Un testo che forse può orientarci nei dubbi e nelle paure che attraversano questi giorni di guerre e pandemie e di angosce verso sempre nuove “crisi”.
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Bonhoeffer ha un atteggiamento e una visione del mondo da credente profondo, impegnato, con una fede pervasiva. Le sue riflessioni hanno per fondamento la fede verso la divinità. Per coloro che hanno un atteggiamento meno intenso, diverso, antitetico a quello del credente che professa attivamente la fede, questi scritti, sono comunque d’interesse perché toccano i temi relativi all’individuo in rapporto al potere che opprime e che uccide, alla norma che è sì coerente, ma che involve verso il male e la distruzione, al mondo che impone scelte vincolanti, comunque compromissorie e portatrici di dolore per sé e per gli altri.
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B. afferma l’impossibilità a uscire fuori dal mondo, e anzi riflette sul fatto della presunta postura di distacco e di ascesi solipsistica, che è illusoria, ipocrita o arrogante, o stupida in certi casi. E nell’ultimo caso ritiene sia la condizione più pericolosa, perché derivata dalla volontà corrotta di non ammettere la propria paura, e quindi di obliare la convinzione di credersi il metro e l’unico portatore di sofferenza nel mondo.
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Nonostante molte delle sue posizioni oggi ci allontanerebbero immediatamente dai suoi scritti, come quello (diciamo eufemisticamente “retrogrado”) del ruolo della donna all’interno del matrimonio, nello spazio pubblico, invece l’etica, la convivenza, il coraggio, la resistenza, la compassione, la limitatezza di sé in rapporto alla storia e al mondo, invitano a una riflessione sul nostro vivere.
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“Resistenza e Resa” raccoglie le lettere ed altri testi scritti da Bonhoeffer nel carcere berlinese di Tegel, dove fu detenuto dall’aprile ’43 all’ottobre ’44, per poi essere trasferito nel carcere sotterraneo della Gestapo in Prinz-Albrecht-Strasse. Di lì i contatti furono molto difficili e rari, il 7 febbraio ’45 fu trasferito al campo di concentramento di Buchenwald, il 3 aprile fu a Regensburg, l’8 aprile passò da Schönberg a Flossenbürg, dove verrà giustiziato. La presente edizione alterna le lettere di Bonhoeffer a quelle inviatigli da parenti ed amici, suoi interlocutori sono i genitori, il nipote quattordicenne Christoph von Dohnanyi, il fratello Karl-Friedrich, l’amico fraterno e pastore egli stesso Eberhard Bethge (che diverrà il suo biografo) con sua moglie Renate, nipote di Bonhoeffer e qualche altro parente. Non vi sono le lettere alla fidanzata Maria von Wedermeyer con la quale Bonhoeffer progettava di sposarsi, rimaste a lungo inedite (esiste ora il volume Lettere alla fidanzata-Cella 92. Dietrich Bonhoeffer-Maria von Wedermeyer 1943-45, Bologna, Queriniana). In carcere Bonhoeffer riesce a leggere, scrivere, riflettere, pregare, riceve pacchi dai familiari e lettere, sia ufficialmente, sia clandestinamente. La corrispondenza con Bethge, che contiene le più importanti riflessioni teologiche di Bonhoeffer, inizia il 18 novembre ’43 durante la prima licenza di Bethge, militare in Italia, a Berlino, ed è clandestina.
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42 Bonhoeffer pone come fondamento della libertà quella verso Dio nella visione di una teologia negativa. La divinità è indubitale, anche nella sua necessaria assenza nel mondo. L’essere umano non può vederla ed è impossibile che si nomini vate e custode del vero (cioè Dio). L’uomo e la donna testimoniano la lacerante certificazione dell’assenza della divinità, attraverso Cristo, cioè attraverso il suo annichilimento nel mondo. Non possiamo dire alcun “che” del vero, anche nella impossibilità a negarlo.
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L’essere umano può sì agire, nella convinzione della libertà e quindi nel rischio di errare e di cadere nel male. Ed ecco che le lettere scritte dalla prigionia, sotto il controllo dei nazisti, testimoniano indirettamente la sua resistenza da prigioniero, perché oppositore del regime nazista, mentre era sotto gli interrogatori che lo porteranno, a pochi giorni della fine della seconda guerra mondiale , a subire l’impiccagione. Lui che poteva fuggire già anni prima, ma che ritornò in Germania per resistere. Lui che poteva evadere, ma che non lo fece per non causare danni a suo fratello già incarcerato.
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42 Con la fuga da un confronto pubblico, qualcuno riesce a ripararsi nel rifugio privato dell’essere ́virtuoso. Ma deve chiudere gli occhi e la bocca di fronte all’ingiustizia che lo circonda. Può evitare di sporcarsi con un’azione responsabile soltanto a costo d’ingannare sè stesso. In tutto ciò che egli fa, lo accompagna il tormento per ciò che egli non fa. Finirà per essere sopraffatto da tale tormento oppure diventerà il più bieco fariseo.
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44 Finchè il successo è dalla parte del bene, possiamo concederci il lusso di considerare il successo eticamente irrilevante, ma non appena sistemi condannabili conducono al successo, sorge il problema. Di fronte ad una simile situazione, ci accorgiamo che non ne veniamo a capo nè con un atteggiamento di chi osserva e critica sul terreno teorico e vuol avere sempre ragione, ossia rifiuta di porsi sul terreno delle cose, nè con l’opportunismo, cioè con la rinuncia a sè stessi e la capitolazione di fronte al successo. Non vogliamo nè dobbiamo essere critici offesi o opportunisti, ma corresponsabili nella formazione della storia – caso per caso e a ogni istante, come vincitori o come sconfitti.
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47
“Disprezzo per l’uomo?”
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Il pericolo di lasciarci trascinare a disprezzare l’uomo è molto grave.
Sappiamo benissimo di non averne alcun diritto e che in tal modo finiremmo per porci in un rapporto quanto mai sterile con l’uomo. Possono difenderci da questa tentazione le seguenti riflessioni: disprezzando l’uomo incorriamo proprio nell’errore maggiore dei nostri avversari. Chi disprezza un uomo non potrà mai cavarne fuori qualcosa. Nulla di ciò che disprezziamo nell’altro ci è completamente estraneo. Quante volte noi aspettiamo dall’altro più di quello che noi stessi siamo disposti a fare! Perché abbiamo continuato a considerare con così scarsa obiettività l’uomo, la sua facilità a cedere alle tentazioni, le sue debolezze? Dobbiamo imparare a considerare gli uomini non tanto per quello che fanno o non fanno quanto per quello che soffrono. L’unico rapporto fecondo con l’uomo – e in particolare con il debole – è l’amore, cioé la volontà di mantenere con lui una comunione.
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50-51
“Compassione”.
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Bisogna tener conto che la maggioranza degli uomini si ravvede solo dopo aver subito esperienze sulla propria pelle. Così si spiega in primo luogo la stupefacente incapacità della maggioranza degli uomini a compiere una qualsiasi azione preventiva – si pensa sempre di poter sfuggire al pericolo, finchè è troppo tardi; in secondo luogo l’apatia verso la sofferenza altrui; con il crescere della paura per la minacciosa vicinanza della disgrazia, nasce la compassione.
Ci sarebbe molto da dire per giustificare tale atteggiamento; dal punto di vista etico: non si vuol fermare la ruota della fortuna; soltanto quando la situazione si fa seria si trova l’ispirazione e la forza di agire; non si è responsabili di tutta l’ingiustizia e il dolore del mondo e non ci si vuol erigere a giudici del mondo; dal punto di vista psicologico: la mancanza di fantasia, di sensibilità, di disponibilità interiore vengono bilanciate da una solida rilassatezza, da un’imperturbabile energia lavorativa e da una grande capacità di soffrire.
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52-53
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“Ottimismo”.
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E’ più da furbi essere pessimisti: si dimenticano le delusioni e si sta in faccia alla gente senza compromettersi. Così l’ottimismo è passato di moda presso i furbi. Nella sua essenza, l’ottimismo non è un modo di vedere la situazione presente ma è un’energia vitale, una forza della speranza là dove altri si sono rassegnati: la forza di tenere alta la testa anche quando tutto sembra fallire, la forza di reggere i colpi, la forza che non lascia mai il futuro all’avversario ma lo reclama per sè. Certo, c’è anche un ottimismo stupido, vile, che deve essere vietato. Ma l’ottimismo come volontà di futuro non dev’essere mai disprezzato anche se porta a sbagliare cento volte: rappresenta la sanità della vita, quello che il malato non deve intaccare. C’è gente che ritiene poco serio, cristiani che ritengono poco pio, sperare in un migliore futuro terreno e prepararsi a esso. Credono nel caos, nel disordine, nella catastrofe come nel senso degli eventi contemporanei e si sottraggono – con rassegnazione o con la pia fuga dal mondo – alla responsabilità di continuare a vivere, di ricostruire, alla responsabilità verso le generazioni future. Può darsi che il giudizio universale cominci domani; allora, e non prima, smetteremo di lavorare per un futuro migliore.
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74-75
Penso che sia semplicemente un fatto di natura; la vita umana si spinge ben oltre la mera esistenza corporea di noi stessi. Probabilmente chi lo sente più forte è una madre.
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195 E nel trascorrere dei mesi, B. tentava di portare serenità agli altri carcerati e indefesso, tra i malanni e le privazioni, continuava il suo lavoro di riflessione e di impegno. Si noti come da una domanda teologica, vi è una domanda filosofica sotto, che lacera il dissidio, e che pone tante contraddizioni, e cerca di rendere manifesta, fenomenologica per assenza la trascendenza. Da riflettere. In tutti i casi. Per analogia, la trascendenza quasi una proiezione all’infinito di un punto polare delle coniche di Apollonio.
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b) Chi è Dio? Non, prima di tutto, fede generica in Dio,
nell’onnipotenza di Dio e via dicendo. Questa non è autentica esperienza di Dio, ma un pezzo di mondo prolungato. Incontro con Gesù Cristo. Prendere coscienza che qui è avvenuto un rovesciamento di ogni essere umano, che Gesù esiste solo per gli altri. Lo ́esistere-per-gli-altri di Gesù è la presa di coscienza della trascendenza. Dalla libertà da sè stesso, dall’ ́esistere-per-gli-altri fino alla morte scaturiscono l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnipresenza. Fede è partecipazione a questo essere di Gesù. (Incarnazione, croce, resurrezione.) Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto ́religioso con l’Essere più alto, più potente, più buono: questa non è vera, autentica trascendenza; il nostro rapporto con Dio è una nuova vita nell’ ́esistere-per-gli-altri, nella partecipazione all’essere di Cristo. Il trascendente non è doveri infiniti, irraggiungibili, ma il prossimo, dato volta per volta, raggiungibile. Dio in forma umana!, non come nelle religioni orientali in forma ferina, il Mostruoso, Caotico, Lontano, Raccapricciante; ma nemmeno nelle forme concettuali dell’Assoluto, del Metafisico, dell’Infinito eccetera; e neppure la figura greca del dio-uomo che è l’ ́uomo in e per sè, ma l’ ́uomo per gli altri!, quindi il Crocefisso. L’uomo che vive del trascendente.
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E questa è un frammento di un’ultima poesia di settembre a noi rimasta.
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227
“[…]
Disteso sul tavolaccio
fisso la parete grigia.
Fuori, un mattino d’estate,
ancora non mio,
esultando va verso la campagna.
Fratelli, finchè non giunge, dopo la lunga notte,
il nostro giorno,
resistiamo!
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