La trama del romanzo è ascendente, perché non vi pause. Sopraggiungono onde di pericoli: la morte a causa della mano amica che si tramuta in quella della morte. Il lettore avverte le sensazioni infantili relative al terrore di affogare, allo stimolo irato della fame, all’abbraccio gelido del buio, alla vertigine della caduta, all’oppressione della malattia. E quando sembra di aver percorso il girone infernale, si acquista la consapevolezza di aver compiuto il primo passo, perché l’altra gamba inciampa nel naufragio che porta allo scoramento della solitudine, liquefatto poi dalla tempesta, per arrestarsi infine nella voce che evapora dentro il gorgo della pestilenza. La nave incanutisce in una zattera, in cui vi è il cannibalismo. La crescita e lo scorrere del tempo è già la dichiarazione di osare per vivere, e questa è la porta che apre al pericolo. L’esperienza è il dolore e la conoscenza può richiedere il prezzo della propria vita.
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Anche chi non ha letto il libro, in realtà lo ha già vissuto. I pericoli e le vicende le ritroviamo nei racconti antichi e nei libri a lui contemporanei, come il vascello fantasma e l’ammutinamento, cioè lo stravolgimento delle condizioni di fiducia. Il pericolo è intorno e dentro la barca, cioè la casa, che è la metafora del proprio vivere. Gli elementi della natura sono un pericolo. Ogni giorno nel ciclo del Sole e della Luna, scandisce il ritmo del morire.
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È un romanzo di formazione, in cui si diventa adulti, attraverso gocce di sangue, tramutate in secondi. Non si può fare a meno di andare avanti ed osare, per evitare la stasi della morte, ma il cammino si alimenta del sangue e della sofferenza.
La paura è una delle conseguenze del pericolo, che introietta se stessi nella gabbia dell’orrore con le sbarre della solitudine e con il giaciglio dell’angoscia e il timore. La collaborazione con gli altri è un azzardo, perché è un salto nel buio, scaturito dalla fiducia che è sempre senza fondatezza.
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Per Edgard Allan Poe la fiducia è una corda tesa sopra l’abisso che definisce ogni orientamento nel proprio vivere.
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L’orrore e il dolore sono due piani che si intersecano nella linea sottile della sopravvivenza. È una concezione analoga alla “linea d’ombra” descritta da Joseph Conrad: l’orizzonte tra i due oceani dove naviga la propria biografia. La rotta si crede sia quella giusta, attraverso le vele della razionalità e che conducano ad un approdo sicuro.
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La morale e il diritto sono generate dalla sublimazione della violenza e del sangue. L’esperienza acquisisce un senso compiuto, attraverso la scarnificazione delle proprie speranze e del proprio corpo. Questi sono gli effetti, forse in gran parte oscuri allo stesso Edgar Allan Poe che certamente aveva lo scopo di usare lo sgomento e il panico come strumenti narrativi per catturare l’attenzione e fornire dinamicità agli eventi. La vita è il fior di loto che emerge e galleggia precario sullo stagno del terrore che poggia su un fondale di morte.
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L’intensità emotiva che regala questo romanzo, ci informa, nonostante tutto, di essere ancora vivi e di pulsare la volontà di sopravvivere. Il lettore non può fermarsi, perché deve proseguire la lettura.
La dura asperità dei monti che si rifrange sui corpi e sui volti, ricorda che la sopravvivenza ha qualche possibilità di riuscita per brevi istanti, se si mangia freddo e letame. Queste donne sono incatenate nel giogo della povertà, giù nel fondo della fame e della miseria, nel disprezzo e nella sventura. Eppure dalla melma nera riescono a generare stille di vita.
La vita del Friuli e del Veneto. Il libro urla la miseria dei senza diritti tra langhe, pioggia, fango, risaie, grano, vitigni e nel gelo dei monti. Ognuno è alla mercede del clima, tra le annate di fame e di abbondanza. Eppure qualche radura di solidarietà fiorisce.
Nei ciclici anni della carestia gli uomini emigrano. Rimangono le donne a lavorare e a reggere i piccoli e le piccole.
Mariutine la grande bambina che deve pensare a tutto. La bimba quasi adolescente dalle mille qualità, consapevole dei suoi limiti che tenta di superare, perché nell’umiltà estrae una irresistibile volontà di miglioramento.
Lo stile è scarno, diretto e carnale. Il lettore avverte le sensazioni fisiche dei protagonisti nel vento freddo e secco, che scolpisce la fatica. Le malattie sono la carta d’identità delle proprie storie: dalle rughe ai corpi deformati.
Vi sono i poveri e quelli ancora più in basso. Mariutine e Rosute stanno lì, nel fondo. Assieme alla madre quasi cadavere che cerca di proteggerle camminando nei paesi e nel fango, per vendere piccoli strumenti di casa, da loro stesse fabbricati.
Mariutine sa di essere ignorante e analfabeta su gran parte del mondo: conosce la montagna e il gelo. Nonostante tutto coltiva qualche abilità come il canto che allieta i clienti e i villici durante il loro vagare alla ricerca di soldi per le provviste da accumulare nell’isolamento invernale, lassù nella fragile modesta baita.
È una storia dura e tragica, purtroppo normale, narrata con una precisione chirurgica secondo una scansione di cronaca di giornale. “Povera e donna”: il luogo dove ogni miserabile trova il fondo per lui inarrivabile. E se questa donna è anche una bambina quasi dodicenne, ogni rapporto con chiunque è un pericolo.
Eppure Le due bimbe sono forti e tentano di sopravvivere dentro l’inferno del loro vivere.
La consapevolezza dell’inganno e delle violenze subite che stanno portando le due bimbe all’annichilimento, però, non riesce a inibire la volontà di sopravvivere, accompagnata dalla generosità estrema di Mariutine che vuole proteggere la sorellina più piccola, oltre sé stessa.
Ella rimane umana compiendo gli atti più tragici, anche non avendo le parole per dirlo: vivere e donare speranza di vita.
La trama non andrebbe letta: è un libro che va vissuto. Dalla funzione di scandalo e di denuncia del periodo in cui pubblicato, il romanzo oggi ha la funzione di tener presente che tutto ciò vi è ancora, ma con vestiti più alla moda: l’inferno freddo è ancora qui.
Asle e Asle sono due versioni della stessa persona, due racconti della stessa vita, che si interrogano sull’esistenza, sulla morte, sull’ombra e sulla luce, la fede e la disperazione. È una scrittura senza fine, perché non vi sono punti, ma solo virgole e punti interrogativi. È un flusso di coscienza corredato da sintagmi verbali, come “penso” o “dico/dice”.
Pensa, e ripensa, vede e non vede, e ritorna a pensare sul perché vede e non vede: infinite ripetizioni e approfondimenti nel parlare del buio che è nella luce, e quindi di Dio, dell’inesistenza di Dio, dell’onnipotenza di Dio. Dipinge scrivendo, e ritocca parlando, in un quadro senza estensioni, perché il pittore stesso è tutto esteso.
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Il ritmo è corredato da domande con risposte mancanti e implicite. Crea un alto e basso tonale, per seguire l’onda dei pensieri, come flutti che si infrangono sugli scogli delle frasi. Il riflusso crea la situazione. Le domande tracimano con le interiezioni e con i partitivi. Il linguaggio viaggia con il surf sulle onde della realtà in modo sfuggevole, rispetto al fondale e al vento stesso. Entrambi inattingibili. Appare l’impossibilità di accedere nella vista e nel linguaggio, e quindi nel senso e nel tempo, sia degli astri e quindi delle divinità sia degli oggetti e del mondo, e quindi della propria interiorità.
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La consapevolezza dell’assenza di risposta è proiettata in un soliloquio di preghiere volte a chiarificare la sua limitatezza nel vedere e nel dipingere. Il quadro è una parte della domanda circa la realtà, ed è scambiato nel soliloquio come una risposta. Tale artificio ha lo scopo di rendere partecipe il lettore attraverso la scissione tra il protagonista con un alter ego, e questi con lo scrittore stesso. Tutti assieme nel ritrovarsi consapevoli a poter attingere compiutamente al senso del mondo.
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Il lettore è dipinto attraverso il tentativo di seguire la rotta vorticosa degli eventi, nuotando assieme allo scrittore nel fingere che anche la propria impossibilità a capire il tutto sia una risposta, invece che una estensione infinita della domanda. Da dove deriva la presupposizione? Chi la fonda? Chi la manifesta?
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Nella luce buia, lui e il suo alter ego entrano in simultaneità nei luoghi da essa illuminati. Anzi risucchiati. La luce vuota illumina togliendo. Per converso l’autore, il pittore e l’alcoolista si sdoppiano e si fondono, si fondono e si sdoppiano in uno stesso luogo nei diversi tempi delle riflessioni. Nelle inibizioni di luce, mentre osservano gli oggetti, le camere, le case, e con queste rievocano il loro passato che è presente e viaggia con loro. Anch’esso risucchiato dalla luce vuota.
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Lo sdoppiamento dello spazio tempo permette la reversibilità delle azioni. Le domande sono arricchite da più verbi per una stessa richiesta. Il participio passato e il presente si intersecano. Le domande rivolte al futuro, si diramano nel passato, moltiplicando gli eventi accaduti secondo l’occhio dei doppi dell’autore. I congiuntivi e i condizionali, invece, hanno la funzione di determinare l’oggetto che è una risposta univoca alle richieste di senso: sì, no, vero, così sarebbe andata. Eppure non basta: tutte le risposte sono travolte dai coni spazio temporali che vorticano su se stessi. Ritornando su colui che formula il dubbio. Il quale non può fare altro che importarle da un monologo interiore, cioè proprio nel punto di partenza. Il complemento oggetto collassa sul partitivo relativo e le sue diramazioni: “che cosa è”, oppure perché “questo è o fa”. Ogni domanda si denuda mostrando una affermazione rivoltata che, come una perla, si inanella nella collana di una frase senza fine.
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Il romanzo è una poderosa sperimentazione stilistica che cerca un contatto con la divinità. È un tentativo di concepire una preghiera che sia essa stessa un corpo dell’ultramondano.
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69-70 Ma tu credi in Dio e io no, dice e dico, come dico sempre, che nessuno può dire nulla su Dio, ma è possibile pensare che senza Dio non esisterebbe niente perché, anche se Dio non è nulla, è distinto e separato dal Creato, che invece è sempre qualcosa di limitato, Lui è al di là del tempo e dello spazio, Lui è qualcosa che non possiamo immaginare, Lui non esiste, Lui non è una cosa, in altre parole non è nulla, dico e dico che nulla, nessuno esiste da sé perché è Dio a rendere possibile che qualsiasi cosa esista, senza Dio non ci sarebbe nulla, dico e Åsleik dice che allora che senso ha pensarla così? perché in tal caso non ci sarebbe nulla in cui credere, giusto? quale sarebbe lo scopo di credere nel nulla? e dico che in questo ha ragione, sì, su questo punto siamo d’accordo, ma è anche sbagliato dire che Dio è nulla, perché allo stesso tempo Lui è tutto, tutto quanto insieme, perché penso, dico, che dal momento che nulla sarebbe esistito senza che Dio lo avesse voluto, avesse fatto in modo che esistesse, che fosse, come dicono, quindi è Lui che è, è Lui la sostanza di tutte le cose, sì, di se stesso, di ciò che è il suo nome, infatti Dio dice di chiamarsi Io sono, dico Questo non lo capisco, dice Åsleik No, in effetti non lo capisco neanch’io, dico È soltanto qualcosa che pensi? dice Åsleik Sì, dico e poi nessuno dice più una parola e rimaniamo fermi dove siamo tenendo gli occhi abbassati Tu e la tua fede, dice Åsleik A volte non ti capisco, dice Ma nessuno può arrivare a Dio con il pensiero, dico Perché o uno avverte la vicinanza di Dio o non la avverte, dico Perché Dio è un’assenza molto lontana, sì, l’essenza stessa dell’essere, o una vicinanza molto stretta, dico Forse per te è così, dice Åsleik Ma non ha senso, dice e dico che no, non ce l’ha, eppure paradossalmente sì, dicono, c’è l’ha, e sia lui che io non siamo forse un paradosso per il fatto di trovarci lì dove siamo, perché in che modo sono connessi l’anima e il corpo, dico e Åsleik dice che be’, in effetti e rimaniamo in silenzio
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182 Li sai i nomi dei colori? dice Asle Sì, dice Sorella Non ce ne sono tanti, le dice Ci sono molti più colori dei nomi che danno ai colori, almeno di quelli che conosco io, le dice Sicuramente, dice Sorella Giallo, blu, bianco, dice Asle Rosso, marrone, nero, gli dice E viola, le dice Sì e tanti altri, dice Sorella e Asle dice che è così perché il colore blu della casa è completamente diverso dal blu del cielo, dal blu del mare o dal blu del suo vestito, le dice, le basta vedere con i suoi occhi Guarda com’è diverso il blu della casa da quello del tuo vestito, le dice e dice che i colori non sono mai uguali e cambiano sempre, dipende dalla luce, le dice, ecco perché è impossibile dare un nome a tutti i colori esistenti, ce ne sarebbero così tanti che nessuno riuscirebbe a imparare tutti questi nomi, dice e Sorella dice che comunque il blu è blu, dice, e il giallo è giallo, dice
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190 quando brilla il sole sembra quasi che ci siano soltanto due variazioni di grigio, ma quando c’è l’ombra le tonalità sono così diverse ed è come se i colori fossero sempre in movimento e al tempo stesso fossero fermi, sì i colori sono movimento nella quiete e quiete nel movimento, pensa Asle, per non parlare delle pareti della Rimessa, dove le assi che le compongono sono diventate completamente grigie e le spaccature del legno creano innumerevoli sfumature di grigio, pensa Asle e dice che la Rimessa è grigia, ma è anche un insieme di tonalità di grigio che non hanno un nome e Sorella risponde di sì e lui le stringe la mano con forza perché fa quasi paura che esistano così tante varietà di grigio e così tante varietà degli altri colori, si chiama blu, soltanto blu, ma di sicuro ci sono mille blu diversi, mille, almeno mille, no ce ne sono così tanti che è impossibile contarli, pensa Asle E di blu, sì, ce ne sono così tanti che è impossibile contarli, le dice Sì, dice Sorella Blu, gli dice Il cielo è blu, gli dice A volte, dice Asle
Provo un senso di frustrazione a scrivere della poesia “Il vento che verso” di Franco Fortini. Ho parlato di essa, oggi, a qualche anima generosa che mi ha sopportato per più di un’ora nel descrivere soltanto i primi dieci versi. Chi mi conosce dal vivo rileva una totale distonia rispetto al mio stile di scrittura nel momento in cui presento qualche verso, e in particolare ai miei due libri di poesie con immagini “Sogni Sospesi” e “Reciproche Rinascite”.
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Sono estremamente curate nello stile e nella versificazione, ma in origine, la maggior parte di esse, furono scritte di getto. Naturalmente poi, sono state riviste, curate, ampliate, analizzate allo spasimo, anche contro gli intenti iniziali, forzando l’evidenza di ciò che a me oscuro, mi guidò nella scrittura. Parto dalla prosodia e dall’oralità. Sono il peggior declamatore di una poesia, perché non la finisco mai: mi dilungo, la spezzo, la ripeto, la interpreto, la mastico. Creo versi miei variando gli stili solo da una riga, e se talvolta lo espongo in modo stenografico, d’improvviso mi esce un fiume in piena.
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Sono estremamente fisico: l’eventuale pubblico scapperebbe dopo cinque minuti, perché lo coinvolgo fisicamente, creando in base alle sue reazioni; ai suoi sguardi. Al suo respiro. L’interlocutore sente la mia presenza. Demolisco la barriera e il bello è che se parto in quarta, neanche me ne accorgo, e ogni volta, ogni volta, dopo qualche ora che ci ripenso, riprovo la vertigine: “come ho fatto?”
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In questi ultimi tre anni mi sono violentato a scrivere in prosa il romanzo “Dentro l’Apocalisse. Quando tutto è già accaduto”. E poi quest’anno passato di blocco e letture. E ora risento la voglia di ridiventare un amplificatore prosodico. È seducente, ma è pericoloso. Vi è il blocco apparente, ma è in realtà il mare ghiacciato nell’approssimarsi dell’estate. La scrittura di una poesia, difficile, ostica, voluta, aspirata, è in realtà la punta di un iceberg remoto dentro di sé: suono, richiamo e .. vento .. che alita il proprio nume interiore. La cosciente razionalità non è che un piccolo spicchio, eppure è tutto, perché la pianta del linguaggio in esso alberga.
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IL VENTO CHE VERSO
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Il vento che verso le piane dai valichi va
e assiderati lima lembi altissimi
e i nidi dai rigidi rami divide,
è il nostro padre
che vuole per noi veramente.
–
Per quanto tempo abbiamo riposato,
le vesti e i cibi sanno di corpi e fiati,
il fumo è salito dal tetto della casa,
il lume della lampada
ha data tutta la vecchia dolcezza.
–
Sciogli il cuore nebbioso, tu portalo via,
il tristo nido di meditata vecchiezza,
vento inflessibile, ruba la vizza veste,
gela la stilla,
spazia, disprezza, aprici.
–
Da tanto tempo abbiamo voluto piangere,
ma di pietà e di gioia, per le fronti avvenire.
Ora sappiamo che tutto nostro è il tempo,
ora noi stessi siamo i nostri figli,
–
dove in te, vento, penetriamo noi ultimi.
–
1956
***
La poesia “Il vento che verso” ha una quantità impressionante di topi, metafore, allitterazioni, consonanze, assonanze, metonimie, incroci multidimensionali, richiami che sottendono metriche antiche. Ognuno con un buon libro di versificazione e di retorica, le può scorgere per gioco. Nei grandi poeti come Franco Fortini, la densità degli strumenti prosodici e retorici usati in così pochi versi, non è immediatamente voluta. La conoscenza, l’esperienza, il duro lavoro creativo, bello e rigoroso, permette una loro costruzione inconscia, analogamente al pedalare, che è un procedimento automatico, utile ad agire con altri intenti più consci e razionali.
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La messa in atto del poetare, e dell’ascolto, ridotto anche nella lettura e nel mio scritto di adesso, che sento povero, in bianco e nero, e incatenato, per quello che potrei esprimere adesso davanti al lettore, come questa mia scrittura velocissima, ascoltando musica e osservando il tramonto che lambisce il mio volto nelle pieghe grigio violette, è l’inesauribile vibrazione che ognuno di noi ha in questo colloquio ininterrotto che parla dalla prima lallazione dei nostri capostipiti e che viaggia nel Vento.
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Si osservi la prima strofa e in particolare la consonante “v” del primo verso che imprime nel nostro orecchio il suono del vento che si muove dando l’idea della dinamicità con (v)erso che (v)alica da un dietro e un davanti, e quindi di(v)ide il nostro ambiente, in particolare il nostro vivere ritenuto la totalità di ciò che è: il nido.
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È il padre che (v)uole il (v)ero. Ciò che è vero è il vento che è il vivere del nostro animo, comune ad ognuno. E si osservino le assonanze che informano del verbo e della particolare azione del vento: il valico va – lima(re) lembi. La realtà prende forma attraverso il vento: la sua verità. Il vento va verso la verità.
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Già da questa strofa si rilevano gli intrecci sintattici e semantici, e qui abbiamo più metafore sovrapposte riguardo lo stesso poetare del vento che vers(o)ifica nel linguaggio la nostra origine, richiamandoci al vero.
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Si osservi lo stesso meccanismo complesso tra “fumo” e “lume”, dove entrambi salgono nell’aria domestica e in quella esterna, passando dalla luce all’oscurità. Delineano il passare del tempo, nonostante la nostra illusione del nido statico. Voler credere nel silenzio dell’immutabile riposo, che è invece l’assenza di pensiero nel silenzio e nella sordità. La volontà che volendo allontanarsi dal volere del vero che è il vento che va, cioè del moto, rivela invece l’odore stantio, prossimo a dileguare. Tale vento incatenato, vecchio perché passato, ci attrae nella sua dolcezza che sfuma tra il lume e il fumo.
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Ciò che divide nella prima strofa, lo spazio e il luogo, nella seconda, il lume e il fumo dividono il nostro prima dal poi, entrambi piccoli e vecchi.
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La terza strofa si sviluppa incorporando i vortici delle prime due. I corpi e i fiati stantii costituiscono la nebbia del cuore, che è appunto colui che nonostante la voglia di silenzio e di morte, risuona di continuo dentro di noi, nel verso che vuole il vero nel parlare. È il presente della parola che detta il verso: sciogli: libera: porta via l’illusione della stasi, cioè svelala, soffia il vero. Nel nido, ancora qui, i “nidi” dei “rigidi rami” (azioni e nostri pensieri, ritenuti la verità) sono immoti, perché meditati, mal masticati, e perciò deboli e flebili come nella prima strofa.
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Lo scarto che dilegua è la vecchiezza della “vizza veste” (ancora qui le mirabili cellule prosodiche che impongono il ritmo del nostro suono interiore, mentre leggiamo) che è meditata, cioè mediata, ovvero incatenata e perciò trista, di un suono che non gira intorno a sé.
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Il poeta invoca di gelare questo processo, cioè di avvilupparlo, di compierlo, attraverso lo spaziare, cioè lo spazio delle rime, nel dis-prezzare, ovvero nel mostrare che il vento è bilancia e misura dei valori nostri, e quindi al di fuori di esso. Impossibile appunto da prezzare. Si noti il richiamo che apre un’altra poesia nascosta tra la “dolcezza” e la “vecchiezza” nella seconda e nella terza strofa, e che lega i versi a tre a tre dalle prime strofe.
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Nel quarto verso, vi è un’altra poesia quasi autonoma (tutti giochi dell’eco del vento) tra il “tempo” del riposo e il “tempo” del pianto che fa scorrere la sequenza della pietà di sé e della gioia di essere tutti assieme, figli del vento e dell’avvenire. Questo legame che agglutina due grandi allegorie con i piani sovrapposti di <figlio e padre> e di <comunità e umanità>, riverbera nel “nostro” tempo, ricongiungendoci al destino che dispiega la vera condizione di esser figlio e ramo. È la foglia e il frutto che si muovono nel vento, dove ogni frase, ogni parola d’ogni lettore è nella sua presenza. L’ultimo verso in cui il vento è sempre in esso penetrato. Il destino del vento che è il vero.
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L’ultimo verso che penetra, riprende quello del primo che valica: la conoscenza della propria limitatezza, comune a ogni individuazione del suono nei versi che richiama il ritmo del cuore nel timbro poetico.
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E qui mi fermo, nell’impossibilità di esprimere il secondo passo di questo moto, che può esser solo presentato dalla mia voce in carne ed ossa.
Il ciclo di vita degli oggetti software, dI Ted Chiang,(The Lifecycle of Software Objects), 1ª ed., Burton (Michigan), Subterranean Press, 2010, traduzione di Francesco Lato, Odissea Fantascienza, Delos Books, 2011.
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È un’opera che vale la pena da leggere, perché ci costringe a riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni nel voler disporre degli altri.
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Ana Alvarado, dopo aver lavorato come istruttrice in uno zoo, accetta un nuovo incarico presso la Blu Gamma, un’azienda informatica che ha creato avatar denominati “digienti”, per i quali avrà la funzione di loro educatrice, in collaborazione con gli sviluppatori del software, tra cui Derek Brooks.
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La ditta concorrente SaruMech sviluppa un robot che consente ai digienti di interagire con i proprietari nel mondo reale. Altre ditte sviluppano ambienti virtuali più sofisticati dove si può giocare in modo più invasivo, sicché i clienti rendono indietro i loro giocattoli. Alcuni proprietari, però, sono entrati in empatia con i propri digienti, e per non farli sospendere (l’equivalente di una eutanasia), si costituiscono in una associazione per reperire fondi e sponsor, utili per sovvenzionare un loro aggiornamento software, tale da permettere una trasmigrazione in ambienti virtuali più avanzati di uso commerciale.
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Ana adotta Jan e Derek i due digienti Marco e Polo e per anni, insieme a pochi altri li tengono in attività, e trascorrono molto tempo con loro, come se fossero dei genitori. I digienti sembrano entrare in uno stato simile all’adolescenza. Ana e Derek non si avvedono che stanno traslando la loro personalità sia nel mondo virtuale sia con esperienze nel mondo fisico con i robot collegati ai digienti.
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Derek vorrebbe tramutarli in una “corporation”, cioè soggetti giuridici in tutto e per tutto. Ha timore che se lui morisse, vorrebbe che Marco e Polo non fossero sospesi. Nello stesso momento Jax il digiente di Ana, non vuole controllare un avatar a distanza, ma vuole essere lui un avatar, e quindi anche il robot. Soffre di solitudine e vuole che il suo io non sia scisso dal corpo.
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Mancano i soldi per mantenerli. La ditta Desiderio Binario contatta Ana per addestrare i digienti superstiti per trasformarli in oggetti sessuali che si adattino ai desideri dei clienti, diventando attraenti, affettuosi e appassionati di sesso. Un’altra possibilità è che Ana lavori per la Polytope mettendosi cerotti di droga per creare un temporaneo legame affettivo con i digienti, al fine di veicolarli nei loro schemi emotivi. Un’altra offerta proviene da alcuni sviluppatori per robot domestici che si occupano di intelligenza artificiale. Però questi ultimi non vogliono creare umani avatar, quanto una intelligenza superumana. Non vogliono dipendenti – corporation, ma prodotti super intelligenti.
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Ana è inorridita da tali proposte. Sa che l’esperienza è algoritmicamente incomprimibile e che ogni digiente merita rispetto.
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In questo romanzo vi è un dilemma etico: l’automa che incorpora sapere e comportamenti dettati da prescrizioni morali, ha titolo a porre relazioni sociali giuridicamente autonome con gli umani?
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Ana si rende conto di esser diventata una “madre” per Jax. Si chiede se suo “figlio” sia libero di sbagliare e di voler ridursi a oggetto sessuale, sottoponibile anche a tortura.
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se sceglie di lavorare nella società Desiderio Binario, il cervello chimicamente alterato sarà quello del digiente. Se lavorerà per la Polytope, il cervello chimicamente alterato sarà il suo.
Marco e Polo, i “figli” di Derek invece non vogliono che Ana scelga di lavorare per la Polytope, e in un certo vorrebbero sacrificarsi, affermando di essere consapevoli di ciò cui vanno incontro. E qui invito alla lettura per la prosecuzione della trama.
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Un processo di apprendimento può comportare la trasformazione del software in qualcosa di altro?
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Nel testo si avverte un senso di separatezza da parte dell’autore rispetto ai personaggi e degli umani verso i digienti a parte Ana ed Derek che intendono instaurare un legame empatico, solidaristico, filogenetico, teso ad attribuire la morale e l’etica ad oggetti. Posto che il mondo è gelido e brutto, si vuole che i digienti diventino soggetti umani, tali da essere portatori di diritti e doveri.
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Quest’opera sembra denotare una struttura di cicli software interrotti dove si ritorna alla stessa domanda che pone il dilemma. E si cerca di uscire. Si vede che l’autore è anche un programmatore. Poiché i personaggi virtuali tentano di uscire dai loro schemi di azione, la narrativa segue tale spinta. Le azioni sono ridotte a dialoghi. I tempi virtuali e reali risultano giustapposti e compressi. Da questo straniamento stilistico emerge nel modo più crudo il dilemma.
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La domanda etica è lo stesso programma che ritorna su se stesso. Un apparente paradosso che mostra il mutamento degli oggetti informatici sia nel mondo virtuale sia nelle loro applicazioni nel mondo dei senzienti.
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È un’opera strutturalmente incompiuta, perché il tema è posto al lettore, affinché sia spinto a fornire nuove parole sulla nozione di soggetto nel momento di deliberare su di sé e nel mondo.
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Il non detto di tale domanda è il limite che dobbiamo porre nel nostro di agire.
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Sembra un libro scritto da un digiente: una costellazione di appunti verso una avventura intellettuale sulla realtà, da parte di un io del corpo che viaggia ed è nei due mondi.
È motivo di imbarazzo la volontà di scrivere qualche
riflessione su “Vita e destino” di Vasilij Grossman nella ristampa del 2008,
Gli Adelphi, Milano. Semplicemente: è un capolavoro monumentale. È un viaggio
nell’animo umano: di ciò che più intimo abbiamo nello splendore e nella dignità
del vivere di ognuno e del suo morire. In questo libro vi è la compassione,
l’amore, l’odio, la bassezza e la meschinità, la crudeltà, l’assassinio voluto
e progettato, l’orrore, il razzismo, la guerra, i lager, i gulag, la fame, la
malattia, la speranza, la dolcezza, la voglia di amare se stessi, i propri
cari, i figli e le figlie.
–
Fu terminato nei primi anni sessanta del secolo scorso.
Vasilij Grossman combatté a Stalingrado durante la seconda guerra mondiale. Fu
un giornalista, un saggista, un romanziere, un lettore attento dell’animo
umano, un esperto di politica, e, per le sue esperienze, un profondo
conoscitore della guerra e dell’oppressione. Scrisse diari e libri sulle vittime
per opera dei tedeschi in URSS. Ebbe una lunga gavetta dura di sangue e di
letture, di vita e di morte. Padroneggiava gli stili dello scrivere. Profondo
conoscitore della letteratura russa e, nelle pieghe della censura sovietica,
anche di quella degli altri paesi.
Il libro fu censurato dall’Urss e anche da noi, qui in
Occidente. Da colui che visse Stalingrado, prima della guerra e dopo, e la
censura di Stalin e di Krusciov. Si sente la Russia che è prima e continua a
esserci nell’URSS. La Russia che non è solo dei russi, ma dei popoli che lì
dimoravano nelle pianure infinite. Riformula continuamente la nozione di
popolo, di epica, e della madre Russia. Non a caso è stato definito il libro
che segue “Guerra e Pace” di Tolstoj, che in realtà il titolo dovrebbe essere
“Guerra e vita”. Un libro imbarazzante per il mito del cuore del popolo russo e
anche del nostro, di noi (non gli italiani, perché combattevamo con i tedeschi)
alleati. Colpevoli di aver chiuso gli occhi sui lager e anche sulle epurazioni
che dopo la guerra l’URSS intraprese contro coloro che professavano la
religione ebraica.
–
Vasilij Grossman è
consapevole che il processo storico sociale del nazismo non può essere
semplicemente equiparato a quello del comunismo, ma, a costo di rischiare la
vita o di finire povero e isolato (e ciò accadde, dopo i fasti e gli onori per
le sue attività di guerra e di scrittura durante la guerra e nei primi anni
successivi ad essa), volle affrontare la verità: la rivoluzione russa con
Stalin e con l’URSS è stata tradita. I popoli dell’URSS dopo il nazismo vivono
un comunismo che tale non è, perché in realtà ha un elemento comune con coloro
che sconfissero in guerra: il totalitarismo che è basato sulla violenza. Ma,
secondo Vasilij Grossman, l’uomo ha un anelito irresistibile alla libertà,
perché ogni uomo è unico e irripetibile.
–
“Vita e destino” fu ripescato
per caso, in una sola copia. E fu da monito per tanti scrittori all’epoca
dell’URSS, come i fratelli Stugarskij che creavano copie nascoste e frammentate
dei loro testi, per non farle sparire e diffonderle comunque, anche inviandole
a editori che le avrebbero rifiutate (molti per non finire nei Gulag), con la
convinzione che comunque sarebbero girate comunque.
–
Il romanzo è uno struggente, continuo, poetico inno alla vita. La vita
senza aggettivi, senza idee che pretendono di giustificarla, senza utopie che
presumono darle uno scopo: la vita come dono. Questo lungo canto di sofferenza
è una possente epica lirica che travolge qualsiasi narrazione ideologica,
mostrandola piccola, statica e piatta nella sua visione del mondo.
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“Vita e destino” fa sentire i popoli delle steppe, tutti,
non solo i russi e nelle sue pagine vi sono tratti altissimi di epica, lirica,
mito, riflessioni filosofiche ed etiche profonde e capitali.
È impressionante la variazione degli stili letterari che
compaiono in corrispondenza degli eventi, dei dialoghi e delle personalità dei
protagonisti che sono tanti e tanti: sovietici e, ed è qui lo scandalo, anche i
tedeschi. I tedeschi nella loro umanità come quella dei sovietici, sia nella
loro terribile crudeltà sia nelle speranze, e nelle paure di alcuni.
–
Non è un libro da leggere in modo episodico e distratto. Il
lettore sente i protagonisti vicino, nella loro carne, nel loro respiro, nelle
loro gioie e dolori. Meravigliose le pagine dello struggimento d’amore, e
terribili quelle delle azioni di guerra, vere, dure, crude, senza retorica. Ma,
ancora di più, quelle relative ai lager e ai gulag. E da lì si comprende,
perché nessuno, fino a che Vasilij Grossman fu in vita, volle pubblicare il
romanzo. NESSUNO, ovunque.
–
Impossibile trascrivere un frammento di questo capolavoro:
non rende giustizia a questo monumento sull’umanità. Veramente: questo è un
libro che va vissuto integralmente, con tutto il proprio cuore.
Un libro destinato a
non uscire secondo le stesse intenzione dei due scrittori. Dai contenuti e
dalla trama, quando iniziarono a comporlo nel 1967 nel tempo dell’Unione
Sovietica, e alla luce delle enormi difficoltà per pubblicare le loro
precedenti opere, i fratelli Strugackij sapevano che sarebbero incorsi nella
censura in una previsione ottimistica, se non in carcere, o direttamente nei
Gulag. Le esperienze dei loro colleghi scrittori erano evidenti.
Come per i precedenti
libri, spedivano in prima lettura ad editori fidati, i quali rispondevano di
non poterli pubblicare, perché, nonostante i temi fantascientifici, lo stile
che oggi noi diremmo distopico, i temi delle fiabe, la descrizione del vivere
russo e dei popoli all’interno dell’URSS, vi erano critiche
all’amministrazione, al vivere civile, alle leggi, agli scopi e alla logica
stessa di un apparato che si diceva rivoluzionario da anni e anni.
–
Lo stile delle loro
opere, e di questo romanzo, è ricco di variazioni tra il favolistico,
l’umoristico, accompagnato da un’analisi fredda dei meccanismi del consenso,
del potere, dell’asservimento. Nonostante che i temi siano dissimulati e
narrati con il meccanismo del paradosso e dell’ironia, la critica emerge netta
e dura. Anzi, proprio per lo stile apparentemente leggero, pazzo a tratti, e
quasi da cabaret, che aveva la funzione di occultare la critica radicale
all’URSS e in più in generale alla costruzione dei miti usati dal potere
politico ed economico per asservire le persone, per contrappasso, si traduceva
in una condanna senza appello.
–
Ecco perché spedivano
comunque le loro opere: anche nel diniego, le copie passavano in una cerchia di
lettori professionisti sempre più ampia, in modo che poi qualcuno di loro fosse
stato in grado di stamparlo all’estero. Per molte delle loro opere così
accadde. I due scrittori assunsero precauzioni da vere spie dei romanzi gialli,
cercando di nascondere il libro e le versioni corrette. Lo rimaneggiarono fino
al 1973. Poi finalmente riuscirono a pubblicarlo dopo il crollo dell’URSS, ma
anche qui dissimulando in due parti, e riducendolo. Non si fidavano degli
apparati che erano ancora presenti nella nuova Russia. Nel 2000 finalmente uscì
una versione unica, ricorretta e limata.
–
La “città condannata”
è l’URSS, anzi è ogni agglomerato statuale che dopo un presunto processo
rivoluzionario, per tentare di sopperire alla contraddizione tra le teorie del
mutamento e la volontà di rimanere stabilmente nei centri del potere, rende
vuoti gli obiettivi e gli scopi, delineando la dichiarazione di una terra
promessa sempre di lì da venire, per un uomo nuovo e una società nuova. Tutto è
subito in vista della società dell’avvenire, e ognuno è un ingranaggio. I fratelli Strugackij mostrano che
l’insensatezza, l’assenza di ragionamento, le parole d’ordine vuote sono gli
strumenti razionali e coerenti del potere che asservisce e che ha l’unico scopo
di mantenere se stesso, vuoto, e rivestito di una promessa sempre futura.
–
Un libro complesso,
durato trenta anni. Molte caratteristiche dei personaggi, dai tic, ai modi di
dire ritornano continuamente, come un leit motiv di annuncio dei personaggi
delle opere di Richard Wagner. Questa apparente ridondanza è dovuta anche alla
ripresa di temi e dialoghi nell’arco di decenni, con pause dovute alla
scrittura di altre opere. I personaggi sono descritti in modo fisico, carnale, dalla
sporcizia ai tic. Si ha l’impressione di averli vicino, fino a sentire la puzza
del loro sudore. Si conosce anche il modo di vivere dei russi, ma della Russia
profonda, dalle loro bevande, agli strumenti di lavoro agricolo e di fabbrica, ai
carri, e agli indumenti, dai riti e dalle ricette tipiche, anche dei popoli non
russi dell’URSS. Questo libro mostra il grande arcipelago dei popoli di questa
Unione imperiale. La loro commistione e l’evidenza di antichi conflitti.
–
Sono trattati i temi
dell’amministrazione, dell’informazione, della violenza, della tortura, della
carestia, della mancanza di libertà, del razzismo, dello sciovinismo, e del
maschilismo: le donne sono trattate molto male, proprio da coloro che indicano
nell’esperimento (la società rivoluzionaria comunista, socialista, non ha
importanza, anche totalitaria in modo astratto) la volontà di perseguire l’uguaglianza
per un uomo e una donna nuova.
Lo stile dei due
scrittori è rivestito da una sintassi brillante che avvolge il lettore, e lo
spinge ad andare avanti con un ritmo talvolta da fuochi d’artificio, oppure
lento e riflessivo. Vi sono variazioni continue in un tema di fondo che
fornisce il ritmo della scansione degli eventi. Le allegorie sono originali e
comiche.
–
È il loro libro:
l’opera che secondo gli autori non sarebbe mai potuta uscire. Completamente
inattuale. E lo è ancora oggi, perché le riflessioni contenute sono vive nel
nostro presente.
Secondo le analisi di
questi anni il libro è catalogato nel settore della distopia. I due fratelli
nel 1967 non avevano in mente tale termine. Comunque il libro è molto di più: uno
scrigno che via via nelle sue secrete, mostra l’aberrazione di ciò che è
ritenuto “normale”.
Un libro
godibilissimo, ironico, d’avventura, e denso di temi.
Vi è un’analisi
approfondita sul potere che asservisce, descritto con una ironia dissacrante:
per togliere regalità al re, occorre che sia visto nelle sue concrete fattezze:
ridicolo e nudo. La risata disvela l’orrore della apparente normalità e
dell’accettazione di valori imposti e pienamente contraddittori nella loro
formulazione.
–
I fratelli Strugackij
perfezionano il loro stile, talvolta poetico, nel mostrare la normale violenza
dell’assurdo che è il nucleo dell’attività politica e di indirizzo che pervade
ogni amministrazione, fino a ogni modo di vivere del singolo. La denuncia di
ciò è mostrata attraverso il lato comico dei tratti caratteriali dei
protagonisti, oltre alle loro goffe e patetiche imprese.
È un libro che prefigura gli eventi futuri, offrendo un tono di
drammatizzazione agli eventi quotidiani e ripetitivi. La noia quotidiana
diventa il fulcro per lo straordinario.
–
“[…] E ormai il dado era tratto!
Il tempo di fumare due o tre millimetri di sigaro, stirarsi, ascoltare
l’accordo degli strumenti all’auditorium di Hilversum, e Kees fu preso
nell’ingranaggio. Da quel momento ogni istante contava assai più di tutti
quelli che lui aveva vissuti fino allora, ogni suo gesto assumeva la stessa
importanza di quelli degli uomini di Stato, dei quali i giornali annotano le
minime sfumature. […]”
–
“[…] «Cerchi di capire bene, se
non è troppo ubriaco, quello che le dirò… Innanzitutto voglio che lei sappia
che non sto tentando di comprarla… De Coster non compra nessuno, e se le ho
confidato tante cose è perché la so incapace di andare a raccontarle… Chiaro?
Adesso mi metto nei suoi panni… Di fatto lei non ha più un soldo e,
conoscendo quelli dell’Immobiliare, si riprenderanno la casa alla prima
scadenza inevasa… Sua moglie non glielo perdonerà… Tutti crederanno che lei
sia stato mio complice… Sì, potrà anche trovare un altro posto, ma sarà
comunque ridotto alla stessa situazione di suo cognato Merkemans… Ho mille
fiorini in tasca… Se rimane qui non posso niente per lei… Non saranno
cinquecento fiorini a cavarla d’impaccio… Ma se per caso prima di domani le
riuscirà di capire… Tenga, vecchio mio!». […]”
–
“[…] «Ora, se non ha troppo
sonno, può accompagnarmi fino al treno… Ho un biglietto di terza classe…».
Era un vero treno della notte, sonnacchioso, sordido, abbandonato in fondo a un
binario. Il capostazione, col berretto rosso, aspettava solo di aver dato il
segnale per andare a letto. […]”
–
Rimasto solo, Kees fantastica sulle sue rivincite. Leggendo si avverte fisicamente
il malessere e la vertigine per l’alcool e anche per lo svelamento della sua posticcia
morale di quindici anni che cominciò a vacillare. I pensieri vorticarono
assieme al senso dell’equilibrio nel letto. Il lettore è coinvolto in una
tensione, in cui gli eventi vorticano continuamente in un ritmo serrato. Popinga
Kees inizia a scrivere sul taccuino rosso come se fosse una partita a scacchi,
e anche per mantenere la memoria della sua inconscia paura di rimanere
nell’anonimato.
–
“[…] Tutto poteva permettersi!
Poteva essere tutto ciò che desiderava ora che aveva rinunciato a essere a ogni
costo, per tutti quanti, Kees Popinga, procuratore!
[…]”
–
Simenon usa molto bene i particolari. Il muro di calce, le luci
accecanti nel garage segreto dove rubano le macchine. Il caffè bollente. L’uomo
alto con la tuta. Si avverte la corporeità nelle descrizioni così
apparentemente semplici, con un solo aggettivo. L’atmosfera cupa e fumosa del
bar, della vita quotidiana, prefigura ciò che pensano i protagonisti. Il rimo
della scrittura conferisce il movimento e determina una struttura narrativa,
corposa, colorata, gonfia. Di sangue e carne, con tatto, sapori, odori.
–
“[…] Kees non aveva voglia di
dormire. Andò ad affacciarsi alla finestra, o per meglio dire all’abbaino, e
lasciò errare lo sguardo su un paesaggio straordinario: in lontananza prati
ammantati di neve, poi rotaie, fabbricati, travi di ferro, ammassi confusi del
materiale di una grande stazione, vagoni senza locomotiva che si muovevano
piano piano, locomotive senza vagoni che segnavano rabbiose il passo, fischi,
grida, e sparuti alberi sfuggiti al massacro, che disegnavano mesti il nero
viluppo dei rami contro un cielo diaccio. […]”
–
“[…] Lui era più forte di tutti
loro, incluso Louis, inclusa Jeanne Rozier… Tutta la banda era come
prigioniera del garage, come maman lo era della casa, Claes della clientela e
di Éléonore, Copenghem del circolo degli scacchi di cui ambiva la presidenza…
Lui, Popinga, non era prigioniero di nulla, di nessuno, di nessuna idea, di
niente di niente, e la prova…
[…]”
–
Il protagonista varia continuamente il suo agire in modo equivalente al
gioco degli scacchi, nel girare gli alberghi, fumare i sigari e le pipe;
portare una valigetta. Cambiare sempre. Metodicamente: evitare i metodi.
–
“[…] «Insomma, ho continuato a
essere procuratore per abitudine, marito di mia moglie e padre dei miei figli
per abitudine, perché non so chi ha deciso che così doveva essere e non
altrimenti. «E se io, proprio io, avessi deciso altrimenti? «Lei non può
immaginare fino a che punto, una volta presa questa decisione, tutto diventi
semplice. Non occorre più occuparsi di quel che pensa il Tale o il Talaltro, di
quel che è permesso o proibito, dignitoso o meno, corretto o scorretto.
[…]”
–
“[…] «Ma possibile che nessuno capisca
come ’prima’ qualcosa in me non funzionava? ’Prima’ se avevo sete non osavo
dirlo, né tanto meno entrare in un caffè. Se avevo fame, e mi offrivano
qualcosa in casa di amici, per educazione mormoravo: «“No, grazie!”. «Se mi
trovavo su un treno, mi facevo obbligo di fingere di leggere o di guardare il
paesaggio, e non mi sfilavo i guanti anche se mi stringevano le dita, perché
così prescrivono le buone maniere.
[…]”
–
“[…] «Dunque, non sono né pazzo
né maniaco! Solo che a quarant’anni ho deciso di vivere come più mi garba senza
curarmi delle convenzioni né delle leggi, perché ho scoperto un po’ tardi che
nessuno le osserva e che finora sono stato gabbato.
[…]”
La stessa città di Parigi offre occasioni per la discesa all’inferno.
L’attentato al suo io paranoico, nella determinazione sovrastimata dell’immagine
di sé. Riceve colpo su colpo: la truffa alla sua intelligenza, l’indifferenza,
e la costrizione alla normalità che odiava.
–
Si rende conto di non poter esprimere la follia, essendo costretto nel
racconto: avverte il carcerario che si avviluppa attorno a ogni suo intento.
Destinazione stelle o La tigre della notte (titolo originale The Stars
My Destination o Tiger! Tiger!) è un romanzo di fantascienza del 1956 di Alfred
Bester (New York, 18 dicembre 1913 – Doylestown, 30 settembre 1987), versione
in italiano del 2014 – Oscar Mondadori, Milano, traduzione di Vittorio Curtoni.
–
Questo libro fu un successo
editoriale e mantiene, ancora oggi, una freschezza di stile e di ritmo
narrativo, nell’alternare idiomi gergali, neolinguismi, e schermaglie
diplomatiche tra i protagonisti. Alfred Bester, uno scrittore di tutto rispetto
nei romanzi e nei racconti, ha approfondito le nozioni di chimica e di
astronomia, innestandole entro temi fantascientifici lungo il corso della narrazione.
–
Le vicende dei protagonisti sono
usate nell’evocare il pericolo di disequilibrio per l’intero pianeta nel caso
di una supremazia militare di un unico apparato di potere, e non a caso
risaltano riferimenti velati alla “Guerra Fredda” di quegli anni.. Vi è anche
una dialettica tra una posizione iper individualistica, nell’uso dello <<jaunto>>,
il salto spaziale tra un luogo della terra e in un altro, che cerca di essere
controllato dalle autorità per non generare la disgregazione dei legami sociali
e affettivi tra le persone.
“[…] “Abbiamo stabilito che la
capacità del teletrasporto è collegata coi corpi di Nissl, o Sostanza Tigroide
delle cellule nervose. La presenza della Sostanza Tigroide è facilmente
dimostrabile col metodo di Nissl, usando 3,75 gr di blu di metilene e 1,75 gr
di sapone di Venezia disciolti in 1000 cc d’acqua. “Se la Sostanza Tigroide non
appare, il jaunto è impossibile. Il teletrasporto è una Funzione Tigroide.”
(Applausi). Chiunque era capace di jauntare, purché sviluppasse due facoltà:
visualizzazione e concentrazione. Occorreva visualizzare, in maniera completa e
precisa, il punto d’arrivo; e occorreva concentrare l’energia latente della
mente in un unico flusso, per poter arrivare. Soprattutto, era necessario avere
fede… la fede che Charles Fort Jaunte non ritrovò mai. Bisognava credere di
poter jauntare. Il minimo dubbio avrebbe bloccato la spinta mentale necessaria
per il teletrasporto.
[…]”
–
L’assenza di una collaborazione
tra gli individui, comporta le attività di sciacallaggio e quindi la fame per
tutti. Dall’altro lato, la sovra determinazione di ogni aspetto del vivere di
ognuno, in base alla sua capacità di spostamento, innesta logiche di potere che
oltrepassano i conflitti del pianeta terra, per arrivare a quelli dei satelliti
esterni del sistema solare.
–
Quando tutto si vuole controllare,
ecco che nel residuo di ciò che è considerato uno scarto, avviene l’anomalia.
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“[…] Gully Foyle io son ognora e
Terra è la mia nazione. Lo spazio profondo è mia dimora e la morte è la mia
destinazione. Era Gulliver Foyle, meccanico di terza classe, trent’anni,
ossatura robusta, fisico coriaceo… alla deriva nello spazio da centosettanta
giorni. Era Gully Foyle, oliatore, ripulitore, manovale; troppo placido per i
guai, troppo lento per il divertimento, troppo vuoto per l’amicizia, troppo
pigro per l’amore. I tratti letargici del suo carattere spiccavano persino nei
registri ufficiali della Marina mercantile:
FOYLE, GULLIVER – AS-128/127: 006
CULTURA: Nessuna CAPACITÀ: Nessuna MERITI: Nessuno RACCOMANDAZIONI: Nessuna
(NOTE PERSONALI) Uomo dotato di forza fisica e di un potenziale intellettuale
bloccato dalla mancanza di ambizioni. Minimo spreco di energie. Lo stereotipo
dell’uomo comune. Forse uno shock inatteso potrebbe risvegliarlo, ma il reparto
Psicologia non riesce a trovare la chiave d’accesso. Non raccomandato per
ulteriori promozioni. Foyle è finito in un vicolo cieco. Era finito in un
vicolo cieco. Si era accontentato di veleggiare da un momento all’altro
dell’esistenza per trent’anni, come una creatura dalla pesante corazza,
flaccido e indifferente… Gully Foyle, lo stereotipo dell’uomo comune; […]”
–
“[…] Così, in cinque secondi,
Foyle nacque, visse, e morì. Dopo trent’anni di esistenza e sei mesi di
torture, Gully Foyle, lo stereotipo dell’uomo comune, non esisteva più. La
chiave girò nella serratura della sua anima e la porta si aprì. Ciò che emerse
cancellò per sempre l’uomo comune. «Mi hai lasciato qui» disse Foyle, con
un’ira che cresceva lentamente. «Mi hai lasciato a marcire come un cane. Mi hai
lasciato a morire, Vorga… Vorga-T:1339. No. Me ne andrò di qui, io. Ti seguirò,
Vorga. Ti troverò, Vorga. Te la farò pagare. Ti farò marcire. Ti ucciderò,
Vorga. Ti stenderò secca.» L’acido dell’ira si diffuse nel suo corpo, divorando
la pazienza bruta e l’indolenza che avevano fatto di Gully Foyle uno zero,
dando il via a una reazione a catena che lo avrebbe trasformato in una macchina
infernale. Adesso, Gully Foyle aveva una missione. «Vorga, ti stenderò secca.»
[…]”
–
L’istinto di sopravvivenza e la
volontà di vivere, quando si innestano consapevolmente nel proprio io, causano
l’esigenza di una mutazione.
–
Il ritmo del libro è avvincente. I
colpi di scena seguono un percorso logico coerente tra le vicende astro
politiche e i viaggi interiori di ognuno.
–
“[…] «E più o meno non sai fare
altro… il che significa che mi sarai inutile, al di là della forza bruta.» «Non
dire fesserie, ehi» ribatté lui, rabbioso. «Non le sto dicendo, io. A cosa
serve lo scalpello più robusto del mondo se non ha una punta affilata? Dobbiamo
affilare il tuo cervello, Gully. Devo educarti, uomo, tutto qui.» Lui si
arrese. Capì che Jisbella aveva ragione. Doveva prepararsi, migliorarsi, non
solo per fuggire da lì, ma anche per sistemare la Vorga. Jisbella era figlia di
un architetto e aveva ricevuto un’istruzione di prima qualità. La inoculò a
Foyle, insaporendola con la cinica esperienza di cinque anni nel mondo della
criminalità. Ogni tanto, lui si ribellava a quel lavoro duro, e scoppiavano
litigi sussurrati, ma alla fine lui chiedeva scusa e ricominciava. […]”
–
“[…] «Hai detto che ti piacerebbe
potermi portare in tasca, così potrei pungolarti quando perdi il controllo. Hai
qualcosa di migliore, Gully, o di peggiore, povero amore mio. Hai la tua faccia.»
«No!» disse lui. «No!» «Non potrai mai perdere il controllo, Gully. Non
riuscirai mai a bere troppo, mangiare troppo, amare troppo, odiare troppo…
Dovrai tenerti sempre in una morsa ferrea.» «No!» insistette lui, disperato.
«Si può trovare un rimedio. Può farlo Baker, o qualcun altro. Non posso
andarmene in giro con la paura di provare qualche emozione perché mi
trasformerei in un mostro!» «Non credo possa esistere un rimedio, Gully.» […]
–
Le protagoniste femminili hanno
la novità, rispetto a romanzi di fantascienza del periodo, di assumere il ruolo
di trasformare le personalità dei protagonisti, con poteri autonomi rispetto ai
maschi. Non assumono il ruolo di contorno, sebbene ogni tanto lo scrittore
indulge in stereotipi “romantici”.
Donne e uomini perseguono la
vendetta e il potere.
–
“[…] «E tu non scappi mai?» «Mai.
Le fughe sono per gli storpi mentali. Per i nevrotici.» «I nevrotici. La parola
preferita di chi si è rifatto una cultura. Tu sei così colto, vero? Così calmo.
Così equilibrato. È tutta la vita che stai scappando.» «Io? Mai. È tutta la
vita che caccio.» «Scappi. Hai mai sentito parlare della fuga d’attacco?
Fuggire dalla realtà attaccandola, negandola, distruggendola? Ecco cosa hai
fatto.» «Fuga d’attacco?» Foyle sussultò. «Vuoi dire che sono fuggito da
qualcosa?» «È ovvio.» «Da cosa?» «Dalla realtà. Non puoi accettare la vita
com’è. La rifiuti. La attacchi, cerchi di farla entrare a forza nei tuoi
schemi. Attacchi e distruggi tutto ciò che ostacola il tuo folle schema
mentale.» Robin alzò il viso solcato dalle lacrime. «Non lo sopporto più.
Voglio che tu mi lasci libera.» […]”
–
“[…] Dagenham sorrise. «Sì. Per
quanto possiamo difenderci dall’esterno, restiamo sempre fregati da qualcosa
che viene dall’interno. Non ci si può difendere da un tradimento, e tutti noi
ci tradiamo di continuo.» […]”
–
Ci si sente trasportati in questo libro, anche fisicamente nelle
emozioni che avvertono i protagonisti, in particolare della vendetta. La
frustrazione. La vendetta che non può mai essere compiuta, risarcita. Se la si
vuole integralmente, essa deve consumare anche il vendicatore. Poiché
l’assoluto soddisfacimento esige che il vendicatore sia tutto all’interno di
tale atto di volizione, e che il destinatario che muove la vendetta, sia entro
in essa, allora il processo di riequilibrio esige che la sua fine, cioè il suo
scioglimento, annulli il ruolo e del vendicatore e del destinatario. E se è
integrale, integralmente devono finire entrambi.
–
E vi sono passi in cui si arrivano anche a visioni poetiche.
–
“[…] Il colore, per lui, era
dolore; caldo, freddo, pressione; sensazioni di altezze insopportabili e
profondissimi abissi, di tremende accelerazioni e compressioni che
schiacciavano il corpo: IL ROSSO LO ABBANDONÒ VELOCE. LA LUCE VERDE ATTACCÒ.
L’INDACO ONDEGGIAVA CON NAUSEANTE VELOCITÀ, COME UN SERPENTE SCOSSO DAI
BRIVIDI.
Per lui, il tatto era gusto: la
sensazione del legno era acida e gessosa nella sua bocca, il metallo era sale,
la pietra era agrodolce sotto le sue dita, e il vetro gli intorpidiva il palato
come pasticcini troppo ricchi. L’odorato era il tatto: la pietra calda era
velluto che gli carezzava le guance. Fumo e cenere erano una stoffa ruvida che
gli grattava la pelle, quasi la stessa sensazione prodotta dalla tela bagnata.
Il metallo fuso aveva l’odore di colpi che gli martellavano il cuore, e la
ionizzazione scatenata dall’esplosione del PyrE aveva riempito l’aria di ozono,
e l’ozono era acqua che scorreva fra le sue dita. Non era cieco, né sordo, né
privo di sensazioni. Percepiva sensazioni, ma filtrate da un sistema nervoso
stravolto e mandato in corto circuito dallo shock dell’esplosione. Soffriva di
sinestesia, quel raro stato in cui la percezione riceve messaggi dal mondo
esterno e li riferisce al cervello, però nel cervello le percezioni sensoriali
vengono confuse tra loro. […]”
–
Di più non si può approfondire, almeno a questo livello, perché vi sono
colpi di scena che mantengono alta la tensione nella lettura. È un libro che ha
la capacità di trasformarci in adolescenti nudi verso le nostre sensazioni più
forti, lasciate di solito nello sfondo del nostro intimo, che però sono sempre
lì.. in attesa.
LE FINESTRE DI FRONTE di Georges Simenon, 1985, Adelphi, Milano.Traduzione di Paola Zallio Messori
Siamo a Batum, sul Mar Nero, nei primi anni di Stalin. Adil
bey è il nuovo console turco. Comincia a guardarsi intorno. Entra nel suo
ufficio, «sporco di quella sporcizia lugubre che si ritrova nelle caserme e in
certi uffici pubblici». Dà un’occhiata fuori e vede due persone affacciate alla
finestra di fronte. «Prendevano il fresco, nell’oscurità, in silenzio». Più
tardi vedrà il punto rosso di una sigaretta nel buio di quella finestra. Adil
bey avverte subito un invincibile disagio, in quella città desolante, dove
tutto lo respinge, dove ogni significato è dubbio e sfuggente. E si sente preso
in una rete: sguardi, mezze parole, contrattempi, scene intraviste. Capisce di
essere un insetto condannato a contemplare la ragnatela che lo imprigiona.
Continua a guardare le finestre di fronte, con maggiore curiosità di quella che
mostrano gli altri a osservare lui. Spia le spie, e intanto anche il suo corpo
sembra intaccato, una cupa rabbia si unisce alla paura
–
Ogni cittadino controlla l’altro. I russi controllano i georgiani,
ognun di loro è sorvegliato dalla polizia segreta. L’uscita e l’entrata dalla
città doveva essere certificata. Un documento per richiedere il servizio di una
cameriera, di un idraulico, di una segretaria. Il console lavora traducendo le
file della persona, in atti amministrativi che quasi mai vengono accolti dalle
autorità sovietiche. Fogli che richiamano i fogli, dove le persone si
trasformano in timbri e in firme.
–
Tutti hanno paura di essere infettati dall’accusa di cospirare contro il comunismo, contro i russi, contro l’Unione Sovietica. Lo stile di Simenon è diretto, immaginifico a partire però dalle sensazioni fisiche dei protagonisti. È un libro scritto nel 1933 e nel mondo non si conosceva appieno cosa stesse diventando con Stalin, l’Unione Sovietica. Georges Simenon ha una capacità visionaria eccezionale da configurare realisticamente ciò che negli anni a venire sarebbe diventata la prassi del controllo carcerario di ogni aspetto della società sovietica. Se si pensa che stiamo parlando di uno scrittore che riusciva a scrivere decine e decine di pagine in un giorno solo, si rimane meravigliati dalla sua capacità sovrannaturale, quasi, di narrare intrecci e dialoghi in parallelo, man mano che sviluppava in tempo reale la storia.
–
“[…] Per lui la città era qualcosa di vivo, una persona che
si era rifiutata di accoglierlo, o meglio che lo aveva ignorato, lo aveva
lasciato vagare per le strade, tutto solo, come un cane rognoso. La detestava,
come si detesta una donna che si sia corteggiata invano. Si accaniva a
scoprirne le tare. Era una passione triste, senza contropartite. […]”.
–
“[…] «Da tre settimane a Batum non si trovano patate. E
intanto all’Hôtel Lenin, dove alloggiano gli alti funzionari, servono caviale
fresco, champagne francese, kakliks». «È per gli stranieri». «Ma se non ne
arrivano due in tutto l’anno!». «E da voi, i ministri non mangiano meglio degli
acquaioli?». […]”
–
Le donne, e stiamo parlando del 1933, tutte cercano di sopravvivere,
di ragionare, e di tessere strategie di alleanze, affari, e fughe. Si rimane
sinceramente ammirati dal rispetto che Georges Simenon ha della donna, raffigurandola
autonoma nelle sue deliberazioni in modo secco, non compiacente, ma reale allo
stesso titolo che vale per gli uomini.
–
“[…] non fiatare! Ci si fa la propria tana. Ci si crea le
proprie abitudini. Si arriva persino a non pensare più se non a sprazzi, in
modo vago, come quando si sogna. […]”
–
“[…] Nella notte aveva sudato abbondantemente benché fosse poco coperto, una cosa che gli capitava sempre più spesso. Talvolta si chiedeva se avesse mai sudato in quel modo, tempo addietro. Frugava nei ricordi ma non rammentava di essersi qualche volta svegliato madido di sudore in lenzuola umidicce. Soprattutto non rammentava di essersi alzato più stanco della sera prima. Ebbene, ora succedeva tutti i giorni. Restava un bel po’ con lo sguardo fisso davanti a sé prima di sentirsi dentro la forza di vivere. Era imbruttito; aveva la bocca amara, di un amaro che non conosceva. […]”
–
Interessante rilevare la critica indiretta agli italiani, quando scrive che il console italiano e la consorte ritornano in patria per Natale, con l’imbarcazione di nome “Aventino”. In quell’anno la dittatura vista in modo ambivalente nel mondo era quella italiana. Ed è sottile la critica di Georges Simenon sugli italiani che avviano rivoluzioni finte, e che le vere rivolte sono rimandate con un ritiro diplomatico che sa di fuga. L’immagine di un popolo cerchiobottista, sempre incline al tradimento.
–
“[…] E poi c’era il mare, che non assomigliava affatto a un mare né a qualcos’altro. Era un grigiore sconfinato, un vuoto che esalava soffi umidi: non si formavano onde sulla riva, non si udiva lo sciabordio. Era piatto come uno stagno, costellato di migliaia di piccoli cerchi disegnati dalle gocce di pioggia, migliaia di migliaia, fino all’orizzonte, fino in Turchia e forse più lontano ancora. […]”
–
“[…] Era rimasto solo, Adil bey, nella città battuta dalla
pioggia, popolata di gente rintanata dietro le finestre oscurate da cartoni al
posto dei vetri. […]”
–
“[…] Ridevano ancora, dal capitano, quando Adil bey, tornato
nella sua cabina, girò l’interruttore elettrico e meccanicamente guardò l’oblò,
quasi a sincerarsi che non ci fossero più finestre di fronte. […]”
–
Un libro che offre all’inizio un virus che potrebbe aggredire ognuno dall’esterno dagli occhi del vicino, dalle strade malsicure, per le quali si è obbligati ad uscire, non avvertendo invece che il veleno sta dentro casa.
Le mie sono solo risposte a un tuo continuo richiamo…