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§CONSIGLI DI LETTURA: IL GIUOCO DELLE PERLE DI VETRO

Il giuoco delle perle di vetro di Hermann Hesse,
1990 (Prima pubblicazione: 1943),
Mondadori, Segrate, Collana: I Meridiani,
Traduttore: Ervino Pocar

Il giuoco delle perle di vetro” è una sinestesia tra le scienze e le arti, da una frase di Confucio, si passa ad una fuga, che si tramuta, bicefala, in un dipinto e in una poesia.

Il protagonista, Knecht, all’inizio del suo interrogarsi su sé e sul mondo, compie l’errore di voler saggiare il METODO ESATTO di questa sinestesia universale che è il giuoco delle perle di vetro. Intende manifestare la struttura, lui, singolo dell’universale che è il tutto, compiendo una grave contraddizione.

Castalia e il giuoco delle perle di vetro. L’apparente inutilità che ricerca, nel gesto estetico, di collocarsi entro la propria limitatezza, nella cognizione che tale semplicità non possa escludere la grande manifestazione del sensibile e del corpo. Vi è una ripresa poetica della dualità tra le idee e il mondo neoplatonico, stilizzato dai tedeschi del 1700-800.

Castalia un ritorno all’adolescenza. Alle promesse inevase.

Questo romanzo non è un compimento di un’opera e del lavoro correlato. È una individuazione provvisoria del percorso di crescita che Hermann Hesse tentò di praticare nel corso del suo vivere intellettuale e artistico.

L’arte è anche pedagogia. Lo scrittore nel parlare del mondo, del vivere e del bello, quindi delle arti, può dichiarare la sua funzione nell’accompagnare il cammino del pubblico verso il godimento e la riflessione estetica, la quale, se veramente vissuta, comporterebbe una migliore consapevolezza etica di sé nel mondo.

Non è un caso che nei romanzi giovanili, oltre a narrare dei turbamenti della nuova soggettività del secolo 900 che comparve con sua dignità autonoma, l’adolescenza dispiega le sue ricerche nelle arti come la pittura e la musica. La crescita dell’artista non è solo quella eroica e magica dell’illuminato, ma anche di quella dell’infante che si fa adulto. Il buon cammino estetico è parte necessaria e integrante dello sviluppo del giovane e dei popoli. La pedagogia è impossibile che non sia dotata dell’educazione e della pratica nel gusto e nella produzione artistica.

La maggiore consapevolezza nel conoscere i turbamenti derivati dalla propria limitatezza rispetto al sapere, al destino e al vivere e al morire, è concomitante all’incapacità di sottrarsi a tale giogo, perché è il nucleo del senso di sé. E del tempo in cui si vive.

Il romanzo di formazione dell’ottocento, nell’opera di Hesse si trasforma nella stenografia del vivere di ogni essere vivente. L’adulto è il risultato momentaneo e in divenire di questo libro che giunge a gradi infinitamente estesi nell’esprimere l’arte, il gioco e il pensiero. Tale cammino, pone se stessi come il problema da distendere nel tempo nel comunicare ciò che è oltre sé.

E proprio perché Hermann Hesse visse prima, tra e dopo le due guerre mondiali, tentò di reagire a suo modo, contribuendo tenacemente, nonostante le depressioni, le limitazioni fisiche e l’inesorabile vecchiezza, ad esprimere una assonanza tra il giovane che rimane nel buio e non vuole riconoscere la menzogna che, tuttavia, preavverte, e gli stati e i capi che, nel percorrere esclusivamente un cammino teso ad acquisire sempre più potenza, entrambe le parti sembrano non comprendere che in realtà dilaniano se stesse. Tutti rimangono nella piatta visione della sopraffazione, senza fine, senza avanzamento in una stasi di morte, cecità, dolore. Permane l’impossibilità a mantener fede al proprio destino di proseguire un cammino nel mondo e nel tempo, fino al proprio ed inevitabile compimento.

L’elemento più dilaniante per Hermann Hesse, fu che le stesse arti erano usate e generate per alimentare pratiche inedite dell’orrore. Il giuoco delle perle di vetro è un percorso di formazione che riprende lo spirito della pedagogia generato dai millenni, tramandato per analogia a partire dalle forme della filosofia greca, abbracciando le filosofie orientali, e innestandole nello spirito scientifico moderno, per creare un orizzonte più ampio rispetto alla visione della guerra contemporanea e quindi a quella artistica ad essa correlata.

Il giuoco delle perle di vetro non è descritto in modo preciso, e non può che essere così, perché il titolo già racchiude gli indizi. È un libro aperto di formazione dei protagonisti, del lettore e della loro trasfigurazione, che, attraverso il rispettivo congedo, lascia nuovi spazi di possibilità di esistenza per gli altri che stanno sopraggiungendo. È un giuoco infinito, senza uno scopo e un premio accertato, perché ha l’orizzonte stesso di senso come regola, e di vetro, perché è consapevole della propria limitatezza e quindi della sua indefinita possibilità di manifestazione, per il singolo lettore, per il giocatore del presente e per tutti quelli che forse verranno. Perché il giuoco è questo mio e tuo vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: MUSICA ROCK DA VITTULA

Musica Rock Da Vittula di Mikael Niemi,
(Populärmusik från Vittula, 2000),
K. De Marco (Traduttore),
2010, Iperborea, Milano

È un romanzo di formazione semi autobiografico, dove le vicende del passato si miscelano con le riflessioni nel presente che l’autore fa di se stesso di quel periodo con i suoi compagni, considerando l’evoluzione e i contrasti di quella zona della Finlandia dove convivono i Lapponi, comunità svedesi con diverse forme di interpretazione del luteranesimo.

L’interiorità del protagonista costituisce il sistema di riferimento per inquadrare lo spazio e il tempo narrativo. La visione animistica del cosmo e della natura offre uno stile narrativo che facilita la commistione tra il passato e il presente.

12-13 “[…] Nel gergo popolare il nostro quartiere veniva chiamato Vittulajänkkä, che tradotto vorrebbe dire la Palude della Passera. L’origine del nome non era chiara, ma doveva avere a che fare con il gran numero di bambini che ci nascevano. In molte case si arrivava a cinque, se non di più, e il nome rendeva una specie di crudo omaggio alla fertilità femminile […]”

16-17 “[…] Smisi di spingere e lasciai che l’altalena perdesse a poco a poco velocità. Alla fine saltai sul prato, feci una capriola e rimasi sdraiato a terra. Guardai il cielo. Le nuvole rotolavano bianche sopra il fiume. Sembravano grosse pecore lanose che dormivano nel vento. Se chiudevo gli occhi vedevo degli animaletti muoversi sotto le palpebre. Dei puntini neri che strisciavano su una membrana rossa. Se li stringevo ancora più forte riuscivo a vedere degli omini viola nella mia pancia. Si arrampicavano gli uni sugli altri e formavano delle figure. Anche lì dentro c’erano degli animali, anche lì c’era un mondo da scoprire. Mi prendeva un senso di vertigine, capivo che il mondo era una serie infinita di sacchetti infilati uno nell’altro […]”

I titoli dei paragrafi spiegano le gesta, in modo analogo a un racconto a quelle d’arme e d’amore di un tempo. Il mito del passato intesse una narrativa lirica. La memoria costituisce una storia che snoda il romanzo di formazione in una sequenza di Odissee per le quali il lettore possa partecipare emotivamente, attraverso una descrizione del mondo visiva, odorifera e tattile. Le immagini risultano concrete, olografiche, come quelle di un bimbo, contraddistinte da olografie antropomorfe. Gli oggetti rappresentano significati spirituali ed etici (buono, giusto, repellente) o caratteriali (eroico, pavido, fermo).

71 “[…] Quel pomeriggio stesso cominciò la lite per l’eredità. Si attese che finissero i riti funebri e che vicini e predicatori se ne fossero andati. Poi le porte della fattoria si chiusero agli estranei. I vari rami, escrescenze e innesti della famiglia si riunirono nella grande cucina. I documenti furono disposti sul tavolo. Gli occhiali furono estratti dalle borsette e messi in equilibrio su nasi lucidi di sudore. Si schiarirono le voci. Si inumidirono le labbra con lingue affilate. Poi scoppiò il finimondo […]”

178 Durante la gara di bevute clandestina dei ragazzi, il narratore interpretando se stesso da bambino, riveste le vicende con uno stile fiabesco, ma nella sostanza coerente nel descriverle in modo estremamente razionale per analizzare i fenomeni della natura, le leggi morali e il loro impiego. Per il contrasto comico sapientemente dosato, mostra l’assurdità e il ridicolo delle imprese dei suoi coetanei e di quelli di poco più grandi nell’imitare i comportamenti degli adulti. Ridicoli perché goffi e impotenti non avendo la cognizione, l’esperienza e il fisico per le imprese, e assurdi perché riuscivano benissimo a imitare i miserevoli comportamenti degli adulti. Mentre in alcuni romanzi di formazione i ragazzi e le ragazze (Tom Sawyer o Pippi Calzelunghe) mostrano l’ipocrisia e la violenza degli adulti attraverso il loro comportamento conflittuale e di sfida, contravvenendo sistematicamente alle regole, qui i giovani disubbidiscono alle prescrizioni, ma per uniformarsi allo stile di vita dei più grandi.

Le comiche e malriuscite imprese dei ragazzi, costituiscono una accusa indiretta all’ipocrisia dominante. Nonostante tutto, vi è da parte del protagonista, e quindi dell’autore, un moto di compassione e di affetto per tutti. Se i ragazzi intraprendono imprese impossibili destinate al fallimento, gli adulti raccontano e si magnificano del loro passato in modo così iperbolico, da risultare esilarante.

Il romanzo offre l’occasione per studiare la storia e il modo di vivere dei finlandesi di confine con la Lapponia, la Russia, i rapporti di inimicizia e di ammirazione nascosta per gli svedesi, il conflitto tra la città e la campagna, il campanilismo tutto particolare tra i quartieri e le zone rurali più isolate di questa comunità che parla una lingua semi finlandese, mischiata a quella lappone. È estremamente interessante osservare il rapporto quotidiano con le prescrizioni della religione luterana, dei riti pagani ancestrali, e dagli influssi della visione ortodossa russa. Il utto immerso in una visione magica della natura.

Vi è anche la cronaca della trasformazione sociale di questa comunità che subì la guerra più volte e le invasioni di Svedesi, Prussiani, Russi prima e poi ancora Svedesi, Tedeschi e Sovietici dopo. Bellissime e toccanti sono le descrizioni della natura e dei moti delle stagioni e qui i lettori italiani dovrebbero porre maggiore attenzione a comprendere gli aggettivi riferiti alla notte, al buio, al freddo, alla tempesta, al ghiaccio, all’afa. Quello che nel testo è scritto in modo normale, per noi popoli del clima mediterraneo l’intensità di tutto ciò sarebbe superlativa: dalla distesa delle foreste, dei laghi, dal vento che taglia e ghiaccia, dalla notte artica del nord che è buio completo, dal freddo che significa meno di dieci gradi in giù.

È una narrazione autobiografica introspettiva che rivolge un atto di accusa e un atto di amore per il proprio passato, per i famigliari, per una terra che mantiene una memoria sotterranea, condita da un umorismo che tende a esprimere fanfaronate, ma in un modo così discreto che rende disponibile il lettore ad avvicinarsi con affetto.

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245 “[…] Tutti abbassarono i bicchieri e si sedettero. La festa aveva ormai raggiunto lo stadio della malinconia, e la musica arrivava a puntino. Cantavo guardando il nonno, che abbassò timidamente lo sguardo. “Oi Emma Emma, oi Emma Emma, kun lupasit olla mun omani…” Proseguimmo con Matalan torpan balladi. L’atmosfera divenne così triste che si appannarono i vetri alle finestre. E per finire attaccammo Canzone d’amore di Erkheikki, un valzer lento in minore con un assolo lamentoso di Holgeri che avrebbe commosso una pietra. Poi gli uomini vollero brindare con noi. Come si usa nel Tornedal, nessuno disse una parola di commento sulla nostra prestazione, perché gli elogi inutili alla lunga non portano ad altro che a progetti smodati e al fallimento. Ma si vedeva dai loro occhi cosa sentivano […]”

247-248 “[…] Com’è bella l’estate, così perfetta, così eterna! Il sole di mezzanotte sul limitare del bosco, nuvole rosse che risplendono nella notte. Calma di vento assoluta. L’acqua ferma liscia come uno specchio, senza un’increspatura. E poi all’improvviso un cerchio che si allarga lentamente su quella calma sublime. E lì, in mezzo al silenzio, si posa una farfalla notturna. Resta impigliata sulla superficie dell’acqua con la polvere delle ali. Scivola giù nelle rapide, vortica tra le pietre e la schiuma. Sopra le cime dei pini le zanzare sciamano leggere come piume nel caldo sempre più intenso. Ecco cosa si vede quando ci si trova in quel sottile interstizio che è una notte d’estate, fluttuando sulla fragile membrana tra due mondi […]”

§CONSIGLI DI LETTURA: FACCIO MUSICA

Ezio Bosso Faccio musica Scritti e pensieri sparsi. A cura di Alessia Capelletti Prefazione di Quirino Principe.

Che bel dono che ci hai fatto con il tuo vivere Ezio Bosso..

Che regalo è questo libro nel camminare tra note e timbri di vita, tra suoni del cuore e melodie di concetti, trascritti in una biografia itinerante ancora in corso per noi lettori, e compagni di strada.

Il colloquio di Ezio Bosso, suddiviso in argomenti editoriali, individua un flusso continuo dell’impegno ad agire, praticando musica tra valori e pratiche di vita, dove il proprio vivere è anche uno strumento che riverbera il tratto comune di ogni vivente che esperisce la bellezza.

Poiché il mutamento delle onde sonore distillate nei secondi che scandiscono il ritmo del proprio passare nel tempo, cantano del panorama delle emozioni che passano dallo sgomento, al timore, e allo stupore, l’orizzonte è ordinato da un impegno etico, in cui si dichiara la testimonianza del proprio impegno a dire di sì al vivere che è bello, e che di tutti è l’essenza e quindi impossibile da afferrare e a ridurre come oggetto. La comunanza con ogni altro vivente incarna la pratica di questa testimonianza: vivere nella bellezza che è buona e saggia, provando la propria limitatezza infinita, nell’impossibilità a fermarsi in una opinione o in punto di vista che si crede perno del mondo e degli altri.

Nella consapevole sincerità di non poter negare ciò che nel bello noi si sia destinati per ogni desiderio più recondito anche se oltraggiato da pulsioni malevole, l’agire comune si individua singolarmente nel fare e nel patire della musica, come messaggio universale di vita, che è buona e infinitamente meravigliosa, anche all’interno del nostro ciclo limitato di vita in cui noi stessi ci facciamo risonanza di questa eterna melodia.

Comune è a tutti, ma per qualcuno, l’impegno è così coerente e limpido da poter essere accreditato come esempio vivente cui noi si possa trarre agio e sicurezza, nell’accostarci in questa ala protettiva. Le parole del libro invitano ad aprire le nostre possibilità di esistenza, che da sempre attendono la nostra attenzione, ma che, richiedono impegno e sincerità, che è appunto il vivere incarnato da Enzo Bosso.

Il suo vivere attraverso il suo corpo è l’indicazione di una strada percorribile dal lettore: una possibilità di vita.

Pag. 18 “[…] Oggi ho capito che un vero Maestro non è chi ti dice cosa fare, ma chi capisce chi sei e ti indica il tuo cammino […]”

Perché con la musica si nasce e si rinasce: si fa, e si fa noi stessi.

Pag. 24 “[…] La musica trascende e ci fa trascendere. Dai nostri difetti come dalle nostre difficoltà. È stata una vera rinascita, sì l’ho vissuta come una rinascita, ma con la memoria di una vita passata o tante vite passate. […]”

Tante vite passate che si riverberano nei limiti e negli impedimenti che si hanno nel vivere musicando, come le esigenze economiche, i progressivi impedimenti fisici che obbligano a ritornare indietro, per rendere presente l’attimo iniziale di studio. Proprio ciò che era considerato un limite dai più, cioè la tendenza a non fermarsi a musicare con un solo strumento, ma ad agire attraverso e intorno le orchestre, componendo all’interno di ogni sezione, e dirigendo attraverso il pianoforte, nelle infermità, divenne una risorsa atta a percorre nuove strade di vita e quindi sonore.

Tale unicità coinvolge il suono integrandolo tra fiato, percussione, arco, e tasto: il timbro di un uomo suona ogni singolo strumento, pensandolo come un’intera orchestra.

Pgg. 37-8 “[…] Noi siamo ciò che amiamo, noi siamo il risultato dell’amore, perciò quando componiamo, quando creiamo partiamo da ciò che amiamo. Ed è inutile e, a parer mio, anche un po’ stupido, pensare di essere il futuro, ma la vera responsabilità di un compositore è di essere il ponte che collega il presente col futuro. Poi io preferisco dire: scrivere musica. E non comporre musica, mi sento uno scrittore di musica. […]”

Essendo l’amore è una tendenza infinita, il movimento del musicare è un divenire del miglioramento di sé che si nutre anche dell’ascolto, e ciò, come in un solfeggio dall’alto in basso, riverbera tale mutamento nel proprio compagno orchestrale e nel pubblico, che sente allargare il suo spazio estetico.

Pag. 42 “[…]  Alla fine, se il disco è una foto, io non voglio una mia foto perfetta, ma voglio una foto di cui il pubblico, l’ascoltatore possa magicamente sentirsi parte di quella foto, protagonista di quella foto, possa sentirsi dentro quella foto. […]”

Perché il pubblico, l’esecutore, il compositore, tutti, entrano in ogni nota che è il teatro in cui la scena del vivere di ognuno trascende in un atto di comunanza che dichiara la responsabilità della bellezza in dono per incarnarla. Tutti diventano belli nel partecipare di ogni nota che è il timbro della bellezza, attraverso il suono.

Proprio perché ognun di noi è strumento che conferisce il senso al suono, nel linguaggio delle note, per ogni singolo accadimento, vi è l’infinito miglioramento nel renderci consapevoli di essere da sempre in una comunità musicante.

Pag. 76 “[…] perché alla fine di tutto una musica per essere davvero libera entra nella pancia, passa per il cuore e fa muovere la testa. E quando queste tre cose si muovono insieme diventiamo noi stessi davvero liberi. […]

Pag. 100 “[…]  Per questo io parlo di musica libera piuttosto che di musica classica. Ti costringe a essere ponte fra passato e futuro, a liberarti da te stesso. La nostra è una società che ha bisogno di definire e non ti permette di essere te stesso. […]

Fare la musica assieme.

Pgg. 116-17 “[…] La tv è la tv e io voglio uno studio televisivo, voglio i lustrini, le luci colorate, perché la vera scommessa non è portare il teatro, l’auditorium così com’è in tv, quello lo fa Rai5 e tocca sempre le solite corde già suonate, ma fare della musica di Beethoven un soggetto della tv per ciò che è la tv popolare, quella che entra nelle case e diventa il focolare attorno a cui vive la famiglia italiana. Quella che c’è anche quando non l’ascolti, quando non l’hai accesa tu, ma tu sei lì e magari ti fermi e la guardi. Tu pensi a un documentario, perché è più facile e scontato, ma io no, io voglio Beethoven protagonista della tv nazionalpopolare e ciò nonostante fatto bene, benissimo, fatto al massimo delle nostre forze, per tutti. […]”

Più volte è scritto che aveva una fragilità di cristallo imperniata su una determinazione di ferro a proseguire con disciplina e dignità da e verso il suo operato.

Fu un diamante duro, inscalfibile, ma con la possibilità di crepare internamente per suoni rancorosi, contraddistinti da una aggressività gratuita.

L’intento di rendere la piazza, un teatro concertante tra il pubblico, gli interpreti e i compositori mostra indirettamente la condizione dell’accesso al pubblico, a ognuno di noi, nel partecipare attivamente al suono che è il timbro musicale di una comunità. E non è un caso che Ezio Bosso nelle diverse interviste del libro ritiene che la visione politica della musica come mero intrattenimento sia la condanna a morte di essa.

Gli attacchi che ebbe Ezio Bosso furono così duri, irragionevoli perché, al di là dei suoi intenti pedagogici e musicali, egli attuò una pratica politica a tutto campo di partecipazione democratica che mostra la possibilità di ognuno di incarnare pienamente la propria cittadinanza alla bellezza.

Ezio Bosso prima di suonare ci fa entrare nella sua dimora sonora. È colui che apre la porta, e indica il luogo dove ognuno possa stare a suo agio: “fa entrare la gente” nella musica, sia lo spettatore sia l’esecutore. Tutti assieme in un convivio in cui le note ricevono timbro e frequenza in base alle esigenze dei singoli. Qui si connota l’incontro musicale partecipato che trascende l’armonia interiore delle aspettative ludiche, estetiche e corporee dei partecipanti.

La dimora trasmuta in una piazza che trascende il luogo in cui avviene l’incontro per investire in differita nella linea del tempo, altri ospiti che ricevono ulteriori appigli per incontrare l’avventura inesausta di quella voce che rende simile il dissimile: la musica come origine dei linguaggi.

Ci si potrebbe domandare cosa volesse dimostrare Ezio Bosso con il suo approccio fisico, totale, nel fare musica:

pag. 247  “[…] Non ho niente da dimostrare. Per me bisogna ritornare allo scambio. Nello statuto che abbiamo fatto, nella casa che vorrei, tutti partecipano perché di fatto tutti partecipano e completano il fenomeno della musica. Lo completano attraverso che cosa? Attraverso la cosa più profonda che esiste: il silenzio condiviso. Come dico spesso in alcuni miei concerti: «Prendetevi la responsabilità del silenzio del vostro vicino. Non del vostro», un po’ petrolinianamente. Però sei tu responsabile, sei tu che devi spiegargli cosa succede a stare in silenzio, a non guardare il telefono, a spegnere il telefono. […]”

Il testo descrive la sua musica itinerante nella quale si evidenzia l’etica che predispone l’offerta di sé, fino a simulare la propria scomparsa, ma, che in realtà, nell’atto sonoro, ritorna tutto se stesso, pieno con la traccia di tutti, assisi lì e qui in un convivio continuo. La relazione è attorno e oltre la comunicazione inter mediatica del clic e della condivisione, nell’attimo che nega di essere una successione di un atto in un discorso sordo.

Ezio Bosso, invece, non usa complementi di specificazione od oggetto. No. Si lancia dentro l’atto musicante e se si è musicisti e pubblico in quel momento, è impossibile non seguirlo, e quindi dimenticare tutti noi stessi, nel seguire la corrente di questo tempo che trascende il singolo giudizio. Tutti perennemente inadeguati per la spinta irresistibile a questo bello primordiale, e mai compiuto.

Che bel dono che ci hai fatto con il tuo vivere Ezio Bosso..