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§CONSIGLI DI LETTURA: IL DIARIO DI VIAGGIO DI ARTHUR GORDON PYM

di Edgar Allan Poe, Prima Edizione 1838

La trama del romanzo è ascendente, perché non vi pause. Sopraggiungono onde di pericoli: la morte a causa della mano amica che si tramuta in quella della morte. Il lettore avverte le sensazioni infantili relative al terrore di affogare, allo stimolo irato della fame, all’abbraccio gelido del buio, alla vertigine della caduta, all’oppressione della malattia. E quando sembra di aver percorso il girone infernale, si acquista la consapevolezza di aver compiuto il primo passo, perché l’altra gamba inciampa nel naufragio che porta allo scoramento della solitudine, liquefatto poi dalla tempesta, per arrestarsi infine nella voce che evapora dentro il gorgo della pestilenza. La nave incanutisce in una zattera, in cui vi è il cannibalismo. La crescita e lo scorrere del tempo è già la dichiarazione di osare per vivere, e questa è la porta che apre al pericolo. L’esperienza è il dolore e la conoscenza può richiedere il prezzo della propria vita.

Anche chi non ha letto il libro, in realtà lo ha già vissuto. I pericoli e le vicende le ritroviamo nei racconti antichi e nei libri a lui contemporanei, come il vascello fantasma e l’ammutinamento, cioè lo stravolgimento delle condizioni di fiducia. Il pericolo è intorno e dentro la barca, cioè la casa, che è la metafora del proprio vivere. Gli elementi della natura sono un pericolo. Ogni giorno nel ciclo del Sole e della Luna, scandisce il ritmo del morire.

È un romanzo di formazione, in cui si diventa adulti, attraverso gocce di sangue, tramutate in secondi. Non si può fare a meno di andare avanti ed osare, per evitare la stasi della morte, ma il cammino si alimenta del sangue e della sofferenza.

La paura è una delle conseguenze del pericolo, che introietta se stessi nella gabbia dell’orrore con le sbarre della solitudine e con il giaciglio dell’angoscia e il timore. La collaborazione con gli altri è un azzardo, perché è un salto nel buio, scaturito dalla fiducia che è sempre senza fondatezza.

Per Edgard Allan Poe la fiducia è una corda tesa sopra l’abisso che definisce ogni orientamento nel proprio vivere.

L’orrore e il dolore sono due piani che si intersecano nella linea sottile della sopravvivenza. È una concezione analoga alla “linea d’ombra” descritta da Joseph Conrad: l’orizzonte tra i due oceani dove naviga la propria biografia. La rotta si crede sia quella giusta, attraverso le vele della razionalità e che conducano ad un approdo sicuro.

La morale e il diritto sono generate dalla sublimazione della violenza e del sangue. L’esperienza acquisisce un senso compiuto, attraverso la scarnificazione delle proprie speranze e del proprio corpo. Questi sono gli effetti, forse in gran parte oscuri allo stesso Edgar Allan Poe che certamente aveva lo scopo di usare lo sgomento e il panico come strumenti narrativi per catturare l’attenzione e fornire dinamicità agli eventi. La vita è il fior di loto che emerge e galleggia precario sullo stagno del terrore che poggia su un fondale di morte.

L’intensità emotiva che regala questo romanzo, ci informa, nonostante tutto, di essere ancora vivi e di pulsare la volontà di sopravvivere. Il lettore non può fermarsi, perché deve proseguire la lettura.

§CONSIGLI DI LETTURA: MARIA ZEF

2019,  Barbara Di fiore Editore (2019),
Milano, Prima Edizione 1936

La dura asperità dei monti che si rifrange sui corpi e sui volti, ricorda che la sopravvivenza ha qualche possibilità di riuscita per brevi istanti, se si mangia freddo e letame. Queste donne sono incatenate nel giogo della povertà, giù nel fondo della fame e della miseria, nel disprezzo e nella sventura. Eppure dalla melma nera riescono a generare stille di vita.

La vita del Friuli e del Veneto. Il libro urla la miseria dei senza diritti tra langhe, pioggia, fango, risaie, grano, vitigni e nel gelo dei monti. Ognuno è alla mercede del clima, tra le annate di fame e di abbondanza. Eppure qualche radura di solidarietà fiorisce.

Nei ciclici anni della carestia gli uomini emigrano. Rimangono le donne a lavorare e a reggere i piccoli e le piccole.

Mariutine la grande bambina che deve pensare a tutto. La bimba quasi adolescente dalle mille qualità, consapevole dei suoi limiti che tenta di superare, perché nell’umiltà estrae una irresistibile volontà di miglioramento.

Lo stile è scarno, diretto e carnale. Il lettore avverte le sensazioni fisiche dei protagonisti nel vento freddo e secco, che scolpisce la fatica. Le malattie sono la carta d’identità delle proprie storie: dalle rughe ai corpi deformati.

Vi sono i poveri e quelli ancora più in basso. Mariutine e Rosute stanno lì, nel fondo. Assieme alla madre quasi cadavere che cerca di proteggerle camminando nei paesi e nel fango, per vendere piccoli strumenti di casa, da loro stesse fabbricati.

Mariutine sa di essere ignorante e analfabeta su gran parte del mondo: conosce la montagna e il gelo. Nonostante tutto coltiva qualche abilità come il canto che allieta i clienti e i villici durante il loro vagare alla ricerca di soldi per le provviste da accumulare nell’isolamento invernale, lassù nella fragile modesta baita.

È una storia dura e tragica, purtroppo normale, narrata con una precisione chirurgica secondo una scansione di cronaca di giornale. “Povera e donna”: il luogo dove ogni miserabile trova il fondo per lui inarrivabile. E se questa donna è anche una bambina quasi dodicenne, ogni rapporto con chiunque è un pericolo.

Eppure Le due bimbe sono forti e tentano di sopravvivere dentro l’inferno del loro vivere.

La consapevolezza dell’inganno e delle violenze subite che stanno portando le due bimbe all’annichilimento, però, non riesce a inibire la volontà di sopravvivere, accompagnata dalla generosità estrema di Mariutine che vuole proteggere la sorellina più piccola, oltre sé stessa.

Ella rimane umana compiendo gli atti più tragici, anche non avendo le parole per dirlo: vivere e donare speranza di vita.

La trama non andrebbe letta: è un libro che va vissuto. Dalla funzione di scandalo e di denuncia del periodo in cui pubblicato, il romanzo oggi ha la funzione di tener presente che tutto ciò vi è ancora, ma con vestiti più alla moda: l’inferno freddo è ancora qui.

IL VENTO DEL NOSTRO COLLOQUIO MILLENARIO: POEtare leggendo

Franco Fortini

Provo un senso di frustrazione a scrivere della poesia “Il vento che verso” di Franco Fortini. Ho parlato di essa, oggi, a qualche anima generosa che mi ha sopportato per più di un’ora nel descrivere soltanto i primi dieci versi. Chi mi conosce dal vivo rileva una totale distonia rispetto al mio stile di scrittura nel momento in cui presento qualche verso, e in particolare ai miei due libri di poesie con immagini “Sogni Sospesi” e “Reciproche Rinascite”.

Sono estremamente curate nello stile e nella versificazione, ma in origine, la maggior parte di esse, furono scritte di getto. Naturalmente poi, sono state riviste, curate, ampliate, analizzate allo spasimo, anche contro gli intenti iniziali, forzando l’evidenza di ciò che a me oscuro, mi guidò nella scrittura. Parto dalla prosodia e dall’oralità. Sono il peggior declamatore di una poesia, perché non la finisco mai: mi dilungo, la spezzo, la ripeto, la interpreto, la mastico. Creo versi miei variando gli stili solo da una riga, e se talvolta lo espongo in modo stenografico, d’improvviso mi esce un fiume in piena.

Sono estremamente fisico: l’eventuale pubblico scapperebbe dopo cinque minuti, perché lo coinvolgo fisicamente, creando in base alle sue reazioni; ai suoi sguardi. Al suo respiro. L’interlocutore sente la mia presenza. Demolisco la barriera e il bello è che se parto in quarta, neanche me ne accorgo, e ogni volta, ogni volta, dopo qualche ora che ci ripenso, riprovo la vertigine: “come ho fatto?”

In questi ultimi tre anni mi sono violentato a scrivere in prosa il romanzo “Dentro l’Apocalisse. Quando tutto è già accaduto”. E poi quest’anno passato di blocco e letture. E ora risento la voglia di ridiventare un amplificatore prosodico. È seducente, ma è pericoloso. Vi è il blocco apparente, ma è in realtà il mare ghiacciato nell’approssimarsi dell’estate. La scrittura di una poesia, difficile, ostica, voluta, aspirata, è in realtà la punta di un iceberg remoto dentro di sé: suono, richiamo e .. vento .. che alita il proprio nume interiore. La cosciente razionalità non è che un piccolo spicchio, eppure è tutto, perché la pianta del linguaggio in esso alberga.

***

IL VENTO CHE VERSO

Il vento che verso le piane dai valichi va

e assiderati lima lembi altissimi

e i nidi dai rigidi rami divide,

è il nostro padre

che vuole per noi veramente.

Per quanto tempo abbiamo riposato,

le vesti e i cibi sanno di corpi e fiati,

il fumo è salito dal tetto della casa,

il lume della lampada

ha data tutta la vecchia dolcezza.

Sciogli il cuore nebbioso, tu portalo via,

il tristo nido di meditata vecchiezza,

vento inflessibile, ruba la vizza veste,

gela la stilla,

spazia, disprezza, aprici.

Da tanto tempo abbiamo voluto piangere,

ma di pietà e di gioia, per le fronti avvenire.

Ora sappiamo che tutto nostro è il tempo,

ora noi stessi siamo i nostri figli,

dove in te, vento, penetriamo noi ultimi.

1956

***

La poesia “Il vento che verso” ha una quantità impressionante di topi, metafore, allitterazioni, consonanze, assonanze, metonimie, incroci multidimensionali, richiami che sottendono metriche antiche. Ognuno con un buon libro di versificazione e di retorica, le può scorgere per gioco. Nei grandi poeti come Franco Fortini, la densità degli strumenti prosodici e retorici usati in così pochi versi, non è immediatamente voluta. La conoscenza, l’esperienza, il duro lavoro creativo, bello e rigoroso, permette una loro costruzione inconscia, analogamente al pedalare, che è un procedimento automatico, utile ad agire con altri intenti più consci e razionali.

La messa in atto del poetare, e dell’ascolto, ridotto anche nella lettura e nel mio scritto di adesso, che sento povero, in bianco e nero, e incatenato, per quello che potrei esprimere adesso davanti al lettore, come questa mia scrittura velocissima, ascoltando musica e osservando il tramonto che lambisce il mio volto nelle pieghe grigio violette, è l’inesauribile vibrazione che ognuno di noi ha in questo colloquio ininterrotto che parla dalla prima lallazione dei nostri capostipiti e che viaggia nel Vento.

Si osservi la prima strofa e in particolare la consonante “v” del primo verso che imprime nel nostro orecchio il suono del vento che si muove dando l’idea della dinamicità con (v)erso che (v)alica da un dietro e un davanti, e quindi di(v)ide il nostro ambiente, in particolare il nostro vivere ritenuto la totalità di ciò che è: il nido.

È il padre che (v)uole il (v)ero. Ciò che è vero è il vento che è il vivere del nostro animo, comune ad ognuno. E si osservino le assonanze che informano del verbo e della particolare azione del vento: il valico va – lima(re) lembi. La realtà prende forma attraverso il vento: la sua verità. Il vento va verso la verità.

Già da questa strofa si rilevano gli intrecci sintattici e semantici, e qui abbiamo più metafore sovrapposte riguardo lo stesso poetare del vento che vers(o)ifica nel linguaggio la nostra origine, richiamandoci al vero.

Si osservi lo stesso meccanismo complesso tra “fumo” e “lume”, dove entrambi salgono nell’aria domestica e in quella esterna, passando dalla luce all’oscurità. Delineano il passare del tempo, nonostante la nostra illusione del nido statico. Voler credere nel silenzio dell’immutabile riposo, che è invece l’assenza di pensiero nel silenzio e nella sordità. La volontà che volendo allontanarsi dal volere del vero che è il vento che va, cioè del moto, rivela invece l’odore stantio, prossimo a dileguare. Tale vento incatenato, vecchio perché passato, ci attrae nella sua dolcezza che sfuma tra il lume e il fumo.  

Ciò che divide nella prima strofa, lo spazio e il luogo, nella seconda, il lume e il fumo dividono il nostro prima dal poi, entrambi piccoli e vecchi.

La terza strofa si sviluppa incorporando i vortici delle prime due. I corpi e i fiati stantii costituiscono la nebbia del cuore, che è appunto colui che nonostante la voglia di silenzio e di morte, risuona di continuo dentro di noi, nel verso che vuole il vero nel parlare. È il presente della parola che detta il verso: sciogli: libera: porta via l’illusione della stasi, cioè svelala, soffia il vero. Nel nido, ancora qui, i “nidi” dei “rigidi rami” (azioni e nostri pensieri, ritenuti la verità) sono immoti, perché meditati, mal masticati, e perciò deboli e flebili come nella prima strofa.

Lo scarto che dilegua è la vecchiezza della “vizza veste” (ancora qui le mirabili cellule prosodiche che impongono il ritmo del nostro suono interiore, mentre leggiamo) che è meditata, cioè mediata, ovvero incatenata e perciò trista, di un suono che non gira intorno a sé.

Il poeta invoca di gelare questo processo, cioè di avvilupparlo, di compierlo, attraverso lo spaziare, cioè lo spazio delle rime, nel dis-prezzare, ovvero nel mostrare che il vento è bilancia e misura dei valori nostri, e quindi al di fuori di esso. Impossibile appunto da prezzare. Si noti il richiamo che apre un’altra poesia nascosta tra la “dolcezza” e la “vecchiezza” nella seconda e nella terza strofa, e che lega i versi a tre a tre dalle prime strofe.

Nel quarto verso, vi è un’altra poesia quasi autonoma (tutti giochi dell’eco del vento) tra il “tempo” del riposo e il “tempo” del pianto che fa scorrere la sequenza della pietà di sé e della gioia di essere tutti assieme, figli del vento e dell’avvenire. Questo legame che agglutina due grandi allegorie con i piani sovrapposti di <figlio e padre> e di <comunità e umanità>, riverbera nel “nostro” tempo, ricongiungendoci al destino che dispiega la vera condizione di esser figlio e ramo. È la foglia e il frutto che si muovono nel vento, dove ogni frase, ogni parola d’ogni lettore è nella sua presenza. L’ultimo verso in cui il vento è sempre in esso penetrato. Il destino del vento che è il vero.

L’ultimo verso che penetra, riprende quello del primo che valica: la conoscenza della propria limitatezza, comune a ogni individuazione del suono nei versi che richiama il ritmo del cuore nel timbro poetico.

E qui mi fermo, nell’impossibilità di esprimere il secondo passo di questo moto, che può esser solo presentato dalla mia voce in carne ed ossa.

§CONSIGLI DI LETTURA: vita e destino

Uno struggente, continuo, poetico inno alla vita

È motivo di imbarazzo la volontà di scrivere qualche riflessione su “Vita e destino” di Vasilij Grossman nella ristampa del 2008, Gli Adelphi, Milano. Semplicemente: è un capolavoro monumentale. È un viaggio nell’animo umano: di ciò che più intimo abbiamo nello splendore e nella dignità del vivere di ognuno e del suo morire. In questo libro vi è la compassione, l’amore, l’odio, la bassezza e la meschinità, la crudeltà, l’assassinio voluto e progettato, l’orrore, il razzismo, la guerra, i lager, i gulag, la fame, la malattia, la speranza, la dolcezza, la voglia di amare se stessi, i propri cari, i figli e le figlie.

Fu terminato nei primi anni sessanta del secolo scorso. Vasilij Grossman combatté a Stalingrado durante la seconda guerra mondiale. Fu un giornalista, un saggista, un romanziere, un lettore attento dell’animo umano, un esperto di politica, e, per le sue esperienze, un profondo conoscitore della guerra e dell’oppressione. Scrisse diari e libri sulle vittime per opera dei tedeschi in URSS. Ebbe una lunga gavetta dura di sangue e di letture, di vita e di morte. Padroneggiava gli stili dello scrivere. Profondo conoscitore della letteratura russa e, nelle pieghe della censura sovietica, anche di quella degli altri paesi.

Il libro fu censurato dall’Urss e anche da noi, qui in Occidente. Da colui che visse Stalingrado, prima della guerra e dopo, e la censura di Stalin e di Krusciov. Si sente la Russia che è prima e continua a esserci nell’URSS. La Russia che non è solo dei russi, ma dei popoli che lì dimoravano nelle pianure infinite. Riformula continuamente la nozione di popolo, di epica, e della madre Russia. Non a caso è stato definito il libro che segue “Guerra e Pace” di Tolstoj, che in realtà il titolo dovrebbe essere “Guerra e vita”. Un libro imbarazzante per il mito del cuore del popolo russo e anche del nostro, di noi (non gli italiani, perché combattevamo con i tedeschi) alleati. Colpevoli di aver chiuso gli occhi sui lager e anche sulle epurazioni che dopo la guerra l’URSS intraprese contro coloro che professavano la religione ebraica.

Vasilij Grossman è consapevole che il processo storico sociale del nazismo non può essere semplicemente equiparato a quello del comunismo, ma, a costo di rischiare la vita o di finire povero e isolato (e ciò accadde, dopo i fasti e gli onori per le sue attività di guerra e di scrittura durante la guerra e nei primi anni successivi ad essa), volle affrontare la verità: la rivoluzione russa con Stalin e con l’URSS è stata tradita. I popoli dell’URSS dopo il nazismo vivono un comunismo che tale non è, perché in realtà ha un elemento comune con coloro che sconfissero in guerra: il totalitarismo che è basato sulla violenza. Ma, secondo Vasilij Grossman, l’uomo ha un anelito irresistibile alla libertà, perché ogni uomo è unico e irripetibile.

“Vita e destino” fu ripescato per caso, in una sola copia. E fu da monito per tanti scrittori all’epoca dell’URSS, come i fratelli Stugarskij che creavano copie nascoste e frammentate dei loro testi, per non farle sparire e diffonderle comunque, anche inviandole a editori che le avrebbero rifiutate (molti per non finire nei Gulag), con la convinzione che comunque sarebbero girate comunque.

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Il romanzo è uno struggente, continuo, poetico inno alla vita. La vita senza aggettivi, senza idee che pretendono di giustificarla, senza utopie che presumono darle uno scopo: la vita come dono. Questo lungo canto di sofferenza è una possente epica lirica che travolge qualsiasi narrazione ideologica, mostrandola piccola, statica e piatta nella sua visione del mondo.

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“Vita e destino” fa sentire i popoli delle steppe, tutti, non solo i russi e nelle sue pagine vi sono tratti altissimi di epica, lirica, mito, riflessioni filosofiche ed etiche profonde e capitali.

È impressionante la variazione degli stili letterari che compaiono in corrispondenza degli eventi, dei dialoghi e delle personalità dei protagonisti che sono tanti e tanti: sovietici e, ed è qui lo scandalo, anche i tedeschi. I tedeschi nella loro umanità come quella dei sovietici, sia nella loro terribile crudeltà sia nelle speranze, e nelle paure di alcuni.

Non è un libro da leggere in modo episodico e distratto. Il lettore sente i protagonisti vicino, nella loro carne, nel loro respiro, nelle loro gioie e dolori. Meravigliose le pagine dello struggimento d’amore, e terribili quelle delle azioni di guerra, vere, dure, crude, senza retorica. Ma, ancora di più, quelle relative ai lager e ai gulag. E da lì si comprende, perché nessuno, fino a che Vasilij Grossman fu in vita, volle pubblicare il romanzo. NESSUNO, ovunque.

Impossibile trascrivere un frammento di questo capolavoro: non rende giustizia a questo monumento sull’umanità. Veramente: questo è un libro che va vissuto integralmente, con tutto il proprio cuore.