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CONSIGLI DI LETTURA: L’INVENZIONE DELLA SOLITUDINE

“L’invenzione della solitudine (The Invention of Solitude) 1982, Ed. Italiano 1997, Einaudi, Torino, di Paul Auster (Autore), Massimo Bocchiola (Traduttore)

Cosa si potrebbe dire di Paul Auster? Il ritmo della narrazione è intimamente correlato con l’evento, tradotto nel fatto narrato. Lo stile è parte integrante del messaggio, e, nello scorrere del testo si apre come una gondola che culla il lettore navigando nelle acque della scrittura.

Sembra così naturale il modo in cui narra. Rievoca riflettendo nell’uso di stili diversi e cambiando con una eccellente appropriatezza il timbro degli aggettivi, li aggroviglia con partitivi aggettivali e predicativi in una spirale senza fine. Eppure ciò si integra in una cadenza piana, traslata in una esposizione lineare delle linee del racconto che, in modo armonico, espone lo sviluppo della trama.

La soffice e leggera scansione degli eventi, nasconde il pensiero a più dimensioni parallele di Paul Auster, mentre scrive. Non è dato sapere se avesse già in mente una disposizione così complessa e ben integrata. Il punto è che o se all’inizio, o durante la scrittura, o nelle successive revisioni, alla fine, emerge questo fiume lento di parole che è in realtà una individuazione di diversi piani tematici, innestati su una varietà impressionante di stili di scrittura. Il monologo apre una doppia finzione di un dialogo tra lo scrittore e i personaggi assenti. Dai tempi passati, a quelli rievocati, che giocano con l’interpretazione della loro relazione in un participio passato che allontana lo scrittore nel momento in cui rievoca.

I verbi e i modi sembrano orbite di un sistema solare, dove la stella pulsa una ciclica riflessione a una domanda.

Il libro è composto in due racconti. Si parte dell’esperienza luttuosa della morte del padre, con la quale si inizia un percorso inverso di memoria per riportarlo in vita rispetto al figlio, che già lo vedeva assente da anni. La seconda parte è dedicata a suo figlio, e qui vi sono giochi di specchi rispetto alla precedente sezione.

Il protagonista è lo stesso scrittore che declina in una serie di rimandi a più opere che viaggiano parallele a un tratto, incidenti in un altro, coincidenti fino ad essere completamente divergenti, mantenendo ognuna la gamma degli espedienti letterari classici di narrazione.

Quest’opera forse può essere anche intesa come un diario di memorie che fabbrica un romanzo per creare una vita di relazione tra il padre e il figlio, mai accaduta, e una riformulazione di domande fondamentali che rappresentano il vivere stesso dell’autore, attraverso la sua individuazione di scrittore.

Questo romanzo rende di più nella lettura in lingua, in particolare dell’anglo americano del nord est, che si immerge in una variazione armonica da un tono alto, elegiaco, a quello colloquiale, aneddotico e popolare. Il tono umoristico nella lingua italiana è più attenuato nei mottetti di spirito, nei giochi di parole, nei riferimenti alle ricette culinarie, ai personaggi televisivi, e più in generale alla cultura pop rievocata in lampi di frasi. Questi ultimi, però, nella cultura profonda degli USA, hanno significati che rimandano a luoghi retorici e a stereotipi sui caratteri delle persone, sui modi di dire, sulle frasi fatte, sul patrimonio di senso comune.

33-34 “[…] Quando ho iniziato credevo che tutto sarebbe sgorgato spontaneamente, come l’effetto di una trance. Tanta era l’urgenza di scrivere che pensavo che la storia si sarebbe fatta da sé. Ma fin qui le parole sono uscite cosí lentamente: anche nelle giornate piú produttive non sono mai riuscito a scrivere piú di una pagina o due. Come fossi malato, inchiodato da un’incapacità della mente a concentrarsi su quello che sto facendo. Piú volte ho visto i miei pensieri volare via dal lavoro che ho di fronte. Non fa in tempo a venirmi un’idea che questa ne evoca un’altra, e poi un’altra, finché i dettagli non si accumulano cosí fitti che mi sento soffocare. Mai prima d’ora avevo percepito tanto chiaramente lo spazio che divide pensiero e scrittura. Negli ultimi giorni, in realtà, ho avuto la sensazione che la storia che sto tentando di scrivere sia come incompatibile con il linguaggio, e che il suo grado di resistenza a esso dia la misura esatta di come sono vicino a dire qualcosa di importante. Poi, quando arriverà il momento di dire l’unica cosa importante (sempre ammesso che esista), non ci riuscirò. C’è stata una ferita, e scopro adesso quanto fosse profonda. Invece di guarirmi come pensavo, l’atto di scrivere l’ha tenuta aperta. Ne ho sentito anche il dolore, concentrato nella mia mano destra, al punto che ogni volta che prendevo la penna e la premevo sul foglio la sentivo straziata, dilaniata. Invece di compiere la sepoltura di mio padre queste parole l’hanno tenuto in vita, forse adesso piú che mai. Non solo lo vedo com’era, ma com’è ancora, come sarà, e tutti i giorni è qui a invadere i miei pensieri penetrandovi furtivo, senza preavviso; disteso nella bara sotto terra, col corpo ancora intatto, le unghie e i capelli che continuano a crescere. Ho l’impressione che, se voglio capire qualcosa, dovrò entrare in quell’icona di tenebra, penetrando l’oscurità assoluta della terra. […]”

7-12 “[…] Ancor prima di fare i bagagli e partire per le tre ore d’auto che ci separavano dal New Jersey, sapevo che avrei dovuto scrivere di lui. Non avevo un progetto, né una precisa idea di che cosa questo volesse dire. Non ricordo nemmeno di averlo stabilito. Semplicemente era lí, come una certezza, un comandamento che cominciò a imporre la sua legge nel momento in cui appresi la notizia. Pensai: mio padre non c’è piú. Se non faccio in fretta, tutta la sua vita scomparirà con lui. Riflettendoci adesso, anche da una distanza breve come tre settimane, quella reazione mi pare molto strana. Da sempre ero convinto che la morte mi avrebbe stordito, paralizzato di dolore; ma adesso che era accaduto, non versai una lacrima, non mi sentii come se il mondo attorno a me fosse crollato. Chissà come, mi scoprii preparato ad accettare la sua morte, per inaspettata che fosse. A turbarmi era un altro pensiero, staccato dalla morte di mio padre e dalla reazione che mi suscitava: il constatare che non aveva lasciato tracce. Non aveva moglie, né una famiglia che dipendesse da lui, nessuna vita sarebbe stata modificata dalla sua assenza. Forse per un attimo avrebbe spaventato un gruppetto di amici, scossi non meno dall’idea dei capricci della morte che dalla perdita subita; ma sarebbe stato solo un breve cordoglio, poi piú nulla. Come se non fosse mai vissuto. Era assente già prima di morire, e le persone piú vicine a lui avevano imparato da un pezzo ad accettarne l’assenza, considerandola il tratto piú essenziale del suo essere. Adesso che se n’era andato, non sarebbe stato difficile per il mondo assimilarne la scomparsa definitiva: la natura della sua vita – una specie di morte anticipata – aveva preparato il mondo circostante alla sua morte, e se e quando lo avessero ricordato, sarebbe stato una memoria vaga, niente piú che vaga. Digiuno di passioni per le cose, le persone o le idee, incapace o avverso a svelarsi in qualsiasi circostanza, era riuscito a mantenersi staccato dalla vita evitando di tuffarsi nel vivo delle cose. Mangiava, andava al lavoro, aveva amici, giocava a tennis, eppure non era presente. Era un uomo invisibile nel senso piú profondo e piú concreto: invisibile agli altri, e molto probabilmente anche a se stesso. Se da vivo continuavo a sondarlo cercando in lui il padre che non c’era, sento ancora il bisogno di cercarlo da morto. La sua morte non ha cambiato nulla. L’unica differenza è che mi manca il tempo. È vissuto da solo quindici anni. Caparbio, opaco, come immune dal mondo. Piú che un uomo che occupa uno spazio, sembrava un blocco di spazio impenetrabile in forma di uomo. Il mondo lo colpiva di rimbalzo, gli sbatteva contro, a volte aderiva a lui, ma non lo attraversava mai […]”

53-55 “[…]  Per tutta la vita sogno di diventare milionario, di essere l’uomo piú ricco del mondo. Non desiderava tanto il denaro in sé, ma ciò che esso rappresentava: non solo il successo agli occhi del mondo, ma uno strumento per rendersi intoccabile. Possedere denaro non significa soltanto la possibilità di comprare le cose, ma anche la certezza che il bisogno universale non ti toccherà mai. Denaro come protezione, dunque, non come voluttà. La povertà sofferta da bambino, e la conseguente vulnerabilità ai capricci del mondo, gli resero la ricchezza sinonimo di immunità dal male, dalle sofferenze, dall’essere vittima. Non cercava tanto di comprarsi la felicità quanto l’assenza di infelicità, e i soldi divennero la panacea, l’oggettivazione dei suoi desideri piú profondi e inesprimibili. Non ambiva a spenderli, ma a possederli, alla certezza di poter contare su di loro. Insomma, il denaro non era un elisir, ma un antidoto: la bottiglietta che ti porti in tasca avventurandoti nella giungla… nel caso ti mordesse un serpente velenoso […]”

Dal secondo racconto lui, lo scrittore che è padre anch’esso appena separato dalla moglie, cerca però un contatto con suo figlio e lo richiama nella sua biografia adolescenziale.Rimane affascinato dalla scoperta che Anne Frank è nata lo stesso giorno di suo figlio. Il dodici giugno. Sotto il segno dei Gemelli. Un’immagine gemellare: un mondo dove tutto è duplice, e ogni cosa si ripete sempre due volte. La memoria: lo spazio in cui le cose accadono per la seconda volta.

E da qui si esplicita la solitudine come spinta a utilizzare il potere della memoria e il suo ruolo nel plasmare la nostra identità.

Il secondo racconto è suddiviso in paragrafi numerati ove ogni volta si ricomincia a porre lo schema del richiamo del ricordo. Talvolta è autobiografico, altrove è inventato, ed entrambi gli inizi sono riproposti in modo ciclico con persone e tempi diversi. La memoria è lo sfondo di un oceano che, in base alle nostre attuali presenze, lascia riaffiorare frammenti temporali.

L’uso di analogie e assonanze tra nomi di figli, luoghi e personaggi serve a creare un’atmosfera onirica e a sottolineare la fluidità della memoria. I confini tra la realtà e l’immaginazione si sfumano, e il lettore è invitato a immergersi nel flusso di coscienza del narratore.

L’archeologia della memoria ha anche la funzione di connettersi con le persone amate e con quelle fissate in rapporti interrotti.

Vi è un paragrafo in cui Auster sempre nel secondo racconto, analizza dal francese “x, persona, me stesso, vuole dire”. Questa locuzione composta non è banale. Egli scrive che sotto sotto “intende dire”. Cioè questa è la sua intenzione di dire, dove questo dire ancora deve uscire fuori, ovvero entrare nel linguaggio che si manifesta nel dire orale, nella scrittura, nella rilettura. Questo “dire” non è una semplice asserzione, un sasso gettato lì, intero, intonso, immutato. È una selezione di altri detti, di memorie, di situazioni, di tutti i se stessi del passato, dimenticati e di poco ora riaffiorati. Sono tracce indirette che hanno costruito le prime esperienze del bimbo con il padre. Le esperienze primigenie sono a noi oscure, perché sono servite a creare le strutture del ricordo. Ciò implica che noi siamo individuazioni limitati nel “dire”.

Non è un caso che alla fine del racconto si propone la lettera di Nadežda Jakovlevna Mandel’štam che scrive al suo amato Osip Ėmil’evič Mandel’štam imprigionato nel gulag sovietico, non sapendo se sia vivo o no. Da un ricordo rievocato Ella immagina che Osip stia pensando a Lei e che stiano insieme in questa memoria del futuro inventata. La meraviglia fu che Osip scrisse veramente una lettera analoga dal gulag prima di morire.  

Il linguaggio è uno strumento potente, ma non è in grado di esprimere tutto. Ci sono cose che non possiamo dire perché non le conosciamo o perché non abbiamo le parole per farlo. Il “dire” che non può essere detto rimane nell’ombra, come una parte di noi stessi che non può essere completamente espressa. La consapevolezza della nostra finitezza ci spinge a vivere con maggiore intensità, rendendo giustizia al tempo che abbiamo a disposizione. La lettera su indicata è un esempio di come la memoria possa creare un ponte tra il passato, il presente e il futuro.

La “solitudine” è posta come una condizione necessariamente legata alla creazione artistica, e in particolar modo all’atto della scrittura, che non è intesa univocamente nell’isolamento, ma in una meditazione che tenta di ricongiungere ciò che è separato, all’interno di una nuova prospettiva che tenta di allargare la vita, un attimo prima della fine, attraverso la produzione e la fruizione artistica. Il centro della narrazione, infatti, non è un evento accaduto e raccontato, ma l’atto stesso del racconto e della parola. In questa oscillazione vi è uno spostamento continuo della voce narrativa, che si tramuta in quella del racconto stesso che visita i personaggi.

Qui si mostra anche il paradosso insito nella condizione della solitudine dello scrittore che, sebbene sia fisicamente solo in una stanza, è accompagnato dai fantasmi della letteratura e della scrittura degli altri. La “solitudine si mette a parlare”, ed è attraversata da citazioni esplicitate o semplicemente incorporate nel testo, che rimandano alla tradizione della letteratura e della cultura universale, da Pinocchio alle Mille e una notte, dalle riflessioni sulla mnemotecnica ai Pensieri di Pascal, dalle poesie di Holderlin fino alle riflessioni di Freud sul perturbante.

La scrittura si ripiega e parla di se stessa, del suo infinito cominciare a dire l’evento che non può più tornare ad essere, ma è continuamente. Non resta che dire questa impossibilità, e l’unico modo in cui ciò è possibile, è quello della scomparsa di un io narrante che si fonde con la pluralità e l’instabilità di una voce neutra, quella della voce narrativa. Così, tra la scomparsa e la solitudine si viene a creare una risonanza fondamentale che riguarda il modo di creazione dell’opera. La scomparsa non è causa della solitudine e la solitudine non è uno stato di abbandono.

E di ciò il lettore ne è testimone.

§CONSIGLI DI LETTURA: Tutto Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle

Tutto Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle
(Autore), Nicoletta Rosati Bizzotto (Traduttrice),
2010, Newton Compton Editori, Roma

Perché Leggere i romanzi e i racconti con Sherlock Holmes oggi? I testi di critica sono riprodotti su decine di chilometri di biblioteche. Le sue opere sono tradotte in una quantità sterminata di scene teatrali e successivamente di trasmissioni cinematografiche e televisive. Oggi le sue trame sono una costellazione lattea di figure topiche e in modi di dire.

In particolare per chi è più giovane ed è nato a ridosso della fine del 1900, è illuminante la lettura di tutta l’opera di Conan Doyle riferita a Sherlock Holmes per rilevare gli usi e i costumi del periodo, in un’ottica antropologica e comparativa. Molti dei termini e dei giudizi attribuiti alle persone, alle razze, ai rapporti con le divinità e le autorità, per noi, oggi, sarebbero considerati razzisti, orrendi, settari, sciovinisti, di un maschilismo millenario ordalico.

Lo stesso Sherlock in particolare nei primi racconti degli anni ottanta del 1800 era introdotto nelle sue fasi ciclotimiche di depressione, iperattività, fissazioni ossessive sui casi, o sulle sue ricerche di botanica, di chimica, di medicina, fino alla compilazione frenetica di informazioni quotidiane, in gran parte gravitanti in fatti luttuosi, disastrosi, criminosi.

Indagava in modo compulsivo con travestimenti e con stratagemmi in cui simulava anche eventuali malattie e stati prossimi alla morte, pericolosamente vicini alla realtà. Era un oppiomane e cocainomane, dipendenze poi sfumate nei racconti dopo il 1900 da parte dell’autore attraverso Watson, che in qualità di medico lo convinse ad abbandonare tali abitudini.

Oggi Sherlock Holmes sarebbe appellato con una lista poderosa di patologie psichiche e comportamentali. Watson, dapprima militare ferito, dipendente anche lui dalla morfina, poi sposato con una protagonista dei racconti, ma via via dimenticata, e quasi come se nulla fosse, egli ritorna a vivere con Sherlock. Consapevolmente o no, i due ripropongono la coppia degli eroi complementari, che, per rimanere entrambi protagonisti, e non assumere una inevitabile deriva antagonista, hanno abilità e deficienze, ognuna negativa dell’altra in modo tale che possano essere congiunte. Tale dialettica infinita che si avvita a spirale, è il motore che permette la prosecuzione del racconto.

Vi è una ripetibilità che parte da una scena di tranquillità omofila, in un rapporto tra i due, che oscilla tra il cameratesco, alla schietta amicizia, alla irritabilità di una coppia di lungo corso, ad un affetto dapprima paterno-filiale che si inverte a seconda dei racconti. Watson continua a svolgere la sua funzione di medico, e anche se nella tradizione appare come quello meno dotato, in realtà è un elemento necessario per Holmes in quanto, svolgendo il ruolo di cassa di risonanza, permette ad Holmes di svolgere in modo lineare le sue ipotesi per tradurle in un resoconto che ricostruisce gli eventi tragici nel loro svolgimento, nelle loro cause, determinando quindi la tipologia di reato e la gravità rispetto agli attori coinvolti.

Sì, i due protagonisti mutano comunque in decenni di racconti le loro caratteristiche, non solo perché il loro autore avanza di età negli anni, ma per lo stesso pubblico borghese che si espande, e richiede, quindi, una lettura sempre più vorace e frequente, anche per la maggiore reperibilità dei tabloid che fornivano pagine ulteriori dei racconti, dapprima pubblicati in edizioni più economiche per la relativa stampa e diffusione con strumenti tecnologici sempre più efficienti ed innovativi.

Comparvero in quei decenni sensibilità democratiche più spinte e istanze di piena partecipazione al vivere quotidiano, ed istituzionale di parti della popolazione sempre più ampie. E ancor di più del pubblico femminile che, in Inghilterra, non era più inscritto nel dominio dei romanzi d’amore in senso classico, in cui la protagonista subisce le intenzioni dell’eventuale amato e che risponde solo per reazioni ad una trama precostituita e a lei esterna. No: non è un caso infatti che nei racconti più maturi, le donne via via assumono un tono da protagonista, e non più da vittima, anche in quello di eroina negativa, ma non perché indotta da una sua deficienza emotiva, o da una moralità infima, ma per le sue capacità, volte al male e alla delinquenza.

Vi è molto dell’autore e della sua biografia nei due protagonisti. Tante abitudini e modi di vedere la realtà, appartengono a Conan Doyle, il quale fu un giornalista abile, uno scrittore che si interessò di scrivere di storia, appassionato di ogni novità scientifica, che in quei tempi esplodeva nei campi dell’archeologia, della biologia e della medicina. Avvertiva, anche per le sue esperienze di guerra e di viaggi in tutto il mondo, i punti di vista che l’antropologia culturale e l’etnologia offrivano nel comprendere i singoli e i gruppi sociali.

Questi racconti sono utili anche nel capire la tecnologia del periodo, la scansione del tempo che misura gli spazi attraverso le carrozze cittadine, i treni a carbone, la potente elettrificazione che nei primi racconti è assente, e quindi connotata dalle candele, per arrivare poi alle prime case illuminate. Dove ancora la prima fonte di calore è quella del caminetto, e si parla di borghesi quasi benestanti. Non è un caso che si fanno riferimenti alla cena fredda. Riscaldare le pietanze costava. E si cucinava una volta sola e per più piatti. Quindi ancora le soprascarpe e gli immancabili soprabiti da casa e le vestaglie per ripararsi dal freddo e per non sciupare i vestiti per uscire. Le strade erano piene di fango e di sporcizia. Tracce che Holmes rilevava per comprendere l’origine e le attività dei suoi interlocutori.

Il brandy era considerato una medicina, come pure il fumare i sigari e le pipe. La mole dei dati giornaliera aumentava ogni giorno. Non è un caso che Holmes cataloga eventi, scoperte di nuove specie, denominazione di nuovi composti rocciosi, specie batteriche, floreali, fino a quelle delle alghe marine. Noi con i nostri personal computer, e archivi digitali, per lo studio, il lavoro, il diletto, per diario, per hobby e anche per dati inutili che mai approfondiremo, siamo come loro.

Ecco il punto, e questo vale per chi è più anziano. Anche se la maggior parte dei quarantenni in su, non ha mai letto alcunché di Conan Doyle, però sicuramente avrà visto migliaia di film, ore di telefilm, vissuto in modo di dire, e assorbito una mentalità inconscia deduttiva, catalogante e calcolante, che Sherlock Holmes e anche Watson applicavano per conoscere, orientarsi nel mondo e risolvere i problemi, nella fattispecie ricostruire i casi.

Non vi era una eccessiva condanna morale di coloro che perseguivano i reati, affinché il pubblico borghese leggesse in modo più disteso, senza subire una pericolosa identificazione, nel rilevare i tic e le miserie morali degli eroi negativi. Da bravo artigiano cronista, giornalista, indagatore quale era Conan Doyle, attirava l’attenzione del pubblico meno acculturato e più facile alla distrazione, attraverso l’uso dell’ironia, dell’offerta di situazioni ridicole di contorno.

Compare allora il canone del “giallo” che si distacca dall’orrorifico, dal demonio e al conseguente annichilimento tragico di tutto e di tutti. Nella lotta laica tra il bene e il male del racconto “giallo”, tutto ritorna e deve essere ricomposto in una ripartizione di giustizia retributiva e proporzionale. L’ordine riporta la realtà, non la sublimazione dei protagonisti in figure implete. Ed ecco allora la ripetibilità della trama: la lotta diventa un rito, dove il mistero si presenta per essere svelato.  

Il racconto “giallo” londinese è quello della nebbia, in particolare mista anche allo smog che la faceva da padrone in quegli anni. La cronaca nera, lo scontro titanico tra l’autorità e il delinquente, il bene e il male, porta al mutamento radicale di tutto, e invece qui, lo scontro è interno al mondo, che è stabile, che muta e cresce. Il giallo quindi è la mancanza di conoscenza, di un percorso, di un perché degli eventi, di una ricostruzione di ciò che è appena accaduto. Ma si è sicuri, comunque, che tutto ciò esiste ed è razionale, e può essere ridotto in concatenati e logici elementi: “Elementare Watson”.

Il racconto “giallo” quindi determina una dialettica del racconto tra gli antagonisti che è volta ad una conclusione in cui la nebbia dirada, e quindi si ritorna all’evento accaduto, o quasi da compiere, inquadrato, nel come, quando, dove. La trama assume le vesti di una cronaca giornalistica, e di un perché (il livello giudiziario). Alla lunga è accomodante per il lettore, e induce alla pigrizia, ma non si è il caso di attribuire noi giudizi severi, perché il risolutore di cruciverba cosa fa? Chi guardia serie televisive simili? O chi legge saghe e cicli di libri dove già si intuisce un finale, come nelle attuali saghe “Fantasy”?

Saremmo ingenerosi, se inscrivessimo quest’opera soltanto in uno stratagemma innovativo per attirare i lettori. Vi è molto di più: questi racconti contribuiscono a creare uno stile moderno e per noi contemporaneo di ciò che definiamo borghese e laico, determinando inoltre l’apertura letteraria ed estetica alla donna in quanto soggetto senziente, sempre più lucido, e calcolante. Fattori per niente ammessi nei periodi indicati.

Arthur Conan Doyle è uno scrittore moderno perché apprende in tempo reale il complesso dei mutamenti che via via emergevano tra le tecnologie della produzione dei testi, la loro diffusione e fruizione, rispettivamente per quote sempre più ampie e diversificate del pubblico. Sperimenta una tecnica che diventa una nota distintiva del suo stile nel coinvolgere il lettore nel suo racconto, richiamando la sua attenzione, dialogando negli intermezzi della trama, per riannodare i fili e spiegare alcune azioni dei protagonisti e anche semplici modi di fare. Il tutto richiamando racconti precedenti in cui Watson a sua volta ricorda di averne scritto di queste avventure già accadute.

Insomma avviene un gioco degli specchi, in cui l’autore usa i racconti precedenti, richiamati dallo stesso Watson, che, a sua volta, in qualità di curatore del diario delle avventure e di sue pubblicazioni per il suo pubblico che è all’interno del racconto, delinea la biografia itinerante di questa relazione tra i personaggi e l’autore. Le avventure di Sherlock Holmes agiscono in modo centripeto, risucchiando la città di Londra, l’Inghilterra, l’Europa, nel cavallo di due secoli.

Più volte Watson scrive che Sherlock è morto, per poi rivelare che è uno stratagemma per le sue indagini, oppure scrivendo un altro racconto in un tempo traslato in quello dell’avvenimento che appare sempre più sfumato. Così Conan Doyle dichiara di voler smettere di scrivere di loro due, eppure nei decenni ci ritorna, con un tono sempre meno avventuroso e più lirico, per raggiungere le spiagge del mito, in cui le gesta sono collocate in luoghi atemporali, e senza più omicidi, in cui il mistero, il problema diventa il vero protagonista: la mentalità razionale e l’approccio di indagine sperimentale.

§CONSIGLI DI LETTURA: LIBERA NOS A MALO

Libera Nos s Malo, 1963 di Luigi Meneghello,
Settima edizione (8 febbraio 2006), Rizzoli, Milano

“[…] Il titolo è un gioco di parole tra l’espressione evangelica “liberaci dal male” e il paese natale di Malo in provincia di Vicenza. Meneghello propone in una sorta di rivisitazione autobiografica gli usi, i costumi, le figure tipiche, la vita sociale che ha conosciuto nel corso della sua infanzia e giovinezza nel paese natale e traccia un ritratto della provincia vicentina, della sua gente e della sua cultura dagli anni trenta agli anni sessanta […]”

All’interno del discorso relativo alla funzione antropologica e letteraria del dialetto, proprio degli anni sessanta del secolo scorso, Meneghello esplicitamente scrive che esso rappresenta il volume delle correnti sotterranee dell’oceano dei nostri modi di comunicare in noi stessi, nel mondo, e tra il tempo in cui il presente, il passato e il futuro giocano, inventando percorsi temporali infiniti. Ogni percorso è una biografia individuale che si rifrange, si moltiplica, cambia nelle memorie.

Tali correnti dispongono il patrimonio delle coorti generazioni che permette la costruzione infinita delle comunità. Ovvero il luogo in cui i soggetti hanno la fiducia di attribuire simboli, significati, azioni e scopi adeguati, congruenti e conformi nelle interazioni che ognuno ha con l’altro. E in particolare anche a quelli che risiedono nelle fantasie, nelle memorie, e nelle biografie continuamente reinventate.

La lingua formale italiana è vista da Meneghello nella funzione di un artefatto successivo a quello che è originario della comunità, in particolare alla prima manifestazione nella biografia di ognuno: il rapporto con la madre e i genitori, quindi alla casa, e successivamente all’ambiente circostante, come la stia, la via, la cascina, il villaggio.

Nel dibattito dei due decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, relativo alla autonomia conoscitiva e al fondamento della soggettività di ogni agente sociale, tra il linguaggio italiano istituzionale e quello dialettale, all’interno delle variazioni e delle preferenze che attribuivano a una visione polare un peso distintivo tra le due sorgenti creatrici dell’identità e del senso del tempo, Meneghello in via prioritaria non attribuisce uno schema “vero-genuino” per una e “imposto-artefatto” l’altra. O ancora che un polo sia il vero luogo del linguaggio e l’altro una tappa di crescita biografica.

Meneghello imposta la sua visione nella forma dialettale che è in osmosi con la comunità: questa si riconosce tale perché è nel luogo di interazione dei dialetti, in cui è in essa si riconosce, usandola come strumento e fonte di significato nell’attribuire senso e coerenza agli scopi prefissi di sopravvivenza, di relazione e di proiezione rispetto al mondo (ciò che ignoto e lontano).

Carlo Emilio Gadda in quel periodo usava il dialetto per approfondire le tecniche narrative del linguaggio e sue relazioni tra lingua e idiomi. Pierpaolo Pasolini lo intendeva come il luogo della concretezza del singolo rispetto ai mutamenti sociali ed economici, in cui la valenza comunicativa e culturale rappresenta l’affermazione di una propria dignità e di autonomia di rivendicazione sociale diretta. Meneghello ammette che nel dialetto abbiamo una immediatezza originaria tra parola e cosa. L’esperienza infantile, infatti, nell’acquisire il dialetto in modo embrionale e impreciso, definisce una forma vocativa e idiomatica ambigua nell’uso delle parole verso le cose. L’esperienza primigenia è per sua natura metamorfica. La comunità è questa mappa che, crescendo nella biografia, denota una struttura di senso per orientare gli scopi di mantenimento e di riproduzione della comunità stessa.

La lingua formale è sempre posteriore non tanto in senso temporale, per il singolo, ma è derivata in senso logico rispetto al dialetto. È la costellazione delle insegne stradali, ovvero delle regole che devono essere estese alle relazioni tra i singoli prescindendo dall’esclusività del singolo. Occorre un riconoscimento sì, ma una separazione di ogni biografia del linguaggio nelle interazioni sociali tra il nome e la cosa. Emerge allora la necessità di perseguire la coerenza, la distinzione, tra il segno, il simbolo e il soggetto in uno schema riproducibile e riconoscibile, e per questo occorre una mediazione. Ecco allora che per Meneghello sono veri e concomitanti i mondi dei due linguaggi, dove lui bimbo, e altri bimbi si trovano a comunicare. In tale contesto il linguaggio istituzionale è accessibile in virtù della mediazione del linguaggio del nido, quello vernacolare e quindi quello della comunità, che con la sua crescita si amplia sempre più, fino a mutare in un luogo separato simbolico e di memoria con quello sociale (istituzionale).

Ma, vi è un “ma”. È un romanzo sì, ma può essere inteso anche come un gigantesco affresco poetico, che non riesce ad essere tale, perché collassa in una forma in prosa. Un testo di poesia che è proiettato quasi topologicamente in un piano di prosa.

Nel linguaggio dialettale per Meneghello vi è una osmosi tra la parola e la cosa, e ogni variazione fonetica della parola dialettale è unica, e quindi tutte quelle che appaiono, coprono il mondo dell’esperienza. Questa ipotesi genera un dissidio con incoerenze nascoste. Non è un caso che il testo dello scritto inframezza la narrativa con cantilene, proverbi, detti, vocativi: cioè il linguaggio poetico che è voce, suono.

E il linguaggio poetico serve perché è verticale secondo le caratteristiche del dialetto posto da Meneghello stesso, cioè osmosi e non semplice rapporto (come nel linguaggio formale) tra parola e cosa. È un ottimo stratagemma, forse inconsapevole: lui ci si è trovato. Non poteva fare altrimenti. Il libro, se lo si legge anche sentendo la voce interiore e il suono, sembra cantata, più precisamente narrata secondo lo stile un grande vecchio dei paesi dell’Africa che racconta la storia di tutto il villaggio, partendo dall’inizio e non può essere interrotto. Deve percorrere tutto il tragitto per riviverlo, adattandolo in rapporto alla disponibilità, alla memoria e al sistema simbolico dell’ascoltatore. E quindi serve il mito, il ciclo, la paratassi, l’analogia.

E la prima è la voce il suono. Si parte dalla madre per il dialetto, cioè il luogo del vernacolo. Ma è proprio vero che l’osmosi tra la parola e la cosa sia così originaria e immediata? Non può essere che anche essa sia derivata in modo diverso rispetto a quella istituzionale del linguaggio formale?

I suoni e le vibrazioni sono già a livello intrauterino tra madre e figli. Prima ancora degli occhi e del verbo. Le frequenze e le relazioni specifiche uniche e irripetibili tra madre e embrioni, costituiscono la derivazione invece originaria nella nascita dove vi è il vocativo. L’urlo di nascita. Non è già quella una separazione tra nome e cose, tra voce, soggetto e oggetto? Ora tutto ciò è comune per ogni madre di ogni tempo. Ma il punto però è che l’idioma mantiene la sua osmosi anche con lo stratagemma poetico che è verticale, nel tempo attraverso le memorie e queste si nutrono delle interazioni che uno ha verso il mondo. E quindi anche con il linguaggio istituzionale dove egli stesso è un produttore di suoni, significati e simboli. E questi servono poi ai dialetti per offrire simboli coerenti ai percorsi biografici di ognuno.

La poesia aiuta, ma proprio perché è verticale, è libera di nuotare tra correnti superficiali e sotterranee e agire e parlare in modo concomitante (e non stratificato) all’interno di ogni vocativo co tutti i livelli e profondità.

Ciò comporta allora l’ipotesi che i dialetti e i linguaggi formali siano mediati entrambi, rispetto a qualcosa di altro, e la forma poetica ci avverte come una sonda di questo “nascosto”.

Ecco perché questo libro di Meneghello è da vivere, percorrendo consapevolmente con la propria biografia, per incorporarlo nel nostro sentire vocativo, evocativo, comunitario e sociale. Ci ritroveremo in esso. Sentiremo che siamo tutti collassati, ma non per questo ridotti a una stenografia di un mondo. Anzi, siamo molto di più e abbiamo tanto da parlare, e poetare di ciò che è il nostro tesoro.

§CONSIGLI DI LETTURA: NON PER ME SOLA. STORIE DELLE ITALIANE ATTRAVERSO I ROMANZI

Questo libro offre una imponente bibliografia ragionata e ben documentata delle storie delle italiane dall’Unità d’Italia ad oggi, scritte da donne. Romanzi alti, e d’appendice, di tutte le offerte per i tipi di pubblico che emergevano, mostrano come dalla scrittrice più quotata a quella “popolare”, la produzione di storie fosse una porta per affermare la piena soggettività della donna, mai realizzata nella storia dell’umanità.

Vi sono nomi che abbiamo letto distrattamente nelle antologie scolastiche, altri sentiti di velocità da un canale all’altro della tv o da canzone nella radio. Risuonano familiari i luoghi evocati, le gesta, i luoghi comuni, gli archetipi dei personaggi, anche se non si è letto nulla e non si ha nemmeno in mente l’immagine dell’autrice.

Eppure ci sentiamo a casa, tutti, uomini e donne, perché questi libri riguardano la nostra infanzia, la vita di tutti noi e di tutte le donne, e ciò è valido per i maschi, perché di grandi scrittori che hanno parlato delle donne ne abbiamo, MA DA UN PUNTO DI VISTA maschile. Ed è qui il punto: lo scrittore maschio quando narra le gesta e le storie, anche le più abbiette cerca di trovare qualcosa di lirico ed eroico, in particolare nei protagonisti maschili. Quelli femminili solitamente vengono sacrificati con dolore e con sangue.

Per le autrici no.

LE DONNE CHE SCRIVONO NON INVENTANO IN MODO ASTRATTO, PERCHÉ PARLANO DELLA LORO VITA E DI TUTTE LE ALTRE DONNE. In carne ed ossa. Le protagoniste dei romanzi delle donne, assieme alle autrici, sono giudicate, criticate, condannate. Le donne scrivendo storie, e romanzi, e biografie, rivendicano la propria memoria, una possibilità di esistenza preclusa dai maschi, dalle leggi, dagli usi e dalle consuetudini. Una donna si poteva uccidere, se tradiva. Non l’uomo. Era il maschio che decideva se una donna dovesse crepare o no di parto. Il maschio decideva dei figli come tenerli, come darli via eventualmente e sottrarli alla madre. La figlia femmina non poteva scegliere: eventualmente elemosinare una concessione di qualche anno di studio. Una donna non poteva uscire e recarsi all’estero senza il permesso del marito o del padre. Tutto ciò fino a pochissimi decenni fa, qui, in Italia.

Ancora oggi vi sono disparità e sono tendenze che partono dalla grande e continua letteratura di queste donne. Conosciute tutte. E se si invertono i modi di lettura, ecco che anche quelle meno dotate dal punto di vista artistico, in realtà hanno compiuto opere inenarrabili solo per riuscire ad ottenere un foglio e una matita, e strappare quote di tempo liberato per scrivere. Tantissime riuscirono per pochi padri e mariti illuminati, ma sempre per una DECISIONE di questi ultimi. Anche i più combattenti per le cause delle donne, in realtà, agli occhi nostri, avevano strati interi di quello che noi oggi diremmo “maschilismo”.

In tutto questo la figura della madre, il ruolo della maternità è l’epicentro di ogni conflitto. La sorgente massima di vita, di tempo, di senso, idolatrata dalle canzoni dei maschi, dai libri dei maschi. La madre è il ciò che è “sacro”: decorporata, se paga il suo ruolo con il dolore, il sacrificio, il sangue. La donna che salva la società, il matrimonio, i figli, il senso comune, è quella che si suicida o che diventa cattiva, pazza internata in manicomio, isterica: insomma se si autosopprime, o se è inscritta nella devianza. Se la donna si ribella, lo fa perché è una malata, o una criminale, o affetta dal demonio. Deve sacrificarsi per ristabilire l’ordine attraverso la tragedia. Questa è la base dei romanzi maschili.

Le donne che scrivono riprendono questi temi, ma nel contempo mostrano, attraverso il loro vissuto interiore, la donna violata, schiavizzata, lentamente annichilita, nella famiglia, nel matrimonio, nei figli, in modo diretto, a colori e non idealizzato. Tantissime opere nel passato vennero censurate, criticate, reputate violente, bugiarde, scandalose. E non è un caso, mostravano il tabù: la donna è come l’uomo. Può pensare, agire, e l’uomo, le leggi, i valori hanno bisogno di lei, sopprimendola in questa relazione coatta. Fino a pochi anni fa, una donna non poteva neanche ereditare le proprietà. Rimangono ancora queste leggi in dottrina: si pensi al cognome. La donna cede il suo nome, cede il figlio e la figlia. Cede il figlio alla patria e fa la ruffiana affinché la figlia possa sposarsi e rivestirsi con un cappio: meglio questo che la schiavitù della strada che porta alla morte precoce.

Tante donne hanno dovuto abbandonare i loro figli. Condannate per aver concepito un figlio fuori dal vincolo giuridico e quindi costrette ad abbandonarlo e celarlo al padre, a meno che quest’ultimo non lo rilevasse a qualche famiglia che lo accudisse. Condannate, comunque, per averlo abbandonato. Giudicate dalla prole, perché causa della separazione. Salvano la famiglia diventando schiave, e disprezzate perché si sono ridotte in schiavitù.

Uccise e torturate. Ma vi sono anche romanzi del riscatto, di crescita, di liberazione e di speranze, di nuovi stili poetici e di parole.

La lettura di questo libro, se presa sul serio, rende i grandi capolavori maschili degli ultimi centocinquanta anni molto più limitati, e più sbiaditi. Le opere di queste donne che trattano dell’Italia, dell’Europa, del mondo, parlano di se stesse a colori, senza sconti, nella bellezza e nell’abiezione, negando l’astrattezza dei protagonisti.

Tutti, sia i capolavori sia gli scritti d’appendice, mostrano la bugia del tragico che svilisce la donna, e principalmente la figura materna, quella che svela il limite e l’ipocrisia del potente e dei meccanismi di oppressione.

I maschi che leggeranno cercando di porsi in modo diretto come le autrici, immaginando di essere veramente loro stessi i protagonisti di questi romanzi, biografie, novelle, ricostruzioni storiche, proveranno un senso di ripulsa e di negazione all’inizio. Se, però, si compie il tuffo verso noi stessi, considerando che il primo urto causerà disappunto, vergogna, ipocrisia, la spogliazione del proprio io, conferirà la possibilità di parlare con il proprio passato, con il proprio femminile e con tutte le donne non viste e non considerate. Si acquisiranno nuove proprietà linguistiche, di scrittura e di immaginazione, abbracciando il dolore e la gioia di vivere di questo oceano di donne.

§CONSIGLI DI LETTURA: Bellezza di Mario luzi

In Poesie Ultime e ritrovate (1994-2005), 2014, Garzanti, Milano

Va letto tutto. Sfogliando a caso nel mezzo del libro, riporto questa poesia (Bellezza). Mario Luzi ha dentro la prosodia. Ha un ritmo innato e coltivato negli anni di letture, esercizi, prove, e di vita vissuta per ogni aspetto del suo vivere. La lingua italiana: aperta nelle vocali, con un ampio spettro cromatico in relazione alle variazioni di timbro delle consonanti. La possibilità di variare gli accenti nei versi secondo ritmi regolari, con forme che si avvertono immediatamente nella composizione dello scorrere del verbo parlato e scritto. È La bellezza della lingua italiana nella possibilità di variare nelle gutturali, nelle dentali, conferendo il ritmo poetico dell’armonia dei suoni, nella capacità di mantenere la coerenza d’accento nella variazione dei volumi sonori.

Tutto ciò permette la costruzione di complessi legami tra i versi e le strofe che richiamano strutture coerenti tra le armonie sonore, in modo che l’orecchio le percepisca. La colossale capacità della lingua italiana di sostenere la musicalità del canto poetico in una quantità impressionante di sequenze di versi, senza mai cedere alla facile caduta e appiattimento del verso deteriorato in prosa.

Mario Luzi scrive in modo rarefatto in apparenza, ma tale leggerezza deriva da una densa riflessione sui temi trattati in concomitanza al suo estro poetico che è fisico e immediato. La bellezza si subisce. L’estetica è un patimento in cui il corpo e la mente avvertono la loro divisione creduta, nella possibilità di esprimere la gamma dei sentimenti, scaturiti dalle emozioni in rapporto al mondo. La realtà spinge, irrita, penetra, muove, strabilia, strugge, impaurisce, allarga il giudizio che noi abbiamo del nostro stare con noi stessi e nel mondo.

Nei primi tre versi il mondo si presenta innanzi a noi, nel suo stare davanti e dentro il nostro sentire, che è la base del pensare e del parlare. La bellezza, la forma, il volto. Le regolarità in cui il pensiero determina se stesso attraverso il linguaggio scaturiscono dalle forme che avvolgono i visi degli umani, dei paesaggi, degli alberi, delle case, del cielo, dell’orizzonte, in cui il collegamento comune è quella indeterminatezza che è denominato il bello. Non a caso Mario Luzi scrive il termine “sentiamo”. Bellezza ti sentiamo, ma non ti vediamo, non riusciamo a definirti, ma è impossibile negare che tu non sia. In questi primi tre versi il mondo si presenta e noi riceviamo cognizione di noi stessi attraverso il mondo, con il sentire che è illusione e incanto. Cioè lo stupore, la meraviglia: il cuore del nostro pensare anche nel suo decadimento nel linguaggio e nel verso.

La poesia incanta. La sorpresa blocca quello che crediamo sia il pensiero. La bellezza mostra la nostra limitatezza: liquefa i muri regolari che noi creiamo nell’illusione che sia il mondo. Si noti come gli ultimi tre versi si concludano con le dentali. Cioè abbiamo un blocco della riflessione, perché essa avverte che noi eravamo nell’illusione dei giudizi creduti stabili. La bellezza, la forma e il volto ci ammutoliscono, e quindi le dentali bloccano il fluire del verso, perché inadeguato a descrivere nel ritmo poetico tale sentire.

E tale consapevolezza è comune. Il poeta qui è già aperto in questo sentire che avverte l’essere comune a ognuno. Questo noi è di colui che legge, che poetizza, che semplicemente avverte tale meraviglia. L’irresistibile senso poetico che è l’elemento comune di ciò che è umano.

Il verso successivo è una esortazione nella consapevole idea che la bellezza non è da noi eterodiretta, e la si prega della sua benevolenza o in modo invertito nel ritmo del verso, nel quale noi stessi si sia capace di sorridere, cioè di sostenere la propria apertura verso il mondo. Tale sorriso non manifesta la sua presenza, ma richiama un segno che traluce tra l’ombra del mondo, che è tale perché copre una sorgente che abbaglia; impossibile da vedere integralmente. La mente, cioè la riflessione su tale sentire, si innalza ovvero sente la convinzione che i pensieri possano mantenere tale sorriso che è contemplazione, nel giudizio che qualsiasi opera, parola, progetto sulla bellezza è una contraddizione: l’impossibilità a rinchiuderla, ovvero a serrare la sua bocca. La luce del verbo che traluce.

E poi nella consapevolezza che agisce al di là dei nostri intendimenti, e quindi nella nostra necessità di fornire un quadro compiuto del mondo, che è impossibile a determinare, allora noi, non lei, cala a precipizio. Ciò ci sgomenta, ma lo sgomento è il nostro calare del precipizio dell’illusione di averla afferrata, e quindi in una oscurità opaca che non permette il tralucere.

Si noti il gioco dei due versi tra il “tralucere” e il “talora”. E anche qui le dentali sono poste in modo invertito, rispetto ai due versi precedenti che si concludevano con altre due dentali. Questo collegamento incrociato, mirabile, di livello altissimo nella prosodia, permette a noi lettori di comprendere il senso logico, fisico, estetico di questo scorrere poetico con apparente semplicità, come se tale discorso fosse naturale, senza bisogno che ci si fermi a riflettere del doppio gioco che si pone tra le attività del nostro io verso il mondo.

Questi versi sono il resoconto di millenni di senso estetico, dipinti dalla meraviglia, in modo apparentemente leggero e per noi lineare nella lettura. Non avvertiamo nel magnifico gioco delle consonanze e delle assonanze che la lettura quasi lineare è una illusione che maschera una struttura complessa del discorso con variazioni multiple di cadute verticali emotive. A noi sembra appunto elementare tale discorso, perché Mario Luzi, non attua metafore, allegorie, allusioni, rimandi, ma pone il tema davanti, con la sua capacità poetica nel mostrare che tale oggetto è inafferrabile, e appunto tale gruppo di versi mostra l’impossibilità di presentarlo compiutamente nel verso. Sono versi denotanti una negazione che, attraverso la chiarezza dei legami consonantici, a noi risuona immediatamente innanzi. Qui è la grandezza di questo poeta.

Mario Luzi mostra il ritmo del parlare e del verso, di ognuno di noi, nell’innalzare e nel calare, le armoniche dei pensieri sugli orizzonti del mondo.

Il verso successivo apre una danza contraria rispetto alla esortazione del sorridere, che è quello di chiudersi, perché appunto consapevoli di non essere noi gli artefici del suo essere. La bellezza è paga, piena, non abbisogna di noi: ecco la meraviglia e lo stupore. L’indifferenza non è della bellezza, perché altrimenti sarebbe personificata. L’indifferenza diviene dalle nostre illusioni di descriverla, cioè di differirla. Il nimbo è questo luogo indescrivibile. La nuvola non ha forma e non ha volto. Cangiante nella continua risposta a esser descritta.

Tale verso di esortazione è un inganno, perché è una ripetizione del verso precedente sul sorridere, e fa credere che sia la bellezza ad agire e ad essere in relazione con noi. I due versi invece descrivono le nostre reazioni: il nostro sentire che vorrebbe dare la forma, cioè del sorriso che è aperto. La preghiera informa del consapevole artificio della sua inutilità che non dipende da noi. La bellezza che noi avvertiamo, è lo stupore della nostra impossibilità, che può esser descritta non da un comando, ma da una esortazione che è l’estetica sensazione della propria limitatezza.

“Non dormire in te” è la prosecuzione dell’inganno poetico, cioè io poeta dormo nella mia illusione che sia artefice della possibilità di incantarmi della bellezza, intervenendo su essa. Cioè versificando su di essa. Il termine “profondi” è trasformato in un aggettivo verbale, che, con le locuzioni omesse, crea un collegamento nascosto nel ritmo poetico nell’esortazione a non dormire. Il termine “profondi” avverte la presenza dell’oscuro, corrispondente per il poeta all’aprirsi alla grazia, ovvero a ciò che è di inaspettato e impossibile da contrattare, ma che può comunque arrivare. Tale possibilità implica l’impossibilità a dire che non arriverà mai. Non tanto perché si sa della grazia, ma perché noi, sia per la bellezza sia nello sprofondare nel mondo dell’indicibile, non possiamo definire alcunché. L’esortazione del poeta è nel suo verso e nella sua ultima illusione che la grazia sia.

Questa poesia ha quattro gruppi di esortazioni aventi la funzione di sorreggere le strofe, che giocano sulle sibilanti della limitatezza, della bellezza e sull’innalzare che taglia i nostri pensieri. Tale limitazione avviene per il sentire attraverso lo sgomento e il senso del profondo. Il legame del verso raccorda i due termini nel ritmo le due esortazioni finali relative alla grazia, la quale essendo prodiga, mostra il nostro volere piccolo e bugiardo.

La poesia conclude con il termine “Siilo”. È una meravigliosa chiusura di un sentire dolce, timido, consapevole e universale. Che tu lo sia. “Siilo” è la radice di tutti i versi della poesia con questa sibilante iniziale “SI..” che fa da contraltare con le “z” che tagliano. È una preghiera di speranza. L’ultima illusione di questo immenso poeta.

Bellezza, lo sentiamo

che sei al mondo.

Qualche transitiva forma

ci illudiamo ti sorprenda.

Da qualche raro volto

ci fulmini e ci incanti.

Sorridi, se puoi, traluci

tutta quanta: la mente

innalza allora i suoi pensieri,

talora, lo so, cala

a precipizio dentro i suoi sgomenti.

Non chiuderti però,

ti prego, paga

o indifferente nel tuo nimbo,

non dormire in te, profondi

in chiarità

viva la grazia – fu prodiga

con te lei, tu pure

vogliamo che lo sia. Siilo.

§CONSIGLI DI LETTURA: la bambina che scriveva sulla sabbia

Le bambine: la sorgente creativa della comunità nel disporre l’orizzonte del futuro

La bambina che scriveva sulla sabbia di Greg Mortenson – © 2009 RCS Libri S.p.A., Milano Prefazione © Khaled Hosseini, 2009Titolo originale dell’opera: STONES INTO SCHOOLS

Semplicemente: è un libro in cui vale la pena tuffarsi, per percorrere la speranza dentro l’inferno più cupo.

“[…] Un giorno del 1993, in un villaggio tra Pakistan e Afghanistan, Greg Mortenson ha visto una ragazzina che, seduta in terra, imparava a scrivere usando un rametto come penna e la sabbia come quaderno. Promise, a se stesso e alla piccola studentessa, che le avrebbe costruito una scuola vera, con banchi, lavagne, matite. Oggi, dopo che di scuole ne ha costruite oltre cento e ha raccontato la sua storia nel best seller mondiale Tre Tazze di Tè, Mortenson torna a scrivere di quei due Paesi e dei loro bambini, della violenza che sembra condannarli e della speranza che può regalare loro un futuro diverso. Una testimonianza entusiasmante e commovente, la sfida di un eroe disarmato, convinto che l’ingiustizia e la povertà si possono combattere senza bombe, sui banchi di scuola. […]”

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“[…] La filosofia di Greg Mortenson è semplice. Si basa sulla sincera convinzione che la vittoria nel conflitto in Afghanistan non arriverà grazie ai fucili o agli attacchi aerei, ma grazie a libri, quaderni e matite: gli strumenti del benessere socio-economico. Privare i bambini afghani dell’istruzione, afferma Mortenson, equivale a compromettere per sempre il futuro del Paese e a spegnere sul nascere la minima prospettiva di maggiore prosperità e benessere. […]”

“[…] Mortenson ripete sempre questo mantra: «Istruire un ragazzo significa istruire un individuo; istruire una ragazza, invece, significa istruire una comunità». […]”.

Lo stile del libro è asciutto, simile a una cronaca giornalistica, anche perché narra di fatti veramente accaduti, esposti in modo chiaro e rilevanti immediatamente per la prosecuzione degli eventi scritti al presente.

L’obiettivo primario delle ragazze diplomate è quello di diventare infermiere e ostetriche, per salvare le donne dal parto e garantire un anno di vita almeno ai nati. L’autore si accorse immediatamente che una maggiore alfabetizzazione per le donne, corrisponde all’aumento di reddito, a sposarsi di poco più tardi, ad avere meno aborti e meno morti per parto, e meno figli, nel senso di avere un numero accettabile che garantisca la comunità e non un aumento esponenziale della popolazione e quindi della povertà.

“[…] All’epoca, trovai questo imprevisto e i conseguenti rinvii esasperanti. Soltanto anni dopo cominciai a comprendere l’immenso valore simbolico del fatto che prima di costruire la scuola fosse assolutamente necessario realizzare un ponte. La scuola, naturalmente, avrebbe ospitato tutte le speranze risvegliate dalla promessa di istruzione, ma il ponte incarnava qualcosa di più elementare: le relazioni che nel corso del tempo avrebbero sostenuto quelle stesse speranze e senza le quali qualsiasi promessa sarebbe equivalsa a una manciata di parole vuote. Terminammo la scuola di Korphe nel dicembre del 1996. Da allora, ogni altro edificio scolastico che abbiamo realizzato è stato preceduto da un ponte. Non necessariamente da una struttura fisica, ma da un arco di legami affettivi accumulati in molti anni e rinsaldati con molte tazze di tè bevute insieme. […]”.

Occorreva la costruzione dei ponti e la volontà di intessere rapporti con gli abitanti, rispettando le culture, entrare in punta di piedi, bere il tè, per costruire le case in zone impossibile le più sperdute. E sono gli uomini: i contrabbandieri, i mercenari, i truffatori che capiscono l’importanza di tutto ciò per i figli e per le figlie; addirittura dagli anziani che rigettano le idee dei talebani. Le donne devono studiare per sopravvivere, e non crepare di parto

“[…] Ma ciò che contava ancora di più, credo, era il fatto che in ogni comunità parlavamo e ci confrontavamo con gli anziani e i genitori per capire di che cosa secondo loro avessero bisogno. In un certo qual modo, anche se eravamo arrivati in quella valle così provata per costruire scuole e promuovere l’istruzione, invitavamo le persone del posto a diventare i nostri insegnanti. Così, Sarfraz e io finimmo con l’apprendere nuovamente la lezione che mi era stata impartita, tanti anni fa, da Haji Ali, il nurmadhar dalla barba d’argento del villaggio di Korphe. Quando trascorri il tempo ad ascoltare effettivamente, con umiltà, ciò che la gente ha da dire, è sorprendente quanto c’è da imparare. Specialmente se capita che le persone che stanno parlando sono bambini.

[…]”

“[…] La descrizione che Farzana fece di quanto era accaduto quella mattina fu molto vivida ed eccezionalmente ricca di dettagli; non solo la lucida precisione delle sue parole, ma anche il modo in cui i suoi pensieri e le sue emozioni sembravano attraversarle il volto mentre parlava mi portarono a chiedermi se quella ragazza avrebbe potuto spiegarmi perché ora i ragazzi sopravvissuti faticavano a frequentare regolarmente le lezioni. Le posi la domanda. «Perché nelle tende non ci sono banchi» disse con molta disinvoltura. Interessante, ma anche strano. In questa parte del mondo, molte case non hanno le sedie e le persone stanno più comode sedute per terra. In molte delle nostre scuole in tutto il Pakistan e l’Afghanistan, non è insolito che un’intera classe sia seduta per terra con le gambe incrociate mentre l’insegnante resta in piedi. La mancanza di banchi mi parve una strana ragione per non andare a scuola. «Come mai i banchi sono così importanti?» chiesi. «Perché i bambini si sentono più sicuri» mi spiegò poi, con i banchi, le tende somigliano di più a una vera scuola.» Questo sembrava più plausibile, e annuii, ma non aveva ancora terminato. «Ma anche se le lezioni fossero tenute all’esterno, dovrebbero esserci lo stesso i banchi» aggiunse. «Solo allora i bambini verranno a scuola.» Mi parve alquanto misterioso, ma c’era qualcosa nella schiettezza di Farzana che mi spinse ad avere fiducia in lei. Così, il giorno successivo, Sarfraz e io cominciammo a rovistare in un cumulo di macerie in quel che rimaneva della scuola femminile e scovammo i pezzi sparsi di varie decine di banchi. Quel pomeriggio chiamammo a raccolta alcuni uomini e li pagammo perché cominciassero a rimetterli a nuovo. La notizia di questa attività si diffuse rapidamente e, nell’arco di un’ora o due dalla sistemazione dei banchi nella tenda, decine di bambini erano in fila per entrare nelle classi. Farzana aveva capito che, nelle menti dei bambini, i banchi rappresentavano una prova concreta che almeno entro i confini delle loro aule erano tornati ordine, stabilità […]”

I banchi come spazio intimo luogo di sé assieme a tutti i compagni.

“[…] Il capo degli uomini armati, un tipo con sopracciglia nere e una barba perfettamente curata che iniziava a ingrigirsi, era Wohid Khan, il capo della Border Security Force (BSF) del Badakshan, ovvero colui che ci aveva dato ospitalità in casa sua e ci aveva offerto la cena durante la notte dei disordini di Baharak nell’autunno del 2005, quando incontrai per la prima volta Abdul Rashid Khan e firmai il contratto per la scuola dei chirghisi a Bozai Gumbaz. Ormai quarantaduenne, Wohid Khan aveva iniziato a combattere i sovietici alla giovane età di 13 anni, e, come molti altri ex mujaheddin la cui educazione era stata interrotta dalla guerra, teneva in gran conto l’istruzione e la vedeva come la chiave per riparare ai danni di circa tre decenni di combattimenti. Era appassionato di letteratura femminile e della costruzione di scuole per ragazze, e insieme al suo amico mujaheddin commandhan Sadhar Khan, era diventato uno dei nostri alleati più importanti nel Wakhan. […”.

E anche loro come i soldati americani che combatterono in Afghanistan e in Iraq aiutarono Greg  per la costruzione delle scuole, per dare loro le licenze, chiarire chi fossero le varie etnie nei luoghi più disparati e a quali anziani rivolgersi per intavolare le riunioni (le Jirga bevendo le tazze di tè per convincerli a costruire le scuole e principalmente le scuole per le ragazze e le bambine). È impressionante rilevare nel libro come gli uomini più duri, i combattenti che hanno visto i morti, subire le bombe, versare sangue per anni e decenni, e a loro volta feriti, e che impararono a combattere con qualsiasi arma, alla fine la loro aspirazione e richiesta più PROFONDA FU QUELLA DI COSTRUIRE LE SCUOLE, IN PRIMO LUOGO PER LE BAMBINE). Al culmine della guerra, e delle atrocità che vissero sia i soldati americani, sia i Mujaheddin, sia i talebani che fuggirono dal Mullah Omar, sia i famigerati e temibili combattenti Kirghisi, tutti volevano la stessa cosa: Le scuole.

#RACCONTARE LA SCRITTURA. QUINTA PARTE.

Dal mese di dicembre 2018 al mese di gennaio 2019 mi fermai per saturazione e per dedicarmi ad altre attività. L’insoddisfazione riprese. Ricominciai a scrivere nel mese di febbraio 2019 e nel mese di marzo del 2019. Arrivai alla fine già riposta nei mesi precedenti, scrivendo una o due pagine al giorno, che risultarono più dense, coerenti e lineari. Mi imposi di non pensare a ciò che fu scritto in precedenza, confidando nel flusso del mio inconscio nel mantenere la trama, cioè nello scriver facendo.

Nel mese di aprile 2019 ricominciai dalle pagine con la data del giorno 1 settembre 2017. A parte le prime pagine che erano già strutturate perché tante volte immaginate negli anni, mi resi conto che un taglio netto di intere parti, avrebbe comportato una soluzione pigra e ottusa. Dovevo, invece, decantare ogni riga, analogamente al vino e all’aceto, trasferendole in altre botti e cisterne sintattiche, depurandole per ogni passaggio.

Ricopiai il testo in un’altra cartella denominata “Secondaversionlibroeaprile2019”.

Nei primi giorni di aprile 2019 cominciai a riscrivere trasformando, se necessario, le parafrasi e le mie introduzioni in dialoghi, con la postilla di porre in risalto la fisicità, il tratto e le caratteristiche dei personaggi. Al lettore occorre fornire la possibilità di percepire senza sforzo il personaggio nella sua interezza, che naturalmente si svela e si forma attraverso gli eventi in un lento e costante cammino, senza sosta.

I personaggi dovevano essere caratterizzati maggiormente nei tic e nelle loro movenze sporadiche per fornire indizi circa gli avvenimenti futuri. Tutto ciò era accompagnato dalla correzione dei refusi più grossolani e dall’analisi delle ripetizioni. Quando notavo che in due o tre pagine si ripetevano i concetti, mi imponevo di non cancellarle, dandomi il tempo di comprendere il motivo della mia ostinazione a indugiare in quei luoghi retorici. Quasi sempre nella lettura del giorno dopo, rilevavo temi nascosti, fino a quel momento impossibilitati a emergere. Da questa analisi retrospettiva le centinaia di pagine dei primi capitoli furono condensate in stesure più ordinate.

Nel mese di maggio 2019 procedetti più velocemente. Negli ultimi giorni del mese mi fermai per analizzare la scansione degli eventi, spostandone alcuni che reputavo non conformi alla logica della trama. Configurai una prima linea dei capitoli, disponendoli in temi omogenei. Ne primi giorni di giugno, arrivai quasi alla fine.

Ricominciai daccapo in una nuova cartella denominata “Terzaversionelibrogiugno2019”. Affinai ancora di più i dialoghi. L’opera di sintesi continuò tra gli stessi e le descrizioni. Mi imposi di ridurre i miei interventi diretti per trasformarli o in dialoghi o in una singola frase di un personaggio. La mia precedente attività poetica mi aiutò nel gestire la tensione per sintetizzare il ritmo degli eventi. Parallelamente continuai a correggere la sintassi, nel tentativo di alzare il livello dello stile narrativo.

Nel mese di luglio 2019 ricominciai daccapo con una nuova cartella denominata “Quartaversionelibroluglio2019”, – ovviamente conservando tutte le altre – e affiancando le nuove date alle precedenti, come una collana temporale. Ogni testo aveva all’inizio date che partivano dal 2017 fino al 2019. Nel mese di luglio 2019 mi sentivo in stato di grazia. Avevo la sensazione che gli stessi personaggi mi stessero indicando le correzioni, le piccole aggiunte e le condensazioni. Emergeva un ritmo della narrazione non più episodico, ma correlato per ogni paragrafo. Condensai moltissimo, senza programmarlo. In questa fase fui attento a togliere le frasi gergali. Mi accorsi che inconsciamente usavo dei “leitmotiv”, cioè riusavo frasi, modi di dire, locuzioni che mi permettevano di ritornare su ciò che era sedimentato da settimane. Scrissi locuzioni del tipo: “sarebbe stato” – “come” – “fosse stato” – “avrebbe” – e tante altre.

“Perché li usavo?”

Interpretando foneticamente i dialoghi e i personaggi, mi davo inconsciamente una cadenza per connettere i periodi in un flusso continuo paratattico. Dovevo, quindi, trasformarli in una sintassi lineare, perché l’ipotetico lettore non è nella mia testa e in particolare nella mia sfera emotiva. L’autore distaccandosi dal testo, bussa alla porta del pubblico porgendo le pagine e i segnalibri, ma rimanendo fuori dall’uscio.

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Nel mese di luglio 2019 andai velocissimo, nonostante non badassi al tempo.

Nel mese di agosto 2019 scrissi un’altra cartella “Quintaversioneagosto2019”. Parallelamente all’opera di condensazione, affinai lo stile e la sintassi e scrissi anche le parti lasciate in sospeso. Nell’ultima decade di agosto scrissi un’ennesima cartella “Sestaversioneagosto2019”, e ricominciai daccapo, delineando i capitoli con i nomi che finalmente avevo individuato. La struttura era fitta di intrecci: era giunto il momento di semplificare i dialoghi. Ricominciai leggendo e reinterpretando anche in piedi ogni fase, adeguando la prosodia di ogni parlante in una fisicità sempre più spinta per offrire una densità maggiore di sensazioni e concetti in un modo più leggero. Nuove sintassi apparvero nella scrittura condensando alcune mie digressioni superstiti, incastonandole tra i dialoghi, affinché apparissero conseguenti al flusso degli eventi.

La redazione della “Sestaversioneagosto2019” continuò per tutto il mese di settembre 2019. Copiai il testo in un’altra cartella denominata “Settimaversioneottobre2019”. Iniziai daccapo stavolta interpretando la parte del redattore di giornale. Considerando i diversi stili di scrittura in base agli eventi e ai personaggi, modulai la prosodia, distaccandola dal mio ritmo nel parlare e nel muovermi. Analogamente a un’autovettura che usciva da un autolavaggio, ne intravedevo la carrozzeria a lucido, senza le mie orme.

La nuova cartella “Ottavaversionenovembre2019” fu pronta per ricominciare daccapo una feroce correzione della sintassi, accompagnata però da una giustapposizione logica degli eventi tra un capitolo e l’altro. A malincuore abbandonai alcune parti che avrebbero appesantito la linea degli eventi. Emerse la nausea: buon segno!

Era ora del congedo. Non sentivo più nessuno dietro le spalle. Mi ridussi a esser un redattore freddo e distaccato. Durante la metà di novembre 2019 scrissi ancora una “Novaversionenovembre2019”. Iniziai dall’ultimo capitolo a ritroso. Sintetizzai la sinossi iniziale di due anni prima, con l’aggiunta dei nomi che avevo deciso per i protagonisti. Inviai il testo per un controllo redazionale esterno nel mese di dicembre del 2019. E questo fu il trapasso: il libro è distaccato da me.

#RACCONTARE LA SCRITTURA. QUARTA PARTE.

Vi sono molti manuali per scrivere un romanzo: dal numero delle battute, dal ritmo di scrittura, dal consiglio dei tempi di pausa e di rilettura, dei tempi di risistemazione dell’intero impianto che via via si costruisce, dall’attenzione verso lo stile. Lessi così tanto nei decenni passati che nel momento di scrivere, invece non badai ad alcuna regola manifesta, generando un flusso, dotato, però, di trame articolate. Fu un indicatore che confermò di aver interiorizzato l’abissale mole di nozioni relative alle tecniche di composizione che mi paralizzò ripetutamente negli anni. La fretta fu il primo nemico. Anche scrivendo con frenesia, dovevo dimenticare l’orologio e le misure.

Nel mese di gennaio 2018 avevo una quantità di materiale spropositato per qualsiasi romanzo: centinaia e centinaia di pagine. Non volli contarle, avendole suddivise per settimane scrivendole con caratteri <Times New Roman> da 12, quindi molto più piccoli di una pagina standard di un romanzo. Avevo oltrepassato vistosamente il migliaio di pagine e con quello che mi mancava ancora e ripensando agli appunti degli anni precedenti, mi rifiutai di praticare qualsiasi somma parziale. Mi fermai, perché vidi che anche correlando alcuni argomenti con gli appunti degli anni precedenti, avrei offerto un’enciclopedia. L’elemento positivo emerse dalla consapevolezza d’aver creato un mondo: l’orizzonte degli eventi fu delineato.

Ricominciai a immaginare i luoghi dove i protagonisti in modo verosimile potessero agire e dialogare, oltre quelli che avevo introdotto all’inizio del mese di settembre 2017. Rividi il testo non indulgendo in pigre o mirabolanti soluzioni di svendita. Tali pretese solitamente si riducono in basse seduzioni per l’eventuale pubblico, ammiccando ad esso, nell’offerta di testi banali: vuoti di senso e di empatia. Dovevo seguire una linea coerente, dotata di livelli semantici paralleli che fossero letti con leggerezza, avendo nel contempo più chiavi sotterranee di lettura. Tutto doveva esser mostrato in modo indiretto, ma coerente e quindi con un tratto non episodico, mantenendo segni ancor più profondi con l’intelaiatura del libro. Di schemi già ne avevo troppi: dovevano soltanto esser richiamati nello <scriver facendo>.

Ricominciai daccapo nel mese di febbraio 2018, riprendendo le prime pagine. Mi dedicai a nuove recite solitarie dentro casa, parlando con i primi protagonisti delle pagine iniziali, chiedendo se i nomi fossero congruenti alla loro personalità e se il loro corpo fosse stato descritto in modo adeguato. Interrogai anche i luoghi descritti ristudiando atlanti, mappe, libri di storia online e di carta, valutando il clima, l’orografia, i luoghi urbani e non urbani. Recitai intavolando dibattiti anche con i loro tic e con i loro idiomi. E con le imprese di febbraio 2018, riscritte in una nuova cartella, sovrapponendo le nuove date di revisione, a casa non mi è venne a trovare più nessuno, essendo tutti molto preoccupati delle mie condizioni psicofisiche!

Cambiai alcuni nomi ai personaggi e attraverso il mio corpo, riflettei le loro movenze e qui l’attività del poeta mi aiutò nel manifestare fisicamente le loro forme. La scelta di alcuni tratti morfologici, comunque, non fu a caso, perché derivarono dai rispettivi luoghi di provenienza. Notai che alcune fasi erano monche, quindi nel testo aggiunsi richiami tra parentesi quadre che, come i messaggi in bottiglia, avrebbero dovuto indicare l’intento di sviluppi ulteriori, l’impegno a istituire nuove correlazioni con altre parti dello scritto e il compito di approfondire gli argomenti ritenuti imprecisi. Altre annotazioni valutarono parti del testo eccessivamente didascaliche, o involute in un linguaggio tecnico, riferito ai temi in oggetto di discussione. Nelle note scrivevo insulti verso me stesso, quando rilevavo frammenti di una prosa versificata. Nella seconda metà di febbraio del 2018 e per tutto il mese di marzo 2018 (inframmezzato da altre attività di scrittura), sviluppai le situazioni intermedie che in precedenza reputai monche. Il risultato fu che altre decine e decine di pagine si sommarono alle precedenti.

Nel mese di aprile 2018 mi bloccai. Scrissi quasi due o tre pagine, con conseguenti crisi depressive, fortunatamente di breve durata, perché compresi che l’inconscio mi stava suggerendo di riapprofondire alcune sezioni ancora non ben connesse con le nuove linee di sviluppo, in particolare con le vicende dei personaggi appena introdotti.

Il primo giorno di maggio 2018 ricominciai a scrivere avventurandomi in sentieri con personaggi non ancora emersi. Li salutai presentandoli, e parallelamente consolidai le schede dei personaggi precedenti, con riferimento ai ruoli, alle caratteristiche fisiche e psichiche, raccogliendo indizi circa gli eventi futuri. Scrissi in una situazione di libera leggerezza, senza preoccuparmi di dover terminare. Nei mesi di maggio, giugno, luglio e agosto 2018, al ritmo medio di una pagina o due al giorno, andai avanti. La trama divenne più densa e controllata. Scandivo i passi. E finalmente i dialoghi tra i personaggi assunsero una quota preponderante.

La qualità di un romanzo risalta principalmente dai dialoghi. Finalmente i personaggi agivano senza mie spiegazioni collaterali da voce narrante. Iniziavo a congedarmi.

Nei mesi di settembre e di ottobre 2018 proseguì avvicinandomi agli eventi finali. Mi fermai, perché mi accorsi di subire la fretta, atteggiandomi a un esecutore che chiude una fredda pratica amministrativa. Non potevo truffare il lettore. No. La fine doveva essere coerente con le ipotesi iniziali, determinando così una trama che mantenesse la tensione e la spinta a continuare a leggere, senza effetti speciali fumosi o stili monotoni. L’intero corpo del testo non era ancora adatto per una pubblicazione: disordinato negli stili, quasi delirante per un lettore ignaro, anzi addirittura traumatico per la mole: un peso fisico da tenere in mano. No. Se si vuole mantenere la tensione nelle fasi di riscrittura, ogni virgola e ogni scena deve essere ponderata come una formula chimica, e non solo seguendo le frasi e la bella sintassi. È necessario impegnarsi a determinare l’insieme delle occorrenze tra le azioni, i personaggi e le parole tra le pagine. Non si deve sedurre o appesantire il lettore, perché il testo deve accogliere integralmente il suo bagaglio di emozioni.

Durante i primi giorni del mese di novembre 2018 non riuscì più a scrivere una virgola, perché mi sentivo scisso nei ruoli dello scrittore, del lettore, dei personaggi e dei luoghi: nuovi livelli di delirio!

Mi reimposi l’unica regola che fissai l’anno prima: “Poni in secondo piano il tuo <io>. Ridiventa un amplificatore delle onde provenienti dall’inconscio. Traile sulla terraferma della scrittura, accogliendole tra le tue mani e rivestile di parole”.

Continuai a scrivere fino ai primi giorni del mese di dicembre 2018 in modo più rifinito. Correlai le situazioni e dialoghi caratterizzando i personaggi senza introdurli, lasciandoli parlare e agire. Le parafrasi, gli intermezzi, le spiegazioni e i miei interventi diretti diminuirono vistosamente. Lo scorrere del testo divenne meno torbido: dai venti tumultuosi dell’inizio, la costanza del ritmo fu data dal freddo vento Grecale che da sud est va a nord ovest. Dall’alba frizzante al lento tramonto.

#RACCONTARE LA SCRITTURA. TERZA PARTE

In quei primi giorni notai una distonia nel modo di scrivere. Quando componevo per le poesie, l’atteggiamento era incentrato su di me, sul mio corpo. Fungevo da collettore esprimendo il ritmo di sensazioni ed idee, traducendolo in narrazioni poetanti oppure in strutture versificate, naturalmente da rivedere da riaccostare. E in una seconda lettura riattraversandole con altre rime, esagerando anche in una spiegazione immediata delle stesse, permettendo una loro emersione in versi e il loro differenziarsi in prose. Talvolta, invece, la struttura appariva già delineata tra le mani, in strofe o in versi liberi, che proprio perché così vaghi, rappresentavano e rappresentano richieste di approfondimento, simili a sonde che invitano a penetrare ancor di più i fondali in movimento. Però, ancora, l’elemento comune è il mio nucleo emotivo, ovvero la rappresentazione scritta di quello stato che immediatamente tesseva il tono e il timbro espressivo. Ogni poesia riconduceva me stesso, attraverso il ritmo melodico sparso in cellule fonetiche: la cartina da tornasole che risponde a un marchio uguale per tutte. Ponendomi in modo passivo rispetto al contingente per patirlo poi nella risposta riflessa della versificazione, il vincolo di entrata ero sempre io. Il personaggio è unico: il poeta. Nel palco vi è solo il poeta e il suono della sua voce interiore.

Mi resi conto, anche se già formalmente ne ero consapevole, che nella scrittura di un romanzo non esiste un personaggio unico e che lo scenario, i luoghi, il palco, il palcoscenico, il pubblico, l’anfiteatro non sono una diretta emanazione dello scrittore, come nell’atto di poetare. Lo scrittore in prosa e in particolare di un romanzo, e non di un monologo, e tantomeno di un racconto, e ancora di una scena teatrale, deve mostrare un mondo che pian piano si snoda attraverso il racconto.

Dopo alcuni giorni mi bloccai, perché l’inconscio mi diceva: “Fermati! Stai correndo su una stradina che intorno non ha alcunché di evidente per il lettore. È tutto compresso negli appunti sedimentati dagli anni e nella tua testa”.

Infatti, ero io. Dove sono i protagonisti del romanzo? Quelli di contorno? Quali scenari? Non si possono mica inventare così, concentrandosi su un posto che magari si preferisce e si è sicuri di scrivere. E poi non è solo una questione di nomi. Ogni personaggio deve acquisire una vita propria. “Tutto giusto”, mi dicevo tra me e me. Certo: ma come? Quanto di più lontano rispetto alla pratica del poetare. Il poeta è presente a sé, anche nella fase di trance, o di dispersione, ma è la mia perdita. Sempre di me si tratta. Per il romanzo invece occorre che i protagonisti si distacchino dal personaggio che è l’emanazione dello scrittore, oppure ancora che abbiano una autonomia tale da esser reputati completi da parte del lettore, che ovviamente non sta nella mia testa e nel mio corpo di autore.

Mi rifermai. E cominciai come un attore, dentro casa, parlando da solo. Cercavo di sviluppare storie partendo dalla situazione che dovevo scrivere recitando a braccio e in piedi, con un flusso di parole e pensieri, tentando di distaccarmi e alterando la voce e le movenze, con le espressioni facciali dei primi protagonisti che avevo appena delineato. Dalla metà di settembre ai primi giorni di ottobre 2017, inframmezzandomi tra le attività quotidiane domestiche, recitavo davanti a una cinepresa immaginaria. Naturalmente alcuni sporadici presenti erano dubbiosi se chiamare la guardia medica 😀 –

Interpretando questi personaggi che via via apparivano mentre recitavo a braccio, anche le situazioni, gli scenari e i luoghi premevano per entrare. Ancora non mi era chiaro quali fossero in dettaglio, perché la logica della trama già scritta e riscritta negli anni precedenti, non bastava più. Era stretta. Vedevo innanzi oceani neri nella notte. Nello scoramento, però mi accorsi che li annusavo e li sentivo. Prima ero sordo. Percepivo altri protagonisti nascosti, mai pensati fino ad allora che bussavano nell’inconscio e tutti mi dicevano: “Guarda che senza di noi, gli altri sono vuote comparse. In più stai sempre dentro un luogo. Non esci mai da lì?”

Mi allargai sempre di più, scrivendo poi di corsa i tratti e i luoghi, ma non alla rinfusa, seguendo una logica ferrea. E il giorno dopo, con la mia solita domanda: “Ma come ci sono riuscito a tenere insieme questi livelli in contemporanea e a implicarne altri?”

Sbagliavo come sempre a pormi le domande, perché iniziavo con “io”, con quell’io che vuole dominare tutto. Il piccolo “io” che si crede il mondo, essendone invece una individuazione. Occorreva rendere concreti i personaggi nel caratterizzarli anche attraverso il luogo di origine, fissando i loro nomi, i ruoli, e configurando i gruppi formali e informali di appartenenza, dove questi chiedevano a loro volta una storia.

A metà ottobre ero sfiancato. Ogni passo in avanti ne apriva un altro. Ritornai ancora indietro nella scrittura, dopo che già la produzione di ottobre, dopo una recitazione che durava ore e ore nella mia testa, era quantitativamente mastodontica, con scritti di flussi di coscienza, dialoghi, caratterizzazione dei personaggi però dove talvolta confondevo i nomi e i luoghi. Credevo fossero refusi, ma in realtà erano sentinelle dell’inconscio che mi dicevano di sviluppare ancora ciò che era stato scritto, prima di andare avanti. Avevo timore come già negli anni prima, di arrivare a un punto morto nel creare materiale che tutto sarebbe diventato, meno che un romanzo.

Però mi dissi: gli errori, le sviste, le spiegazioni schizofreniche dentro i dialoghi abbozzati, lunghi, corti, da teatro, ampollosi, eccedenti, circolari, monchi, in realtà sono porte che indicano una strada più ampia e strutturata. Stavo creando cartelli stradali di una regione, poi di uno stato, poi di una città (tutti luoghi veri che andavo a studiare veramente via per via, e anche nella loro storia recente e passata). Tutto implicava un soggetto mancante: dovevo creare un mondo e collocare i protagonisti in parti di esso, assolutamente non a caso, e con nomi pregnanti, anche attraverso lo studio delle lingue e degli idiomi del luogo di origine dei protagonisti.

Alla fine del mese di ottobre 2017 mi gettai nell’impresa. Avevo già conoscenze pregresse in merito per acquisire i nuovi dati e le informazioni.

#RACCONTARE LA SCRITTURA. SECONDA PARTE.

Riuscii a comporre in modo organico le poesie, delle quali alcune pubblicate nei due libri, perché non praticai il mio modo usuale di scrittura, caratterizzata da una preliminare visione sistemica, seguita da una stesura analitica in settore delimitati, dove io ne ero al di fuori: freddo e calcolatore. Io divenni l’oggetto, nella veste della mia sensibilità tesa ad agire in modo analogo a una cassa armonica, amplificando le sensazioni che provavo e incanalandole in strutture concettuali che d’incanto uscivano già formate. Il giorno dopo, rileggendo quello che scrivevo in versi mi domandavo: “Ma ero io? Come ci sono riuscito? “

Queste domande non otterranno la risposta, perché hanno un presupposto che nega qualsiasi argomento: vi è un “io” sotto inteso!

Riesco a scrivere in flusso continuo, soltanto se mi dimentico. Naturalmente dopo segue la correzione. Emerge ciò che a livello metaforico è detto inconscio. Se penso di programmare tutto e di progettare quello che devo scrivere in versi o in prosa, mi blocco, oppure scrivo un programma di informatica, un trattato, un resoconto, un mini saggio, o un argomento filosofico su quel tema in cui all’inizio avevo la pretesa di romanzare o di versificare.

L’impegno ad ascoltare quella che metaforicamente talvolta è detta la parte energetica di sé, quella veramente creativa associata al “femminile” che ognuno di noi ha, anche se lo releghiamo nell’inconsapevolezza. Iniziai a rifletterci senza volerla limitare, perché ogni atto di volizione verso uno scopo immediato, avrebbe ottenuto l’effetto opposto. Non imponevo nulla, astenendomi da selezionare coscientemente un punto di vista nel determinare un orizzonte creativo, senza volerlo, almeno nelle intenzioni, racchiudere o incatenare.

Ripresi gli appunti datati a partire dal 1989 per l’ennesima volta nel mese di agosto del 2017. Ridevo per i termini usati, stupito nel rilevare una logica inusitata nel discorrere e nell’elaborare trame, approfondendo concetti più che mai attuali, anche se espressi con altri termini nei dibattiti pubblici. E ancora una volta mi chiesi: “Ma ero proprio io? E adesso ne sarei capace di questi slanci?”

Ebbene la risposta è affermativa: sviluppai in modo coerente quelle trame monche e incerte nella forma, perché mi lasciai andare e mi venne in mente l’analogia della bimba o del bimbo che gioca. In quei momenti il bimbo è serissimo, talvolta muto e totalmente impegnato in quel che fa. E se sbaglia, ricomincia daccapo. Si pensi al bimbo che, disteso sul pavimento, prende una matita e un foglio e inizia a scribacchiare. Le linee, progressivamente, acquisiscono forme più regolari. E continua, fino a infittire gli spazi del foglio. Si alza. Ne prende un altro e ricomincia in modo sempre più raffinato, moltiplicando le varietà del tratto, del segno e variando consapevolmente l’impugnatura. Non chiama la madre. Forse borbotta e parla con amici immaginari e inventa una storia.

Il tratto comune rispetto a tutti i bimbi che si comportano in questo modo è che si dimenticano delle loro voglie momentanee. Dal cantare filastrocche o dal disegnare, o nel modellare la creta, o roteando bambolotti in aria, in quel momento creano e ricreano un mondo.

La biografia itinerante dei tentativi e degli errori, costituisce la mappa per fondare una struttura tesa a comporre l’opera.

Certamente l’idea non scaturì per aver preso tra le mani quei vecchi appunti, in verità era il tarlo fisso che riemerse, pressato appunto dai me stesso più giovani. Lo sentivo dentro. Nei decenni passati lessi molto di romanzi, di poesie e non solo di quello. Cercai di ricordare le innumerevoli volte che per motivi di lavoro, di diletto, di curiosità e di necessità momentanee, ripresi i dizionari, i manuali di versificazione e le grammatiche, sia a livello scolastico sia di livello filologico. Basta. Avevo letto troppo. Inutile leggere ancora. Alcune stesure degli anni passati arrivarono quantitativamente a centinaia di pagine, ma non era più un romanzo, bensì un trattato, anzi un insieme di ricerche, riflessioni e piccoli saggi su argomenti molto specifici. Altri ancora nei decenni successivi, cioè dopo il 2000, apparivano nella forma di uno Zibaldone. Ecco avevo tanto, tantissimo materiale che paradossalmente non mi permetteva di iniziare, perché mi tratteneva nei fondali.

Era inutile portare tutto innanzi ancora una volta, sicché decisi di ritornare alla fonte, cioè all’idea principale. E mi convinsi. Provai verso la fine di agosto del 2017. Scappai subito. Compresi che stavo ripetendo lo stesso schema, come se dovessi svolgere un compito. No. Doveva partire dalla mia emotività, come per le poesie.

Cominciai con leggerezza il primo settembre 2017, senza pretendere di scrivere alcunché. E come mio solito cominciai vedendo dei quadri in internet relativi a un tema specifico, indugiando alla fantasia senza regole.

Annotai la data nella prima riga e scrissi di getto quasi tre pagine. Mi resi conto poi alla fine, dopo neanche 30 minuti, che all’inizio era un dialogo, e poi divenne una narrazione, quasi da monologo interiore, simile al mio altro scritto pubblicato in ebook “Tutto sotto controllo. Un corpo allo specchio”: un racconto breve con una voce sola narrante.

Non è un caso, perché nella scrittura in prosa, dopo le prime righe, in particolare per i neofiti, non si regge la concentrazione per interpretare i ruoli di chi parla o agisce, e si ritorna nel proprio io. Se si parla di un concetto o di una idea, e la si associa a un personaggio, alla fine per non perdere le idee, i luoghi, le immagini, ci si rifugia nel monologo. Va benissimo, ma non è il romanzo, eventualmente è l’embrione della situazione, dalla quale si incardinano i protagonisti, i dialoghi per porli in relazione alle trame che si snoderanno per tutto lo scritto, di decine e centinaia di pagine.

In quelle tre prime pagine avevo già in mente alcuni protagonisti, ma non erano ben delineati e mi confondevo con i nomi. L’inconscio mi diceva: “Fermo. Stai attento. Non puoi continuare così velocemente. La situazione è ottima ed è da sviluppare, ma devi descrivere il loro fisico, i loro nomi, i loro tratti. Continua comunque, ma fra qualche giorno ti dovrai fermare”.

E così accadde: per i giorni successivi scrissi in media una o due pagine al giorno. Cercando in rete, determinai il primo luogo in cui iniziarono gli eventi. Agivo come un rabdomante, ma trovai una difficoltà: pensavo come un poeta e non come uno scrittore in prosa. Mi usciva fuori una prosa poetante. Quasi melodica. Illeggibile per il lettore, a meno che non fosse un poeta avvezzo agli stili e di poco dissociato come lo ero io in quel momento!