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§CONSIGLI DI LETTURA: GLI INVISIBILI

Gli invisibili (De Usynlige – 2013) -di Roy Jacobsen, Traduttore: Maria Valeria D’Avino, Iperborea, 2022, Milano

89-90 A un tratto non si sentono più le grida degli uccelli. Nessun fruscio tra l’erba, nessun ronzio d’insetti. Il mare è piatto, il gorgoglio dell’acqua tra i ciottoli del bagnasciuga si è fermato, non c’è un solo rumore tra tutti gli orizzonti, sono al chiuso. Un silenzio così è molto raro. Ancora più strano è sentirlo su un’isola, dove fa più effetto di un silenzio che cali all’improvviso in un bosco. Che un bosco sia silenzioso capita spesso. Su un’isola il silenzio è così insolito che la gente smette di colpo di fare quel che faceva e si guarda intorno per capire cosa succede. Il silenzio li stupisce. È misterioso, quasi un brivido di attesa, un forestiero senza volto che percorre l’isola a passi felpati, avvolto in un mantello nero. La sua durata dipende dalle stagioni, il silenzio può essere molto lungo nel gelo dell’inverno, come quando il mare si era ghiacciato, mentre d’estate è sempre una brevissima pausa tra un vento e l’altro, tra l’alta e la bassa marea, o il miracolo di quel momento in cui si finisce di inspirare e si comincia a espirare.

 –

Poi di colpo un gabbiano ricomincia a gridare, una ventata arriva dal nulla, e il neonato cicciottello si sveglia urlando sulla sua pelle di pecora. Possono riprendere in mano gli attrezzi e continuare il lavoro come se nulla fosse accaduto. Perché è precisamente questo che è accaduto: nulla. Si parla di quiete prima della tempesta, si dice che il silenzio può essere un segnale, come quando si carica un’arma; può avere un senso di cui si capirà la portata solo dopo aver sfogliato a lungo una Bibbia. Ma il silenzio su un’isola è niente. Nessuno ne parla, nessuno lo ricorda né gli dà un nome, per quanto sia profonda l’impressione che suscita in loro. Un brevissimo spiraglio di morte mentre sono ancora in vita.

È un silenzio pieno. Si parla con il mare. Gli oggetti, che il mare fornisce danno le storie, le parole, che vanno e vengono. L’isola le pesca e loro come marinai raccolgono tempo nelle ceste della loro biografia. Gli elementi sono quelli norvegesi e la traduzione in italiano, nel normalizzare gli aggettivi, potrebbe dare l’impressione che il clima, il vento, il freddo, l’inverno, l’estate, il giorno, la notte, la luce e il giorno siano analoghi a quelli del Mediterraneo. No. Qui è tutto al superlativo. E il teatro è il paesaggio, non quello borghese e collinare nostro, ma quello lungo, ampio, e frastagliato dell’Oceano Atlantico che oscilla insieme alle correnti artiche. Vento e mare sono solidi e liquidi. Il vento li unisce e li trasporta nell’isola. Un’isola muta come quelle lì, tante e quasi invisibili dalla costa. Piena di questo popolo isolato ognun con l’altro nei giorni, se non in rade ore dell’anno, o per viaggi nel buio delle pesche artiche che durano mesi con il rischio di esser loro la preda delle tempeste. E quindi mai più di ritorno.

Il lavoro scandisce l’attività del vivere. Ogni oggetto è utile, ogni oggetto è strumento e materia, e serve per sé, per gli animali, per i pesci, e per le attività di sussistenza. Parlano tra nonni e figli. Inframmezzati dal freddo e dalla vecchiaia che trasporta tutti loro nelle correnti dei simboli e delle storie. Il loro tesoro. Dei dimenticati, del silenzio, dove terra e mare uguali sono: spazi altri, con cui si è in relazione, ma disgiunti. L’isolano ha la mente che spazia nel tentare di sopravvivere, ma sa che la direzione delle sue radici e nel tempo, è ancorato nell’isola. Le barche sono solo vele incastonate nella nave maestra, che è l’isola stessa, in viaggio tra le stagioni, gli elementi, la vita e -la morte.

Vi è un silenzio, che però è pieno e un oblio, che però non annulla, ma conserva e deposita, tra secoli di alghe, e volumi di vento. E tutto è lì. Pieno, denso, pronto a rivelarsi nell’orecchio di chi è pronto a viaggiare, lì, tra gli interstizi delle civiltà che fluiscono tra l’estrema luce e il fondo freddo.

UNO STRUGGIMENTO che porta nostalgia a chi non è mai vissuto in quelle zone d’assenza, ma che suggerisce una chiave dello scorrere di senso tra l’abisso e la memoria.

Il vivere e il morire trasportano il proprio ciclo attorno all’isola, e questa non lo abbandona. Resiste, lo accoglie nell’approdo. Ella sta: lì, piccola e tenace tra gli abissi.

La nostalgia irresistibile dello straniero che mai lì è vissuto, ma a cui tende nel suo tempo interiore.

§CONSIGLI DI LETTURA: RESISTENZA E RESA

Dietrich Bonhoeffer
RESISTENZA E RESA Lettere e scritti dal carcere Introduzione di Italo Mancini.
Titolo originale: “WIDERSTAND UND ERGEBUNG”. Copyright 1951 by Chr. Kaiser Verlag, Munchen. Traduzione dal tedesco di Sergio Bologna.
Dietrich Bonhoeffer
RESISTENZA E RESA Lettere e scritti dal carcere Introduzione di Italo Mancini.
Titolo originale: “WIDERSTAND UND ERGEBUNG”. Copyright 1951 by Chr. Kaiser Verlag, Munchen. Traduzione dal tedesco di Sergio Bologna.

Un testo che forse può orientarci nei dubbi e nelle paure che attraversano questi giorni di guerre e pandemie e di angosce verso sempre nuove “crisi”.

Bonhoeffer  ha un atteggiamento e una visione del mondo da credente profondo, impegnato, con una fede pervasiva. Le sue riflessioni hanno per fondamento la fede verso la divinità. Per coloro che hanno un atteggiamento meno intenso, diverso, antitetico a quello del credente che professa attivamente la fede, questi scritti, sono comunque d’interesse perché toccano i temi relativi all’individuo in rapporto al potere che opprime e che uccide, alla norma che è sì coerente, ma che involve verso il male e la distruzione, al mondo che impone scelte vincolanti, comunque compromissorie e portatrici di dolore per sé e per gli altri.

B. afferma l’impossibilità a uscire fuori dal mondo, e anzi riflette sul fatto della presunta postura di distacco e di ascesi solipsistica, che è illusoria, ipocrita o arrogante, o stupida in certi casi. E nell’ultimo caso ritiene sia la condizione più pericolosa, perché derivata dalla volontà corrotta di non ammettere la propria paura, e quindi di obliare la convinzione di credersi il metro e l’unico portatore di sofferenza nel mondo.

Nonostante molte delle sue posizioni oggi ci allontanerebbero immediatamente dai suoi scritti, come quello (diciamo eufemisticamente “retrogrado”) del ruolo della donna all’interno del matrimonio, nello spazio pubblico, invece l’etica, la convivenza, il coraggio, la resistenza, la compassione, la limitatezza di sé in rapporto alla storia e al mondo, invitano a una riflessione sul nostro vivere.

“Resistenza e Resa” raccoglie le lettere ed altri testi scritti da Bonhoeffer nel carcere berlinese di Tegel, dove fu detenuto dall’aprile ’43 all’ottobre ’44, per poi essere trasferito nel carcere sotterraneo della Gestapo in Prinz-Albrecht-Strasse. Di lì i contatti furono molto difficili e rari, il 7 febbraio ’45 fu trasferito al campo di concentramento di Buchenwald, il 3 aprile fu a Regensburg, l’8 aprile passò da Schönberg a Flossenbürg, dove verrà giustiziato. La presente edizione alterna le lettere di Bonhoeffer a quelle inviatigli da parenti ed amici, suoi interlocutori sono i genitori, il nipote quattordicenne Christoph von Dohnanyi, il fratello Karl-Friedrich, l’amico fraterno e pastore egli stesso Eberhard Bethge (che diverrà il suo biografo) con sua moglie Renate, nipote di Bonhoeffer e qualche altro parente. Non vi sono le lettere alla fidanzata Maria von Wedermeyer con la quale Bonhoeffer progettava di sposarsi, rimaste a lungo inedite (esiste ora il volume Lettere alla fidanzata-Cella 92. Dietrich Bonhoeffer-Maria von Wedermeyer 1943-45, Bologna, Queriniana). In carcere Bonhoeffer riesce a leggere, scrivere, riflettere, pregare, riceve pacchi dai familiari e lettere, sia ufficialmente, sia clandestinamente. La corrispondenza con Bethge, che contiene le più importanti riflessioni teologiche di Bonhoeffer, inizia il 18 novembre ’43 durante la prima licenza di Bethge, militare in Italia, a Berlino, ed è clandestina.

42  Bonhoeffer pone come fondamento della libertà quella verso Dio nella visione di una teologia negativa. La divinità è indubitale, anche nella sua necessaria assenza nel mondo. L’essere umano non può vederla ed è impossibile che si nomini vate e custode del vero (cioè Dio). L’uomo e la donna testimoniano la lacerante certificazione dell’assenza della divinità, attraverso Cristo, cioè attraverso il suo annichilimento nel mondo. Non possiamo dire alcun “che” del vero, anche nella impossibilità a negarlo.

L’essere umano può sì agire, nella convinzione della libertà e quindi nel rischio di errare e di cadere nel male. Ed ecco che le lettere scritte dalla prigionia, sotto il controllo dei nazisti, testimoniano indirettamente la sua resistenza da prigioniero, perché oppositore del regime nazista, mentre era sotto gli interrogatori che lo porteranno, a pochi giorni della fine della seconda guerra mondiale , a subire l’impiccagione. Lui che poteva fuggire già anni prima, ma che ritornò in Germania per resistere. Lui che poteva evadere, ma che non lo fece per non causare danni a suo fratello già incarcerato.

42 Con la fuga da un confronto pubblico, qualcuno riesce a ripararsi nel rifugio privato dell’essere ́virtuoso. Ma deve chiudere gli occhi e la bocca di fronte all’ingiustizia che lo circonda. Può evitare di sporcarsi con un’azione responsabile soltanto a costo d’ingannare sè stesso. In tutto ciò che egli fa, lo accompagna il tormento per ciò che egli non fa. Finirà per essere sopraffatto da tale tormento oppure diventerà il più bieco fariseo.

44 Finchè il successo è dalla parte del bene, possiamo concederci il lusso di considerare il successo eticamente irrilevante, ma non appena sistemi condannabili conducono al successo, sorge il problema. Di fronte ad una simile situazione, ci accorgiamo che non ne veniamo a capo nè con un atteggiamento di chi osserva e critica sul terreno teorico e vuol avere sempre ragione, ossia rifiuta di porsi sul terreno delle cose, nè con l’opportunismo, cioè con la rinuncia a sè stessi e la capitolazione di fronte al successo. Non vogliamo nè dobbiamo essere critici offesi o opportunisti, ma corresponsabili nella formazione della storia – caso per caso e a ogni istante, come vincitori o come sconfitti.

47

“Disprezzo per l’uomo?”

Il pericolo di lasciarci trascinare a disprezzare l’uomo è molto grave.

Sappiamo benissimo di non averne alcun diritto e che in tal modo finiremmo per porci in un rapporto quanto mai sterile con l’uomo. Possono difenderci da questa tentazione le seguenti riflessioni: disprezzando l’uomo incorriamo proprio nell’errore maggiore dei nostri avversari. Chi disprezza un uomo non potrà mai cavarne fuori qualcosa. Nulla di ciò che disprezziamo nell’altro ci è completamente estraneo. Quante volte noi aspettiamo dall’altro più di quello che noi stessi siamo disposti a fare! Perché abbiamo continuato a considerare con così scarsa obiettività l’uomo, la sua facilità a cedere alle tentazioni, le sue debolezze? Dobbiamo imparare a considerare gli uomini non tanto per quello che fanno o non fanno quanto per quello che soffrono. L’unico rapporto fecondo con l’uomo – e in particolare con il debole – è l’amore, cioé la volontà di mantenere con lui una comunione.

50-51

“Compassione”.

Bisogna tener conto che la maggioranza degli uomini si ravvede solo dopo aver subito esperienze sulla propria pelle. Così si spiega in primo luogo la stupefacente incapacità della maggioranza degli uomini a compiere una qualsiasi azione preventiva – si pensa sempre di poter sfuggire al pericolo, finchè è troppo tardi; in secondo luogo l’apatia verso la sofferenza altrui; con il crescere della paura per la minacciosa vicinanza della disgrazia, nasce la compassione.

Ci sarebbe molto da dire per giustificare tale atteggiamento; dal punto di vista etico: non si vuol fermare la ruota della fortuna; soltanto quando la situazione si fa seria si trova l’ispirazione e la forza di agire; non si è responsabili di tutta l’ingiustizia e il dolore del mondo e non ci si vuol erigere a giudici del mondo; dal punto di vista psicologico: la mancanza di fantasia, di sensibilità, di disponibilità interiore vengono bilanciate da una solida rilassatezza, da un’imperturbabile energia lavorativa e da una grande capacità di soffrire.

52-53

“Ottimismo”.

E’ più da furbi essere pessimisti: si dimenticano le delusioni e si sta in faccia alla gente senza compromettersi. Così l’ottimismo è passato di moda presso i furbi. Nella sua essenza, l’ottimismo non è un modo di vedere la situazione presente ma è un’energia vitale, una forza della speranza là dove altri si sono rassegnati: la forza di tenere alta la testa anche quando tutto sembra fallire, la forza di reggere i colpi, la forza che non lascia mai il futuro all’avversario ma lo reclama per sè. Certo, c’è anche un ottimismo stupido, vile, che deve essere vietato. Ma l’ottimismo come volontà di futuro non dev’essere mai disprezzato anche se porta a sbagliare cento volte: rappresenta la sanità della vita, quello che il malato non deve intaccare. C’è gente che ritiene poco serio, cristiani che ritengono poco pio, sperare in un migliore futuro terreno e prepararsi a esso. Credono nel caos, nel disordine, nella catastrofe come nel senso degli eventi contemporanei e si sottraggono – con rassegnazione o con la pia fuga dal mondo – alla responsabilità di continuare a vivere, di ricostruire, alla responsabilità verso le generazioni future. Può darsi che il giudizio universale cominci domani; allora, e non prima, smetteremo di lavorare per un futuro migliore.

74-75

Penso che sia semplicemente un fatto di natura; la vita umana si spinge ben oltre la mera esistenza corporea di noi stessi. Probabilmente chi lo sente più forte è una madre.

195 E nel trascorrere dei mesi, B. tentava di portare serenità agli altri carcerati e indefesso, tra i malanni e le privazioni, continuava il suo lavoro di riflessione e di impegno. Si noti come da una domanda teologica, vi è una domanda filosofica sotto, che lacera il dissidio, e che pone tante contraddizioni, e cerca di rendere manifesta, fenomenologica per assenza la trascendenza. Da riflettere. In tutti i casi.  Per analogia, la trascendenza quasi una proiezione all’infinito di un punto polare delle coniche di Apollonio.

 b) Chi è Dio? Non, prima di tutto, fede generica in Dio,

nell’onnipotenza di Dio e via dicendo. Questa non è autentica esperienza di Dio, ma un pezzo di mondo prolungato. Incontro con Gesù Cristo. Prendere coscienza che qui è avvenuto un rovesciamento di ogni essere umano, che Gesù esiste solo per gli altri. Lo  ́esistere-per-gli-altri di Gesù è la presa di coscienza della trascendenza. Dalla libertà da sè stesso, dall’ ́esistere-per-gli-altri fino alla morte scaturiscono l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnipresenza. Fede è partecipazione a questo essere di Gesù. (Incarnazione, croce, resurrezione.) Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto  ́religioso con l’Essere più alto, più potente, più buono: questa non è vera, autentica trascendenza; il nostro rapporto con Dio è una nuova vita nell’ ́esistere-per-gli-altri, nella partecipazione all’essere di Cristo. Il trascendente non è doveri infiniti, irraggiungibili, ma il prossimo, dato volta per volta, raggiungibile. Dio in forma umana!, non come nelle religioni orientali in forma ferina, il Mostruoso, Caotico, Lontano, Raccapricciante; ma nemmeno nelle forme concettuali dell’Assoluto, del Metafisico, dell’Infinito eccetera; e neppure la figura greca del dio-uomo che è l’ ́uomo in e per sè, ma l’ ́uomo per gli altri!, quindi il Crocefisso. L’uomo che vive del trascendente.

E questa è un frammento di un’ultima poesia di settembre a noi rimasta.

227

“[…]

Disteso sul tavolaccio

fisso la parete grigia.

Fuori, un mattino d’estate,

ancora non mio,

esultando va verso la campagna.

Fratelli, finchè non giunge, dopo la lunga notte,

 il nostro giorno,

resistiamo!

§CONSIGLI DI LETTURA: L’INVENZIONE DELL’AMORE

José Ovejero, La invención del amor (2013)
– L’invenzione dell’amore, traduzione di Bruno Arpaia, Intrecci, 2018, Voland

La volontà di inventare vite irreali per cercare di amare. La narrazione bugiarda che tenta disperatamente di progettare il futuro. L’osservazione cinica della realtà che, muta, vuole esser contraddetta.

Il romanzo inizia con la narrazione in prima persona del personaggio principale che riflette anche dai discorsi degli altri protagonisti. Hanno quaranta anni, lavorano a Madrid e riflettono su di sé e sul passato e già dalle prime righe si intravede la memoria come costruzione di sé, come rammemorazione del passato che è una trama di verosimile, bugia, invenzione del presente, giudizio del futuro con l’intento di addomesticarlo alla propria singolare e contraddittoria visione che si vuole credere realtà.

La voce narrante riveste di tic il carattere del protagonista per orientare la sua biografia inventata. La investe delle sue induzioni, cerca di inserirli nel suo mondo, nella sua trama narrativa di significati per tracciare il suo tempo interiore. Lui è uno che osserva, contempla, guarda, dal terrazzo, mantenendo la distanza. E lo stesso vale per le donne, le guarda, immagina la loro compagnia, ma sterilizzata e a tempo. Ha paura della città e delle relazioni. Infatti gli piacciono le donne sposate. Non vuole essere martire o eroe.

173 Cerca di ricordare chi fosse Clara, morta per evitare un pedone con la macchina. Per telefono gli dicono che è stata una sua ex. Non la ricorda. Forse un fugace incontro dieci anni prima, verso i trenta anni e di come lei lo mollò e sposò uno che non sopportava. O no? Era un ricordo vero o una sua invenzione?

215 Al suo socio poi che lo vuole rimproverare per aver inviato un preventivo con i conti non conveniente per loro, racconta che deve andare a un funerale di Clara, e inventa di come lei guidasse male per evitare anche i gatti. Inventa una storia. Inventa storie su di sé. Moltiplica il suo vivere.

320 Il funerale lo descrive come un resoconto giornalistico, pieno di colori, impressioni, passando dal realismo dei luoghi al dipinto espressionista dei personaggi, e lui lì l’impostore, finge di stare con uno o con l’altro, come se conoscesse la defunta. Lui è integralmente e consapevolmente artefatto. Non è nel dubbio: è consapevole della falsità del suo essere lì nel presente di quei personaggi.

482 “[…] Gli uomini che vivono da soli, a partire da una certa età, quando hanno smesso di credere che la vita di coppia potrebbe essere piacevole o eccitante, spesso fanno poca vita sociale; le donne, comprese le rassegnate o quelle decise a restare single come l’amica che mi ha detto: “La mia metà inferiore ha smesso di interessarmi” mantengono contatti, escono, parlano di sé e delle altre amiche, hanno bisogno di carne, voce, intensità, così come gli uomini hanno bisogno di distanza, silenzio, indifferenza. Forse io non ho raggiunto quell’età o quella rassegnazione e perciò faccio in modo di combattere la tentazione di evitare la doccia se non devo uscire, di non radermi o non cambiarmi gli slip, di lasciare i piatti sporchi sul tavolo, di non chiamare nessuno per giorni. Anche se non ho molti amici e nemmeno sento la mancanza di una vita sociale più intensa, cerco di evitare quella sensazione di isolamento, di rapporto malato con schermi e marchingegni, con gli spazi chiusi, con il monotono ruminare della mia coscienza, con l’imbarazzante esistenza di chi non prova niente se non quando lo impone una serie tv. La terrazza è la mia salvezza, perché mentre sono lì, mangiando o leggendo, o pensando ai fatti miei, ho l’impressione di non stare soltanto ammazzando il tempo, ma di godermelo. Sei morto quando il piacere smette di attrarti, quando ormai pensi solo a evitare la noia e non ti importa se la tua vita è più assenza – di dolore, di passione, di entusiasmo – che contenuto. La peggior nemica della felicità non è il dolore, è la paura. Per essere veramente vivo devi essere disposto a pagare un prezzo per ciò che ottieni. Ed è lì che vacillo. Sto diventando pigro; mi costa pagare per ottenere e tendo ad accontentarmi di quello che arriva gratis, ovvero, di poca roba. […]”

737 La sorella Carina, racconta Clara come la vede, però dopo chiede che anche Samuel lo faccia. Sembra il racconto di Akira Kurosawa “Rashomon”: in cui tutti i personaggi mentono per salvare se stessi, cioè il proprio onore.

971 “[…]  È noto che vogliamo che gli occhi dell’altro riflettano non ciò che siamo, bensì la persona che ci piacerebbe essere, anche se per questo dobbiamo sopportare la sensazione di inadeguatezza nel tentare di adattarci a quell’immagine ideale, o meglio a quella deformazione di noi stessi che ci favorisce. E poi, in genere, con il passar del tempo, finiamo per adattarci a ciò che siamo, smettiamo di fingere, rimproveriamo all’altro di aspettarsi da noi più di quanto possiamo dargli, dimenticando che era proprio quello che gli avevamo promesso. Soltanto le coppie che finiscono per riconoscere la frode e decidono di rinegoziare quello che ciascuno ha da offrire, riportandolo su un piano più realistico, hanno possibilità di durare con un minimo di felicità. Non ho quasi mai incontrato una di queste coppie. Al massimo, ne conosco alcune che, invece di iniziare una guerra di rimproveri, si abituano a utilizzare un tono ironico con cui danno a intendere che, sebbene fingano di credere nell’impostura dell’altro, sanno chi vive dietro la maschera, e s’impegnano a non strappargliela. […]”

1439 Carina e Samuel si avvicinano immaginando di riavere Clara, Carina per rivivere le storie di amore della sorella, Samuel per immaginare di stare con Clara, mai conosciuta. Tutti e due cercano di simulare qualcosa che credono vero, ma non lo è. Perché Samuel mai ha conosciuto Clara, e Carina non vuole in realtà interpretare la sorella, ma la sua stessa vita mancata. Mentono due volte e la seconda volta non se ne rendono conto. Risucchiati dalle loro stesse bugie. Samuel avverte il malinteso, ma non svela la sua impostura.

3081  C’è sempre un angolo oscuro, quella parte che perfino dopo molti anni continuerebbe a sorprenderci, forse a terrorizzarci se la scoprissimo. In qualche posto di noi stessi siamo soli, nessuno può venire con noi, ma non abbiamo motivo di rifiutare o di sottovalutare quel territorio in cui è possibile addentrarsi per mano a qualcuno, magari allargandolo, strappando alle erbacce zone in cui poter seminare

3130-39  Mi sento bene; sto bene. Eccitato. Allegro. Con Carina pronta ad ascoltarmi, con il suo corpo nudo accanto al mio. Così seria, Carina, in attesa che le racconti la verità sulla mia vita. Alzo lo sguardo verso quel cielo nero. Non vedo pipistrelli né, ovviamente, rondoni. Chiudo gli occhi e adesso sì, non posso più rimandare, inizio a raccontarle la storia di Samuel secondo Samuel.

ALLA FINE CERCA DI RACCONTARE LA VERITA’, ma futura con LEI; CON CARINA…. E il racconto prosegue.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL VENTRE DI NAPOLI

Il ventre di Napoli : (venti anni fa, adesso, l’anima di Napoli) / Matilde Serao. – Napoli : F. Perrella, 1906

Questo romanzo fu ed è una inchiesta giornalistica, un trattato di antropologia, una rivendicazione politica, un atto di immedesimazione e di amore verso il popolo napoletano.

9  “[…] Questo libro è stato scritto in tre epoche diverse.

La prima parte, nel 1884, quando in un paese lontano, mi giungeva da Napoli tutto il senso di orrore, di terrore, di pietà, per il flagello che l’attraversava, seminando il morbo e la morte: e il dolore, l’ansia, l’affanno che dominano, in chi scrive, ogni cura, d’arte, dicano quanto dovette soffrire profondamente, allora, il

mio cuore di napoletana.

La seconda parte, è scritta venti anni dopo, cioè solo due anni fa, e si riannoda alla prima, con un sentimento più tranquillo, ma, ahimè, più sfiduciato, più scettico che un miglior avvenire sociale e civile, possa esser mai assicurato al popolo napoletano, di cui chi scrive si onora e si gloria di esser fraterna emanazione.

La terza parte è di ieri, è di oggi: nè io debbo chiarirla, poichè essa è come le altre: espressione di un cuore sincero, di un’anima sincera: espressione tenera e dolente: espressione nostalgica e triste di un ideale di giustizia e di pietà, che discenda sovra il popolo napoletano e lo elevi o lo esalti! […]”.

Matilde Serao racconta Napoli, la parte non detta, le strade vive, ognuna con le sue caratteristiche.  In base ai luoghi, traduce le impressioni in stati emotivi gettati nello stile della scrittura che varia dalla cantilena, al tono declamatorio, alla doglianza medievale quasi. In alcuni passi sembra che l’autrice parli in pubblica piazza, affinché ognuno accolga i lamenti, le richieste, le critiche a nome di chi non può, perché asservito e ricattato dall’indigenza.

21-23 “[…]  

Fortunate quelle che trovano un posto alla Fabbrica del tabacco, che sanno lavorare e arrivano ad allogarsi, come sarte, come modiste, come fioraie! La mercede è miserissima, quindici lire, diciassette, venti lire il mese; pure sembra loro fortuna. Ma sono poche: tutto il resto della immensa classe povera femminile, si dà alla domesticità.

La serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla mattina fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni, scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come un’ombra affranta. Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l’uno e corrono continuamente da una casa all’altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva, per addormentarsi subito.

Queste serve trovano anche il tempo di dar latte

a un bimbo, di far la calza, ma sono esseri mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno trent’anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi.

Non si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di quarant’anni, all’ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante ne avrà portate via il colera!

E tutti gli altri mestieri ambulanti femminili, lavandaie, pettinatrici, stiratrici a giornata, venditrici di spassatiempo, rimpagliatrici di seggiole (mpagliaseggie), mestieri che le espongono a tutte le intemperie, a tutti gli accidenti, a una quantità di malattie, mestieri pesanti o nauseanti, non fanno guadagnare a quelle disgraziate più di dieci soldi, quindici soldi al giorno. Quando guadagnano una lira, le miserelle, fanno economia e si maritano.

Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono, amate, si sono maritate: dopo, il marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri, temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono.

[…]”

Matilde Serao scrive ponendosi accanto alle protagoniste. Non è il grande burattinaio. Sta lì, assieme a loro e li conduce innanzi al lettore. Bussa alla porta del lettore. Sta lì nell’uscio e indica il mondo, le persone, e lo rende sonoro nel dolore delle loro storie. Porta la biografia di una città, di una comunità, di un mondo. La sintassi è ricca di aggettivi e di superlativi. La caratterizzazione è netta, perché ogni protagonista è al limite nel vivere, dal cibo, alla necessità di sopravvivenza. Non è solo povertà, o una rivendicazione economica, ma pure culturale.

È una rivendicazione di soggettività che è non solo sfruttata, come può accadere in altre parti d’Italia, ma è anche culturale, perché si riflette in una considerazione nazionale artefatta da una parte e nel disprezzo e nella svalutazione dall’altra verso il corpo di Napoli all’interno delle sue viscere. Le autorità gestiscono il consenso, per non fare, mantenendo la stasi del controllo. Nei fatti il potere lascia questo boccheggiare acefalo nello stagno dell’indigenza di futuro, di bellezza, di cibo, di serenità anche piccola, per elemosinare lentamente piccole bocche di ossigeno, rendendo verticali tutti i rapporti sociali. Si trae la ricchezza potenziale in un equilibrio che permette il dominio. E alla fine questo corpo di Napoli è sia un agglomerato perennemente morente che conferisce autorità a chi promette l’elemosina e nello stesso tempo un peso per tutte le istituzioni e la società italiana tutta.

25-27 “[…] bimbi che vanno a scuola; quando la provvista è finita, il pizzaiuolo la rifornisce, sino a notte.

Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e dànno un grido speciale, dicendo che la pizza ce l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza.

Con un soldo, la scelta è abbastanza varia, pel pranzo del popolo napoletano. Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano fragaglia e che sono il fondo del paniere dei pescivendoli: dallo stesso friggitore si hanno per un soldo, quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne di carciofi, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici. Per un soldo, una vecchia dà nove castagne allesse, denudate della prima buccia e nuotanti in un succo rossastro: in questo brodo il popolo napoletano vi bagna il pane e mangia le castagne, come seconda pietanza; per un soldo, un’altra vecchia, che si trascina dietro un calderottino in un carroccio, dà due spighe di granturco bollite. Dall’oste, per un soldo, si può comperare una porzione di scapece; la scapece è fatta di zucchetti o melanzane fritte nell’olio e poi condite con aceto, pepe, origano, formaggio, pomidoro, ed è esposta in istrada, in un grande vaso profondo, in cui sta intasata, come una conserva e da cui si taglia con un cucchiaio. Il popolo napoletano porta il suo tozzo di pane, lo divide per metà, e l’oste vi versa sopra la scapece. Dall’oste, sempre per un soldo, si compera la spiritosa: la spiritosa è fatta di fette di pastinache gialle, cotte nell’acqua e poi messe in una salsa forte di aceto, pepe, origano e peperoni. L’oste sta sulla porta e grida: addorosa, addorosa, ‘a spiritosa! Come è naturale, tutta questa roba è condita in modo piccantissimo, tanto da soddisfare il più atonizzato palato meridionale. […]”

28-29 “[…] Con due soldi si compera un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta; con due soldi di maruzze, si hanno le lumache, il brodo e anche un biscotto intriso nel brodo: per due soldi l’oste, da una grande padella dove friggono confusamente ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline, e frammenti di seppia, cava una grossa cucchiaiata di questa miscela e la depone sul pane del compratore, badando bene a che l’unto caldo e bruno non coli per terra, che vada tutto sulla mollica, perchè il compratore ci tiene.

Appena ha tre soldi al giorno per pranzare, il buon popolo napoletano, che è corroso dalla nostalgia familiare, non va più dall’oste per comperare i commestibili cotti, pranza a casa sua, per terra, sulla soglia del basso, o sopra una sedia sfiancata.

Con quattro soldi si compone una grande insalata di pomidori crudi verdastri e di cipolle; o un’insalata di patate cotte e di barbabietole, o un’insalata di broccoli di rape; o un’insalata di citrioli freschi.

La gente agiata, quella che può disporre di otto soldi al giorno, mangia dei grandi piatti di minestra verde, indivia, foglie di cavolo, cicoria, o tutte queste erbe insieme, la cosidetta minestra maritata; o una minestra, quando ne è tempo, di zucca gialla con molto pepe; o una minestra di fagiolini verdi, conditi col pomidoro; o una minestra di patate cotte nel pomidoro.

Ma per lo più compra un rotolo di maccheroni, una pasta nerastra, e di tutte le misure e di tutte le grossezze, che è il raccogliticcio, il fondiccio confuso di tutti i cartoni di pasta, e che si chiama efficacemente monnezzaglia: e la condisce con pomidoro e formaggio.

* **

Il popolo napoletano è goloso di frutta: ma non spende mai più di un soldo, alla volta. A Napoli, con un soldo si hanno sei peruzze un po’ bacate, ma non importa: si ha mezzo chilo di fichi, un po’ flosci dal sole: si hanno dieci o dodici di quelle piccole prugne gialle, che pare abbiano l’aspetto della febbre; si ha un grappolo di uva nera, si ha un poponcino giallo, piccolo, ammaccato, un po’ fradicio; dal venditore di melloni, quelli rossi, si hanno due fette, di quelli che sono riusciti male, vale a dire biancastri.

Ha anche qualche altra golosità, il popolo napoletano: lo spassatiempo, vale a dire i semi di mellone o di popone, le fave e i ceci cotti nel forno; con un soldo si rosicchia mezza giornata, la lingua punge e

lo stomaco si gonfia, come se avesse mangiato.

La massima golosità è il soffritto: dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all’occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite.

***

Questionario:

Carne in umido? – Il popolo napoletano non ne mangia mai.

 Carne arrosto? – Qualche volta, alla domenica, o nelle grandi feste, ma è di maiale o di agnello.

Brodo di carne? – Il popolo napoletano lo ignora.

Vino? – Alla domenica, qualche volta: l’asprino, a quattro soldi il litro, o il maraniello a cinque soldi: questo tinge di azzurro la tovaglia.

Acqua! – Sempre: e cattiva. […]”

Come osservatrice partecipante, l’autrice anche in modo inconsapevole assume uno sguardo da antropologa nel descrivere la natura degli usi e dei linguaggi del popolino tra i vicoli, i miasmi, le viuzze soffocanti, la sporcizia, e l’acqua maleodorante.

***

71 “[…]

Nessuna donna che mangi, nella strada, vede fermarsi un bambino a guardare, senza dargli subito di quello che mangia: e quando non ha altro, gli dà del pane. Appena una donna incinta si ferma in una via, tutti quelli che mangiano o che vendono qualche cosa da mangiare, senza che ella mostri nessun desiderio, gliene fanno parte, la obbligano a prenderlo, non vogliono avere lo scrupolo.

E i poveri che girano, sono aiutati alla meglio, da quella gente povera: chi dà un pezzo di pane, chi due o tre pomidoro, chi una cipolla, chi un po’ d’olio, chi due fichi, chi una paletta di carboncini accesi: una donna, per fare la carità in qualche modo, lasciava che una mendicante venisse a cuocere sul proprio fuoco, sul focolaretto di tufo, il poco di commestibile che la mendicante aveva raccattato. Tanto avrebbe dovuto perdersi, quel resto del fuoco, dopo la sua cucina; era meglio adoperarlo a sollevare una miserabile.

Un’altra faceva una carità più ingegnosa: essendo già lei povera, mangiava dei maccheroni cotti nell’acqua e conditi solo con un po’ di formaggio piccante, ma la sua vicina, poverissima, non aveva che dei tozzi di pane secco, duro.

Allora quella meno povera regalava alla sua vicina l’acqua dove erano stati cotti i maccheroni, un’acqua biancastra che ella rovesciava su quei tozzi di

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pane, che si facevano molli e almeno avevano un certo sapore di maccheroni.

Una giovane cucitrice era stata a Gesù e Maria, l’ospedale, con una polmonite; poi si era guarita, e pallida, esaurita, sfinita, era venuta via. Pure l’ospedale, per assisterla ancora in vista di una tisi probabile, le concedeva, ogni mattina, quattro dita di olio di fegato di merluzzo, che ella doveva andare a prendere, lassù. Ella capitava ogni mattina, col suo bicchiere, sino a che fu rimessa completamente in salute: e allora le dissero che non le avrebbero più data la medicina. Ella si confuse, impallidì, pianse, pregò la monaca che per carità, non gli sospendessero quell’olio – e infine fu saputo che di quell’olio, ella si privava per darlo in elemosina a una povera donna – la quale per miseria, superato il naturale disgusto, lo adoperava a condire il pane o a friggerci un soldo di peperoni. […]”

***

Matilde Serao partecipa a questa condizione rivendicando direttamente la necessità di rete fognarie e di elettrificare le vie per prevenire con il crimine con i lampioni. Richiede una politica abitativa e un mercato degli affitti compatibili per coloro che hanno un basso reddito, costretti a risiedere nelle baracche. Luoghi continui di epidemie che danneggiano tutti indistintamente dal ceto e dalla ricchezza.

E alla fine per stemperare la tensione, cerca di assumere un tono lirico che offra una speranza minima in particolare nel paragrafo sul CHE fare nel quale loda gli imprenditori, gli operai e le donne, che non accettano le tentazioni come Cristo sul monte, perché l’uomo non vive di solo pane, e questo può essere il riscatto per Napoli: onestà, resistenza al vizio, dignità, laboriosità.

Per Matilde Serao il riscatto morale è necessariamente anche politico e sociale.

§CONSIGLI DI LETTURA: NON PER ME SOLA. STORIE DELLE ITALIANE ATTRAVERSO I ROMANZI

Questo libro offre una imponente bibliografia ragionata e ben documentata delle storie delle italiane dall’Unità d’Italia ad oggi, scritte da donne. Romanzi alti, e d’appendice, di tutte le offerte per i tipi di pubblico che emergevano, mostrano come dalla scrittrice più quotata a quella “popolare”, la produzione di storie fosse una porta per affermare la piena soggettività della donna, mai realizzata nella storia dell’umanità.

Vi sono nomi che abbiamo letto distrattamente nelle antologie scolastiche, altri sentiti di velocità da un canale all’altro della tv o da canzone nella radio. Risuonano familiari i luoghi evocati, le gesta, i luoghi comuni, gli archetipi dei personaggi, anche se non si è letto nulla e non si ha nemmeno in mente l’immagine dell’autrice.

Eppure ci sentiamo a casa, tutti, uomini e donne, perché questi libri riguardano la nostra infanzia, la vita di tutti noi e di tutte le donne, e ciò è valido per i maschi, perché di grandi scrittori che hanno parlato delle donne ne abbiamo, MA DA UN PUNTO DI VISTA maschile. Ed è qui il punto: lo scrittore maschio quando narra le gesta e le storie, anche le più abbiette cerca di trovare qualcosa di lirico ed eroico, in particolare nei protagonisti maschili. Quelli femminili solitamente vengono sacrificati con dolore e con sangue.

Per le autrici no.

LE DONNE CHE SCRIVONO NON INVENTANO IN MODO ASTRATTO, PERCHÉ PARLANO DELLA LORO VITA E DI TUTTE LE ALTRE DONNE. In carne ed ossa. Le protagoniste dei romanzi delle donne, assieme alle autrici, sono giudicate, criticate, condannate. Le donne scrivendo storie, e romanzi, e biografie, rivendicano la propria memoria, una possibilità di esistenza preclusa dai maschi, dalle leggi, dagli usi e dalle consuetudini. Una donna si poteva uccidere, se tradiva. Non l’uomo. Era il maschio che decideva se una donna dovesse crepare o no di parto. Il maschio decideva dei figli come tenerli, come darli via eventualmente e sottrarli alla madre. La figlia femmina non poteva scegliere: eventualmente elemosinare una concessione di qualche anno di studio. Una donna non poteva uscire e recarsi all’estero senza il permesso del marito o del padre. Tutto ciò fino a pochissimi decenni fa, qui, in Italia.

Ancora oggi vi sono disparità e sono tendenze che partono dalla grande e continua letteratura di queste donne. Conosciute tutte. E se si invertono i modi di lettura, ecco che anche quelle meno dotate dal punto di vista artistico, in realtà hanno compiuto opere inenarrabili solo per riuscire ad ottenere un foglio e una matita, e strappare quote di tempo liberato per scrivere. Tantissime riuscirono per pochi padri e mariti illuminati, ma sempre per una DECISIONE di questi ultimi. Anche i più combattenti per le cause delle donne, in realtà, agli occhi nostri, avevano strati interi di quello che noi oggi diremmo “maschilismo”.

In tutto questo la figura della madre, il ruolo della maternità è l’epicentro di ogni conflitto. La sorgente massima di vita, di tempo, di senso, idolatrata dalle canzoni dei maschi, dai libri dei maschi. La madre è il ciò che è “sacro”: decorporata, se paga il suo ruolo con il dolore, il sacrificio, il sangue. La donna che salva la società, il matrimonio, i figli, il senso comune, è quella che si suicida o che diventa cattiva, pazza internata in manicomio, isterica: insomma se si autosopprime, o se è inscritta nella devianza. Se la donna si ribella, lo fa perché è una malata, o una criminale, o affetta dal demonio. Deve sacrificarsi per ristabilire l’ordine attraverso la tragedia. Questa è la base dei romanzi maschili.

Le donne che scrivono riprendono questi temi, ma nel contempo mostrano, attraverso il loro vissuto interiore, la donna violata, schiavizzata, lentamente annichilita, nella famiglia, nel matrimonio, nei figli, in modo diretto, a colori e non idealizzato. Tantissime opere nel passato vennero censurate, criticate, reputate violente, bugiarde, scandalose. E non è un caso, mostravano il tabù: la donna è come l’uomo. Può pensare, agire, e l’uomo, le leggi, i valori hanno bisogno di lei, sopprimendola in questa relazione coatta. Fino a pochi anni fa, una donna non poteva neanche ereditare le proprietà. Rimangono ancora queste leggi in dottrina: si pensi al cognome. La donna cede il suo nome, cede il figlio e la figlia. Cede il figlio alla patria e fa la ruffiana affinché la figlia possa sposarsi e rivestirsi con un cappio: meglio questo che la schiavitù della strada che porta alla morte precoce.

Tante donne hanno dovuto abbandonare i loro figli. Condannate per aver concepito un figlio fuori dal vincolo giuridico e quindi costrette ad abbandonarlo e celarlo al padre, a meno che quest’ultimo non lo rilevasse a qualche famiglia che lo accudisse. Condannate, comunque, per averlo abbandonato. Giudicate dalla prole, perché causa della separazione. Salvano la famiglia diventando schiave, e disprezzate perché si sono ridotte in schiavitù.

Uccise e torturate. Ma vi sono anche romanzi del riscatto, di crescita, di liberazione e di speranze, di nuovi stili poetici e di parole.

La lettura di questo libro, se presa sul serio, rende i grandi capolavori maschili degli ultimi centocinquanta anni molto più limitati, e più sbiaditi. Le opere di queste donne che trattano dell’Italia, dell’Europa, del mondo, parlano di se stesse a colori, senza sconti, nella bellezza e nell’abiezione, negando l’astrattezza dei protagonisti.

Tutti, sia i capolavori sia gli scritti d’appendice, mostrano la bugia del tragico che svilisce la donna, e principalmente la figura materna, quella che svela il limite e l’ipocrisia del potente e dei meccanismi di oppressione.

I maschi che leggeranno cercando di porsi in modo diretto come le autrici, immaginando di essere veramente loro stessi i protagonisti di questi romanzi, biografie, novelle, ricostruzioni storiche, proveranno un senso di ripulsa e di negazione all’inizio. Se, però, si compie il tuffo verso noi stessi, considerando che il primo urto causerà disappunto, vergogna, ipocrisia, la spogliazione del proprio io, conferirà la possibilità di parlare con il proprio passato, con il proprio femminile e con tutte le donne non viste e non considerate. Si acquisiranno nuove proprietà linguistiche, di scrittura e di immaginazione, abbracciando il dolore e la gioia di vivere di questo oceano di donne.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL CICLO DI VITA DEGLI OGGETTI SOFTWARE

Il ciclo di vita degli oggetti software, dI Ted Chiang, (The Lifecycle of Software Objects), 1ª ed., Burton (Michigan), Subterranean Press, 2010, traduzione di Francesco Lato, Odissea Fantascienza, Delos Books, 2011.

È un’opera che vale la pena da leggere, perché ci costringe a riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni nel voler disporre degli altri.

Ana Alvarado, dopo aver lavorato come istruttrice in uno zoo, accetta un nuovo incarico presso la Blu Gamma, un’azienda informatica che ha creato avatar denominati “digienti”, per i quali avrà la funzione di loro educatrice, in collaborazione con gli sviluppatori del software, tra cui Derek Brooks.

La ditta concorrente SaruMech sviluppa un robot che consente ai digienti di interagire con i proprietari nel mondo reale. Altre ditte sviluppano ambienti virtuali più sofisticati dove si può giocare in modo più invasivo, sicché i clienti rendono indietro i loro giocattoli. Alcuni proprietari, però, sono entrati in empatia con i propri digienti, e per non farli sospendere (l’equivalente di una eutanasia), si costituiscono in una associazione per reperire fondi e sponsor, utili per sovvenzionare un loro aggiornamento software, tale da permettere una trasmigrazione in ambienti virtuali più avanzati di uso commerciale.

Ana adotta Jan e Derek i due digienti Marco e Polo e per anni, insieme a pochi altri li tengono in attività, e trascorrono molto tempo con loro, come se fossero dei genitori. I digienti sembrano entrare in uno stato simile all’adolescenza. Ana e Derek non si avvedono che stanno traslando la loro personalità sia nel mondo virtuale sia con esperienze nel mondo fisico con i robot collegati ai digienti.

Derek vorrebbe tramutarli in una “corporation”, cioè soggetti giuridici in tutto e per tutto. Ha timore che se lui morisse, vorrebbe che Marco e Polo non fossero sospesi. Nello stesso momento Jax il digiente di Ana, non vuole controllare un avatar a distanza, ma vuole essere lui un avatar, e quindi anche il robot. Soffre di solitudine e vuole che il suo io non sia scisso dal corpo.

Mancano i soldi per mantenerli. La ditta Desiderio Binario contatta Ana per addestrare i digienti superstiti per trasformarli in oggetti sessuali che si adattino ai desideri dei clienti, diventando attraenti, affettuosi e appassionati di sesso. Un’altra possibilità è che Ana lavori per la Polytope mettendosi cerotti di droga per creare un temporaneo legame affettivo con i digienti, al fine di veicolarli nei loro schemi emotivi. Un’altra offerta proviene da alcuni sviluppatori per robot domestici che si occupano di intelligenza artificiale. Però questi ultimi non vogliono creare umani avatar, quanto una intelligenza superumana. Non vogliono dipendenti – corporation, ma prodotti super intelligenti.

Ana è inorridita da tali proposte. Sa che l’esperienza è algoritmicamente incomprimibile e che ogni  digiente merita rispetto.

In questo romanzo vi è un dilemma etico: l’automa che incorpora sapere e comportamenti dettati da prescrizioni morali, ha titolo a porre relazioni sociali giuridicamente autonome con gli umani?

Ana si rende conto di esser diventata una “madre” per Jax. Si chiede se suo “figlio” sia libero di sbagliare e di voler ridursi a oggetto sessuale, sottoponibile anche a tortura.

se sceglie di lavorare nella società Desiderio Binario, il cervello chimicamente alterato sarà quello del digiente. Se lavorerà per la Polytope, il cervello chimicamente alterato sarà il suo.

Marco e Polo, i “figli” di Derek invece non vogliono che Ana scelga di lavorare per la Polytope, e in un certo vorrebbero sacrificarsi, affermando di essere consapevoli di ciò cui vanno incontro. E qui invito alla lettura per la prosecuzione della trama.

*****

Un processo di apprendimento può comportare la trasformazione del software in qualcosa di altro?

Nel testo si avverte un senso di separatezza da parte dell’autore rispetto ai personaggi e degli umani verso i digienti a parte Ana ed Derek che intendono instaurare un legame empatico, solidaristico, filogenetico, teso ad attribuire la morale e l’etica ad oggetti. Posto che il mondo è gelido e brutto, si vuole che i digienti diventino soggetti umani, tali da essere portatori di diritti e doveri.

Quest’opera sembra denotare una struttura di cicli software interrotti dove si ritorna alla stessa domanda che pone il dilemma. E si cerca di uscire. Si vede che l’autore è anche un programmatore. Poiché i personaggi virtuali tentano di uscire dai loro schemi di azione, la narrativa segue tale spinta. Le azioni sono ridotte a dialoghi. I tempi virtuali e reali risultano giustapposti e compressi. Da questo straniamento stilistico emerge nel modo più crudo il dilemma.

La domanda etica è lo stesso programma che ritorna su se stesso. Un apparente paradosso che mostra il mutamento degli oggetti informatici sia nel mondo virtuale sia nelle loro applicazioni nel mondo dei senzienti.

È un’opera strutturalmente incompiuta, perché il tema è posto al lettore, affinché sia spinto a fornire nuove parole sulla nozione di soggetto nel momento di deliberare su di sé e nel mondo.

Il non detto di tale domanda è il limite che dobbiamo porre nel nostro di agire.

Sembra un libro scritto da un digiente: una costellazione di appunti verso una avventura intellettuale sulla realtà, da parte di un io del corpo che viaggia ed è nei due mondi.

§CONSIGLI DI LETTURA: la danzatrice bambina

La danza del cuore che genera pelle e futuro

Flacco, Anthony. La danzatrice bambina (Bestseller Vol. 36) (Italian Edition) . EDIZIONI PIEMME, © 2006 – Edizioni Piemme Spa Titolo originale: Tiny Dancer © 2005 by Anthony Flacco with Dr. Peter and Rebecca Grossman – Traduzione di: Paola Conversano

La storia vera di una bambina tremendamente ustionata per un incidente domestico che è aggrappata alla vita, nonostante la devastazione del suo corpo, in un dolore infinito: come l’intera popolazione dell’Afghanistan. Il libro racconta lo spasmo di questa bambina aggrappata al dolore più forte della pelle arsa che tenta di cicatrizzarsi. Eppure vive come l’Afghanistan nel sangue e nel cuore. Il lettore leggendo, lo sente nello stomaco e nelle braccia.

“[…] Nell’amore per la musica e per la danza aveva trovato un rimedio per scacciare la noia e per proteggersi dalla tristezza.  Ma la sua vita di danze spensierate stava per finire. Secondo le leggi delle forze talebane, a partire dal suo decimo compleanno non avrebbe mai più potuto correre e giocare all’aperto con le altre bambine e men che mai avere un amico maschio. Lo sapeva e percepiva l’incedere del tempo. […]”.

“[…] La preoccupazione che Hasan mostrava per la sua piccola era in genere riservata ai figli maschi. Era prassi comune che i genitori abbandonassero una figlia morente nel deserto o, se il patriarca aveva un animo più generoso, mettessero fine alla sua vita in modo più rapido e indolore, sparandole un colpo alla testa per poi sotterrare il corpo in segno di rispetto. Dopo tutto, una figlia femmina non poteva far molto per proteggere i genitori anziani dall’indigenza, visto che al momento del matrimonio veniva portata via e rinchiusa dietro altre mura. […]”

“[…] La prima delle sorprendenti trasformazioni di Zubaida fu quasi immediata: appena l’incisione praticata lungo la linea della mascella venne completata, la testa automaticamente si piegò all’indietro, recuperando la normale posizione supina: subito buona parte della smorfia che le distorceva il viso scomparve. […]”

Dal fuoco di guerra che imprigiona la pelle, alla scissione del legame per donare il fuoco del sangue che libera.

“[…] Durante l’ora e mezza che seguì, vide riaffiorare dalla maschera mostruosa le sembianze di una bambina. Iniziò eseguendo due delle più complesse e impegnative operazioni: una per liberare la testa e il collo nel punto in cui si erano fusi con il petto e la seconda per liberare il braccio sinistro dal tessuto cicatriziale che lo inglobava al tronco. […]”.

Si è dentro il corpo di questa ragazza nel respiro traviato, nel dolore che consuma e urla nella pelle, nell’urlo che sgretola la gola, e impietrisce la bocca. Si sente la limitazione delle giunture, il blocco degli arti, la progressiva liberazione. La continua concertazione per la speranza della crescita del proprio corpo. L’angoscia e il dispiacere e la sensazione del carcere, dove il fuoco ha divorato parti di sé, e quindi ha rubato la possibilità di muoversi, di toccare, di sentire e proiettare il proprio spazio di azione. La lettura di ogni pagina è un impegno al quale non ci si può sottrarre, per non rimanere nello stato di prostrante agonia. Ogni pagina è una scalata faticosa e pesante, che permette comunque, ad ogni avanzamento, la liberazione di una zavorra.

“[…] Era fondamentale preparare la classe in modo adeguato. L’insegnante sapeva che i bambini di quell’età sono capaci tanto di crudeltà involontarie quanto di dolcezza e dedizione. Quest’ultimo sentimento solitamente si sviluppa quando qualcosa permette loro di entrare in empatia invece di giudicare. Ritornata in classe, la maestra cominciò subito a prepararli, informandoli che sarebbe arrivata entro pochi giorni una nuova compagna che si era iscritta in ritardo. Si trattava di una bambina proveniente da un paese chiamato Afghanistan, e che non era mai andata a scuola perché nel suo paese le bambine non potevano farlo. Cercò con gli occhi tutte le bambine e attese che l’informazione venisse assimilata. «Pensate se tutte le bambine della classe dovessero andare a casa subito, per non tornare mai più. Se non potessero più imparare nulla del mondo in cui vivono.» Poi passò all’argomento più delicato. «Questa ragazzina ha avuto un incidente terribile l’anno scorso. È stata vittima di un tremendo incendio che le ha causato ustioni gravissime. È riuscita a sopravvivere, ma le ustioni erano così profonde che è dovuta venire in America a farsi operare per un anno intero in modo da tornare a essere quella di prima.» La maestra chiese quanti di loro erano mai stati in ospedale e contò le poche mani alzate. «Questa ragazzina è stata negli ospedali di tutto il mondo, ma non è riuscita a ottenere l’aiuto di cui aveva bisogno finché non è arrivata qui. Ha dovuto subire tantissimi interventi già nei mesi scorsi, uno dopo l’altro. E dovrà essere operata di nuovo. Quindi, quando arriverà, vedrete una ragazzina ancora piena di cicatrici, anche se adesso sta meglio: sarà assente ogni tanto per andare in ospedale e sottoporsi ad altri interventi.» Chiese ai suoi allievi di immaginare di essere lontani, molto lontani da tutti quelli che conoscevano, senza famiglia o amici. Vide un paio di volti impallidire al pensiero. «Quello che dobbiamo fare non è solo aiutarla a imparare. Dobbiamo essere la sua famiglia, i suoi amici, perché questo sarebbe ciò che vorremmo che altri facessero per noi.» Il concetto fece breccia: ne vide l’impatto su tutti quei piccoli volti. […]”

I bambini la aiutano: curano le sue cicatrici interiori e la accolgono.

 “[…] Nonostante l’estremismo fondamentalista fosse stato imposto nel nome dell’Islam, nella pratica era antitetico ai suoi insegnamenti. Fin dal quattordicesimo secolo, l’Islam aveva dichiarato l’uguaglianza delle donne su tutti i fronti, all’interno della famiglia e nella società. Il Corano dice espressamente che le donne possono andare a comprare e a vendere al mercato proprio come gli uomini, e che devono godere della protezione della società nel suo insieme di fronte alla diffusione di pregiudizi nei loro confronti.

Gli uomini trarranno beneficio da ciò che guadagneranno, e le donne trarranno beneficio da ciò che guadagneranno. (Corano, 4,32) […]”

“[…]  Di lì a poco le capitò di sentire Peter e Rebecca che parlavano di quanto la nuova medicina la stesse aiutando. Riuscì a capire che entrambi ritenevano che fosse più contenta e tranquilla e pensavano fosse dovuto ai dottori, alla medicina e a tutto il parlare del terapeuta. Zubaida la pensava diversamente. Stava meglio perché la musica era ritornata, continuava a risuonare dentro di lei e le ricordava che lei era lei. Stava meglio perché finalmente le ferite erano abbastanza guarite da permetterle di muoversi, senza esagerare, al ritmo della musica. Già soltanto per questo era valsa la pena di vivere tutti quegli eventi incredibili del suo penoso viaggio. Nonostante tutte le incertezze, sapeva che finché avesse avuto la sua musica, avrebbe potuto essere la Zubaida che conosceva. Sia che le circostanze fossero familiari o assolutamente estranee, avrebbe saputo essere forte quando era necessario. Avrebbe potuto sostenere ogni genere di prova rimanendo tranquilla, perché la musica e la danza erano un’arma potente contro la disperazione. Forse, in futuro, quest’arma l’avrebbe protetta dalla tremenda depressione che così spesso attanagliava sua madre, che non sapeva danzare. Zubaida sapeva che senza musica non avrebbe potuto essere di aiuto agli altri perché sarebbe stata così di cattivo umore che nessuno l’avrebbe voluta attorno. […]”.

La danza e la musica sono la cura dove Zubaida ritorna in se stessa. Peter finisce di essere un chirurgo e diventa un padre: cambia pelle anche lui. Non vede più una paziente, ma una bambina, una eventuale figlia, e così per Rebecca, la donna che non può avere i figli, prova a essere una madre.

Negli ultimi capitoli l’autore racconta dal passato eventi che verranno dopo, dando la sensazione di giustificare in toto l’operato degli americani. E i dialoghi si riducono.  Nonostante tutto alla fine, la speranza rifiorisce nel sorriso pieno della bimba che danza.

§CONSIGLI DI LETTURA: la bambina che scriveva sulla sabbia

Le bambine: la sorgente creativa della comunità nel disporre l’orizzonte del futuro

La bambina che scriveva sulla sabbia di Greg Mortenson – © 2009 RCS Libri S.p.A., Milano Prefazione © Khaled Hosseini, 2009Titolo originale dell’opera: STONES INTO SCHOOLS

Semplicemente: è un libro in cui vale la pena tuffarsi, per percorrere la speranza dentro l’inferno più cupo.

“[…] Un giorno del 1993, in un villaggio tra Pakistan e Afghanistan, Greg Mortenson ha visto una ragazzina che, seduta in terra, imparava a scrivere usando un rametto come penna e la sabbia come quaderno. Promise, a se stesso e alla piccola studentessa, che le avrebbe costruito una scuola vera, con banchi, lavagne, matite. Oggi, dopo che di scuole ne ha costruite oltre cento e ha raccontato la sua storia nel best seller mondiale Tre Tazze di Tè, Mortenson torna a scrivere di quei due Paesi e dei loro bambini, della violenza che sembra condannarli e della speranza che può regalare loro un futuro diverso. Una testimonianza entusiasmante e commovente, la sfida di un eroe disarmato, convinto che l’ingiustizia e la povertà si possono combattere senza bombe, sui banchi di scuola. […]”

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“[…] La filosofia di Greg Mortenson è semplice. Si basa sulla sincera convinzione che la vittoria nel conflitto in Afghanistan non arriverà grazie ai fucili o agli attacchi aerei, ma grazie a libri, quaderni e matite: gli strumenti del benessere socio-economico. Privare i bambini afghani dell’istruzione, afferma Mortenson, equivale a compromettere per sempre il futuro del Paese e a spegnere sul nascere la minima prospettiva di maggiore prosperità e benessere. […]”

“[…] Mortenson ripete sempre questo mantra: «Istruire un ragazzo significa istruire un individuo; istruire una ragazza, invece, significa istruire una comunità». […]”.

Lo stile del libro è asciutto, simile a una cronaca giornalistica, anche perché narra di fatti veramente accaduti, esposti in modo chiaro e rilevanti immediatamente per la prosecuzione degli eventi scritti al presente.

L’obiettivo primario delle ragazze diplomate è quello di diventare infermiere e ostetriche, per salvare le donne dal parto e garantire un anno di vita almeno ai nati. L’autore si accorse immediatamente che una maggiore alfabetizzazione per le donne, corrisponde all’aumento di reddito, a sposarsi di poco più tardi, ad avere meno aborti e meno morti per parto, e meno figli, nel senso di avere un numero accettabile che garantisca la comunità e non un aumento esponenziale della popolazione e quindi della povertà.

“[…] All’epoca, trovai questo imprevisto e i conseguenti rinvii esasperanti. Soltanto anni dopo cominciai a comprendere l’immenso valore simbolico del fatto che prima di costruire la scuola fosse assolutamente necessario realizzare un ponte. La scuola, naturalmente, avrebbe ospitato tutte le speranze risvegliate dalla promessa di istruzione, ma il ponte incarnava qualcosa di più elementare: le relazioni che nel corso del tempo avrebbero sostenuto quelle stesse speranze e senza le quali qualsiasi promessa sarebbe equivalsa a una manciata di parole vuote. Terminammo la scuola di Korphe nel dicembre del 1996. Da allora, ogni altro edificio scolastico che abbiamo realizzato è stato preceduto da un ponte. Non necessariamente da una struttura fisica, ma da un arco di legami affettivi accumulati in molti anni e rinsaldati con molte tazze di tè bevute insieme. […]”.

Occorreva la costruzione dei ponti e la volontà di intessere rapporti con gli abitanti, rispettando le culture, entrare in punta di piedi, bere il tè, per costruire le case in zone impossibile le più sperdute. E sono gli uomini: i contrabbandieri, i mercenari, i truffatori che capiscono l’importanza di tutto ciò per i figli e per le figlie; addirittura dagli anziani che rigettano le idee dei talebani. Le donne devono studiare per sopravvivere, e non crepare di parto

“[…] Ma ciò che contava ancora di più, credo, era il fatto che in ogni comunità parlavamo e ci confrontavamo con gli anziani e i genitori per capire di che cosa secondo loro avessero bisogno. In un certo qual modo, anche se eravamo arrivati in quella valle così provata per costruire scuole e promuovere l’istruzione, invitavamo le persone del posto a diventare i nostri insegnanti. Così, Sarfraz e io finimmo con l’apprendere nuovamente la lezione che mi era stata impartita, tanti anni fa, da Haji Ali, il nurmadhar dalla barba d’argento del villaggio di Korphe. Quando trascorri il tempo ad ascoltare effettivamente, con umiltà, ciò che la gente ha da dire, è sorprendente quanto c’è da imparare. Specialmente se capita che le persone che stanno parlando sono bambini.

[…]”

“[…] La descrizione che Farzana fece di quanto era accaduto quella mattina fu molto vivida ed eccezionalmente ricca di dettagli; non solo la lucida precisione delle sue parole, ma anche il modo in cui i suoi pensieri e le sue emozioni sembravano attraversarle il volto mentre parlava mi portarono a chiedermi se quella ragazza avrebbe potuto spiegarmi perché ora i ragazzi sopravvissuti faticavano a frequentare regolarmente le lezioni. Le posi la domanda. «Perché nelle tende non ci sono banchi» disse con molta disinvoltura. Interessante, ma anche strano. In questa parte del mondo, molte case non hanno le sedie e le persone stanno più comode sedute per terra. In molte delle nostre scuole in tutto il Pakistan e l’Afghanistan, non è insolito che un’intera classe sia seduta per terra con le gambe incrociate mentre l’insegnante resta in piedi. La mancanza di banchi mi parve una strana ragione per non andare a scuola. «Come mai i banchi sono così importanti?» chiesi. «Perché i bambini si sentono più sicuri» mi spiegò poi, con i banchi, le tende somigliano di più a una vera scuola.» Questo sembrava più plausibile, e annuii, ma non aveva ancora terminato. «Ma anche se le lezioni fossero tenute all’esterno, dovrebbero esserci lo stesso i banchi» aggiunse. «Solo allora i bambini verranno a scuola.» Mi parve alquanto misterioso, ma c’era qualcosa nella schiettezza di Farzana che mi spinse ad avere fiducia in lei. Così, il giorno successivo, Sarfraz e io cominciammo a rovistare in un cumulo di macerie in quel che rimaneva della scuola femminile e scovammo i pezzi sparsi di varie decine di banchi. Quel pomeriggio chiamammo a raccolta alcuni uomini e li pagammo perché cominciassero a rimetterli a nuovo. La notizia di questa attività si diffuse rapidamente e, nell’arco di un’ora o due dalla sistemazione dei banchi nella tenda, decine di bambini erano in fila per entrare nelle classi. Farzana aveva capito che, nelle menti dei bambini, i banchi rappresentavano una prova concreta che almeno entro i confini delle loro aule erano tornati ordine, stabilità […]”

I banchi come spazio intimo luogo di sé assieme a tutti i compagni.

“[…] Il capo degli uomini armati, un tipo con sopracciglia nere e una barba perfettamente curata che iniziava a ingrigirsi, era Wohid Khan, il capo della Border Security Force (BSF) del Badakshan, ovvero colui che ci aveva dato ospitalità in casa sua e ci aveva offerto la cena durante la notte dei disordini di Baharak nell’autunno del 2005, quando incontrai per la prima volta Abdul Rashid Khan e firmai il contratto per la scuola dei chirghisi a Bozai Gumbaz. Ormai quarantaduenne, Wohid Khan aveva iniziato a combattere i sovietici alla giovane età di 13 anni, e, come molti altri ex mujaheddin la cui educazione era stata interrotta dalla guerra, teneva in gran conto l’istruzione e la vedeva come la chiave per riparare ai danni di circa tre decenni di combattimenti. Era appassionato di letteratura femminile e della costruzione di scuole per ragazze, e insieme al suo amico mujaheddin commandhan Sadhar Khan, era diventato uno dei nostri alleati più importanti nel Wakhan. […”.

E anche loro come i soldati americani che combatterono in Afghanistan e in Iraq aiutarono Greg  per la costruzione delle scuole, per dare loro le licenze, chiarire chi fossero le varie etnie nei luoghi più disparati e a quali anziani rivolgersi per intavolare le riunioni (le Jirga bevendo le tazze di tè per convincerli a costruire le scuole e principalmente le scuole per le ragazze e le bambine). È impressionante rilevare nel libro come gli uomini più duri, i combattenti che hanno visto i morti, subire le bombe, versare sangue per anni e decenni, e a loro volta feriti, e che impararono a combattere con qualsiasi arma, alla fine la loro aspirazione e richiesta più PROFONDA FU QUELLA DI COSTRUIRE LE SCUOLE, IN PRIMO LUOGO PER LE BAMBINE). Al culmine della guerra, e delle atrocità che vissero sia i soldati americani, sia i Mujaheddin, sia i talebani che fuggirono dal Mullah Omar, sia i famigerati e temibili combattenti Kirghisi, tutti volevano la stessa cosa: Le scuole.