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§CONSIGLI DI LETTURA: Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica

Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935) di Luciano Mecacci, 2019, Adelphi,Milano

Questi bambini furono una contraddizione vivente rispetto agli intenti e alle narrazioni della edificazione rivoluzionaria della società socialista in URSS. Dai genitori uccisi per la guerra civile, per le carestie subite a fronte degli espropri, delle ricorrenti crisi economiche che contraddicevano i grandi piani emanati dal partito, dallo Holodomor il genocidio per fame voluto scientemente da Stalin e dal suo apparato prevalentemente lì in Ucraina. Il serbatoio agricolo di parte dell’intera Russia Occidentale e dell’Europa Orientale. Lì che si ebbe l’inferno fino al cannibalismo.

Fino alla nuova crisi di produzione degli anni trenta e alle nuove epurazioni volute dall’astro nascente, dal grande padre Giuseppe Stalin, e da gran parte dell’apparato politico, istituzionale e poliziesco, con l’appoggio morale della nuova classe di eletti che avevano potere e ricchezze, come aderenza a questa nuova chiesa vorace di sangue.

Mi sia consentito per una volta un aneddoto biografico. Lessi degli studi del prof. Luciano Mecacci nel lontano 1989, riguardo ai grandi pedagogisti come Makarenko e psicologi, che cercarono scientificamente di ampliare le nozioni delle scienze umane, correlando la nozione di agente sociale con quello delle relazioni di contesto sociale e di processo storico culturale, fino ai processi psichici più profondi.

Le loro tecniche di analisi e di ricerca furono oggetto di studio per tutta la comunità scientifica mondiale nei decenni a venire. Ma non era solo un’attività di laboratorio. SI impegnarono per cercare di offrire un corpus di modelli pedagogici e di teorie e prassi psicologiche, nonché didattiche ed organizzative per offrire una formazione a tutti. E anche morale, seppure poi declinata nella visione del partito e della rivoluzione socialista. E quindi anche e principalmente per questa massa di bambini e adolescenti abbandonati e lasciati nei posti oscurati della società sovietica senza una prospettiva futura.

Questo libro come in tutte le opere di Luciano Mecacci vi è una quantità sterminata di fonti, tutte documentate con la relativa spiegazione a parte del loro ritrovamento, nel modo di rilevazione, di interpretazione e di impiego nella stesura dei testi. È un libro profondo, ma ben spiegato e onesto nel mostrare il corpo delle premesse e i loro procedimenti di sviluppo argomentativo, innestati nella storia della critica e della ricerca per questo terribile processo sociale.

Il testo non descrive cinematograficamente gli eventi o con dati già confezionati senza spiegare le tecniche di valutazione. Vi sono le testimonianze, i pensieri, i ricordi, le emozioni, le speranze dei protagonisti. Luciano Mecacci, infatti, descrive il criterio di Anton Semenovyč Makarenko, per il quale la rieducazione pedagogica si attua attraverso la responsabilizzazione, e i contributi di Lev Vygotskij, oltre alla raccolta dei saggi di Alexander Lurija. Tutti costoro e la quasi totalità degli intellettuali del periodo, oltre ai registi (citati nel libro con i relativi film, disponibili in rete web, che consiglio di vedere), agli scrittori, ai romanzieri che descrissero le condizioni di queste centinaia di migliaia di bimbi e bimbe, furono emarginati, perché il regime già dal 1935 considerò il fenomeno superato e definì la censura fino alla morte di Breznev. Molti di loro furono fucilati o condotti nelle carceri della Lubjanka o nei Gulag.  

(Di questa tragedia dei deportati e degli incarcerati dei lunghi decenni del periodo staliniano e oltre ricordo di averne trattato consigliando quel capolavoro immenso che è “Vita e destino” di Vasilij Grossman, consultabile QUI e nel libro più terribile, ove si arriva nel fondo dell’animo umano di Varlam Salamov “I racconti di Kolyma”, consultabile QUI )

E non è un caso che molti provenissero dall’Ucraina.

Pgg.15-16  Dante Corneli, emigrato in Russia nel 1922, deportato in un lager con l’accusa di trockismo nel 1935 e rilasciato, dopo alterne vicende, solo nel 1960. Nella sua descrizione della caotica situazione a Mosca nel 1922, dove «non era facile mantenere l’ordine pubblico: furti, rapine e violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno», e dove «in certi quartieri, spesso teatro di sparatorie, i soldati e i miliziani facevano sistematicamente grandi retate», le scene più impressionanti riguardano i besprizornye. Ma ciò che mi colpiva di più e che mi è poi rimasto impresso per tutta la vita era la vista dei bezprisorni, ragazzi randagi affamati, spesso malati, che si spostavano da una parte all’altra della città e dell’intero paese come branchi di piccoli animali. I più erano bambini, i più grandi avranno avuto non più di sedici anni. Provenivano tutti dalle regioni del Volga, dove nel 1921 una popolazione di quaranta milioni di abitanti era stata colpita da una tremenda siccità. In molti casi erano stati i loro stessi genitori a spingerli a fuggire dai villaggi dove sarebbero sicuramente morti di fame. Invisi a tutti come lebbrosi, neri di sporcizia e cenciosi, si aggiravano per le strade e nei mercati in cerca di cibo. A sera si rintanavano nei negozi e negli stabili abbandonati o semidistrutti. Là passavano la notte, ammucchiati gli uni sugli altri per riscaldarsi.7 Nella prima metà degli anni Venti i besprizornye erano centinaia di migliaia, con un picco di circa sette milioni nel 1922 (nel 1926 la popolazione dell’URSS era di poco superiore ai 147 milioni di abitanti). Nel 1922 a Mosca arrivarono non meno di mille bambini al mese.8

Pgg. 17-19 Anche André Gide durante il suo viaggio in Russia nel 1936 ne incontrò, con rammarico, ancora molti: «speravo proprio di non vedere più besprizorni».12 I besprizornye dei primi anni Venti avevano in genere tra i sette e i quindici anni, e quindi a metà degli anni Trenta non erano più bambini. Ma alla passata ondata se ne aggiungeva ora una nuova, seppure inferiore per dimensione, costituita dai figli dei «nemici del popolo» spediti nei campi di lavoro o fucilati. E un’ulteriore ondata sarebbe arrivata durante la Seconda guerra mondiale: gli orfani di genitori uccisi dalla guerra e i bambini che scappavano dalle proprie case per la fame e la disperazione. Una volta diventati adulti, che ne fu dei besprizornye? Nonostante il trionfalismo della propaganda stalinista – quei ragazzi che vivevano di aria e di sventura sarebbero stati recuperati e reintegrati operosamente nella società sovietica – per buona parte di loro la sorte fu decisamente meno gloriosa: in genere entrarono nelle file della criminalità, e molti finirono nei lager, destino su cui ha scritto pagine terribili Aleksandr Solženicyn in Arcipelago Gulag. Nei lager i ragazzini, che potevano avere anche dodici anni, erano chiamati dai detenuti adulti maloletki (malo = poco e leta = anni), marmocchi. I maloletki anche da liberi capivano benissimo che la vita è basata sull’ingiustizia. Ma allora non era tutto crudamente messo a nudo, qualcosa era coperto da una patina di decenza, qualcos’altro addolcito da una parola buona della madre. Nell’Arcipelago, invece, i marmocchi videro il mondo come appare agli occhi dei quadrupedi: soltanto la forza è giustizia! soltanto il rapace ha diritto di vivere! Così vediamo l’Arcipelago anche in età adulta, ma siamo capaci di contrapporgli la nostra esperienza, le nostre riflessioni, i nostri ideali e quanto abbiamo letto fino a quel giorno. I bambini invece recepiscono l’Arcipelago con la divina ricettività della fanciullezza. E in pochi giorni diventano bestie! le peggiori bestie, senza alcun concetto etico (se si guardano gli enormi occhi tranquilli di un cavallo o si accarezzano le orecchie abbassate di un cane colpevole, come si può negare che abbiano un’etica?). Il marmocchio impara che se qualcuno ha i denti più deboli dei suoi, deve strappargli il boccone, è suo.

Pg. 13 Dmitrij Lichačëv, grande studioso della cultura russa antica, arrivato da detenuto nel 1928 alle isole Solovki, primo nucleo del sistema concentrazionario sovietico, rimase impressionato da ciò che vide svegliandosi dopo la prima notte di detenzione: Sui tavolacci [dove dormivano i detenuti] superiori giacevano dei malati, e sotto di noi c’erano delle braccia protese a mendicare un pezzo di pane. Quelle braccia smunte erano il dito indice della sorte. Sotto i tavolacci vivevano i «pidocchiosi», gli adolescenti che non avevano più vestiti e vivevano da «fuorilegge»: non uscivano per le ispezioni, non avevano diritto al cibo, vivevano sotto i tavolacci perché non li facessero uscire, nudi, al freddo e ai lavori pesanti. Le autorità sapevano della loro esistenza, ma per eliminarli si limitavano a non dare loro la razione di pane, minestra o kaša. Finché riuscivano, vivevano del buon cuore altrui. Quando poi morivano, li portavano fuori e li chiudevano in una cassa per poi trasportarli al cimitero. Erano i besprizorniki, ragazzini abbandonati o senza famiglia, spesso condannati per vagabondaggio o per piccoli furti. Quanti ce n’erano in Russia! Bambini senza più genitori, che nel frattempo erano morti ammazzati o di fame, cacciati oltre confine con l’Armata Bianca o emigrati. Ne ricordo uno che sosteneva di essere figlio del filosofo Cereteli. Da liberi dormivano nei calderoni dove si prepara l’asfalto e vagavano per la Russia in cerca di tepore e frutta fresca dentro le casse poste sotto le carrozze viaggiatori o nei vagoni vuoti dei treni merci. Sniffavano la cocaina, che durante la rivoluzione arrivava dalla Germania, il tabacco e l’hascisc. Molti avevano le mucose del setto nasale bruciate. Mi facevano tanta pena quei «pidocchiosi» che mi trovavo a barcollare come un ubriaco, stordito dal dolore. La mia non era una sensazione, quanto vera sofferenza, e sono grato alla sorte che di lì a sei mesi mi mise in grado di aiutare alcuni di loro.

La condizione in cui si trovarono gettati i besprizornye durante la Prima guerra mondiale, la guerra civile, la carestia del 1921-22, la grande carestia dei primi anni Trenta, le repressioni staliniane e infine la Seconda guerra mondiale fu segnata dal bisogno primario della fame, e dagli espedienti per soddisfarlo: mendicare, rubare, uccidere.

Appena dieci anni dopo il discorso tenuto dalla Krupskaja al congresso di Mosca del 1924, alla progettualità rieducativa era ormai subentrata la soluzione repressiva. La svolta decisiva avvenne con la risoluzione congiunta del Comitato esecutivo centrale dell’URSS e del Consiglio dei commissari del popolo, approvata il 7 aprile 1935: si decise di abbassare il limite d’età per perseguire penalmente i giovani delinquenti e i besprizornye. A partire dai dodici anni di età, i minorenni riconosciuti colpevoli di furto, violenze, lesioni personali, menomazioni, omicidio o tentato omicidio, sono passibili di giudizio penale, con l’applicazione di tutte le misure punitive.16 Il limite dei dodici anni fu aggiunto personalmente da Stalin sulla bozza di proposta preparata da Andrej Vyšinskij, il procuratore generale dell’URSS che di lì a poco avrebbe rappresentato l’accusa nei grandi processi di Mosca. Pochi giorni dopo, il 20 aprile 1935, una nota segreta fu trasmessa agli organi competenti: vi si chiariva che tra le «misure punitive» andava annoverata anche «la pena capitale (fucilazione)». Non è noto il numero dei besprizornye che furono fucilati in applicazione di questa «nota esplicativa», ma testimonianze e documenti indicano che già negli anni precedenti si era fatto ricorso ai proiettili per «liquidare» quei ragazzi vestiti di stracci. Da ultimo, il decreto del 31 maggio 1935 sanciva la fine del fenomeno dell’infanzia abbandonata.

Negli anni venti fino a metà degli anni trenta, la condizione dei besprizornye fu alleviata dagli operatori e dai volontari della Croce Rossa internazionale, tra le quali, anche quella italiana, dalle fondazioni inglesi, francesi e Usa. Furono poi cacciate tutte, perché il partito decise che il problema era risolto. Non esistevano più besprizornye nella gloriosa società sovietica!

In questo volume vi sono una miniera di indicazioni, di nomi, di volti, di luoghi, che svelano processi di lungo periodo, tristemente ancora attivi oggi: un paese, una cultura, un mondo che divora i propri figli.

§CONSIGLI DI LETTURA: vita e destino

Uno struggente, continuo, poetico inno alla vita

È motivo di imbarazzo la volontà di scrivere qualche riflessione su “Vita e destino” di Vasilij Grossman nella ristampa del 2008, Gli Adelphi, Milano. Semplicemente: è un capolavoro monumentale. È un viaggio nell’animo umano: di ciò che più intimo abbiamo nello splendore e nella dignità del vivere di ognuno e del suo morire. In questo libro vi è la compassione, l’amore, l’odio, la bassezza e la meschinità, la crudeltà, l’assassinio voluto e progettato, l’orrore, il razzismo, la guerra, i lager, i gulag, la fame, la malattia, la speranza, la dolcezza, la voglia di amare se stessi, i propri cari, i figli e le figlie.

Fu terminato nei primi anni sessanta del secolo scorso. Vasilij Grossman combatté a Stalingrado durante la seconda guerra mondiale. Fu un giornalista, un saggista, un romanziere, un lettore attento dell’animo umano, un esperto di politica, e, per le sue esperienze, un profondo conoscitore della guerra e dell’oppressione. Scrisse diari e libri sulle vittime per opera dei tedeschi in URSS. Ebbe una lunga gavetta dura di sangue e di letture, di vita e di morte. Padroneggiava gli stili dello scrivere. Profondo conoscitore della letteratura russa e, nelle pieghe della censura sovietica, anche di quella degli altri paesi.

Il libro fu censurato dall’Urss e anche da noi, qui in Occidente. Da colui che visse Stalingrado, prima della guerra e dopo, e la censura di Stalin e di Krusciov. Si sente la Russia che è prima e continua a esserci nell’URSS. La Russia che non è solo dei russi, ma dei popoli che lì dimoravano nelle pianure infinite. Riformula continuamente la nozione di popolo, di epica, e della madre Russia. Non a caso è stato definito il libro che segue “Guerra e Pace” di Tolstoj, che in realtà il titolo dovrebbe essere “Guerra e vita”. Un libro imbarazzante per il mito del cuore del popolo russo e anche del nostro, di noi (non gli italiani, perché combattevamo con i tedeschi) alleati. Colpevoli di aver chiuso gli occhi sui lager e anche sulle epurazioni che dopo la guerra l’URSS intraprese contro coloro che professavano la religione ebraica.

Vasilij Grossman è consapevole che il processo storico sociale del nazismo non può essere semplicemente equiparato a quello del comunismo, ma, a costo di rischiare la vita o di finire povero e isolato (e ciò accadde, dopo i fasti e gli onori per le sue attività di guerra e di scrittura durante la guerra e nei primi anni successivi ad essa), volle affrontare la verità: la rivoluzione russa con Stalin e con l’URSS è stata tradita. I popoli dell’URSS dopo il nazismo vivono un comunismo che tale non è, perché in realtà ha un elemento comune con coloro che sconfissero in guerra: il totalitarismo che è basato sulla violenza. Ma, secondo Vasilij Grossman, l’uomo ha un anelito irresistibile alla libertà, perché ogni uomo è unico e irripetibile.

“Vita e destino” fu ripescato per caso, in una sola copia. E fu da monito per tanti scrittori all’epoca dell’URSS, come i fratelli Stugarskij che creavano copie nascoste e frammentate dei loro testi, per non farle sparire e diffonderle comunque, anche inviandole a editori che le avrebbero rifiutate (molti per non finire nei Gulag), con la convinzione che comunque sarebbero girate comunque.

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Il romanzo è uno struggente, continuo, poetico inno alla vita. La vita senza aggettivi, senza idee che pretendono di giustificarla, senza utopie che presumono darle uno scopo: la vita come dono. Questo lungo canto di sofferenza è una possente epica lirica che travolge qualsiasi narrazione ideologica, mostrandola piccola, statica e piatta nella sua visione del mondo.

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“Vita e destino” fa sentire i popoli delle steppe, tutti, non solo i russi e nelle sue pagine vi sono tratti altissimi di epica, lirica, mito, riflessioni filosofiche ed etiche profonde e capitali.

È impressionante la variazione degli stili letterari che compaiono in corrispondenza degli eventi, dei dialoghi e delle personalità dei protagonisti che sono tanti e tanti: sovietici e, ed è qui lo scandalo, anche i tedeschi. I tedeschi nella loro umanità come quella dei sovietici, sia nella loro terribile crudeltà sia nelle speranze, e nelle paure di alcuni.

Non è un libro da leggere in modo episodico e distratto. Il lettore sente i protagonisti vicino, nella loro carne, nel loro respiro, nelle loro gioie e dolori. Meravigliose le pagine dello struggimento d’amore, e terribili quelle delle azioni di guerra, vere, dure, crude, senza retorica. Ma, ancora di più, quelle relative ai lager e ai gulag. E da lì si comprende, perché nessuno, fino a che Vasilij Grossman fu in vita, volle pubblicare il romanzo. NESSUNO, ovunque.

Impossibile trascrivere un frammento di questo capolavoro: non rende giustizia a questo monumento sull’umanità. Veramente: questo è un libro che va vissuto integralmente, con tutto il proprio cuore.

§CONSIGLI DI LETTURA: la citta’ condannata

Arkadij e Boris Strugackij LA CITTÀ CONDANNATA Traduzione di Daniela Liberti

Titolo originale Град обреченный – The Doomed City

Strugackij, Arkadij. La città condannata (Italian Edition) . Carbonio Editore.

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Copyright © 1988, 1989 by Arkady & Boris Strugatsky © 2020 Carbonio Editore srl, Milano Tutti i diritti riservati Traduzione dal russo di Daniela Liberti Pubblicato con il supporto del TRANSCRIPT Programme to Support Translations of Russian Literature della Mikhail Prokhorov Foundation

Un libro destinato a non uscire secondo le stesse intenzione dei due scrittori. Dai contenuti e dalla trama, quando iniziarono a comporlo nel 1967 nel tempo dell’Unione Sovietica, e alla luce delle enormi difficoltà per pubblicare le loro precedenti opere, i fratelli Strugackij sapevano che sarebbero incorsi nella censura in una previsione ottimistica, se non in carcere, o direttamente nei Gulag. Le esperienze dei loro colleghi scrittori erano evidenti.

Come per i precedenti libri, spedivano in prima lettura ad editori fidati, i quali rispondevano di non poterli pubblicare, perché, nonostante i temi fantascientifici, lo stile che oggi noi diremmo distopico, i temi delle fiabe, la descrizione del vivere russo e dei popoli all’interno dell’URSS, vi erano critiche all’amministrazione, al vivere civile, alle leggi, agli scopi e alla logica stessa di un apparato che si diceva rivoluzionario da anni e anni.

Lo stile delle loro opere, e di questo romanzo, è ricco di variazioni tra il favolistico, l’umoristico, accompagnato da un’analisi fredda dei meccanismi del consenso, del potere, dell’asservimento. Nonostante che i temi siano dissimulati e narrati con il meccanismo del paradosso e dell’ironia, la critica emerge netta e dura. Anzi, proprio per lo stile apparentemente leggero, pazzo a tratti, e quasi da cabaret, che aveva la funzione di occultare la critica radicale all’URSS e in più in generale alla costruzione dei miti usati dal potere politico ed economico per asservire le persone, per contrappasso, si traduceva in una condanna senza appello.

Ecco perché spedivano comunque le loro opere: anche nel diniego, le copie passavano in una cerchia di lettori professionisti sempre più ampia, in modo che poi qualcuno di loro fosse stato in grado di stamparlo all’estero. Per molte delle loro opere così accadde. I due scrittori assunsero precauzioni da vere spie dei romanzi gialli, cercando di nascondere il libro e le versioni corrette. Lo rimaneggiarono fino al 1973. Poi finalmente riuscirono a pubblicarlo dopo il crollo dell’URSS, ma anche qui dissimulando in due parti, e riducendolo. Non si fidavano degli apparati che erano ancora presenti nella nuova Russia. Nel 2000 finalmente uscì una versione unica, ricorretta e limata.

La “città condannata” è l’URSS, anzi è ogni agglomerato statuale che dopo un presunto processo rivoluzionario, per tentare di sopperire alla contraddizione tra le teorie del mutamento e la volontà di rimanere stabilmente nei centri del potere, rende vuoti gli obiettivi e gli scopi, delineando la dichiarazione di una terra promessa sempre di lì da venire, per un uomo nuovo e una società nuova. Tutto è subito in vista della società dell’avvenire, e ognuno è un ingranaggio.  I fratelli Strugackij mostrano che l’insensatezza, l’assenza di ragionamento, le parole d’ordine vuote sono gli strumenti razionali e coerenti del potere che asservisce e che ha l’unico scopo di mantenere se stesso, vuoto, e rivestito di una promessa sempre futura.

Un libro complesso, durato trenta anni. Molte caratteristiche dei personaggi, dai tic, ai modi di dire ritornano continuamente, come un leit motiv di annuncio dei personaggi delle opere di Richard Wagner. Questa apparente ridondanza è dovuta anche alla ripresa di temi e dialoghi nell’arco di decenni, con pause dovute alla scrittura di altre opere. I personaggi sono descritti in modo fisico, carnale, dalla sporcizia ai tic. Si ha l’impressione di averli vicino, fino a sentire la puzza del loro sudore. Si conosce anche il modo di vivere dei russi, ma della Russia profonda, dalle loro bevande, agli strumenti di lavoro agricolo e di fabbrica, ai carri, e agli indumenti, dai riti e dalle ricette tipiche, anche dei popoli non russi dell’URSS. Questo libro mostra il grande arcipelago dei popoli di questa Unione imperiale. La loro commistione e l’evidenza di antichi conflitti.

Sono trattati i temi dell’amministrazione, dell’informazione, della violenza, della tortura, della carestia, della mancanza di libertà, del razzismo, dello sciovinismo, e del maschilismo: le donne sono trattate molto male, proprio da coloro che indicano nell’esperimento (la società rivoluzionaria comunista, socialista, non ha importanza, anche totalitaria in modo astratto) la volontà di perseguire l’uguaglianza per un uomo e una donna nuova.

Lo stile dei due scrittori è rivestito da una sintassi brillante che avvolge il lettore, e lo spinge ad andare avanti con un ritmo talvolta da fuochi d’artificio, oppure lento e riflessivo. Vi sono variazioni continue in un tema di fondo che fornisce il ritmo della scansione degli eventi. Le allegorie sono originali e comiche.

È il loro libro: l’opera che secondo gli autori non sarebbe mai potuta uscire. Completamente inattuale. E lo è ancora oggi, perché le riflessioni contenute sono vive nel nostro presente.

Secondo le analisi di questi anni il libro è catalogato nel settore della distopia. I due fratelli nel 1967 non avevano in mente tale termine. Comunque il libro è molto di più: uno scrigno che via via nelle sue secrete, mostra l’aberrazione di ciò che è ritenuto “normale”.

Un libro godibilissimo, ironico, d’avventura, e denso di temi.

Vi è un’analisi approfondita sul potere che asservisce, descritto con una ironia dissacrante: per togliere regalità al re, occorre che sia visto nelle sue concrete fattezze: ridicolo e nudo. La risata disvela l’orrore della apparente normalità e dell’accettazione di valori imposti e pienamente contraddittori nella loro formulazione.

I fratelli Strugackij perfezionano il loro stile, talvolta poetico, nel mostrare la normale violenza dell’assurdo che è il nucleo dell’attività politica e di indirizzo che pervade ogni amministrazione, fino a ogni modo di vivere del singolo. La denuncia di ciò è mostrata attraverso il lato comico dei tratti caratteriali dei protagonisti, oltre alle loro goffe e patetiche imprese.

La risata che condanna questa città.

§CONSIGLI DI LETTURA: La chiocciola sul pendio



Collana: CIELO STELLATO

Arkadij e Boris Strugackij

“La chiocciola sul pendio” con una postfazione di Boris Strugackij Traduzione di Daniela Liberti

Carbonio Editore – Milano.

Titolo originale Улитка на склоне di Arkadij e Boris Strugackij Copyright © 1966.

Un libro poliedrico scritto a quattro mani dai fratelli Strugackij, in piena epoca sovietica, nel periodo di congiunzione tra le timide aperture di Krusciov con riferimento a una maggiore libertà di espressione in URSS, a quelle di ritorno a un controllo ortodosso di Kruscev. I fratelli Strugackij oltre a leggere e interessarsi di letteratura sempre di più negli anni, fino a intraprendere il mestiere di scrittori, curatori, pubblicisti, studiarono chimica, meccanica, ingegneria. Tale formazione, fu utile nell’uso e nella descrizione dei fenomeni biologici, geologici, chimici, meccanici nei loro libri e in particolare in ambito fantascientifico. L’uso di termini appropriati connotano una estrema verosimiglianza nella loro prosa. Il lettore entra con agio e leggerezza nei loro mondi, anche per l’uso di termini riferiti a strumenti consueti nel vivere quotidiano.

Negli anni, anche per non incombere nella censura e in problemi più pesanti, furono costretti ad un uso metaforico e satirico della loro poetica nel descrivere la realtà in cui erano immersi. Nonostante la loro scoppiettante capacità immaginifica, riescono a rendere la trama lineare. Questo romanzo dovette essere pubblicato all’estero. E il motivo è chiaro: vi è una critica alla burocrazia, all’amministrazione ottusa, alla volontà di controllare ogni aspetto della vita quotidiana, all’insensatezza di fondo in cui si reggono le organizzazioni preposte alla gestione del consenso e del controllo. Ma non sono, però direttamente rivendicativi. Cercano di ironizzare, mostrando le pratiche di ciò che era l’URSS nella quotidiana amministrazione in un modo fantastico, corredato da apparenti nonsense, quasi da richiamare i giochi di parole di Alice nel Paese delle Meraviglie. Scrittori abilissimi nello scrivere variando in diversi registri linguistici, mostrando una inventiva unica.

I due fratelli delineano personaggi che richiamano le caratteristiche delle leggende e delle fiabe russe, affinché il tema del “fantastico” sia un motore che avvia le scene, con luoghi topici delle favole come la foresta, la baita, la casa, la via, i funghi, gli animali della notte, i nani, le anime gloriose. La metafora degli spiriti nella cultura russa. Gli eventi sono descritti con aggettivi doppi e tripli, dove ognuno svolge la funzione dell’altro, sicché le persone diventano la loro funzione: l’origliatore, lo zoppo, il muto, pugnolesto, l’anziano, il giallo. E oltre alla predicazione vi è anche una relazione di attribuzione. Colori, forme, suoni, odori e posture assumono di volta in volta la funzione di predicato e la funzione di soggetto. Le descrizioni sono discendenti, gonfie, sovrabbondanti, ma nel ritmo della scrittura, come in una danza, tutto si tiene. Vi è un equilibrio nei dialoghi e nel ritmo. Tale iper caratterizzazione fornisce una visione fisica dei luoghi, degli eventi e si entra nella psicologia dei personaggi. E poiché questo è un mondo surreale, con frasi ossessive e deliranti da parte dei protagonisti, l’esplosione dei predicati verbali e nominali, per converso forniscono una logica coerente per accedere nel caos mentale dei protagonisti.

Ogni mania assume la veste di un patronimico russo dei protagonisti. Una propria carta di identità. La scansione veloce degli eventi permette al lettore di non disorientarsi e di seguire ogni scena avendo bene in chiaro l’insieme degli spazi immaginari e irreali. I luoghi come il canneto, la foresta, il villaggio, la distesa d’erba, i funghi, le radure dei morti viventi, assumono anche una funzione mitica. Come se si fosse dentro una Odissea con Ulisse che va da Circe e da Polifemo. Una prosa brillante, pazzoide, satirica eppure coerente, agile, fresca, ironica. E si avverte subito tra un registro fiabesco, mitico, fantascientifico, allegorico, satirico, d’avventura l’attacco contro l’amministrazione sovietica, nella veste della rigidità, del controllo, nell’illogicità a eseguire procedure emanate e scritte altrove, con logiche misteriose, esterne, formali, senza un riscontro immediato.

I dialoghi così serrati e veloci ma densi di immagini e di descrizioni, sono così ben scanditi da seguire passi di danza tra una domanda e una risposta dei dialoganti. E tra l’incomprensione reciproca, il conflitto, le litigate, il gioco dei termini omonimi e sinonimi, gli slittamenti semantici, si dispiega pian piano la trama, seminando per il lettore indizi su ciò che avverrà.

Una poetica avvincente per adulti e lettori molto giovani. L’assurdo come normalità, vestito di una involontaria ironia.