Il meridiano di sangue è una traccia scritta dagli eventi per opera dei protagonisti. La mappa del mondo è raffigurata con i radianti delle ossa e gli angoli delle armi. Il corpo umano è quello degli Stati Uniti in formazione. Le configurazioni statuali figliano involucri di pus e di sangue disseminati tra la terra e l’acqua che viaggiano tra est ed ovest, crollando uno dopo l’altro, fornendo un linguaggio e un senso dei confini, attraverso la consunzione e la decomposizione.
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Il ritmo della narrazione è scandito dal timbro della violenza. Ogni trama è descritta dall’offesa della natura contro gli esseri viventi. Le vite sono pollini sparsi dall’Atlantico verso l’Oceano Pacifico, con pochi che germogliano, e la massa che invece crepita nel baratro, collassando tra la crudeltà, il sadismo, e la vacua razzia, aggrappandosi a scheletri di trofei macilenti e velenosi.
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Vi sono richiami storici ben precisi, e per noi europei quasi oscuri, circa la storia dell’America del Nord, riguardo la guerra civile degli Stati Uniti d’America (detta da noi impropriamente guerra di secessione), le lotte decennali tra l’ex impero spagnolo e francese, gli agglomerati statuali transitori e in perenne conflitto tra quelle nebulose chiamate Louisiana, Messico, Texas e gli stati centrali e dell’ovest dell’Unione di recente formazione, fino alla California.
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Ricordando comunque che già dapprima vi erano guerre senza fine tra i creoli, gli ispanici, le varianti che noi facilmente e in modo superficiale denominiamo Apache o Sioux, i Comanche identificandoli semplicemente come indiani, attraverso i film Western del secolo scorso. No, i complessi gruppi ed etnie stanziali prima dell’avvento degli spagnoli, dei francesi e degli inglesi, e poi di tutta quella sterminata immigrazione senza patria dell’ottocento, erano già agglomerati in conflitto ed ibrida mutazione.
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Lo stile di scrittura è piano e lineare e paradossalmente con pochi superlativi. Di prima impressione sembra sia costellato da ritmi giornalistici, di cronaca addirittura, per planare su resoconti storici indiretti con nomi nascosti di generali, di personalità del periodo, che per il lettore veloce e superficiale sembreranno gettati così senza un criterio. Si passa dalla cronaca di eventi bellici, fino alle narrazioni dell’uomo settecentesco che affronta una natura ostile alla Robinson Crusoe.
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Questa capacità istrionica è sublimata in una forma di romanzo, che è incorniciata dalle descrizioni ambientali delle Montagne Rocciose, e relativi dirupi, con un’alluvione di termini geologici, botanici, nonché zoologici. Vi è una capillare descrizione etnologica dei gruppi etnici, e delle bande, oltre degli eserciti che lottano tra loro. Emerge una visione antropologica dei modi di vivere degli agglomerati, posti, indipendentemente dalle loro dimensioni, tra il deserto, i boschi, il freddo, la siccità, in un oceano di ostilità, dove l’orizzonte è un continuo generatore di pericoli, di nemici: un bardo del dolore e della morte.
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I protagonisti sono coraggiosi e capaci, che agiscono senza enfasi. Quasi in un richiamo ipnotico si avverte l’impressione di leggere stanche descrizioni di marinai anziani seduti davanti al caminetto raccontando dei tempi che furono, gli argomenti trattati e gli eventi sono lo spasimo. Almeno all’inizio, perché poi, appena si entra in questo mondo, non vi è un attimo di tregua. Il ritmo varia in un crescendo di azione violenta, su scenari di orrore e di morte.
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La crudeltà è il pendolo che oscilla tra un vortice di sadismo e di una assurda tranquillità, nella quale i protagonisti quasi morenti e in sofferenza estrema, riflettono sulla loro condizione, sull’etica, sul senso del proprio agire. Il dolore e l’angoscia della propria scomparsa, aprono la possibilità di un tono lirico, e veramente letterario tra il tragico, il poetico, il drammatico.
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Non si salva nessuno: ognuno di loro uccide, imbrattato di sangue e di repellenza. Appare pulito e accettabile nel raffigurarlo esteticamente, il personaggio che non subisce la morale e la compassione, e che cerca di rimanere integro alle pallottole, alle coltellate, alle frecce, alle ferite invalidanti, tra la bile e il vomito.
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Anche chi riesce a razziare, a portare gli scalpi e vendere le orecchie e le teste essiccate, sperpera il ricavato in veleni d’alcool e d’azzardo che portano alla rissa, all’omicidio, alla prigione, alla morte subita quasi senza senso dal compagno dell’ora prima, che uccide totalmente ubriaco, in una abiezione sessuale che comunque porta all’infezione.
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Non vi è una giustificazione: l’avidità e la ricerca del piacere perverso non sono nobilitati, e non sono descritti come ciò che ottunde la ragione, salvando quindi la razionalità, bella e buona. No. Questo è un romanzo che affronta di petto la cattiveria, l’altra parte del cuore nero che tutti abbiamo e che cerchiamo di delimitarlo con questa linea di sangue. Sì, perché questo meridiano è disegnato nel cuore di ogni essere umano.
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Oltre la violenza fisica e immediata, vi è uno scontro sotterraneo tra una visione data da un protagonista che descrive il senso della storia, del vivere e del mondo in un piano amorale, e chi invece cerca di aggrapparsi ancora con un dito nell’altra parte del confine, essendo però, assassino e spietato come il suo interlocutore.
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Non è una dialettica dove vi è la sintesi tra il protagonista e l’antagonista. Più che la sublimazione, si dissolvono e lasciano al lettore di immedesimarsi, con il tranello che alla fine si sta parlando proprio di lui. Ed è ovvio che quasi nessuno potrà definire compiutamente queste posizioni, perché l’oggetto del contendere siamo io e te. Il mio e il tuo cuore.
Lo scritto innesta uno studio etico in una opera letteraria, finemente cesellata nei termini americani, spagnoli, amerindi. Nessuno è innocente.
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Vi sono riferimenti non tanto nascosti relativi alle interpretazioni metodiste e battiste degli Usa, oltre al mix cattolico inca azteco dei popoli del Messico, innestato nelle correnti animiste dell’universo degli indiani. Il tutto cozza contro riferimenti espliciti alle metafore del “Così parlò Zarathustra”, di “Ecce Homo”, e della “Genealogia della morale” di Friedrich Nietzsche, come anche nelle pagine finali, circa il richiamo alla danza della “Gaia Scienza”.
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In prima e anche in una seconda lettura, risulta quasi immediata la considerazione che il romanzo voglia svelare la nudità dei rapporti sociali e della propria posizione rispetto alla natura, in un’escrescenza etica labile, usata per il più come tattica di sopraffazione.
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Eppure i momenti più lirici e di consapevolezza, avvengono nei momenti in cui si ha bisogno degli altri per le cure, per un sorso di acqua, per un riparo dalle asperità climatica. L’aiuto è fornito indipendentemente da una transazione di scambio di valore monetario, perché in quelle condizioni alcunché ha un valore, se non la soddisfazione immediata delle esigenze della sopravvivenza.
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Sembra che alla fine vincano quelli che sono “Al di là del bene e del male” e che dicano “sì” al vivere che è insensatezza,
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MA
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agendo in modo tragico nell’accettare il caos, che è crudele perché gli si vuole dare un senso, ricercano un contrappunto nella propria morale. Non è un caso, infatti, che dichiarando di non avere il cuore, e offrendo solo questo meridiano, tutto rimane svuotato, ciò loro stessi, e la loro capacità di rispondere. Chi è giudice, diventa il giudicato, e chi vuol essere libero, non ha più parole per dire se le proprie mani siano o no incatenate.
E qui il dilemma è consegnato al nostro meridiano personale, attraverso questo capolavoro di romanzo che non offre sconti.
È un libro che fa piangere e che fa infuriare. Non lascia uno stato di indifferenza.
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In epoche arcaiche il disertore fu riferito a colui che guasta un ampio tratto di terra. Colui che devasta, che vuota l’area di abitatori. Ciò che riduce tutto in un deserto. La spogliazione.
In epoche riferite alla storia moderna il disertore è colui che lascia la bandiera, lo stendardo, l’insegna. Dal latino Desertare intensivo di Deserere abbandonare, composto della partic. DE che suppone il senso contrario a Serere, interesse, legare insieme, annodare, quasi dica, disunire, staccare.
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Colui che scioglie la relazione sociale, il patto che rendeva un collettivo all’interno di unità di intenti, all’interno di valori comuni.
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In un primo livello di analisi la diserzione, oggi, è riferita in modo irriflesso, quasi automatico, al singolo che, per deficienza morale, fisica e caratteriale rompe il patto e indirettamente indebolisce il gruppo a cui era in quel momento in piena interazione sociale.
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È disertore quel colpevole che rende il deserto di un collettivo che combatte un nemico, qualcosa di altro da sé che si presenta in modo oppositivo. O loro o noi. La colpa è in primo luogo quella morale: è la vigliaccheria che induce alla ritrosia di affrontare la contesa. È la debolezza congenita e alimentata che nega il proprio ruolo per celarlo a fronte da quel contesto collettivo. Nel caso ritenuto più pericoloso è il traditore, colui che passa dall’altra parte della linea: il limes di guerra. Colui che non solo diserba le energie e le risorse che alimentano il collettivo, ma che addirittura sottraendole, e quindi anche contribuendo con le personali, indossa il ruolo del nemico. Della nemesi, quella che inverte il mio corso di vita e di significato che attribuisco al mondo: ciò che contraddice le mie azioni tendenti a uno scopo, e le mie convinzioni che rendono un ordine verso il mondo.
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In questa visione il disertore è il male, colui che determina la possibilità del fallimento. Il disertore è la causa dell’indebolimento. Dalla sua persona parte il disfacimento, l’errore, la disfatta, cioè l’essicazione delle energie e delle qualità di questo fare: il fare che non riesce a legare il grano raccolto: appunto un disfare. Ciò che fa evaporare la mia irrigazione del buon terreno che offre vita e frutti: il diserbare, il disertare, che si compone nel rendere deserto, senza memoria e con conseguenze non volute la mia opera: l’azione con scopo, che si traduce nel perseguimento di obiettivi.
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Certamente ciò è accaduto. Ma il disertore è solo questo? È solo questo vigliacco, traditore, di una morale viscida e sporca che innesta il processo di abbandono e di sconfitta, se parliamo di scontro di guerra diretto?
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Non vi è forse da riflettere che anche il piano istituzionale, direttivo e statuale tradisca il collettivo che combatte e difende la comunità di riferimento? Che cambia quindi il significato della stessa bandiera con la quale si riconosce?
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Non è possibile invece che il collettivo rimanendo immutato, improvvisamente si ritrova appellato come disertore perché la sua comunità di riferimento è presa da altri rappresentanti, oppure si frammenta in una serie di organismi antagonisti e che, quindi, agli occhi della nuova situazione è oggettivamente già un corpo estraneo?
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Non si può concepire l’idea che i condottieri e coloro che forniscono gli obiettivi e gli scopi della composizione e della natura del collettivo che combatte, siano loro stessi a disertare? Ad esempio un Re guerriero che abbandona il proprio esercito, con i propri generali e lo stato maggiore (gli angeli che vegliano sulla morale), rende il collettivo senza la parola, l’acqua, il cibo, lo scopo, la direzione, la sostenibilità?
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E ancora che questi nuovi organismi, invece di combattere l’originario orizzonte che sta oltre il Limes, per crescere, come masse tumorali, invece, aggrediscono il loro corpo di origine?
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Sì: è possibile ed è accaduto: Il regno italico nella sua veste di dittatura fascista durante la seconda guerra mondiale.
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Questo libro parla dei singoli disertori degli eserciti italici, e mostra indirettamente come furono perseguitati dai disertori primari del valor di patria secondo le loro stesse retoriche e come questi disertori originari si avventarono contro la propria popolazione di riferimento, dopo aver dichiarato la guerra a mezzo mondo.
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Le vicende commoventi, strazianti, terribili di questi giovani e delle lor famiglie, mostra proprio da documenti dei primi disertori, di come questi ultimi con le loro condanne, fucilazioni, persecuzioni, ottusità, siano stati i primi a rendere un deserto di diritto, di vita, questo territorio italico, e di aver piantato malanimo, odio, vendetta, complesso di colpa, divisioni che durano ancora oggi riconfigurandosi come un’erba cattiva in nuove, sporche e viscide sterpaglie. Questi agricoltori del disonore con a capo un Re, la sua famiglia e corte, e i quadri di quel regime fascista, riprodotto poi in quell’orrore putrido che fu la Repubblica Sociale Italia: la serva sciocca dei nazisti che si concentrò a uccidere gli italiani stessi.
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Vi sono state diverse forme di diserzione lungo la linea temporale degli avvenimenti e in concomitanza di eventi ben precisi che scandirono l’andamento apicale e poi di riflusso negli scontri armati.
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Vi furono coloro che si rifiutarono di partire per il fronte nella Seconda guerra mondiale, non rientrarono da una licenza, fuggirono dalle lande gelate durante la Campagna di Russia, non vollero accettare la Repubblica sociale dopo l’8 settembre: migliaia di ragazzi – giovanissimi, anche se molti già padri di famiglia, spesso gli unici a portare a casa uno stipendio – finirono davanti ai Tribunali di guerra.
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Mimmo Franzinelli rivisita questo complesso periodo storico per delineare la tipologia e le motivazioni dei disertori, analizzando le dinamiche repressive (Codice penale di guerra, Tribunali militari, modalità delle esecuzioni capitali) e ricostruendo le storie di tanti soldati, nei più disparati scenari, le cui drammatiche vicende sono sottratte all’oblio non solo grazie ai diari inediti ma anche al ricordo ancora attuale dei loro parenti.
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“ […] Dalla «non belligeranza» (settembre 1939 – giugno 1940), quando due distinti flussi di soldati fuggono in Francia e Iugoslavia, alla prima fase dell’intervento italiano, quando disertori sono soprattutto i contadini e gli artigiani, poco disposti a morire in una guerra in cui non credono, sino all’estate 1943, quando, con lo sbarco in Sicilia, molti considerano persa la guerra, si battono di malavoglia e il fenomeno della diserzione aumenta a dismisura, acuendo la durezza della repressione, con «fucilazioni pedagogiche» dinanzi alle reclute. Con l’armistizio e la divisione dell’Italia in due governi (e sotto contrapposte occupazioni militari), la diserzione diventa il tarlo che rode l’impalcatura della Repubblica sociale e del Regno del Sud: i Tribunali militari lavorano a pieno ritmo e a Salò le fucilazioni si estendono anche a chi aiuta i «traditori», donne incluse. […]”
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Questa storia, peraltro, non si conclude nel 1945: per oltre un ventennio la magistratura militare perseguirà gli ex disertori, inquisiti o imprigionati (e persino rinchiusi in manicomio) per essersi rifiutati di continuare a combattere.
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103-104 “[…] Eppure, settori della popolazione diffidano del demiurgo e vedono come un incubo la prospettiva di indossare la divisa e marciare all’unisono. Tre mesi più tardi, un rapporto di polizia sullo stato d’animo dei romani è decisamente allarmistico: «La paura dello scoppio della guerra è ormai estesa e generale». In quei giorni, il capo della polizia, Arturo Bocchini, confida al ministro Ciano che «in caso di sommossa a carattere neutralista, carabinieri e agenti di polizia farebbero causa comune col popolo». In questo clima c’è chi, silenziosamente e dopo angosciate riflessioni, prepara l’espatrio clandestino, sentendosi straniero in patria. Nel momento in cui il Paese viene mobilitato per la prevedibile guerra, la diserzione costituisce il più clamoroso segnale di dissenso da parte dei giovani chiamati alle armi. Mussolini sa bene come la storia italiana sia segnata da diserzioni di massa: lo ricorda l’11 aprile 1940 a Ciano, indicando la guerra quale banco di prova del valore delle nazioni: «Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento, magari anche a calci in culo. Così farò io! Non dimentico che nel 1918 in Italia c’erano 540.000 disertori». In precedenza si era lamentato con il ministro degli Esteri a proposito dei legionari inviati in Spagna: «I casi di indisciplina sono più frequenti e cominciano, per la prima volta, le diserzioni». Il Tribunale militare del Corpo truppe volontarie italiane celebrò nel 1937-38 ben 260 processi per diserzione, 190 per disobbedienza e insubordinazione. Fughe dai reparti sono sempre in agguato, rileva il dittatore a metà settembre 1939, commentando con Claretta Petacci le difficoltà belliche anglo-francesi: «Sono già convinti di perdere… e intanto immagina che spirito alto… In Francia, poi, è un pianto. Pensa che non sanno più come arginare i disertori: decine di migliaia di disertori fuggono, non vogliono fare la guerra, capisci?».6 Mussolini, aggiornato sulla situazione interna inglese, ironizza sulle leggi «democratiche» che non infliggono la pena di morte ai disertori e consentono l’obiezione di coscienza […]”
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I Tribunali militari di guerra puniscono la diserzione con la morte, per dissuadere i potenziali disertori, mettendoli davanti alle conseguenze della fuga dall’esercito. Dall’entrata in guerra sino all’armistizio, vengono condannati a morte circa 130 militari e circa 550 civili (41 in contumacia), in grande maggioranza nei Balcani.
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Dati assai parziali, in quanto le statistiche non includono – se non saltuariamente – i procedimenti sommari da parte dei tribunali straordinari e ignorano le fucilazioni di partigiani catturati in combattimento e uccisi a freddo. I criteri di giudizio seguiti dai magistrati sono influenzati dalle contingenze belliche: blandi nel primo anno di combattimenti, s’inaspriscono nel 1942 e toccano nel 1943 picchi rivelatori del malessere aleggiante tra i soldati e dell’insicurezza dei comandanti.
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Contro le sentenze, non è ammessa impugnazione; se pronunciate in territorio nazionale sono eseguite dopo ventiquattro ore; all’estero divengono immediatamente esecutive. I Tribunali di guerra più propensi a infliggere la pena capitale operano in Africa settentrionale e nei territori dell’ex Iugoslavia. Il pugno di ferro riguarda anzitutto i nativi accusati di «ribellione» e – dopo di loro – i disertori. Laddove si avvertono segnali di indisciplina e disgregazione, si usa il pugno di ferro. Il periodo di maggiore spietatezza coincide con l’addensarsi dell’odio popolare su Mussolini, dal dicembre 1942 al luglio 1943, quando la polizia politica non riesce più a contenere le proteste contro il dittatore: vi sono centinaia di arresti per il reato di «offese al Capo del Governo»; il duce è infatti definito affamatore del popolo (sono censiti 138 casi), responsabile della guerra (113), traditore della Patria (103), carnefice e brigante sanguinario (69), vigliacco e vile (63), colpevole di lutti e sofferenze (59).
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Vi fu l’impunità di Stato dopo la fine della guerra, anche per l’amnistia che fu concessa a chi commise crimini di guerra, come i generali e alti ufficiali comminarono fucilazioni senza la parvenza di rispettare il proprio “aberrante” ordinamento giuridico militare. Il caso del generale Chatrian fu emblematico, perché si attivò per uccidere quanti più possibile, proprio nei giorni intorno all’8 settembre 1943, anche per soldati che compirono ritardi di uno o due giorni.
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Questi personaggi aderirono alla Repubblica Italiana partecipando come parlamentari e in qualità di alti funzionari delle istituzioni. E questo generale come molti altri poi, furono i primi ad arrendersi al nemico. Loro che scrivevano ad ogni riga appesantendo anche la condanna con l’invettiva, per la quale: non si scappa di fronte al nemico, o si vince o si muore!
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Loro che fecero uccidere giovani contadini che ritardarono di alcuni giorni il rientro dalla convalescenza perché feriti, o dalla licenza, per coltivare la terra della famiglia, perché la madre vedova con i figli piccoli non aveva di che sostentarsi, e a quei tempi senza il raccolto si crepava di fame e di malattie.
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Lui, il grande Duce, che fu un disertore della prima guerra mondiale. Lui che fu il primo a cambiare idea su tutto: da anarchico, poi socialista. Poi repubblicano, poi pacifista, poi interventista, poi anticomunista, reazionario, baciapile, e alla fine scrivano dei nazisti.
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E come dimenticare l’altro Lui in piccolo, il nostro disonore permanente: il maresciallo Graziani. Lui che fece stragi in Africa, terribili, che noi italiani continuiamo a dimenticare da decenni. Lui che fece scuola ai nazisti per l’efferatezza, divenendo poi subito lamentoso e spaventato quando le cose si posero al peggio e naturalmente si consegnò, in qualità di capo delle forze armate della Repubblica Sociale Italiana, agli alleati, mica ai sovietici: chissà perché.
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Non solo loro però, giovani italiani allo sbando, senza scarpe, munizioni, da mangiare, senza vestiti, arruolati a forza e poi fucilati e seviziati anche dalle camicie nere, magari gli ex vicini di casa. Ci deve far riflettere. Troppo comodo prendersela con quella fogna morale che furono le alte sfere, purtroppo per noi, e non lo vogliamo vedere che anche a livello popolare commettemmo atrocità.
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La figura degli italiani “brava gente” di buon cuore, è successiva alla fine della guerra, e fu anche agevolata dagli Usa che per motivi strategici chiusero un occhio su di noi.
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3538 – 3595 “[…] La nemesi della diserzione Soldato di leva della classe 1883 del Distretto di Forlì, il 27 marzo 1904 Benito Mussolini non si presenta al servizio militare e il successivo 30 aprile viene «dichiarato disertore per non aver risposto alla chiamata alle armi della sua classe». Denunciato al Tribunale militare di Bologna, il 2 agosto è condannato a un anno per diserzione semplice. La Svizzera rifiuta di estradarlo e gli concede asilo. In quel periodo il ventunenne rivoluzionario romagnolo raccomanda un mezzo infallibile per abbattere l’infame coartazione militarista: disertare! Egli, tuttavia, è un disertore dimezzato: a fine novembre cede alle insistenze materne e rimpatria, regolarizzando la sua posizione. Assegnato al 10° reggimento bersaglieri, in una caserma di punizione di Verona, beneficia dell’amnistia per la nascita del principe Umberto. Smobilitato nel settembre 1906, non ha mutato le proprie idee. Nell’ottobre 1911, con il repubblicano Pietro Nenni, capeggia violente manifestazioni contro la guerra di Libia, per bloccare le tradotte dei soldati: i due agitatori sono arrestati e condannati. Mussolini, liberato nell’aprile 1912 e divenuto direttore dell’«Avanti!», sino all’estate 1914 inneggia alla diserzione, «mezzo infallibile per annientare l’infame militarismo», arma micidiale contro la guerra voluta dalla borghesia internazionale. Di lì a poco salta la barricata e diviene interventista. Per i corsi e i ricorsi della storia, trent’anni più tardi combatterà i disertori, sabotatori della «sua» guerra. […]”
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I bandi di arruolamento del maresciallo Rodolfo Graziani (ministro delle Forze armate) spingono i giovani sulle montagne, per istintiva autodifesa più che per valutazioni politiche, possedute da ben pochi. Ragazzi disorientati e confusi affluiscono ai distretti militari, per poi eclissarsi appena possibile. La renitenza, dilagante tra fine 1943 e inizio 1944, nell’incalzare degli eventi diviene resistenza. Nell’estate 1944 il rimpatrio delle quattro divisioni addestrate in Germania prelude alla diserzione di migliaia di militari, che se ne vanno alla spicciolata o incolonnati in lunghe file. Le bande dei patrioti ne traggono notevole beneficio, anche per l’armamento.
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Dal 10 giugno 1940 al luglio 1943 il ministero della Guerra annota meticolosamente i reati militari e la loro repressione. Le vicende dell’armistizio disperderanno quel materiale statistico, di cui rimangono schemi settimanali lacunosi e il solo registro annuale del 1941, dal quale risultano per l’esercito circa 11.000 condannati, 3746 assolti e 45.000 processi ancora in corso, in aggiunta ai 3000 condannati dei rimanenti comparti militari.
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Il 46,52 per cento dei reati riguarda la diserzione, che esplode nel corso del 1942 e dilaga nel 1943. Il dossier commissionato da Mussolini sui «processi definiti dall’11 giugno 1940 al 9 maggio 1943» con condanne superiori ai dieci anni, annovera per l’esercito 71.307 condanne e 95.082 assoluzioni. Si devono poi considerare le decine di migliaia di condanne sotto i dieci anni e le 11.000 assoluzioni. Dati comunque inferiori alla realtà, utili soprattutto a livello orientativo. Da notare che in quei 2 anni e 11 mesi le diserzioni crescono e gli altri reati diminuiscono.
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I numeri, pur impressionanti, sono inferiori a quelli della Grande guerra, quando i tribunali militari aprirono oltre un milione di processi, infliggendo 40.028 condanne a morte, 746 delle quali eseguite, in aggiunta a 141 esecuzioni sommarie. Nel 98 per cento dei casi, le pene capitali riguardavano la diserzione.
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Il fenomeno dei disertori ricomparve in Europa nell’autunno 1991 – sotto forma di obiezione di coscienza, renitenza e «assenze arbitrarie» dai reparti armati –, quando il governo della Serbia mobilitò i suoi cittadini nella prospettiva della guerra civile, etnica e religiosa che avrebbe presto dilaniato le regioni della ex Iugoslavia. Oggi le diserzioni si sviluppano sottotraccia in Siria, Ucraina, Libia, laddove i vari contendenti impongono arruolamenti coatti nelle zone da essi controllate. E la strage continua.
Prima ancora della trasmissione nei cinema del film “Oppenheimer” del 2023, questa ricostruzione storica in forma di romanzo, è sorprendente nel rivelare il gran numero di persone coinvolte, alcune impensabili, e altre dimenticate. Vi è un’ottima documentazione che parte dagli archivi dei servizi segreti delle nazioni che furono coinvolte nella seconda guerra mondiale.
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Tutto ciò che è accaduto è reale. Personaggi, biografia, avvenimenti, avventure, esperimenti, vita privata. Persone famose come i ragazzi di Via Panisperna, la famiglia Curie, sportivi famosissimi un secolo fa, tutti, agirono per non permettere ai tedeschi di sviluppare la bomba atomica. Chi agì come una spia, chi intraprese attività di guerriglia durante il conflitto, chi, da lontano, accelerò nelle ricerche per nuove scoperte scientifiche.
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Il libro ha una struttura di un romanzo con una grande quantità di protagonisti, l’uno ignaro dell’altro, ma tutti agenti in modo corale lungo gli anni. E sebbene la struttura narrativa dia l’impressione che sia immaginifica, in realtà le vicende narrate, sono tutte ben documentate, anche dagli stessi attori, mentre erano ancora in vita.
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È un libro che trasforma resoconti di ciò che accadde in un insieme di storie parallele avvincenti che non inventano alcunché, perché la Brigata dei Bastardi fu un accrocco simile a una sporca dozzina composto da campioni sportivi, premi Nobel per la fisica, agenti segreti improvvisati, esuli militari e politici dalla unione Sovietica, e dalla Germania nazista, nonché dall’Italia fascista.
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Alcuni mesi prima dell’inizio della seconda guerra mondiale in Europa e negli Stati Uniti cominciò a esser sempre più viva la preoccupazione che la Germania Nazista stesse compiendo velocemente la capacità di ottenere energia atomica atta per un a riconversione di tipo militare.
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Tra alti e bassi di costituirono nuove organizzazioni di spionaggio coinvolgendo personaggi famosi alcuni, oscuri altri, diversissimi tra loro, ma consapevoli del pericolo.
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Le vicende coinvolsero anche chimici e fisici che decenni prima scoprirono alcune leggi relative al comportamento fissile di alcuni elementi chimici e le correlative ricadute in ambito fisico. Mancava una concreta possibilità di applicazione ingegneristica. Adolf Hitler diede una sveglia a tutti.
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Le letture in cartaceo o in formato digitale dovrebbero essere accompagnate da ricerche su web in contemporanea alla presentazione dei personaggi, e al richiamo di nozioni di fisica e di chimica. È un ottimo indicatore per approfondire conoscenze reperite distrattamente e in modo forse episodico negli anni, ma anche per recuperare il nostro passato. Sì, in questo libro ritroviamo noi stessi, perché tutti costoro sono stati la nostra storia. Hanno determinato indirettamente paradigmi di opinioni con le quali ancora oggi, tentiamo di valutare ciò che intorno ci accade.
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Da segnalare le chiarissime spiegazioni relative ai processi fisici che portarono alla fissione nucleare.
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Commoventi sono state le biografie di resistenza dei Marie Curie e di sua figlia, anch’essa valente scienziata Irène Curie con il suo marito, altro premio Nobel, Frédéric Joliot, il quale divenne poi un capo segreto dei partigiani francesi.
Le vicende dei nostri ragazzi di Panisperna, da Enrico Fermi a Edoardo Amaldi, e di come cercarono ognuno a suo modo di mantenere l’umanità e di resistere contro la barbarie.
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Irresistibili le vicende di Moe Berg, la spia più improbabile, ma incredibilmente letale contro la Germania, il campione di Baseball, poliglotta, gran affabulatore, mestatore, irrecuperabile spendaccione, fuori da ogni regola. E non si può non sospettare che sia stato l’ispirazione per migliaia di film di spionaggio del dopoguerra.
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Senza contare il Generale Leslie Groves e i suoi collaboratori: dei veri e propri “bastardi”. E vi sono anche le vicende di coloro che affrontano pericoli consapevoli di poter morire da un momento all’altro, come Joe Kennedy Jr, fratello maggiore di John e Robert Kennedy.
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E naturalmente ai dubbi, e ai nuovi problemi morali conseguenti, perché conoscenze così imponenti nei loro possibili ambiti di applicazione, comportano nuovi paradigmi interpretativi su ciò che è la responsabilità relativa all’uso della conoscenza. Ad esempio, tra i tanti, il chimico Otto Hahn e il fisico Robert Oppenheimer che portarono un dolore infinito per tutta la loro vita, a causa dei complessi di colpa. E si rimane, forse per l’opinione pubblica di bassa lega, dalla quantità di scienziate che contribuirono alla ricerca e alla resistenza contro tutto e tutti, ad esempio Lise Meitner.
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E però, si provano grandi turbamenti sull’animo umano che ha una doppia faccia. Un cuore pieno e generoso che però nello stesso tempo, ha lati oscuri e riprovevoli, come il premio Nobel per la fisica Werner Karl Heisenberg che rimase a lavorare per i nazisti fino alla fine. Che ebbe la convinzione di salvare la scienza e la ricerca comunque anche in Germania, nonostante e contro Hitler. Colui che assieme ad altri suoi collaboratori, si diede da fare per salvare di nascosto tantissimi ebrei, organizzando una struttura operativa per farli fuggire dalla Germania. Colui che durante i bombardamenti degli alleati, si comportò eroicamente per salvare individui sconosciuti dagli incendi e dai crolli dei palazzi, rischiando in prima persona, mentre un momento prima parlava di come inventare nuove soluzioni per costruire una bomba atomica a servizio della Germania. Colui che non aiutò a salvare i genitori di un suo amico che lo favorì tantissime volte, fisico come lui, ovvero Samuel Abraham Goudsmit.
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Vi è un campionario di varia umanità ricchissimo, inesauribile di spunti. Irritante e ammirevole nello stesso tempo. Leggendo il libro è impossibile non immedesimarsi con questi personaggi, perché sono il nostro specchio. Sono proprio come noi.
Sono passati mesi, qui, oggi, nel mese di Luglio 2023, dall’assedio di Mariupol. In quest’opera vi sono i resoconti, i fatti, di documenti di alcuni attori di questa vicenda che lì, e attorno, è purtroppo ancora in svolgimento. Non parlano comodamente da un divano. Molti di loro ne sono stati vittime. Feriti comunque nell’animo, oltre che nel fisico, anche per la perdita delle loro famiglie e della comunità. Il processo di distruzione ha coinvolto le dimore, i quartieri, le vie, le scuole: l’intero paesaggio. Mariupol non può essere appellato come se fosse un cimitero, perché anche quello è stato distrutto.
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E loro sono i più fortunati, perché sono vivi.
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È utile conservare tutto ciò, in modo che si possano richiamare gli eventi, le persone e riutilizzare l’incontro tra il giornalista e altri studiosi e indagatori, in modo che il futuro non agisca univocamente nel traslare le interpretazioni in una univoca direzione di negazione e ancor peggio di consapevole sviamento.
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Per il pubblico, qui in Italia, quest’opera è un invito a non incedere in una postura pigra di uno spettatore del Colosseo, acefalo e voluttuosamente voglioso di sangue per estraniare il dramma, considerare i fatti come favole, o peggio ancora giustificare inconsciamente le proprie inclinazioni pornografiche nel provare l’acre soddisfazione nello spiare il dolore altrui.
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Quest’opera è un esempio di un processo di ricerca che è metodologicamente ben impiantato, attraverso la dichiarazione degli intenti, il dispiegamento degli indicatori di rilevazione, la messa in opera delle procedure di indagine, di inchiesta e di intervista. In più vi è la cura della sistemazione e della scelta di ciò che si è raccolto. La spiegazione di ciò che è considerato notizia è collocata in una struttura semantica che ha per base il <<fatto>>.
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Vi è una consapevole parsimonia nel correlare le relazioni tra gli eventi se non attraverso un lavoro artigianale, e quindi limitato, di ciò che si è rilevato dalle interviste e dalla visione sul campo. Vi è il valore aggiunto di rendere disponibile al lettore il ventaglio delle supposizioni e la logica di costruzione dei giudizi.
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È un lavoro onesto che invita il pubblico ad ascoltare in modo disciplinato ed eticamente corretto. È una possibilità ulteriore per evitare l’inclinazione verso considerazioni superficiali, o dettate univocamente dai pregiudizi che riguardano il proprio vivere e nulla entrano in quel luogo totalmente stuprato.
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Andrea Nicastro non scrive dal suo divano e non assume il ruolo di predicatore morale circa gli accadimenti in corso come se fosse un turista impermeabile a tutto. Non ha neanche il tono del giornalista che si atteggia a eroe titanico perché affronta la discesa agli inferi, sapendo di riveder le stelle degli applausi del pubblico. L’opinione di massa acefala vogliosa di racconti mitici e quindi semplici, cui spalmare emozioni ed istinti un tanto a serata prima di bersi un caffè o di usare lo stuzzicadenti, mentre commenta tra sé e sé di saperla lunga.
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No. Qui il narratore sta assieme alle vittime, anche perché non si aspettava quello che via via accadde ogni giorno, lì, a Mariupol: la città che nel giro di qualche orbita solare sarebbe divenuta un cielo di piombo e una terra di sangue. Le testimonianze e le memorie, sono raccolte nella penuria di acqua, di luce, di vestiti invernali e denaro.
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Ecco perché gli aggettivi non sono così sempre declinati al superlativo, perché chi narra, descrive la distruzione che ha appena spostato il suo corpo e la sua camera per le detonazioni. È anche il suo corpo che parla, tra l’udito e lo sconquasso delle ossa.
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Ottantadue giorni: millenovecento sessantotto ore. Questa è la storia che si fa attraverso la pratica giornalistica, viva, partecipata e concreta.
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11-12 “[…] Di alcuni eventi sono stato testimone diretto, di altri cronista, raccogliendo centinaia di storie, impressioni, frammenti di chi usciva vivo durante e dopo quegli ottantadue infiniti giorni di assedio medievale. La forma del romanzo, invece che del reportage, mi ha permesso di mescolare facce e vite, sommarle, dividerle, dare loro consistenza. O almeno provarci. In ogni personaggio ci sono i racconti di dieci persone diverse più, magari, il ricordo di un fantasma incrociato nelle notti dei bombardamenti. Prima di farvi leggere queste pagine le ho ripulite dalla cronaca più cruda perché mi rendo conto che credere alla realtà è più difficile che credere a ciò che creiamo con la fantasia. La prima ci spiazza, la seconda, figlia dell’esperienza, sappiamo in qualche modo riconoscerla. Esiste invece un qualcosa, magia l’ho chiamato, che uomini e donne sanno concepire nei momenti più drammatici. È un intuito o un agire che ha spesso soccorso l’umanità dai suoi stessi mostri. E ha salvato anche me da Mariupol. Lo troverete, spero, nel racconto assieme allo stupefacente dolore di quell’assedio e alla scintilla di umano che ho visto resistere anche nelle atrocità […]”
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53-54 “[…] a me che non è mai piaciuto seguire le notizie, adesso che siamo senza elettricità, adesso a me manca anche la tv, la predica uguale per tutti, qualcuno che mi dica come fare. Mi manca. Mi manca terribilmente. Non voglio pensare da solo, che lo facciano altri per me. Se c’è qualcuno incapace di vivere in un assedio, ecco, sono io.[…]”
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Mariupol e l’Ucraina, proprio perché tese all’autodeterminazione, minano il mito fondativo della Russia, sia come impero sia nella sua incarnazione dei soviet. Ancor di più frammenta la monolitica la narrazione cristiana russa di essere la portatrice del messaggio trascendente. Mariupol per la sua economia del ferro e del carbone, che propone nuovi modelli di relazioni sociali dal basso, si trasforma in una occasione di sorgente di mutamento per l’intera Russia, la quale risponde con una crudele volontà di annichilire e negare l’aspirazione alla libertà.
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Qui alcuni passi. Aggiungerò solo note di raccordo. Loro, queste persone in carne ed ossa stanno offrendo ora questo presente che diverrà storia, dolorosa per la quale noi tutti dovremo misurarci, per eventuali omissioni, ipocrisie, pregiudizi di comodo.
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58-59 “[…] In quel periodo anche Mariupol ha cominciato a cambiare. Poi si è sciolto di colpo pure l’impero che difendeva il comunismo e per Mariupol è stata una corsa. La Russia era rimasta affezionata all’idea che uno decidesse per tutti anche perché soffriva di nostalgia per quando tutto il comunismo del mondo aveva a Mosca la sua capitale. Mariupol, invece, ha voltato pagina. Ha smesso di essere solo la città delle acciaierie e delle montagne di carbone come voleva la Madre russa e comunista e ha cominciato a riempirsi di computer e università. Tra gli operai sporchi di fumo e carbone hanno cominciato a circolare giovani, frizzanti, con le mani delicate di chi non ha mai lavorato con pala e piccone, giovani che volevano costruirsi un futuro su misura. Sono convinta che la Russia ha deciso di essere crudele con Mariupol proprio perché la città era cambiata troppo. L’assedio era contro quei nuovi abitanti che non si ricordavano più che cosa volesse dire essere comunisti o obbedire al capo. Per anni e anni a Mariupol avevano vissuto solo minatori e operai con la testa bassa, ma alla vigilia dell’assedio la città era piena di gente curiosa, libera, un po’ cosacca che guardava dritto davanti a sé. La Russia non riusciva a sopportarli […]”
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86-7 «Per il forno, non ti preoccupare [Pavel: nota mia: soldato russo richiamato a combattere, ora panettiere che sognava di migliorare l’attività di fornaio]. Sono contento di stare qui, so di essere fortunato a non andare come te a combattere. Penserò a tutto io, tu impegnati a tornare sano e salvo. Questa guerra non mi piace.» «Perché? Cos’ha di diverso da quelle che hai fatto tu?» «In Afghanistan c’eravamo noi e c’erano gli altri. Tra noi ci si capiva. Noi eravamo noi, i nemici, nemici. Noi potevamo riconoscere i compagni da ogni respiro, da un verso, da un colpo di tosse. Degli afghani non sapevamo nulla e non ci importava niente. Potevamo ammazzarli tutti per quel che ci interessava e avremmo dormito sereni. Erano come marziani. Avevano vestiti diversi, parole diverse, anche la loro puzza era un’altra dalla nostra. Qui invece ci siamo noi da tutt’e due le parti. Quelli che sono dentro Mariupol cercheranno di ucciderti, conoscono le nostre procedure, hanno studiato le stesse manovre, hanno le stesse armi. Sanno come pensiamo. È una guerra innaturale. Quelli di là sono come Caino con Abele. Siamo stati attaccati alla stessa mammella e adesso decidono di accoltellarci alle spalle. Bastardi. Traditori. Nazisti di sicuro. Ma come può essere una guerra normale se è tuo fratello che ti vuole ammazzare?» «Me la caverò.» «Lo accetti un consiglio dal tuo garzone?» «Dai, cosa dici?» «Stai con le forze speciali o, se non ci riesci, stai vicino a qualche mezzo costoso. La fanteria è sacrificabile. I soldati sono numeri, non contano nulla, per i generali le armi valgono molto di più. Le forze speciali, beh, loro sanno proteggersi da sole. Anche dai comandanti carogna e ti assicuro, ce ne sono a bizzeffe in ogni operazione di comandanti carogna. Fatti amico delle forze speciali e quando tornerai il forno sarà uno specchio, uguale a come l’hai lasciato.»
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120 Ogni bomba era diversa. Dal negozio senza vetri si sentivano molto meglio che in cantina. Ce n’erano di quelle che sembravano tuoni estivi, rombi prolungati dopo un primo scoppio. Altre, dallo schiocco acuto, erano come schiaffi di un gigante isterico: arrivavano sempre ravvicinate, cinque o sei alla volta perché il gigante era furioso e solo dopo una scarica di schiaffoni si stancava di colpire. Altre ancora erano cupe, potenti, ma isolate, te le immaginavi con la nuvoletta di polvere a forma di fungo in lontananza. Altre avevano il suono di porte sbattute dal vento. Facevano meno paura di tutte perché sembravano davvero lontane. Poi c’erano gli spari, raffiche in genere, tre colpi alla volta, difficile capire quanto vicini se non quando parevano biglie da biliardo che si toccano l’una con l’altra, allora potevi essere sicuro che fossero lontane. Infine, c’era il rumore dei jet che sentivi dove già non erano più, pericolosissimi perché imprevedibili come i missili o qualunque cosa sospirasse prima di esplodere. Quei veloci rantoli trasportati nell’aria erano gentili perché davano il tempo di ripararsi. Un avviso sul filo dei secondi, tre, quattro al massimo, ma abbastanza per scappare all’interno se si stava cucinando.
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121-122 Il missile cadde al di là del parco senza che vedessero l’esplosione. Videro solo l’onda d’urto che investiva il lato del palazzo dove avrebbero voluto rifugiarsi. La videro arrivare nella terra che si sollevava, nell’asfalto che si crepava, nei loro corpi che si schiacciavano contro il cordolo del parco fino a che l’onda di energia si schiantò contro l’edificio. Una scena che non avrebbero dimenticato per il resto della vita. I vetri delle finestre si gonfiarono come bolle di sapone, le lesene di pietra si curvarono, il muro oscillò. Una frazione di secondo in cui la fisica dei giorni di pace smise di avere senso: la materia era diventata molle. La stessa energia che piegava i muri come fossero di tela aveva attraversato anche i loro corpi. Sentirono la mano appoggiata al muretto fondersi con la pietra, le loro braccia, le teste e gli organi interni muoversi ciascuno per proprio conto. Videro i vetri gonfi come palloncini esplodere in minuscole schegge. E infine, un attimo dopo, il rumore più spaventoso che avrebbero mai sentito, alle loro spalle, al di là del parco. Rimbalzarono dal muretto alla terra gelata. Il cuore ricominciò a battere tutto d’un colpo, all’impazzata. Le gambe non rispondevano. Respirarono assieme come quando si emerge da sott’acqua, avidi d’aria. Erano vivi. La terra e il muretto a cui erano rimasti aggrappati, erano tornati a essere duri. Il palazzo, che per pochi istanti era sembrato un drappo al vento, appariva di nuovo rigido. Le finestre sventrate, i cornicioni sbrecciati, la strada, pulita prima dell’esplosione, era coperta da un tappeto di frammenti.
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175 «Chiedi alla donna come hanno fatto a scappare a piedi.» Olga ricacciò un ciuffo di capelli sotto il berretto di lana e guardò la telecamera che aveva davanti. Raccontò del carro armato e dei cecchini che li osservavano dalle finestre sventrate dei palazzi. Raccontò dell’umiliazione di sentirsi senza valore, senza diritti, in balia di uomini armati. La paura che qualcuno potesse sparare loro a ogni angolo. Raccontò dei cadaveri abbandonati per strada, del loro tentativo di cambiare marciapiede perché i bambini non li vedessero. Parlò dei posti di blocco e degli uomini perquisiti e del cibo che avevano ricevuto. Parlò del contadino che li aveva raccolti, un angelo, disse, capitato su una strada dell’inferno quando le vesciche ai piedi non permettevano più loro di camminare. Raccontò dello speculatore che li aveva portati sino a Zaporizhya, di come quel brodo bollente non riuscisse a scaldarli. Quanto risultava obliquo, difficile da spiegare, controverso, scomparve dalla traduzione. Secondo l’interprete e quindi secondo il servizio che andò in onda, la famiglia era sfuggita a un carro armato russo e aveva dovuto strisciare lungo i muri per evitare i cecchini mandati da Mosca a trucidare chiunque cammini per le strade. Rimasero le vie piene di cadaveri, ma i bambini costretti a scavalcarli non dormivano più per gli incubi. Ai posti di blocco poi scomparve l’acqua e il cibo e restarono le perquisizioni dei maschi, ricerche violente e ingiustificate, così come svanì il tassista profittatore mentre il contadino si trasformò in coraggioso patriota, forse un partigiano, che li aveva portati gratuitamente sino lì. «Sperate di tornare un giorno a Mariupol?» «Mariupol non esiste più.»
Questi bambini furono una contraddizione vivente rispetto agli intenti e alle narrazioni della edificazione rivoluzionaria della società socialista in URSS. Dai genitori uccisi per la guerra civile, per le carestie subite a fronte degli espropri, delle ricorrenti crisi economiche che contraddicevano i grandi piani emanati dal partito, dallo Holodomor il genocidio per fame voluto scientemente da Stalin e dal suo apparato prevalentemente lì in Ucraina. Il serbatoio agricolo di parte dell’intera Russia Occidentale e dell’Europa Orientale. Lì che si ebbe l’inferno fino al cannibalismo.
Fino alla nuova crisi di produzione degli anni trenta e alle nuove epurazioni volute dall’astro nascente, dal grande padre Giuseppe Stalin, e da gran parte dell’apparato politico, istituzionale e poliziesco, con l’appoggio morale della nuova classe di eletti che avevano potere e ricchezze, come aderenza a questa nuova chiesa vorace di sangue.
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Mi sia consentito per una volta un aneddoto biografico. Lessi degli studi del prof. Luciano Mecacci nel lontano 1989, riguardo ai grandi pedagogisti come Makarenko e psicologi, che cercarono scientificamente di ampliare le nozioni delle scienze umane, correlando la nozione di agente sociale con quello delle relazioni di contesto sociale e di processo storico culturale, fino ai processi psichici più profondi.
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Le loro tecniche di analisi e di ricerca furono oggetto di studio per tutta la comunità scientifica mondiale nei decenni a venire. Ma non era solo un’attività di laboratorio. SI impegnarono per cercare di offrire un corpus di modelli pedagogici e di teorie e prassi psicologiche, nonché didattiche ed organizzative per offrire una formazione a tutti. E anche morale, seppure poi declinata nella visione del partito e della rivoluzione socialista. E quindi anche e principalmente per questa massa di bambini e adolescenti abbandonati e lasciati nei posti oscurati della società sovietica senza una prospettiva futura.
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Questo libro come in tutte le opere di Luciano Mecacci vi è una quantità sterminata di fonti, tutte documentate con la relativa spiegazione a parte del loro ritrovamento, nel modo di rilevazione, di interpretazione e di impiego nella stesura dei testi. È un libro profondo, ma ben spiegato e onesto nel mostrare il corpo delle premesse e i loro procedimenti di sviluppo argomentativo, innestati nella storia della critica e della ricerca per questo terribile processo sociale.
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Il testo non descrive cinematograficamente gli eventi o con dati già confezionati senza spiegare le tecniche di valutazione. Vi sono le testimonianze, i pensieri, i ricordi, le emozioni, le speranze dei protagonisti. Luciano Mecacci, infatti, descrive il criterio di Anton Semenovyč Makarenko, per il quale la rieducazione pedagogica si attua attraverso la responsabilizzazione, e i contributi di Lev Vygotskij, oltre alla raccolta dei saggi di Alexander Lurija. Tutti costoro e la quasi totalità degli intellettuali del periodo, oltre ai registi (citati nel libro con i relativi film, disponibili in rete web, che consiglio di vedere), agli scrittori, ai romanzieri che descrissero le condizioni di queste centinaia di migliaia di bimbi e bimbe, furono emarginati, perché il regime già dal 1935 considerò il fenomeno superato e definì la censura fino alla morte di Breznev. Molti di loro furono fucilati o condotti nelle carceri della Lubjanka o nei Gulag.
(Di questa tragedia dei deportati e degli incarcerati dei lunghi decenni del periodo staliniano e oltre ricordo di averne trattato consigliando quel capolavoro immenso che è “Vita e destino” di Vasilij Grossman, consultabile QUI e nel libro più terribile, ove si arriva nel fondo dell’animo umano di Varlam Salamov “I racconti di Kolyma”, consultabile QUI )
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E non è un caso che molti provenissero dall’Ucraina.
Pgg.15-16 Dante Corneli, emigrato in Russia nel 1922, deportato in un lager con l’accusa di trockismo nel 1935 e rilasciato, dopo alterne vicende, solo nel 1960. Nella sua descrizione della caotica situazione a Mosca nel 1922, dove «non era facile mantenere l’ordine pubblico: furti, rapine e violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno», e dove «in certi quartieri, spesso teatro di sparatorie, i soldati e i miliziani facevano sistematicamente grandi retate», le scene più impressionanti riguardano i besprizornye. Ma ciò che mi colpiva di più e che mi è poi rimasto impresso per tutta la vita era la vista dei bezprisorni, ragazzi randagi affamati, spesso malati, che si spostavano da una parte all’altra della città e dell’intero paese come branchi di piccoli animali. I più erano bambini, i più grandi avranno avuto non più di sedici anni. Provenivano tutti dalle regioni del Volga, dove nel 1921 una popolazione di quaranta milioni di abitanti era stata colpita da una tremenda siccità. In molti casi erano stati i loro stessi genitori a spingerli a fuggire dai villaggi dove sarebbero sicuramente morti di fame. Invisi a tutti come lebbrosi, neri di sporcizia e cenciosi, si aggiravano per le strade e nei mercati in cerca di cibo. A sera si rintanavano nei negozi e negli stabili abbandonati o semidistrutti. Là passavano la notte, ammucchiati gli uni sugli altri per riscaldarsi.7 Nella prima metà degli anni Venti i besprizornye erano centinaia di migliaia, con un picco di circa sette milioni nel 1922 (nel 1926 la popolazione dell’URSS era di poco superiore ai 147 milioni di abitanti). Nel 1922 a Mosca arrivarono non meno di mille bambini al mese.8
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Pgg. 17-19 Anche André Gide durante il suo viaggio in Russia nel 1936 ne incontrò, con rammarico, ancora molti: «speravo proprio di non vedere più besprizorni».12 I besprizornye dei primi anni Venti avevano in genere tra i sette e i quindici anni, e quindi a metà degli anni Trenta non erano più bambini. Ma alla passata ondata se ne aggiungeva ora una nuova, seppure inferiore per dimensione, costituita dai figli dei «nemici del popolo» spediti nei campi di lavoro o fucilati. E un’ulteriore ondata sarebbe arrivata durante la Seconda guerra mondiale: gli orfani di genitori uccisi dalla guerra e i bambini che scappavano dalle proprie case per la fame e la disperazione. Una volta diventati adulti, che ne fu dei besprizornye? Nonostante il trionfalismo della propaganda stalinista – quei ragazzi che vivevano di aria e di sventura sarebbero stati recuperati e reintegrati operosamente nella società sovietica – per buona parte di loro la sorte fu decisamente meno gloriosa: in genere entrarono nelle file della criminalità, e molti finirono nei lager, destino su cui ha scritto pagine terribili Aleksandr Solženicyn in Arcipelago Gulag. Nei lager i ragazzini, che potevano avere anche dodici anni, erano chiamati dai detenuti adulti maloletki (malo = poco e leta = anni), marmocchi. I maloletki anche da liberi capivano benissimo che la vita è basata sull’ingiustizia. Ma allora non era tutto crudamente messo a nudo, qualcosa era coperto da una patina di decenza, qualcos’altro addolcito da una parola buona della madre. Nell’Arcipelago, invece, i marmocchi videro il mondo come appare agli occhi dei quadrupedi: soltanto la forza è giustizia! soltanto il rapace ha diritto di vivere! Così vediamo l’Arcipelago anche in età adulta, ma siamo capaci di contrapporgli la nostra esperienza, le nostre riflessioni, i nostri ideali e quanto abbiamo letto fino a quel giorno. I bambini invece recepiscono l’Arcipelago con la divina ricettività della fanciullezza. E in pochi giorni diventano bestie! le peggiori bestie, senza alcun concetto etico (se si guardano gli enormi occhi tranquilli di un cavallo o si accarezzano le orecchie abbassate di un cane colpevole, come si può negare che abbiano un’etica?). Il marmocchio impara che se qualcuno ha i denti più deboli dei suoi, deve strappargli il boccone, è suo.
Pg. 13 Dmitrij Lichačëv, grande studioso della cultura russa antica, arrivato da detenuto nel 1928 alle isole Solovki, primo nucleo del sistema concentrazionario sovietico, rimase impressionato da ciò che vide svegliandosi dopo la prima notte di detenzione: Sui tavolacci [dove dormivano i detenuti] superiori giacevano dei malati, e sotto di noi c’erano delle braccia protese a mendicare un pezzo di pane. Quelle braccia smunte erano il dito indice della sorte. Sotto i tavolacci vivevano i «pidocchiosi», gli adolescenti che non avevano più vestiti e vivevano da «fuorilegge»: non uscivano per le ispezioni, non avevano diritto al cibo, vivevano sotto i tavolacci perché non li facessero uscire, nudi, al freddo e ai lavori pesanti. Le autorità sapevano della loro esistenza, ma per eliminarli si limitavano a non dare loro la razione di pane, minestra o kaša. Finché riuscivano, vivevano del buon cuore altrui. Quando poi morivano, li portavano fuori e li chiudevano in una cassa per poi trasportarli al cimitero. Erano i besprizorniki, ragazzini abbandonati o senza famiglia, spesso condannati per vagabondaggio o per piccoli furti. Quanti ce n’erano in Russia! Bambini senza più genitori, che nel frattempo erano morti ammazzati o di fame, cacciati oltre confine con l’Armata Bianca o emigrati. Ne ricordo uno che sosteneva di essere figlio del filosofo Cereteli. Da liberi dormivano nei calderoni dove si prepara l’asfalto e vagavano per la Russia in cerca di tepore e frutta fresca dentro le casse poste sotto le carrozze viaggiatori o nei vagoni vuoti dei treni merci. Sniffavano la cocaina, che durante la rivoluzione arrivava dalla Germania, il tabacco e l’hascisc. Molti avevano le mucose del setto nasale bruciate. Mi facevano tanta pena quei «pidocchiosi» che mi trovavo a barcollare come un ubriaco, stordito dal dolore. La mia non era una sensazione, quanto vera sofferenza, e sono grato alla sorte che di lì a sei mesi mi mise in grado di aiutare alcuni di loro.
La condizione in cui si trovarono gettati i besprizornye durante la Prima guerra mondiale, la guerra civile, la carestia del 1921-22, la grande carestia dei primi anni Trenta, le repressioni staliniane e infine la Seconda guerra mondiale fu segnata dal bisogno primario della fame, e dagli espedienti per soddisfarlo: mendicare, rubare, uccidere.
Appena dieci anni dopo il discorso tenuto dalla Krupskaja al congresso di Mosca del 1924, alla progettualità rieducativa era ormai subentrata la soluzione repressiva. La svolta decisiva avvenne con la risoluzione congiunta del Comitato esecutivo centrale dell’URSS e del Consiglio dei commissari del popolo, approvata il 7 aprile 1935: si decise di abbassare il limite d’età per perseguire penalmente i giovani delinquenti e i besprizornye. A partire dai dodici anni di età, i minorenni riconosciuti colpevoli di furto, violenze, lesioni personali, menomazioni, omicidio o tentato omicidio, sono passibili di giudizio penale, con l’applicazione di tutte le misure punitive.16 Il limite dei dodici anni fu aggiunto personalmente da Stalin sulla bozza di proposta preparata da Andrej Vyšinskij, il procuratore generale dell’URSS che di lì a poco avrebbe rappresentato l’accusa nei grandi processi di Mosca. Pochi giorni dopo, il 20 aprile 1935, una nota segreta fu trasmessa agli organi competenti: vi si chiariva che tra le «misure punitive» andava annoverata anche «la pena capitale (fucilazione)». Non è noto il numero dei besprizornye che furono fucilati in applicazione di questa «nota esplicativa», ma testimonianze e documenti indicano che già negli anni precedenti si era fatto ricorso ai proiettili per «liquidare» quei ragazzi vestiti di stracci. Da ultimo, il decreto del 31 maggio 1935 sanciva la fine del fenomeno dell’infanzia abbandonata.
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Negli anni venti fino a metà degli anni trenta, la condizione dei besprizornye fu alleviata dagli operatori e dai volontari della Croce Rossa internazionale, tra le quali, anche quella italiana, dalle fondazioni inglesi, francesi e Usa. Furono poi cacciate tutte, perché il partito decise che il problema era risolto. Non esistevano più besprizornye nella gloriosa società sovietica!
In questo volume vi sono una miniera di indicazioni, di nomi, di volti, di luoghi, che svelano processi di lungo periodo, tristemente ancora attivi oggi: un paese, una cultura, un mondo che divora i propri figli.
La signora delle camelie è l’opera di Alexander Dumas figlio che fu più riprodotta nei decenni successivi alla pubblicazione nei teatri con testi progressivamente adattati al senso del tempo contingente. Lo Stesso Giuseppe Verdi usò la trama per comporre la sua “La Traviata”. Nel novecento fu riprodotta nel cinema in innumerevoli varianti.
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Narra di una storia vera. Anzi di storie vere tra le quali vi sono quelle biografiche e dissimulate, da parte dello stesso autore. I personaggi e gli eventi, nonostante una regolarità che agli occhi dei contemporanei sembra classica e nota, è invece innovativa. La psicologia nascosta è analoga a quella maschile dei secoli vicini e passati a quelli di Alexander Dumas. In un ambiente sociale più laico, l’oggetto del peccato che è detto “donna” e che conferisce senso e moralità alla visione della divinità maschile che tutto ordina e dispone, conferendo senso e valore alle etiche, si trasferisce nella sublimazione dell’incanto e della passione.
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Da fonte di conoscenza che porta il peccato, la donna diventa alternativamente nume, scoglio, abisso, via di elevazione. È ora uno strumento ed un oggetto verso il bello e il buon dire per opera dell’amante e dell’artista. Il prodotto letterario è buono e bello: bello perché buono: buono perché prodotto dall’estro e dal buon cuore dello scrittore.
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La “donna” è un luogo di produzione letteraria che induce energia creativa per mezzo dell’autore. In questa accezione l’artista è colui che eleva la donna, trasfigurandola in figure floreali che emettono spore: la camelia. Il fiore che rappresenta l’unione perfetta, perché integro, non perde petali. Eppure si scrive di una prostituta che rimane perfetta più volte a pagamento.
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Nel testo però, nonostante le intenzioni dell’autore che propone la millenaria visione della prostituta come il male, emerge quella che la intende come una vittima dei sistemi etici e come una schiava da parte degli uomini.
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Lo stesso autore inconsciamente, lo avverte e vuole schermarsi, lasciando intendere che questa vittima, è per natura mutevole e bella, ma inevitabilmente infida e vampiresca, perché ha ceduto alla corruzione.
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L’opera sfugge anche al lettore. In quegli anni (1848) vi fu un’espansione del pubblico ancillare che acquisì una valenza economica autonoma: quello femminile. Lo stesso Dumas figlio nel voler giustificare l’operato e gli errori e le meschinità dei presunti amanti, in realtà clienti che rimangono poi gabbati, valorizza e descrive le capacità intellettuali di questa donna. Marguerite Gautier diventa una figura esemplare, non perché sia una prostituta, ma in quanto agisce in modo senziente e autonomo, mostrando capacità cognitive e strategiche che prescindono dall’antagonista e dall’eroe maschio.
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Nonostante tutto nelle rappresentazioni teatrali fino ai fotoromanzi vi è il tentativo inconscio di occultare la piena soggettività della protagonista. Nei fatti l’occultamento ottiene l’effetto opposto: Marguerite Gautier è una donna che è pari all’uomo in tutto, anche in ambito estetico letterario. Gli stili e le poetiche vorrebbero glorificare la vittima nella sublimazione dell’amore e dell’eroismo, attraverso l’acefala passione del sacrificio religioso, per fruire della “donna” come una figura letteraria menomata e pericolosa, perché si discosta dai valori e dalle visioni maschili.
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La prostituta che è disprezzata dal senso estetico maschile, per contrappasso determina il successo dell’opera, perché contravviene agli intenti dell’autore, trasformandosi in un soggetto dotato di virtù e di capacità commendevoli.
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Lo stile di Dumas figlio, come quello paterno risente della necessità di scrivere un romanzo a puntate che è letto nei quotidiani settimanali e mensili. Lo stile è veloce e immediato, inframmezzato da analisi psicologiche che in realtà sono giudizi morali da parte dell’autore, mascherati però dalle descrizioni di eventi e dalle impressioni sui luoghi, sui colori e sulle sensazioni.
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Come può una camelia che è detto il fiore perfetto, associarsi al mutamento che è una caratteristica di questa donna? Come può il cliente, presunto amante, donatore di oggetti e non di stesso, giustificare la veridicità dei suoi intenti, se invece agisce in contrasto con quello che proclama? È un libro contraddittorio che percorre vie divergenti da quelle predisposte dall’autore.
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La futilità della trama ridotta in pillole e rimasticata in tanti racconti fino ad oggi, è il luogo di partenza di uno dei tanti processi di riconfigurazione di un nuovo e radicale senso della femminilità che è in cammino ancora oggi.
7-8 “[…] I racconti di Kolyma, infatti, come ha scritto Irina Sirotinskaja, erede del patrimonio culturale dello scrittore (cui è stata vicina negli ultimi sedici anni della sua vita), rappresentano «la più importante testimonianza sulla tragedia del XX secolo, e un fenomeno unico nella letteratura russa». Un capolavoro letterario e umano nel quale Šalamov descrive – con minuziosa precisione ma anche con straordinario distacco – i rapporti delle gerarchie all’interno, e all’inferno, dei campi.
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Se Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn è stato il primo tentativo di storia generale della repressione di massa in Urss dal 1917 agli anni Sessanta, scritto da un sovietico che aveva vissuto (ed era sopravvissuto) al Grande Terrore, all’opera di Šalamov fin da subito si è riconosciuta la straordinaria capacità di raccontare con limpidezza e cuore la «vera vita» del Gulag, di penetrarne sino all’estremo limite i recessi più profondi e sconvolgenti, di ricordare – parola chiave del lessico di Šalamov – i meccanismi perversi del «mondo cavernoso dei detenuti», la psicologia che governa i comportamenti di ciò che resta dell’uomo sottoposto alla prova di una Natura infame e spaventosa, dove, come cantano i prigionieri dei lavori forzati, «Kolyma Kolyma, assurdo mondo, l’inverno prende nove mesi solo il resto è all’estate…» (come si legge nel racconto Il procuratore verde).
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La verità su Kolyma è la verità sull’uomo, sui regimi, sulla sopraffazione, sulla violenza esasperata dalle condizioni ambientali mostruose: quelle di fuori, e quelle di dentro. È un universo di infinito dolore quello che, racconto dopo racconto, si delinea nelle pagine dell’autore, come in un immenso puzzle, quando tessera dopo tessera si riesce a ricostruire il quadro intero. In una lettera indirizzata a Irina Sirotinskaja nel 1971, Šalamov è pienamente consapevole di avere svelato il più disumano dei segreti: «Con quale facilità l’uomo si dimentica di essere uomo», le scrive, quando tutto attorno è così «inumano» da annichilire ogni speranza, da annientare ogni resistenza, da polverizzare ogni sentimento. «Qui è la Kolyma! La legge è la taiga e il giudice l’orso! Mai aspettare di mangiare la zuppa e il pane insieme […]”.
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8. In quel territorio grande come la Francia, morirono nei Gulag 3 milioni di persone.
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Gli scritti di Aleksandr Isaevič Solženicyn su “Arcipelago Gulag” e sul “Primo Cerchio” descrivono in modo complessivo la caduta all’inferno, spiegando le logiche giudiziarie e amministrative di potere. Anche Salamov descrive l’apparato, ma lo utilizza come un vettore per indagare recessi ancora più orrendi: l’ultimo girone dei cerchi infernali di Aleksandr Isaevič Solženicyn: l’animo umano. Come si dimentica facilmente di essere umani.
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Salamov descrive la caduta nella parte più nera del cuore: nella crudeltà che annichilisce il vivere di ognuno, nella perdita della dignità da parte degli schiavi prigionieri che rigettano la propria umanità, sperando di lenire il dolore, finendo invece più giù, nel fondo senza speranza.
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La violenza fisica, il sadismo, la distruzione di ogni speranza di libertà, diventano alla fine solo “sparuti” effetti dell’oblio della propria umanità, per finire travolti nell’abisso infinito della disperazione, vuoti: un attimo prima di crepare.
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L’elemento ancora più lacerante risiede nella convinzione che il Gulag sia lo specchio nudo della società, in cui si riproducono freddamente le relazioni di potere e di asservimento, e i valori di potenza che utilizzano anche gli strumenti dello sfruttamento schiavistico del lavoro.
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Tutto questo, però, non definisce una matrice d’analisi della società Sovietica, quanto un’apertura al vivere dei singoli nelle loro paure e speranze, attraverso i racconti di chi è riuscito a sopravvivere, traendo forza e dignità da se stesso, tentando di non dimenticare di esser stato, nonostante tutto, un essere umano.
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17 I morti vengono dimenticati. Si spera che muoiano di giorno, per rubare la loro razione di cibo e si rubano anche i loro vestiti.
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21 Dugaev si stupì: lui e Baranov non erano amici, anche se lavoravano insieme. D’altra parte, con la fame, il freddo e l’insonnia, non può nascere nessun legame di amicizia e, nonostante la giovane età, Dugaev capiva bene quanto fosse falso il proverbio secondo cui le vere amicizie si riconoscono nella povertà e nel bisogno. Perché l’amicizia si dimostri tale è necessario che le sue più imponenti fondamenta vengano costruite prima che la situazione e le condizioni di vita giungano a quel limite estremo al di là del quale nell’uomo non rimane più niente di umano e ci sono solo circospezione, rabbia e bugie. Dugaev ricordava bene il detto del Nord, i tre comandamenti del detenuto: mai fidarsi di qualcuno, mai aver paura di qualcuno e non chiedere mai niente a nessuno…
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La mole poderosa dei racconti, sembra richiamare il grande affresco della raccolta di poesie “Foglie Morte” di Walt Whitman, in cui però non sono i morti che parlano attraverso i loro epitaffi in poesie, ma i quasi morti con un piede nell’inferno in terra e un altro che passeggia con la morte. E questi prigionieri divaricati parlano al presente davanti al lettore, chiedendo di dargli vita ancora un secondo per mezzo della sua attenzione, non avendo altro da offrire l’ultimo fiato di dignità. Ancora un secondo, ancora un battito di cuore, urlando la speranza nel poter dire ciò che si fu e che si subì.
Le mie sono solo risposte a un tuo continuo richiamo…