlando delle cronache sportive. L’oceano infernale può emergere se non è messo in questione, cioè posto in luce. Può esser intravisto da noi, perché si traveste da mondo normale.

La bugia: È la guerra: così accade e così andrà.

Anzi è la necessità che impone l’agire indipendentemente dal singolo. E già dalle prime pagine emerge la volontà di mistificare l’orrore in modo inespresso, entimematico, senza nominarlo: rendendolo un oggetto che vi è da sempre, e che quindi non ha origine da noi. Noi, quindi, non siamo responsabili. Ci troviamo immersi in esso, perciò non ne siamo gli artefici. Vi è una doppia menzogna: oltre a mentire su tale condizione, mentono a se stessi quando comunicano le loro storie agli altri prigionieri. Credono veramente alle loro bugie, alla cronaca fredda che descrive i nemici e i civili: ostacoli da abbattere.

138  “[…] Si delineano così i confini del dicibile, di ciò che ci si può aspettare dalle conversazioni intercettate: nulla, della violenza di cui si parla, va contro le aspettative dell’interlocutore. Nei racconti di guerra, le storie di fucilazioni, stupri e saccheggi appartengono alla quotidianità: quando se ne parla, non capita quasi mai che si arrivi a un confronto, che ci siano obiezioni di carattere morale o litigi. Conversazioni dal contenuto decisamente violento si svolgono in modo armonico; i soldati si capiscono, vivono nello stesso mondo, si informano a vicenda sugli eventi che li riguardano e sulle cose che hanno visto o fatto. Le raccontano e le interpretano all’interno di un quadro ben preciso dal punto di vista storico, culturale e situazionale: la cornice di riferimento. […]”

I verbali delle intercettazioni catturano in tempo reale il modo in cui i soldati vedono la guerra e ne parlano. I loro commenti e le loro conversazioni sono diversi da come si è soliti immaginarli, anche perché, a differenza nostra, i soldati non sanno come andrà a finire la guerra e quale sarà il destino del Terzo Reich e del suo Führer. Per noi, il loro futuro – sognato o reale che sia – è già passato, mentre per loro è ancora aperto. Solo pochi mostrano interesse nei confronti dell’ideologia, della politica, dell’ordine mondiale e di faccende simili; non combattono per convinzione, ma perché sono soldati e combattere è il loro lavoro. Molti sono antisemiti, ma ciò non significa essere nazisti o avere la stessa disposizione omicida. Non pochi odiano gli ebrei, ma provano indignazione quando vengono fucilati. Alcuni sono antinazisti convinti, ma appoggiano apertamente la politica antisemita del regime nazista. Molti sono sconvolti dal fatto che centinaia di migliaia di prigionieri russi siano condannati a morire di fame, ma non esitano a fucilarli quando sorvegliarli e portarli a destinazione diventa troppo faticoso o pericoloso.

A una prima lettura, la maggior parte dei racconti appare incoerente. Questo però solo se si suppone che le persone si relazionino secondo le proprie «posizioni», e che queste dipendano in gran parte da ideologie, teorie e convinzioni radicate. In realtà, gli uomini si relazionano proprio come ci si aspetta che facciano – e questo libro vuole dimostrarlo.

E vi è lo sgomento, perché noi oggi giudichiamo il genocidio degli ebrei, e di tutte le cosiddette “minoranze di minorati” secondo i nazisti come un processo pianificato, chiaro, ed evidente a livello personale e collettivo in Germania. Eppure dai discorsi in cella di questi militari si ricava un sistema di norme, di presupposti, di valori, di usi, di modi di vedere il mondo, completamente diversi dai nostri. Attenzione anche da parte di chi osteggiava le fucilazioni in massa, e i gas contro gli ebrei, ma NON PER I MOTIVI e LE CONDANNE che noi oggi attribuiamo. No. In realtà, a parte poche decine di individui sui milioni delle SS e dell’esercito cosiddetto regolare della WEHRMACHT l’antisemitismo non era una questione, non era un elemento di dibattito, o di studio, non era una etichetta che permetteva di caratterizzare l’appartenenza politica, di censo, di tifo, di simpatia o no verso o contro gli ebrei. No: l’antisemitismo era un quadro di riferimento. Ovvero, anche coloro che criticavano l’approccio dello sterminio, tra le righe dei discorsi e del non detto e di ciò che era scontato, non si condannava l’omicidio in sé, la strage di donne e di bambini per fucilazione, il soffocamento, la fame, il freddo, il gas e il fuoco.  Molti esprimevano dubbi per questioni di opportunità diplomatiche. Alcuni criticavano il metodo. Altri come alcuni generali, osteggiavano la politica e le SS, perché distoglievano risorse e militari dai due fronti: sovietici ed occidentali. Eventualmente si sarebbero potuti ucciderli tutti dopo con discrezione.

Alcuni più avveduti, ritenevano che alcuni ebrei avrebbero potuto essere alleati temporanei durante la guerra. Molti, specie tra i civili, ritenevano che poi gli ebrei si sarebbero vendicati, perché controllavano gli USA e la Gran Bretagna. Insomma, si rileva che in guerra si libera e già in quei decenni lo era come dato di fatto, la possibilità di uccidere per noi, con i nostri occhi di paesi in pace all’interno dell’Unione Europea da decenni, dove generazioni di uomini e donne non hanno visto concretamente la guerra.

Questi soldati poi vedevano solo piccoli eventi. All’interno delle fasi di combattimento, di invasione, di bombardamento, di avanzata e di ritirata, l’uccisione e la deportazione degli ebrei era spezzettata in tante fasi e da persone diverse. Era un episodio tra i tanti. Non avevano molti (a parte i più istruiti e gli alti in grado) la strategia complessiva posta in atto dai quadri nazisti. In più i modi di uccidere si sperimentavano per renderli efficienti: togliere le prove, non sprecare le pallottole, bilanciare poi il bisogno di schiavi da lavoro e di sesso per ricavare materiale da un’economia di guerra, eventualmente poi si sarebbero consumati per la fame, la fatica, il freddo. Tecnica sperimentata dai sovietici, e dai cinesi di Mao, oltre che da Pol Pot in Cambogia nei decenni successivi.

La visione del genocidio è venuta dopo anni la fine della guerra. Questo non significa che i tedeschi siano giustificati. No, peggio: significa che gli ebrei e le minoranze considerate tali dai nazisti traeva una legittimazione dagli usi e consuetudini delle realtà germaniche. Ovvero, i valori con tutte le variazioni possibili, erano condivisi. E qui si crea una voragine etica. Ovviamente i militari tutti non è che pensassero alle camere a gas: il primo problema era sopravvivere e combattere, l’altro andava eliminato. Ma il punto è che anche coloro che non fossero nemici apparenti, erano considerati oggetti, che se reputati ostacoli, andavano annichiliti.

Ed è terribile leggere che i civili, volessero partecipare a uccidere in massa i prigionieri e gli ebrei, chiedendo ai militari di poter usare i loro fucili, e di come in tante parti dei paesi dell’est fino ai territori dell’URSS occupati, facessero foto e si divertissero come se fossero in un Colosseo, e come indicassero ai militari di sparare in un modo coreografico o di puntare alcuni gruppi, anche le donne, sì tutti. Nessuno e nessuna esclusa. La possibilità di una violenza AUTOTELICA e dell’omicidio avente l’illusione dell’assenza di colpa.

Il dramma è che si parla della popolazione normale. E allora dopo il disgusto e lo sgomento che si prova a leggere ogni riga, ci si fissa sull’orrore di ciò che accadde e lo si rifiuta. Ma vi è un’altra voragine: tutto questo, sotto sotto, ci fa pensare, e non lo vogliamo dire, che anche noi, forse, in contesti valoriali e ambientali simili, avremmo agito in modo analogo. Quello che vogliamo sancire come male assoluto, significa che è così grande da non potersi ripetere. Fu di loro, non riguarda noi. Eppure il male assoluto si è ripetuto in Siberia con molti più morti e in Cina con stragi maggiori.

Il tabù che abbiamo noi oggi: nel cuore di ogni individuo, ora, in questo momento, è la possibilità di incarnare quell’orrore. Si dirà: ma vi è la responsabilità individuale! Certo, ed è qui il punto, per molti non si può imputare la scusa che sia stato plagiato come un adolescente, o come una persona vissuta in perenne privazione. No, vi furono individui, benestanti e acculturati tra i civili che acconsentirono, anzi che vollero sparare per divertirsi.

E qui entrano i blocchi che abbiamo oggi nell’analizzare il nostro passato fascista, e il modo volutamente superficiale di non condannare la Russia di oggi, o di dire che è solo colpa di Putin.

Queste forse sono strategie che coprono la paura più grande, oltre quella di morire, che io e voi, si possa volere di compiere il “male assoluto”, di credere di averne utilità, giustezza, ma ancor di più un enorme godimento e piacere.

Le mentalità precedono le decisioni, ma non le determinano. Anche quando le percezioni e le azioni umane sono legate a condizioni sociali, culturali, gerarchiche, biologiche o antropologiche, c’è sempre un margine per l’interpretazione e la negoziazione. Per saper interpretare e decidere bisogna sapersi orientare, conoscere la propria realtà ed essere coscienti delle conseguenze delle proprie decisioni. Le mentalità però non spiegano perché qualcuno ha fatto qualcosa, a maggior ragione quando soggetti con la stessa forma mentis giungono a conclusioni e decisioni diametralmente opposte. È qui che ci vengono in aiuto le teorie sulle guerre ideologiche o sui regimi totalitari. La domanda è sempre la stessa: in che modo le «visioni del mondo» e le «ideologie» si traducono in percezioni e interpretazioni individuali? Come influenzano l’agire del singolo? La cornice di riferimento può essere uno strumento valido, e i discorsi che si fanno i prigionieri di guerra, rappresentano il quadro del sottosuolo.

25 “[…] L’azione psicologica profonda dei doveri sociali fa sì che, contrariamente a quanto si pensi, gli uomini non agiscano sulla base di motivazioni fondate e calcoli razionali, ma all’interno di relazioni sociali. Queste ultime rappresentano una variabile fondamentale per le decisioni umane. Ciò vale in particolare per le decisioni prese in condizioni di stress, simulate nei celebri esperimenti sull’obbedienza condotti da Stanley Milgram. In quel caso era soprattutto la costellazione sociale a rivestire un ruolo rilevante nel grado di obbedienza dimostrata dalle cavie nei confronti dell’autorità. […]”

26-27  La vicinanza sociale avvertita o reale, con i doveri che essa comporta, costituisce un elemento centrale nelle cornici di riferimento. I doveri sociali non devono essere per forza consci, ma sono così interiorizzati che fungono da agente di orientamento senza che la persona in questione lo sappia. In questo caso gli psicoanalisti parlano di delega. Il ruolo degli obblighi sociali si chiarisce ulteriormente se si accetta la mono dimensione della cornice di riferimento nel contesto delle situazioni militari e la limitazione dello spazio sociale dei soldati al solo gruppo dei camerati. Mentre la famiglia, le fidanzate, gli amici, i compagni di scuola e di università costituiscono numerosi punti di riferimento quando ci si trova a prendere una decisione, al fronte tale pluralità si riduce al gruppo dei camerati. E questi ultimi lavorano all’interno del medesimo quadro di riferimento, con gli stessi obiettivi: adempiere il proprio dovere e sopravvivere. Per questo in battaglia la tenuta e la cooperazione sono decisive; in quella situazione il gruppo costituisce l’elemento più forte della cornice di riferimento. Le regole del gruppo agiscono in profondità in quanto sono decisive per la sopravvivenza. Tuttavia, anche quando non combatte, il singolo soldato è legato al gruppo a filo doppio: non sa né quanto durerà la guerra né quando gli verrà concesso un congedo o quando verrà trasferito, cioè quando verrà allontanato dal gruppo totale e tornerà a far parte di gruppi plurali. Così inteso, il cameratismo comporta non solo la massima concentrazione del dovere sociale, ma anche l’esonero da tutto ciò che conta nel mondo reale. Il cameratismo, quindi, non è un mito militare idealizzante, ma è un luogo sociale che diventa più importante di qualunque altro.

Dai colloqui sembra che è la pratica della violenza specifica a un gruppo, molto più di qualunque motivazione e classificazione di ordine cognitivo, a motivare e rendere comprensibili le azioni dei soldati. Il passaggio dalla cornice di riferimento della vita civile a quella della guerra è il fattore decisivo, più importante di qualsiasi disposizione. Queste sono rilevanti solo per ciò che i soldati ritengono di potersi aspettare, per ciò che stimano giusto, irritante o indegno, ma non per ciò che fanno. L’ideologia può fornire occasioni per una guerra, ma non può essere presa come spiegazione del perché i soldati uccidono o commettono crimini di guerra. La guerra, le azioni svolte dai lavoratori e il lavoro della guerra sono banali, banali come è sempre la condotta umana in condizioni eteronome: al lavoro, in un’istituzione, a scuola o all’università. Tuttavia questa banalità ha partorito la violenza più estrema della storia dell’umanità, ha lasciato dietro di sé più di cinquanta milioni di morti e un continente sotto molti aspetti devastato per decenni.

Una ipotesi che emerge dal libro è che la cornice di riferimento della violenza nelle società moderne sia diversa da quella delle culture non moderne. È quindi errato contrapporre la violenza alla non violenza: si tratta piuttosto di capire come essa venga regolata. Perché una persona decida di ucciderne un’altra, basta che si senta minacciata nella sua esistenza, che si senta autorizzata a farlo o che attribuisca al proprio atto un significato politico, culturale o religioso. E questo non solo in guerra, ma anche in altre situazioni sociali. La violenza praticata dai soldati della Wehrmacht non è quindi più «nazionalsocialista» di quella praticata dai soldati inglesi o americani. Diventa tipicamente nazionalsocialista solo quando è finalizzata allo sterminio premeditato di un gruppo di persone, che, persino in malafede, non può essere definito una minaccia militare. È il caso dell’uccisione dei prigionieri di guerra sovietici e, soprattutto, dello sterminio degli ebrei. In quelle occasioni – come del resto in tutti i genocidi – la guerra ha fornito un contesto in cui si sono abbattute le barriere della civiltà.

E qui alla fine gli autori propongono tale asserzione che è compito di noi lettore discuterla in modo compiuto. Ma ciò esige che ci si guardi allo specchio, ovvero: “Le persone uccidono per i motivi più diversi. I soldati uccidono perché quello è il loro compito.”

È veramente così? Il libero arbitrio è questa linea di confine tra le due tendenze micro (psichica) e macro (normatività sociale)? È un dovere morale interrogarsi su tale questione. Cioè su di noi.

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