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CONSIGLI DI LETTURA: Il Signore Delle Mosche

Il signore delle mosche, di William Golding (Autore),
Filippo Donini (Traduttore), Mondadori, Milano, 2024
– (Ed. Originale: Lord of the Flies, 1954)

Il signore delle mosche è l’altra faccia del battito del nostro cuore, ovvero la risonanza che non è voluta sentire. Ciò che è di più intimo di noi nella veste dell’animo, o della psiche o del carattere, considerato come il tesoro del fiore più intimo, ha anche il petalo più orrendo e crudele, secondo William Golding.

In base alle esperienze che visse durante la seconda guerra mondiale e alla sua professione di docente, in particolare rivolta ai bimbi, ebbe quotidiani elementi di riflessione partecipata circa le inclinazioni e i modi spontanei di aggregazione e di determinazione dei ruoli, tra i gruppi informali e le comunità, come quelle scolastiche o più semplicemente tra un gruppo di amici.

Il romanzo ha per matrice originaria quella di una lezione didascalica di fatti narrati in modo incrementale che offrono una conoscenza progressiva del tema posto. Non è un caso infatti che, nonostante le opere successive, i ruoli di docente universitario, di scrittore e di intellettuale, fu sempre considerato un insegnante. Più volte citò gli aneddoti di come i lettori, scrivendo lettere di plauso e di chiarimento, lo considerassero il maestro che rispiega la lezione per far comprendere appieno elementi non del tutto chiari.

Certamente l’opera non è solo una esposizione, perché, se così fosse, risulterebbe alquanto piatta e noiosa in conformità alle aspettative rivolte alla fruizione estetica della lettura di un romanzo. Vi sono gli elementi salienti che pongono tensioni estreme, oscillando tra la sopravvivenza, il gesto eroico e generoso, in contrappunto alla sopraffazione, alle lotte per il potere, alla razzia, e alla violenza più cruda.

La descrizione quasi anatomica dei caratteri fisici e morali è sapientemente connessa al ritmo della narrazione e alla dinamica avvincente degli eventi. Vi è una scrittura giornalistica che muta in una scansione telegrafica degli elementi di conflitto, affinché il lettore senta dentro di sé la tensione della fatica, e il peso del dolore.

Nei momenti di relativa calma, l’apparente stasi, invece, è avvolta dall’angoscia più cupa che si trasforma nel timore, quando i pericoli evocati, compaiono nella loro intera crudezza.

Ebbe un enorme successo questa prima opera, sia per lo stile amichevole e confidenziale per il lettore degli anni cinquanta che si formava nei pocket tascabili sia per la complessità delle stratificazioni di pathos crescenti, determinando una tensione da evento sportivo.

I soggetti sono i bambini, che, dispersi su un’isola cercano di sopravvivere, tentando nel contempo di farsi avvistare da qualche aereo o nave. Dopo l’inizio quasi idilliaco di un paradiso che sembra tutto offrire in un clima confortevole, la consapevolezza della limitazione delle risorse e delle preoccupazioni per il futuro, facilita l’emersione di loro inclinazioni tese a compiere atti sempre più tragici e crudeli.

William Golding ha una visione pessimistica dell’animo umano. Volutamente e con metodo non ha voluto porre un piano di una differenza di religioni, o di visioni ideologico-politiche, o di individui fuori della norma, devianti massimi per una sorta di malattia mentale, o di perversione morale.

Non ha voluto neanche porre l’aggregato, la comunità, la società come enti metafisici che determinano primariamente le gesta e i conflitti tra gli umani. No, perché le considera un derivato delle interazioni sociali che avvengono in primo luogo tra gli individui. Non vi sono adulti, per analizzare quasi da etologo, come gli stessi bimbi in determinate circostanze ambientali, e quindi non storiche, crescendo, diventano adulti nel macchiarsi del crimine. La colpa non è solo scaturita dal singolo atto, ma anche dalla consapevolezza di aver dentro il proprio cuore l’inclinazione all’orrore e alla crudeltà. Anzi, l’adulto è tale, perché rivela a sé stesso che l’incanto dell’innocenza degli imberbi è una bugia.

L’autore, però, nel porre i suoi argomenti, rivela alcune criticità di questa visione innata, che diventa a sua volta quasi presupposta, e non ben determinata. È consigliata la lettura della post-fazione, scritta anni dopo, contraddistinta da riflessioni più ponderate e meno apodittiche.

Fanno paura questi bimbi, in particolare nell’elemento più cupo e sotterraneo nel dubbio che siano specchi dei pensieri che abbiamo avuto nell’infanzia e che determinarono alcuni tratti di ciò che siamo ora.

Un libro da leggere tutto di un fiato, senza conoscere in dettaglio la trama, perché è una doccia fredda che si spera sia salutare.

§CONSIGLI DI LETTURA: L’uomo che guardava passare i treni

L’uomo che guardava passare i treni. Traduzione di Paola Zallio

L’homme qui regardait passer les trains  © 1938 GEORGES SIMENON LIMITED

© 1986 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO

È un libro che prefigura gli eventi futuri, offrendo un tono di drammatizzazione agli eventi quotidiani e ripetitivi. La noia quotidiana diventa il fulcro per lo straordinario.

“[…] E ormai il dado era tratto! Il tempo di fumare due o tre millimetri di sigaro, stirarsi, ascoltare l’accordo degli strumenti all’auditorium di Hilversum, e Kees fu preso nell’ingranaggio. Da quel momento ogni istante contava assai più di tutti quelli che lui aveva vissuti fino allora, ogni suo gesto assumeva la stessa importanza di quelli degli uomini di Stato, dei quali i giornali annotano le minime sfumature. […]”

“[…] «Cerchi di capire bene, se non è troppo ubriaco, quello che le dirò… Innanzitutto voglio che lei sappia che non sto tentando di comprarla… De Coster non compra nessuno, e se le ho confidato tante cose è perché la so incapace di andare a raccontarle… Chiaro? Adesso mi metto nei suoi panni… Di fatto lei non ha più un soldo e, conoscendo quelli dell’Immobiliare, si riprenderanno la casa alla prima scadenza inevasa… Sua moglie non glielo perdonerà… Tutti crederanno che lei sia stato mio complice… Sì, potrà anche trovare un altro posto, ma sarà comunque ridotto alla stessa situazione di suo cognato Merkemans… Ho mille fiorini in tasca… Se rimane qui non posso niente per lei… Non saranno cinquecento fiorini a cavarla d’impaccio… Ma se per caso prima di domani le riuscirà di capire… Tenga, vecchio mio!». […]”

“[…] «Ora, se non ha troppo sonno, può accompagnarmi fino al treno… Ho un biglietto di terza classe…». Era un vero treno della notte, sonnacchioso, sordido, abbandonato in fondo a un binario. Il capostazione, col berretto rosso, aspettava solo di aver dato il segnale per andare a letto. […]”

Rimasto solo, Kees fantastica sulle sue rivincite. Leggendo si avverte fisicamente il malessere e la vertigine per l’alcool e anche per lo svelamento della sua posticcia morale di quindici anni che cominciò a vacillare. I pensieri vorticarono assieme al senso dell’equilibrio nel letto. Il lettore è coinvolto in una tensione, in cui gli eventi vorticano continuamente in un ritmo serrato. Popinga Kees inizia a scrivere sul taccuino rosso come se fosse una partita a scacchi, e anche per mantenere la memoria della sua inconscia paura di rimanere nell’anonimato.

“[…] Tutto poteva permettersi! Poteva essere tutto ciò che desiderava ora che aveva rinunciato a essere a ogni costo, per tutti quanti, Kees Popinga, procuratore!

[…]”

Simenon usa molto bene i particolari. Il muro di calce, le luci accecanti nel garage segreto dove rubano le macchine. Il caffè bollente. L’uomo alto con la tuta. Si avverte la corporeità nelle descrizioni così apparentemente semplici, con un solo aggettivo. L’atmosfera cupa e fumosa del bar, della vita quotidiana, prefigura ciò che pensano i protagonisti. Il rimo della scrittura conferisce il movimento e determina una struttura narrativa, corposa, colorata, gonfia. Di sangue e carne, con tatto, sapori, odori.

“[…] Kees non aveva voglia di dormire. Andò ad affacciarsi alla finestra, o per meglio dire all’abbaino, e lasciò errare lo sguardo su un paesaggio straordinario: in lontananza prati ammantati di neve, poi rotaie, fabbricati, travi di ferro, ammassi confusi del materiale di una grande stazione, vagoni senza locomotiva che si muovevano piano piano, locomotive senza vagoni che segnavano rabbiose il passo, fischi, grida, e sparuti alberi sfuggiti al massacro, che disegnavano mesti il nero viluppo dei rami contro un cielo diaccio. […]”

“[…] Lui era più forte di tutti loro, incluso Louis, inclusa Jeanne Rozier… Tutta la banda era come prigioniera del garage, come maman lo era della casa, Claes della clientela e di Éléonore, Copenghem del circolo degli scacchi di cui ambiva la presidenza… Lui, Popinga, non era prigioniero di nulla, di nessuno, di nessuna idea, di niente di niente, e la prova…

[…]”

Il protagonista varia continuamente il suo agire in modo equivalente al gioco degli scacchi, nel girare gli alberghi, fumare i sigari e le pipe; portare una valigetta. Cambiare sempre. Metodicamente: evitare i metodi.

“[…] «Insomma, ho continuato a essere procuratore per abitudine, marito di mia moglie e padre dei miei figli per abitudine, perché non so chi ha deciso che così doveva essere e non altrimenti. «E se io, proprio io, avessi deciso altrimenti? «Lei non può immaginare fino a che punto, una volta presa questa decisione, tutto diventi semplice. Non occorre più occuparsi di quel che pensa il Tale o il Talaltro, di quel che è permesso o proibito, dignitoso o meno, corretto o scorretto.

[…]”

“[…] «Ma possibile che nessuno capisca come ’prima’ qualcosa in me non funzionava? ’Prima’ se avevo sete non osavo dirlo, né tanto meno entrare in un caffè. Se avevo fame, e mi offrivano qualcosa in casa di amici, per educazione mormoravo: «“No, grazie!”. «Se mi trovavo su un treno, mi facevo obbligo di fingere di leggere o di guardare il paesaggio, e non mi sfilavo i guanti anche se mi stringevano le dita, perché così prescrivono le buone maniere.

[…]”

“[…] «Dunque, non sono né pazzo né maniaco! Solo che a quarant’anni ho deciso di vivere come più mi garba senza curarmi delle convenzioni né delle leggi, perché ho scoperto un po’ tardi che nessuno le osserva e che finora sono stato gabbato.

[…]”

La stessa città di Parigi offre occasioni per la discesa all’inferno. L’attentato al suo io paranoico, nella determinazione sovrastimata dell’immagine di sé. Riceve colpo su colpo: la truffa alla sua intelligenza, l’indifferenza, e la costrizione alla normalità che odiava.

Si rende conto di non poter esprimere la follia, essendo costretto nel racconto: avverte il carcerario che si avviluppa attorno a ogni suo intento.