I racconti di Beppe Fenoglio raccolti in questo tomo, suddivisi nelle aree temporali cui sono ambientati e precisamente dagli inizi del 900, passando per la grande guerra fino alla prima metà circa del regno fascista, per poi, infine distribuirsi negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale.
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È una mole impressionante di scritti che mostra un luogo preferito di composizione. Non sono solo cicli a tema, o raccolte sporadiche di episodi. I racconti sono un diario vivente che non è un resoconto di ciò è accaduto in una giornata o in un anno, ma una fucina sempre accesa che cola la materia del passato e del presente, individuata dal singolo esperire dell’autore.
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Gli attori, i linguaggi, gli accadimenti, sono presenti e vicini alla sua vita lì, nelle langhe, e si rifanno a personaggi veri e alcuni a lui contemporanei. I luoghi sono quelli della sua origine, del suo lavoro, e delle faccende quotidiane. I racconti del novecento che sembrano rivestiti dal mito e sfumati dalle innumerevoli variazioni sul tema, per il passaparola intergenerazionale, rimangono comunque negli ambiti della cronaca, e dell’avventura, perché gli aedi che narrano le gesta, sono in carne ed ossa ed ascoltati da Beppe Fenoglio, per le vie della città e dei paesi, delle osterie, del suo luogo di lavoro, del cortile fuori della sua casa. In più questi hanno conosciuto in gioventù i protagonisti effettivi degli eventi passati.
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Non sono neanche concepiti in modo seriale e rapsodico, perché si hanno rimandi a protagonisti di racconti ulteriori e di eventi già trascritti. Beppe Fenoglio non pensa episodicamente con la creatività dell’attimo, perché in mente ha già in mondo. Forse questa complessità del suo estro immaginifico, è una causa preminente che lo porta a preferire istintivamente il racconto breve. Distilla, infatti, in un flusso ordinato il ritmo degli accadimenti. Non è un caso, allora, che i suoi romanzi, sembrano quasi espansioni dei racconti lunghi, che attingono appunto a questo lavoro quasi quotidiano di scrittura, dato che un’opera chiusa e compatta in un mondo esclusivo, avrebbe ristretto la visione panoramica dell’autore.
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Nei romanzi, e ancor di più nei racconti, quindi, si rilevano collegamenti e presenze di modi di dire, esperimenti linguistici e attori che compaiono in modo orizzontale nelle composizioni. Da qui emerge una caratteristica di Beppe Fenoglio: la scelta dei nomi e la variazione di alcuni finali per questi attori cui le caratteristiche fisiche, l’idioma, il soprannome, portano già una chiave del loro destino.
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Il mito narrato da Beppe Fenoglio, allora non è una trama collegata dai fili del presente e così intessuta: sembra quasi la matrice che produce la cronaca del presente, conferendo ad esso un significato, attraverso un collegamento logico con il passato.
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Egli visse in modo distaccato. Lucido rispetto alle battaglie ideologiche e politiche dei contemporanei e quindi da tutti criticato. Prudente ma disinvolto a sfruttare i nuovi stimoli di retorica e di stile moderno che ricevettero idee e modelli dalle letterature estere, come quella inglese. Era presente e attento a ciò che fermentava nel dopoguerra fino alla sua morte, ma non volle mai porsi come un rappresentante esplicito di nuovi corsi, nonostante che iniziasse a usare termini inglesi, e gli stili diretti dei romanzi di largo consumo che si stavano espandendo anche oltre oceano. Anzi, negli anni ‘50, importò anche il gergo giornalistico, sportivo, e di cronaca popolare. Cercò di porre in relazione gli idiomi natii con la lingua italiana nelle versioni formali ed autoritarie fasciste, per quelle auliche delle tradizioni letteraria, a quelle dell’italiano che si stava formando con la televisione.
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Beppe Fenoglio reperiva e ad inventava le storie vivendo ogni giorno con i suoi concittadini. La difficoltà risiedeva nell’impegno a sublimarle nell’opera poetica, mantenendo però, la verosimiglianza, la coerenza compositiva, la creatività stilistica.
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In questi racconti il lettore riceverà un tesoro di spunti negli approcci alla composizione e alla rifinitura quotidiana, senza sconti, con una disciplina ed una rara onestà intellettuale nel sottoporsi a severe auto analisi. Quest’opera in divenire è continuamente modellata da mani che impastano la creta delle idee con un’estrema e delicata precisione e che scolpiscono il marmo delle forme letterarie con il sudore e il dolore, al fine di ricavare un contrappunto per una tensione di ricerca estetica senza fine.
Il meridiano di sangue è una traccia scritta dagli eventi per opera dei protagonisti. La mappa del mondo è raffigurata con i radianti delle ossa e gli angoli delle armi. Il corpo umano è quello degli Stati Uniti in formazione. Le configurazioni statuali figliano involucri di pus e di sangue disseminati tra la terra e l’acqua che viaggiano tra est ed ovest, crollando uno dopo l’altro, fornendo un linguaggio e un senso dei confini, attraverso la consunzione e la decomposizione.
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Il ritmo della narrazione è scandito dal timbro della violenza. Ogni trama è descritta dall’offesa della natura contro gli esseri viventi. Le vite sono pollini sparsi dall’Atlantico verso l’Oceano Pacifico, con pochi che germogliano, e la massa che invece crepita nel baratro, collassando tra la crudeltà, il sadismo, e la vacua razzia, aggrappandosi a scheletri di trofei macilenti e velenosi.
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Vi sono richiami storici ben precisi, e per noi europei quasi oscuri, circa la storia dell’America del Nord, riguardo la guerra civile degli Stati Uniti d’America (detta da noi impropriamente guerra di secessione), le lotte decennali tra l’ex impero spagnolo e francese, gli agglomerati statuali transitori e in perenne conflitto tra quelle nebulose chiamate Louisiana, Messico, Texas e gli stati centrali e dell’ovest dell’Unione di recente formazione, fino alla California.
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Ricordando comunque che già dapprima vi erano guerre senza fine tra i creoli, gli ispanici, le varianti che noi facilmente e in modo superficiale denominiamo Apache o Sioux, i Comanche identificandoli semplicemente come indiani, attraverso i film Western del secolo scorso. No, i complessi gruppi ed etnie stanziali prima dell’avvento degli spagnoli, dei francesi e degli inglesi, e poi di tutta quella sterminata immigrazione senza patria dell’ottocento, erano già agglomerati in conflitto ed ibrida mutazione.
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Lo stile di scrittura è piano e lineare e paradossalmente con pochi superlativi. Di prima impressione sembra sia costellato da ritmi giornalistici, di cronaca addirittura, per planare su resoconti storici indiretti con nomi nascosti di generali, di personalità del periodo, che per il lettore veloce e superficiale sembreranno gettati così senza un criterio. Si passa dalla cronaca di eventi bellici, fino alle narrazioni dell’uomo settecentesco che affronta una natura ostile alla Robinson Crusoe.
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Questa capacità istrionica è sublimata in una forma di romanzo, che è incorniciata dalle descrizioni ambientali delle Montagne Rocciose, e relativi dirupi, con un’alluvione di termini geologici, botanici, nonché zoologici. Vi è una capillare descrizione etnologica dei gruppi etnici, e delle bande, oltre degli eserciti che lottano tra loro. Emerge una visione antropologica dei modi di vivere degli agglomerati, posti, indipendentemente dalle loro dimensioni, tra il deserto, i boschi, il freddo, la siccità, in un oceano di ostilità, dove l’orizzonte è un continuo generatore di pericoli, di nemici: un bardo del dolore e della morte.
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I protagonisti sono coraggiosi e capaci, che agiscono senza enfasi. Quasi in un richiamo ipnotico si avverte l’impressione di leggere stanche descrizioni di marinai anziani seduti davanti al caminetto raccontando dei tempi che furono, gli argomenti trattati e gli eventi sono lo spasimo. Almeno all’inizio, perché poi, appena si entra in questo mondo, non vi è un attimo di tregua. Il ritmo varia in un crescendo di azione violenta, su scenari di orrore e di morte.
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La crudeltà è il pendolo che oscilla tra un vortice di sadismo e di una assurda tranquillità, nella quale i protagonisti quasi morenti e in sofferenza estrema, riflettono sulla loro condizione, sull’etica, sul senso del proprio agire. Il dolore e l’angoscia della propria scomparsa, aprono la possibilità di un tono lirico, e veramente letterario tra il tragico, il poetico, il drammatico.
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Non si salva nessuno: ognuno di loro uccide, imbrattato di sangue e di repellenza. Appare pulito e accettabile nel raffigurarlo esteticamente, il personaggio che non subisce la morale e la compassione, e che cerca di rimanere integro alle pallottole, alle coltellate, alle frecce, alle ferite invalidanti, tra la bile e il vomito.
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Anche chi riesce a razziare, a portare gli scalpi e vendere le orecchie e le teste essiccate, sperpera il ricavato in veleni d’alcool e d’azzardo che portano alla rissa, all’omicidio, alla prigione, alla morte subita quasi senza senso dal compagno dell’ora prima, che uccide totalmente ubriaco, in una abiezione sessuale che comunque porta all’infezione.
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Non vi è una giustificazione: l’avidità e la ricerca del piacere perverso non sono nobilitati, e non sono descritti come ciò che ottunde la ragione, salvando quindi la razionalità, bella e buona. No. Questo è un romanzo che affronta di petto la cattiveria, l’altra parte del cuore nero che tutti abbiamo e che cerchiamo di delimitarlo con questa linea di sangue. Sì, perché questo meridiano è disegnato nel cuore di ogni essere umano.
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Oltre la violenza fisica e immediata, vi è uno scontro sotterraneo tra una visione data da un protagonista che descrive il senso della storia, del vivere e del mondo in un piano amorale, e chi invece cerca di aggrapparsi ancora con un dito nell’altra parte del confine, essendo però, assassino e spietato come il suo interlocutore.
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Non è una dialettica dove vi è la sintesi tra il protagonista e l’antagonista. Più che la sublimazione, si dissolvono e lasciano al lettore di immedesimarsi, con il tranello che alla fine si sta parlando proprio di lui. Ed è ovvio che quasi nessuno potrà definire compiutamente queste posizioni, perché l’oggetto del contendere siamo io e te. Il mio e il tuo cuore.
Lo scritto innesta uno studio etico in una opera letteraria, finemente cesellata nei termini americani, spagnoli, amerindi. Nessuno è innocente.
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Vi sono riferimenti non tanto nascosti relativi alle interpretazioni metodiste e battiste degli Usa, oltre al mix cattolico inca azteco dei popoli del Messico, innestato nelle correnti animiste dell’universo degli indiani. Il tutto cozza contro riferimenti espliciti alle metafore del “Così parlò Zarathustra”, di “Ecce Homo”, e della “Genealogia della morale” di Friedrich Nietzsche, come anche nelle pagine finali, circa il richiamo alla danza della “Gaia Scienza”.
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In prima e anche in una seconda lettura, risulta quasi immediata la considerazione che il romanzo voglia svelare la nudità dei rapporti sociali e della propria posizione rispetto alla natura, in un’escrescenza etica labile, usata per il più come tattica di sopraffazione.
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Eppure i momenti più lirici e di consapevolezza, avvengono nei momenti in cui si ha bisogno degli altri per le cure, per un sorso di acqua, per un riparo dalle asperità climatica. L’aiuto è fornito indipendentemente da una transazione di scambio di valore monetario, perché in quelle condizioni alcunché ha un valore, se non la soddisfazione immediata delle esigenze della sopravvivenza.
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Sembra che alla fine vincano quelli che sono “Al di là del bene e del male” e che dicano “sì” al vivere che è insensatezza,
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MA
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agendo in modo tragico nell’accettare il caos, che è crudele perché gli si vuole dare un senso, ricercano un contrappunto nella propria morale. Non è un caso, infatti, che dichiarando di non avere il cuore, e offrendo solo questo meridiano, tutto rimane svuotato, ciò loro stessi, e la loro capacità di rispondere. Chi è giudice, diventa il giudicato, e chi vuol essere libero, non ha più parole per dire se le proprie mani siano o no incatenate.
E qui il dilemma è consegnato al nostro meridiano personale, attraverso questo capolavoro di romanzo che non offre sconti.
Beppe Fenoglio fu considerato uno scrittore controverso per le sue sperimentazioni linguistiche, per la sua visione dei processi storici appena terminati in seguito alla fine della seconda guerra mondiale, per gli avvenimenti politico e sociali che apparvero in Italia fino all’anno della sua morte, nel 1963.
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Fu criticato da editori e da letterati aderenti alle ideologie di sinistra e da quelle comuniste filosovietiche. Essendo stato un partigiano, fu radicalmente avverso al mondo fascista e alle destre a cui esse nel dopoguerra si richiamavano. Disincantato rispetto all’assetto statuale risorgimentale monarchico, guardò con distacco l’evoluzione delle interazioni sociali e civili della Repubblica Italiana.
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Negli anni successivi alla morte e in corrispondenza delle dispute letterarie che tenevano conto di quelle ideologiche investite dalle posizioni di campo della guerra fredda, fu considerato un novelliere non tanto eccelso e un mediocre romanziere. Fu reputato un goffo sperimentatore linguistico nel tentativo di miscelare il linguaggio formale letterario con quello dialettale delle comunità codificate nelle nuove estetiche del neorealismo degli anni cinquanta. Impietosamente appellato come un dilettante nell’introduzione di neologismi stranieri nel suo stile di scrittura, nel tentativo di dispiegare nuovi orizzonti narrativi in cui inserire le vicende dei personaggi bassi, devianti e normali, grigi nelle loro vite assenti di un climax tragico.
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Rimproverato nella sua indifferenza all’uso delle tradizioni narrative italiche, variando topi stilistici nel porli come meri strumenti sussidiari nel linguaggio parlato, sincopato nel ritmo, scarno nelle descrizioni dei luoghi, se non nella caratterizzazione degli eventi. Le trame dei suoi romanzi, anche incompiuti, vertono su un evento da assolvere, da ricevere, da subire, in cui innestare una linea narrativa concentrica in cui il passato e il presente entrano in gioco per suggerire il destino del protagonista e il giogo che sembra già assegnato. Una visione arcaica per alcuni, senza che ci si potesse raccapezzare nella totale mancanza di enfasi tra la dialettica dell’eroe e dell’antagonista, la quale non si chiude mai, se non per l’evanescente finale dell’attore delle gesta, in cui il presente rimane sospeso.
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Avversato, quindi dagli scrittori ortodossi, da quelli antisistema, e dagli sperimentatori delle nuove possibilità linguistiche che provenivano dall’estero.
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Eppure, nonostante l’alluvione di perplessità che investì in vita e dopo, questo scrittore schivo e radicato nel suo Piemonte, le istituzioni, le parti politiche, i mondi intellettuali, e il pubblico che man mano si faceva più letterato, lo posero come un riferimento rispetto ai temi letterari, sociali e politici dei decenni successivi.
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E se ciò già negli ultimi anni della sua vita, fu richiamato nei dibattiti per usarlo come un esempio negativo, il fatto è che indirettamente e inconsciamente fu considerato un interlocutore. Le critiche che si sono susseguite in realtà, agli occhi nostri, ora, mostrano invece i limiti e le esigenze dei loro punti di vista specifici. Nonostante tutto Beppe Fenoglio sembra essere molto di più di come fu inteso e descritto dai luoghi di discussione politici, letterari e di costume dei vari decenni del novecento fino ad ora.
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Insomma, chi fu Beppe Fenoglio?
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Prima di tutto, ed è questa la sua specificità quasi originale nel ventennio fascista, fu un giovane innamorato della cultura albionica. Per sua spinta personale, con l’avvio di alcuni docenti che avversavano le politiche autarchiche fasciste nel piano linguistico, ideologico, e dottrinale, studiò ed acquisì le nozioni sulla lingua e sulla cultura inglese. Divorò intere raccolte di poesie e romanzi degli scrittori moderni e contemporanei del mondo anglosassone. Li visse nel suo immaginario.
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Vi è un elemento, che forse non traspare immediatamente nelle descrizioni ultradecennali di questo giovane che si appassionò a tradurre autonomamente interi passi di drammi teatrali, di poesie, di racconti della letteratura inglese e poi statunitense: l’immedesimazione viva, concreta, presente verso i mondi letterari e le vicende trascritte in quelle opere.
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Così schivo, già rispetto alla sua famiglia, dato che si chiudeva nella sua camera, a studiare e a scrivere, divenne, nel parlare e nel pensare i termini e i luoghi tradotti, una parte viva di essi, in cui la sua città, il suo paese, il quartiere, il negozio, si fusero con le campagne d’Irlanda, d’Inghilterra, con i castelli e le magioni dei nobili, con le baracche dei contadini e le fortificazioni dei guerrieri e degli eserciti.
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In mondo italico meno che provinciale, lì tra i paesi e le campagne del Piemonte, questo ragazzo pensava e parlava del mondo e dei secoli oltre le Alpi e gli Oceani.
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Lo strumento narrativo principale per riannodare eventi così scollegati, fu quello dell’analogia e della ripetizione in cui la metafora e l’allegoria furono spianate in una narrazione ciclica, e quindi mitica. Ma anche qui in un’ottica moderna, da romanzo d’appendice, aperto a tutti, con un linguaggio piano e parlato, con idiomi locali dei luoghi descritti.
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E proprio perché Fenoglio vuole vivere ciò che scrive, lo ripete come se si svegliasse ogni mattina, perché poi dalle traduzioni e dalle uscite serali in osteria, dai giochi a carte, dal lavoro di impiegato quotidiano, la notte ricomponeva l’ideazione estetica nella traduzione operativa nella scrittura. Ed ecco, quasi inconscio, l’uso degli stessi protagonisti con l’identico nome per romanzi diversi, in cui le storie prendono percorsi alternativi, come se fosse un racconto orale, con continue variazioni a tema.
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E proprio perché fu un partigiano, ritorna a parlare di quello scarto di storia italica, in cui il regno non ci fu più, dal giorno dell’otto settembre 1943 fino all’inverno del 1944. Non arriva neanche alla fine della seconda guerra mondiale, in quasi tutti i romanzi che scrisse.
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Perché? Certamente noi non possiamo entrare nella testa dello scrittore, ma abbiamo indirizzi manifesti che permangono quasi un secolo dopo. Noi non abbiamo fatto i conti con il nostro passato fascista. Abbiamo, in più, dichiarato guerra a tutto il mondo. Siamo stati alleati con l’orrore. Abbiamo chiuso gli occhi, coprendoci di disonore, esibendo la vigliacca mediocrità. E non affrontiamo quella guerra civile che iniziò già con gli scontri del 1919 che portò il partito fascista al potere, fino al 1943, in cui il regime dichiarò guerra contro il suo stesso popolo per mano della Repubblica Sociale Italiana. Non vogliamo pensare di essere stati salvati da quelli che oggi guardiamo con ironia, e che ci hanno dato la mano più volte anche economicamente e che ci hanno protetto da eventuali conflitti fino ad oggi.
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E se la parte progressista guardò a un altro regime terribile come quello staliniano, la parte laica e liberale mostrò un’anemica e viscida visione del mondo.
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Beppe Fenoglio volle parlare anche del nostro disonore, e di come gli stessi partigiani, dopo la guerra fossero usati in modo mitico e settario, per gli scontri politici e sociali della seconda metà del novecento. Non erano tutti uguali, non erano tutti eroi, non erano tutti dalla stessa parte e si sono avversati ed odiati. E in più Fenoglio parlò dell’altra parte: lo scandalo più orrendo del nostro passato: la Repubblica Sociale Italiana. La caratteristica che diede fastidio ai contemporanei (perché parlava di loro) e di noi ancora oggi, fu quella di rappresentarli come persone normali, che non avevano una idea complessiva degli attori politici, dei leader, dei processi mondiali in corso. Gente analfabeta che a malapena uscì a poche decine di chilometri dal proprio paese.
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Narrò gli scontri e le vicende delle varie parti in gioco, in modo volutamente non artefatto, con persone aventi difetti, meschinità, paure, speranze, di trovarsi addirittura quasi per caso e in modo irriflesso da una parte o dall’altra. Ma, attenzione, lui fu un partigiano ed aveva ben chiara la condanna morale dei repubblichini, che condannò moralmente ancor di più dei tedeschi. Non a caso fece dire ai suoi protagonisti partigiani, che loro arrivavano fino alla fine per uccidere un repubblichino e viceversa, perché a differenza dei tedeschi che agivano in modo tattico e logistico, tra di loro ci si voleva “bene”, e quindi si cercava di uccidersi anche in modo strategicamente suicida.
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Beppe Fenoglio narrò di sé. I protagonisti sono quei partigiani maschi istruiti, quasi sempre solitari, distaccati, con uno sguardo critico, conoscitori della lingua inglese. Lui non inventa tutto. Parte proprio in modo traslato dalla sua famiglia. Dai rapporti con il padre e con la madre, con i parenti, con i vicini, con il paese natio, con il territorio atavico, con i partigiani badogliani e rossi, con i fascisti, con i repubblichini, con i traditori e i collaborazionisti.
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Fu causa di dispute, perché la matrice da cui partiva era vera, in carne ed ossa, ed era di testimonianza diretta, anche se fu edulcorata, ampliata e sublimata nell’opera letteraria. Ecco perché i suoi scritti non potevano essere intesi come opinioni, o visioni settarie dilaganti negli anni cinquanta della guerra fredda.
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Si scrisse che non fu però a livello meramente estetico, preciso e coerente nelle sue sperimentazioni linguistiche. Può essere, ma queste sono istanze che furono definite negli anni sessanta, quando appunto le nuove correnti letterarie di retorica, di filosofia del linguaggio, delle nuove tecnologie di scrittura, fornirono interi sistemi di strutture semiotiche e narrative.
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Beppe Fenoglio le usava in modo strumentale rispetto alle sue specifiche esigenze narrative. Il modo in cui intervalla i termini gergali inglesi, con quelli dialettali piemontesi, con il parlato urbano e dei villici illetterati, era funzionale a caratterizzare il suo percorso narrativo, innestato nella visione della persona comune, come quella del contadino. Delle donne e degli uomini dei monti, che vivevano in modo aspro, al limite della sopravvivenza.
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La visione organica e ben delineata a livello storico era tale nei nuovi canoni degli anni sessanta e settanta, dove entrano le nozioni delle ricerche sociologiche e psicologico sociali. Beppe Fenoglio parla di quel mondo tra il 1943 e il 1944 in uno stato di sospensione dentro un inferno, dove i politici, i miti, le religioni, erano visti senza mediazioni dalle persone illetterate, dal popolo. Dagli italiani, ovvero da come eravamo. Toglie l’eroismo, se non nell’atto individuale.
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In questi romanzi si percepiscono gli odori, i sudori, le paure, le speranze, le angosce, le prove di sopravvivenza. Fenoglio ci prende con le mani i fianchi e l’intestino.
È fonte di irritazione, perché parla di noi. Un popolo più vecchio di quel periodo. Un popolo che continua a far voler dimenticare, negando il passato, sperando di seguire l’illusione di vivere in un’isola autarchica fuori dal mondo.
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Va letto e goduto, perché nella letteratura, appare il godimento estetico, in cui riconosciamo parti sopite di noi stessi: un tesoro da spolverare a mani nude. È una pratica che forse all’inizio irrita la pelle, ma promette una possibilità per ritornare a guardar ciò che fummo e siamo.
Questo libro è stato concepito e pubblicato documentando gli eventi fino al 2020. È una poderosa ricerca della storia dell’Ucraina e di tutte le terre ad essa afferenti e confinanti. Il mondo slavo che va dalla Siberia fino qui da noi ai confini dell’Italia e giù, più a sud della Grecia.
Vi è una spiegazione delle teorie e delle ricerche circa l’origine e l’autorappresentazione dei popoli, dei nomadi, che attraversarono, si fermarono e difesero queste terre. Lungo il corso dei decenni che partono dall’Ottocento Dopo Cristo fino ad oggi.
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Dalle prime pagine si comprende immediatamente come i nostri dibattiti, qui in Italia, nel definire e giudicare le contese e addirittura ad inquadrare le comunità di riferimento, siano errati e superficiali, e sotto sotto, hanno la funzione di nascondere o di rivendicare parti della nostra storia che sono ancor oggi presenti e foriere di conflitto.
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Credere che rivendicare questo o quel confine, o ritenere che gli Ucraini siano Russi dispettosi e che entrambe siano comunità monolitiche, composte da un solo popolo, con una sola lingua in un territorio in costante e lineare configurazione, consegue la produzione di giudizi e di valutazioni errate, ignave, e forse anche in malafede.
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Esistono ondate di modifiche nell’antico slavo che portano differenze vistose tra il bielorusso, il russo, l’ucraino e tutte le altre forme linguistiche, in un vortice forsennato per l’orda mongola che sconvolge a più riprese tutto quel vasto territorio, senza contare l’avvento delle tribù nomadi turche, nonché farsi, oltre a quelle vichinghe. Per ogni secolo si rilevano ondate e miscele continue che hanno relazioni prima con Bisanzio, e con Roma, e poi anche con i turchi, e poi gli ottomani.
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Con l’ausilio di una miniera di fonti, le vicende dei personaggi sono ricostruite in parallelo, ritornando da vari punti di vista per ogni capitolo, nel descrivere l’evoluzione di una comunità. E se si crede di aver circoscritto l’intero quadro storico, dopo l’anno mille arrivano quelli che saranno detti polacchi, casciubi, ungari, lettoni e lituani.
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Tutti questi eventi millenari hanno a che fare con noi, e lo ebbero con i Papi, le Repubbliche di Venezia e di Genova, con l’impero germanico, con i Franchi, con l’impero austroungarico, e più recentemente con gli slavi del sud, tra Bulgari, Croati, Serbi, Sloveni, Slovacchi.
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E per ognuno di loro, sono ripercorse le vicende che gravitano attorno a quel territorio che denominiamo Ucraina.
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Chi ha un minimo di dignità comprende immediatamente quanto poco conosce e quanto qui in Italia vi sia un dibattito omissivo che in ogni caso pagheremo in futuro. Dimentichiamo e non vogliamo vedere che quello che capita laggiù, ricade qui in termini materiali, di risorse e di confine.
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Vi è una avvincente spiegazione linguistica e delle forme di ordinamento giuridico e statuale.
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Perché li vediamo così lontani nonostante tutto? Possiamo ipotizzare più risposte. Per esempio dimentichiamo che anche noi qui in territorio italico nei secoli, ancora prima dei latini e dei Romani, vi erano le guerre tra le comunità e i popoli provenienti da continenti e da mari diversi. Prima, durante e fino all’età moderna, l’Italia è stato il luogo di scontro di quasi tutti i conflitti che avvennero in Europa. Settanta e più anni di pace, e meno male (non riflettiamo mai quanto siamo fortunati, noi e i nostri padri per questo), ci hanno reso ciechi e sordi rispetto al nostro recente passato.
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Non vogliamo pensare al concetto di difesa del territorio e delle vie di commercio, perché da decenni vi è qualcun altro che pensa a questo per noi. E in più, qui è il nostro specchio nascosto, nascondiamo il nostro passato. Se pensassimo con profonda umiltà, alla volontà degli Ucraini di emergere come popolo unito, dovremmo in conseguenza pensare a ciò che siamo stati nel fascismo, a come abbiamo condotto l’unità d’Italia, e ripensare a ciò che è stato il Risorgimento. Non è una riscoperta indolore. Gli italiani non sono stati “brava gente”.
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Si rimane stupiti dalla capacità dell’autore di padroneggiare così tante lingue, di aver raccolto e coordinato una tale quantità di materiale a dir poco oceanica, e di aver mantenuto più fili conduttori coerenti e avvincenti alla lettura.
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Questo lavoro è un tomo fondamentale per capire ciò che è fuori dalla nostra porta, perché offre una chiave per accedere quella stanza nel centro delle nostre case che teniamo chiuse.
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Tutto ciò non è facile, ma l’apertura degli antri, permette il passaggio di aria buona, che richiama l’umiltà, la prudenza e l’umanità. Dapprima è doloroso respirare questa aria fredda e corposa, ma dopo si avverte una maggiore leggerezza di pensieri e di cuore, nel dire sì: IO VI VEDO.
Compratelo: è una sorgente di umanità senza fine.
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51-53 La scelta di privilegiare il punto di vista ucraino non deriva assolutamente da una inesistente “scelta di campo” né tantomeno da una sottovalutazione delle esperienze viste da un angolo extra-ucraino, quanto dalla constatazione della (quasi) assoluta mancanza a tutt’oggi, in lingua italiana, di una storia continua di quella Nazione che tenga in debita considerazione anche i lavori della migliore storiografia ucraina, novecentesca e contemporanea, le cui conclusioni possono senza dubbio essere criticate con forza e comunque debbono sempre essere valutate criticamente, ma non dovrebbero restare ignote ad un più largo pubblico, non fosse altro perché senza conoscerle si corre il rischio di non riuscire a inquadrare in modo chiaro, adeguato e lineare molti sviluppi dei nostri giorni, dietro i quali vi è sovente una lunga e complessa storia. Ho quindi deciso di utilizzare sempre, tranne in casi rarissimi ove sarebbe stato pedante e potrebbe indurre all’errore, le forme ucraine dei nomi di persona, di regione e di luogo, senza per questo (lo ribadisco) voler fare una scelta di campo né sminuire le altre tradizioni, che conosco, rispetto e ammiro, come credo sarà evidente da una lettura non superficiale; per questi motivi, talora nel testo ma più spesso in nota per non appesantire la già non sempre scorrevole lettura, ho messo le forme in altre lingue (spesso più d’una). Ho deciso di trattare, seppur brevemente, la storia delle terre oggi ucraine sin dall’Antichità, un’epoca in cui colà fiorirono altre civiltà, alcune quasi ignote altre ben conosciute in quanto propaggini estreme del mondo classico, prima greco e poi romano: tali civiltà non possono però essere definite “ucraine”, se non appunto in senso territoriale, ad onta delle rivendicazioni dei nazionalisti che in alcuni casi estremi hanno ascritto agli ucraini (visti come gruppo etnico già in sostanza distinto) pure la cultura di Trypillja del III millennio a.C!é…]”
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51-53 La scelta di privilegiare il punto di vista ucraino non deriva assolutamente da una inesistente “scelta di campo” né tantomeno da una sottovalutazione delle esperienze viste da un angolo extra-ucraino, quanto dalla constatazione della (quasi) assoluta mancanza a tutt’oggi, in lingua italiana, di una storia continua di quella Nazione che tenga in debita considerazione anche i lavori della migliore storiografia ucraina, novecentesca e contemporanea, le cui conclusioni possono senza dubbio essere criticate con forza e comunque debbono sempre essere valutate criticamente, ma non dovrebbero restare ignote ad un più largo pubblico, non fosse altro perché senza conoscerle si corre il rischio di non riuscire a inquadrare in modo chiaro, adeguato e lineare molti sviluppi dei nostri giorni, dietro i quali vi è sovente una lunga e complessa storia. Ho quindi deciso di utilizzare sempre, tranne in casi rarissimi ove sarebbe stato pedante e potrebbe indurre all’errore, le forme ucraine dei nomi di persona, di regione e di luogo, senza per questo (lo ribadisco) voler fare una scelta di campo né sminuire le altre tradizioni, che conosco, rispetto e ammiro, come credo sarà evidente da una lettura non superficiale; per questi motivi, talora nel testo ma più spesso in nota per non appesantire la già non sempre scorrevole lettura, ho messo le forme in altre lingue (spesso più d’una). Ho deciso di trattare, seppur brevemente, la storia delle terre oggi ucraine sin dall’Antichità, un’epoca in cui colà fiorirono altre civiltà, alcune quasi ignote altre ben conosciute in quanto propaggini estreme del mondo classico, prima greco e poi romano: tali civiltà non possono però essere definite “ucraine”, se non appunto in senso territoriale, ad onta delle rivendicazioni dei nazionalisti che in alcuni casi estremi hanno ascritto agli ucraini (visti come gruppo etnico già in sostanza distinto) pure la cultura di Trypillja del III millennio a.C!
È un libro che fa piangere e che fa infuriare. Non lascia uno stato di indifferenza.
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In epoche arcaiche il disertore fu riferito a colui che guasta un ampio tratto di terra. Colui che devasta, che vuota l’area di abitatori. Ciò che riduce tutto in un deserto. La spogliazione.
In epoche riferite alla storia moderna il disertore è colui che lascia la bandiera, lo stendardo, l’insegna. Dal latino Desertare intensivo di Deserere abbandonare, composto della partic. DE che suppone il senso contrario a Serere, interesse, legare insieme, annodare, quasi dica, disunire, staccare.
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Colui che scioglie la relazione sociale, il patto che rendeva un collettivo all’interno di unità di intenti, all’interno di valori comuni.
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In un primo livello di analisi la diserzione, oggi, è riferita in modo irriflesso, quasi automatico, al singolo che, per deficienza morale, fisica e caratteriale rompe il patto e indirettamente indebolisce il gruppo a cui era in quel momento in piena interazione sociale.
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È disertore quel colpevole che rende il deserto di un collettivo che combatte un nemico, qualcosa di altro da sé che si presenta in modo oppositivo. O loro o noi. La colpa è in primo luogo quella morale: è la vigliaccheria che induce alla ritrosia di affrontare la contesa. È la debolezza congenita e alimentata che nega il proprio ruolo per celarlo a fronte da quel contesto collettivo. Nel caso ritenuto più pericoloso è il traditore, colui che passa dall’altra parte della linea: il limes di guerra. Colui che non solo diserba le energie e le risorse che alimentano il collettivo, ma che addirittura sottraendole, e quindi anche contribuendo con le personali, indossa il ruolo del nemico. Della nemesi, quella che inverte il mio corso di vita e di significato che attribuisco al mondo: ciò che contraddice le mie azioni tendenti a uno scopo, e le mie convinzioni che rendono un ordine verso il mondo.
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In questa visione il disertore è il male, colui che determina la possibilità del fallimento. Il disertore è la causa dell’indebolimento. Dalla sua persona parte il disfacimento, l’errore, la disfatta, cioè l’essicazione delle energie e delle qualità di questo fare: il fare che non riesce a legare il grano raccolto: appunto un disfare. Ciò che fa evaporare la mia irrigazione del buon terreno che offre vita e frutti: il diserbare, il disertare, che si compone nel rendere deserto, senza memoria e con conseguenze non volute la mia opera: l’azione con scopo, che si traduce nel perseguimento di obiettivi.
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Certamente ciò è accaduto. Ma il disertore è solo questo? È solo questo vigliacco, traditore, di una morale viscida e sporca che innesta il processo di abbandono e di sconfitta, se parliamo di scontro di guerra diretto?
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Non vi è forse da riflettere che anche il piano istituzionale, direttivo e statuale tradisca il collettivo che combatte e difende la comunità di riferimento? Che cambia quindi il significato della stessa bandiera con la quale si riconosce?
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Non è possibile invece che il collettivo rimanendo immutato, improvvisamente si ritrova appellato come disertore perché la sua comunità di riferimento è presa da altri rappresentanti, oppure si frammenta in una serie di organismi antagonisti e che, quindi, agli occhi della nuova situazione è oggettivamente già un corpo estraneo?
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Non si può concepire l’idea che i condottieri e coloro che forniscono gli obiettivi e gli scopi della composizione e della natura del collettivo che combatte, siano loro stessi a disertare? Ad esempio un Re guerriero che abbandona il proprio esercito, con i propri generali e lo stato maggiore (gli angeli che vegliano sulla morale), rende il collettivo senza la parola, l’acqua, il cibo, lo scopo, la direzione, la sostenibilità?
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E ancora che questi nuovi organismi, invece di combattere l’originario orizzonte che sta oltre il Limes, per crescere, come masse tumorali, invece, aggrediscono il loro corpo di origine?
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Sì: è possibile ed è accaduto: Il regno italico nella sua veste di dittatura fascista durante la seconda guerra mondiale.
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Questo libro parla dei singoli disertori degli eserciti italici, e mostra indirettamente come furono perseguitati dai disertori primari del valor di patria secondo le loro stesse retoriche e come questi disertori originari si avventarono contro la propria popolazione di riferimento, dopo aver dichiarato la guerra a mezzo mondo.
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Le vicende commoventi, strazianti, terribili di questi giovani e delle lor famiglie, mostra proprio da documenti dei primi disertori, di come questi ultimi con le loro condanne, fucilazioni, persecuzioni, ottusità, siano stati i primi a rendere un deserto di diritto, di vita, questo territorio italico, e di aver piantato malanimo, odio, vendetta, complesso di colpa, divisioni che durano ancora oggi riconfigurandosi come un’erba cattiva in nuove, sporche e viscide sterpaglie. Questi agricoltori del disonore con a capo un Re, la sua famiglia e corte, e i quadri di quel regime fascista, riprodotto poi in quell’orrore putrido che fu la Repubblica Sociale Italia: la serva sciocca dei nazisti che si concentrò a uccidere gli italiani stessi.
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Vi sono state diverse forme di diserzione lungo la linea temporale degli avvenimenti e in concomitanza di eventi ben precisi che scandirono l’andamento apicale e poi di riflusso negli scontri armati.
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Vi furono coloro che si rifiutarono di partire per il fronte nella Seconda guerra mondiale, non rientrarono da una licenza, fuggirono dalle lande gelate durante la Campagna di Russia, non vollero accettare la Repubblica sociale dopo l’8 settembre: migliaia di ragazzi – giovanissimi, anche se molti già padri di famiglia, spesso gli unici a portare a casa uno stipendio – finirono davanti ai Tribunali di guerra.
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Mimmo Franzinelli rivisita questo complesso periodo storico per delineare la tipologia e le motivazioni dei disertori, analizzando le dinamiche repressive (Codice penale di guerra, Tribunali militari, modalità delle esecuzioni capitali) e ricostruendo le storie di tanti soldati, nei più disparati scenari, le cui drammatiche vicende sono sottratte all’oblio non solo grazie ai diari inediti ma anche al ricordo ancora attuale dei loro parenti.
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“ […] Dalla «non belligeranza» (settembre 1939 – giugno 1940), quando due distinti flussi di soldati fuggono in Francia e Iugoslavia, alla prima fase dell’intervento italiano, quando disertori sono soprattutto i contadini e gli artigiani, poco disposti a morire in una guerra in cui non credono, sino all’estate 1943, quando, con lo sbarco in Sicilia, molti considerano persa la guerra, si battono di malavoglia e il fenomeno della diserzione aumenta a dismisura, acuendo la durezza della repressione, con «fucilazioni pedagogiche» dinanzi alle reclute. Con l’armistizio e la divisione dell’Italia in due governi (e sotto contrapposte occupazioni militari), la diserzione diventa il tarlo che rode l’impalcatura della Repubblica sociale e del Regno del Sud: i Tribunali militari lavorano a pieno ritmo e a Salò le fucilazioni si estendono anche a chi aiuta i «traditori», donne incluse. […]”
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Questa storia, peraltro, non si conclude nel 1945: per oltre un ventennio la magistratura militare perseguirà gli ex disertori, inquisiti o imprigionati (e persino rinchiusi in manicomio) per essersi rifiutati di continuare a combattere.
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103-104 “[…] Eppure, settori della popolazione diffidano del demiurgo e vedono come un incubo la prospettiva di indossare la divisa e marciare all’unisono. Tre mesi più tardi, un rapporto di polizia sullo stato d’animo dei romani è decisamente allarmistico: «La paura dello scoppio della guerra è ormai estesa e generale». In quei giorni, il capo della polizia, Arturo Bocchini, confida al ministro Ciano che «in caso di sommossa a carattere neutralista, carabinieri e agenti di polizia farebbero causa comune col popolo». In questo clima c’è chi, silenziosamente e dopo angosciate riflessioni, prepara l’espatrio clandestino, sentendosi straniero in patria. Nel momento in cui il Paese viene mobilitato per la prevedibile guerra, la diserzione costituisce il più clamoroso segnale di dissenso da parte dei giovani chiamati alle armi. Mussolini sa bene come la storia italiana sia segnata da diserzioni di massa: lo ricorda l’11 aprile 1940 a Ciano, indicando la guerra quale banco di prova del valore delle nazioni: «Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento, magari anche a calci in culo. Così farò io! Non dimentico che nel 1918 in Italia c’erano 540.000 disertori». In precedenza si era lamentato con il ministro degli Esteri a proposito dei legionari inviati in Spagna: «I casi di indisciplina sono più frequenti e cominciano, per la prima volta, le diserzioni». Il Tribunale militare del Corpo truppe volontarie italiane celebrò nel 1937-38 ben 260 processi per diserzione, 190 per disobbedienza e insubordinazione. Fughe dai reparti sono sempre in agguato, rileva il dittatore a metà settembre 1939, commentando con Claretta Petacci le difficoltà belliche anglo-francesi: «Sono già convinti di perdere… e intanto immagina che spirito alto… In Francia, poi, è un pianto. Pensa che non sanno più come arginare i disertori: decine di migliaia di disertori fuggono, non vogliono fare la guerra, capisci?».6 Mussolini, aggiornato sulla situazione interna inglese, ironizza sulle leggi «democratiche» che non infliggono la pena di morte ai disertori e consentono l’obiezione di coscienza […]”
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I Tribunali militari di guerra puniscono la diserzione con la morte, per dissuadere i potenziali disertori, mettendoli davanti alle conseguenze della fuga dall’esercito. Dall’entrata in guerra sino all’armistizio, vengono condannati a morte circa 130 militari e circa 550 civili (41 in contumacia), in grande maggioranza nei Balcani.
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Dati assai parziali, in quanto le statistiche non includono – se non saltuariamente – i procedimenti sommari da parte dei tribunali straordinari e ignorano le fucilazioni di partigiani catturati in combattimento e uccisi a freddo. I criteri di giudizio seguiti dai magistrati sono influenzati dalle contingenze belliche: blandi nel primo anno di combattimenti, s’inaspriscono nel 1942 e toccano nel 1943 picchi rivelatori del malessere aleggiante tra i soldati e dell’insicurezza dei comandanti.
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Contro le sentenze, non è ammessa impugnazione; se pronunciate in territorio nazionale sono eseguite dopo ventiquattro ore; all’estero divengono immediatamente esecutive. I Tribunali di guerra più propensi a infliggere la pena capitale operano in Africa settentrionale e nei territori dell’ex Iugoslavia. Il pugno di ferro riguarda anzitutto i nativi accusati di «ribellione» e – dopo di loro – i disertori. Laddove si avvertono segnali di indisciplina e disgregazione, si usa il pugno di ferro. Il periodo di maggiore spietatezza coincide con l’addensarsi dell’odio popolare su Mussolini, dal dicembre 1942 al luglio 1943, quando la polizia politica non riesce più a contenere le proteste contro il dittatore: vi sono centinaia di arresti per il reato di «offese al Capo del Governo»; il duce è infatti definito affamatore del popolo (sono censiti 138 casi), responsabile della guerra (113), traditore della Patria (103), carnefice e brigante sanguinario (69), vigliacco e vile (63), colpevole di lutti e sofferenze (59).
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Vi fu l’impunità di Stato dopo la fine della guerra, anche per l’amnistia che fu concessa a chi commise crimini di guerra, come i generali e alti ufficiali comminarono fucilazioni senza la parvenza di rispettare il proprio “aberrante” ordinamento giuridico militare. Il caso del generale Chatrian fu emblematico, perché si attivò per uccidere quanti più possibile, proprio nei giorni intorno all’8 settembre 1943, anche per soldati che compirono ritardi di uno o due giorni.
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Questi personaggi aderirono alla Repubblica Italiana partecipando come parlamentari e in qualità di alti funzionari delle istituzioni. E questo generale come molti altri poi, furono i primi ad arrendersi al nemico. Loro che scrivevano ad ogni riga appesantendo anche la condanna con l’invettiva, per la quale: non si scappa di fronte al nemico, o si vince o si muore!
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Loro che fecero uccidere giovani contadini che ritardarono di alcuni giorni il rientro dalla convalescenza perché feriti, o dalla licenza, per coltivare la terra della famiglia, perché la madre vedova con i figli piccoli non aveva di che sostentarsi, e a quei tempi senza il raccolto si crepava di fame e di malattie.
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Lui, il grande Duce, che fu un disertore della prima guerra mondiale. Lui che fu il primo a cambiare idea su tutto: da anarchico, poi socialista. Poi repubblicano, poi pacifista, poi interventista, poi anticomunista, reazionario, baciapile, e alla fine scrivano dei nazisti.
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E come dimenticare l’altro Lui in piccolo, il nostro disonore permanente: il maresciallo Graziani. Lui che fece stragi in Africa, terribili, che noi italiani continuiamo a dimenticare da decenni. Lui che fece scuola ai nazisti per l’efferatezza, divenendo poi subito lamentoso e spaventato quando le cose si posero al peggio e naturalmente si consegnò, in qualità di capo delle forze armate della Repubblica Sociale Italiana, agli alleati, mica ai sovietici: chissà perché.
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Non solo loro però, giovani italiani allo sbando, senza scarpe, munizioni, da mangiare, senza vestiti, arruolati a forza e poi fucilati e seviziati anche dalle camicie nere, magari gli ex vicini di casa. Ci deve far riflettere. Troppo comodo prendersela con quella fogna morale che furono le alte sfere, purtroppo per noi, e non lo vogliamo vedere che anche a livello popolare commettemmo atrocità.
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La figura degli italiani “brava gente” di buon cuore, è successiva alla fine della guerra, e fu anche agevolata dagli Usa che per motivi strategici chiusero un occhio su di noi.
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3538 – 3595 “[…] La nemesi della diserzione Soldato di leva della classe 1883 del Distretto di Forlì, il 27 marzo 1904 Benito Mussolini non si presenta al servizio militare e il successivo 30 aprile viene «dichiarato disertore per non aver risposto alla chiamata alle armi della sua classe». Denunciato al Tribunale militare di Bologna, il 2 agosto è condannato a un anno per diserzione semplice. La Svizzera rifiuta di estradarlo e gli concede asilo. In quel periodo il ventunenne rivoluzionario romagnolo raccomanda un mezzo infallibile per abbattere l’infame coartazione militarista: disertare! Egli, tuttavia, è un disertore dimezzato: a fine novembre cede alle insistenze materne e rimpatria, regolarizzando la sua posizione. Assegnato al 10° reggimento bersaglieri, in una caserma di punizione di Verona, beneficia dell’amnistia per la nascita del principe Umberto. Smobilitato nel settembre 1906, non ha mutato le proprie idee. Nell’ottobre 1911, con il repubblicano Pietro Nenni, capeggia violente manifestazioni contro la guerra di Libia, per bloccare le tradotte dei soldati: i due agitatori sono arrestati e condannati. Mussolini, liberato nell’aprile 1912 e divenuto direttore dell’«Avanti!», sino all’estate 1914 inneggia alla diserzione, «mezzo infallibile per annientare l’infame militarismo», arma micidiale contro la guerra voluta dalla borghesia internazionale. Di lì a poco salta la barricata e diviene interventista. Per i corsi e i ricorsi della storia, trent’anni più tardi combatterà i disertori, sabotatori della «sua» guerra. […]”
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I bandi di arruolamento del maresciallo Rodolfo Graziani (ministro delle Forze armate) spingono i giovani sulle montagne, per istintiva autodifesa più che per valutazioni politiche, possedute da ben pochi. Ragazzi disorientati e confusi affluiscono ai distretti militari, per poi eclissarsi appena possibile. La renitenza, dilagante tra fine 1943 e inizio 1944, nell’incalzare degli eventi diviene resistenza. Nell’estate 1944 il rimpatrio delle quattro divisioni addestrate in Germania prelude alla diserzione di migliaia di militari, che se ne vanno alla spicciolata o incolonnati in lunghe file. Le bande dei patrioti ne traggono notevole beneficio, anche per l’armamento.
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Dal 10 giugno 1940 al luglio 1943 il ministero della Guerra annota meticolosamente i reati militari e la loro repressione. Le vicende dell’armistizio disperderanno quel materiale statistico, di cui rimangono schemi settimanali lacunosi e il solo registro annuale del 1941, dal quale risultano per l’esercito circa 11.000 condannati, 3746 assolti e 45.000 processi ancora in corso, in aggiunta ai 3000 condannati dei rimanenti comparti militari.
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Il 46,52 per cento dei reati riguarda la diserzione, che esplode nel corso del 1942 e dilaga nel 1943. Il dossier commissionato da Mussolini sui «processi definiti dall’11 giugno 1940 al 9 maggio 1943» con condanne superiori ai dieci anni, annovera per l’esercito 71.307 condanne e 95.082 assoluzioni. Si devono poi considerare le decine di migliaia di condanne sotto i dieci anni e le 11.000 assoluzioni. Dati comunque inferiori alla realtà, utili soprattutto a livello orientativo. Da notare che in quei 2 anni e 11 mesi le diserzioni crescono e gli altri reati diminuiscono.
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I numeri, pur impressionanti, sono inferiori a quelli della Grande guerra, quando i tribunali militari aprirono oltre un milione di processi, infliggendo 40.028 condanne a morte, 746 delle quali eseguite, in aggiunta a 141 esecuzioni sommarie. Nel 98 per cento dei casi, le pene capitali riguardavano la diserzione.
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Il fenomeno dei disertori ricomparve in Europa nell’autunno 1991 – sotto forma di obiezione di coscienza, renitenza e «assenze arbitrarie» dai reparti armati –, quando il governo della Serbia mobilitò i suoi cittadini nella prospettiva della guerra civile, etnica e religiosa che avrebbe presto dilaniato le regioni della ex Iugoslavia. Oggi le diserzioni si sviluppano sottotraccia in Siria, Ucraina, Libia, laddove i vari contendenti impongono arruolamenti coatti nelle zone da essi controllate. E la strage continua.
È più di una biografia. È una narrazione che gli italiani ancora oggi risentono circa la loro autorappresentazione, ereditata dai primi sessanta anni del secolo scorso. Adriano Olivetti è stato il figlio di Camillo, altro grande imprenditore a cavallo del ‘900. Uno studente di meccanica e di legge, pervaso da una vorace aspirazione a coniugare lo sviluppo tecnologico all’interno dell’imprenditoria in vista in un’etica tesa al miglioramento morale e materiale del popolo.
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Contribuì a definire quei tratti tipici con i quali noi inconsciamente talvolta, con fastidio frequentemente e con orgoglio timidamente ci contraddistinguiamo: una versatile capacità camaleontica di aderire alle ideologie, di inventare storie di sé e di riformulare il passato come se dovessimo cambiarci i vestiti, sia per una volontà tesa a un perenne rinnovamento salvifico e sia per una furbizia stracciona e impotente, quasi disperata. Lasciando poi trasparire in modo quasi inspiegabile tratti di eroica genialità e di sacrificio.
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4-5 “[…] Inaugurando nel 1955 la fabbrica di Pozzuoli, Olivetti presenta così gli obiettivi della sua impresa: “La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto” […]”
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Non fu uno studente particolarmente brillante e neanche dotato di uno spirito pratico e agile, secondo le indicazioni del padre. Fu goffo, solitario, taciturno, non particolarmente atletico, ma dotato di uno sguardo sognante oltre il presente, contraddistinto da una inesauribile capacità immaginativa.
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Aiutò Turati a fuggire durante la presa del potere del fascismo. Fu poi organico al regime e, in posizione di monopolista, trattò per rendere sempre più efficace la sua posizione aziendale in vista di una espansione produttiva e di sviluppo tecnologico privilegiato, venendo a patti con i potenti, fino a chiedere di interloquire con lo stesso Mussolini. Fu socialista segnalato dagli stessi prefetti fascisti, per poi rivendicare e anzi proporre uno stato etico ancora più pervasivo nei meccanismi dei processi economici, finanziari e produttivi.
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Ciò fu ed è motivo di dibattito, perché potrebbe indurre una facile omologazione dell’uomo all’ideologia nefasta che fu, tale da risultare quasi il nemico più acerrimo della libera impresa, nonostante che mantenne, nel secondo ventennio, con grande riprovazione dei gerarchi, uno sguardo attento e positivo agli sviluppi tecnologici e imprenditoriali degli Stati Uniti. Insomma delle liberal democrazie.
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Fu quasi uno dei più fedeli al regime e nello stesso tempo osteggiò in modo radicale le leggi razziali, anzi salvò tantissimi italiani di fede ebraica, sia assumendoli con altro nome nelle loro aziende, anche in modo posticcio, e organizzando poi, con la resistenza la fuga di molti, e tentando poi nel 1943 di scardinare la Repubblica di Salò con l’appoggio degli Usa e dell’Inghilterra per creare un regime democratico. Appoggiò quel nucleo di resistenti che formò il Partito D’Azione. Fu vicino agli ambienti del partito Repubblicano. Fondò il Movimento di comunità e partecipò alle elezioni nazionali, dopo qualche timido successo a livello locale, nei pressi di Ivrea, subendo una sconfitta nel 1959 che contribuì a fiaccarlo ulteriormente pochi mesi prima della sua morte nel 1960.
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Ci si potrebbe chiedere se negli anni avesse avuto un filo conduttore di pensiero e di scopo. Non possiamo dirlo con certezza, ma questo libro, frutto di dieci lunghi anni di studio tra gli archivi di tutta Italia e non solo, oltre alla comparazione delle dichiarazioni di chi gli fu vicino, ricostruisce alcune linee di continuità a livello retrospettivo di tendenza storica, e non propriamente psicologica, per una persona piena di dubbi, pragmatica, e risoluta, razionale a volte, avventata in altre. Cinica e determinata nel perseguire gli scopi d’azienda, suicida e donchisciottesca nel perseguire suoi personali modelli di nuove relazioni sociali. Duro talvolta, ed estremamente generoso in altre.
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Certamente subì l’influsso dell’idea dello stato che si fa padre, istitutore, controllore, gestore delle interazioni sociali e della moralità individuale, conduttore verso uno sviluppo delle comunità e delle genti italiche. Anzi elaborò e cercò di tradurre la visione risorgimentale di lungo periodo, nazionale dei primi anni colonialisti, fascista poi, di una sottomissione del singolo per il bene della collettività e poi della nazione. Posizione che invertì subito dopo l’8 settembre 1943, con una ulteriore conversione interiore, per definire una forma di personalismo cristiano che cercasse di coniugare la libertà con l’uguaglianza, la disparità sociale con la solidarietà e la redistribuzione che partisse dalle politiche e dai movimenti dal basso, prima di tutto culturali.
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Se si cercasse di delineare una linea coerente secondo gli schemi attuali, si avrebbero le vertigini per queste giravolte tortuose. Il punto però è che indirettamente, consapevolmente a tratti, emerse sempre di più nei decenni un minimo comun denominatore: l’azienda e i lavoratori. Da essi e per essi elaborò una nuova forma di aggregazione comunitaria e quindi di interazione sociale.
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Nell’impresa tutto deve ricadere. Il mondo del lavoro, a partire dalla fabbrica, determina ed espande le mense, le biblioteche, i musei e i centri culturali, gli asili nido per tutelare la maternità, la sanità complementare per i lavoratori, per i loro parenti e come una macchia d’olio via via per tutti. E quindi anche l’edilizia che deve essere redistribuita per i quadri, gli amministrativi, gli operai. Tutti, nessuno escluso, avrebbero dovuto godere esteticamente delle offerte culturali, di apprendimento e di una socializzazione aperta, libera e progressiva.
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Insomma non è lo stato, il nuovo diritto, il partito fascista, il sindacato, le idee socialiste, le azioni di resistenza, gli approcci liberali che devono configurare i sudditi, i cittadini, i poveri, i ricchi, gli operai e gli intellettuali, passando anche nella rideterminazione dei luoghi di lavoro. No, ed è questo il fulcro, almeno io ritengo lo sia, della visione sotterranea di Adriano Olivetti: è l’azienda, il luogo della fabbrica, la comunità dei lavoratori, che assorbe tutto il resto. La società emana dai luoghi di lavoro. In essi si realizza la morale nell’attività di lavoro e culturale per una etica in cui la persona sia il perno.
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Adriano Olivetti agisce in modo spregiudicato attraverso le ideologie, le forme di diritto, le nuove forme statuali che si susseguono prima e dopo la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, perché le ritiene onde e scosse telluriche intorno agli arcipelaghi che sono appunto le reti di impresa, collocate tra la città e la campagna.
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86-88 “[…] Le tre radici, dunque: la cultura liberal-risorgimentale, il progetto marxiano e l’appartenenza all’ebraismo. Nelle storie individuali e nelle vicende delle comunità e dei gruppi politici e culturali italiani, spesso la prima e la seconda radice si avviluppano con la terza, l’appartenenza all’ebraismo. E non importa se quest’ultima si manifesta in una intensa e palese identità religiosa o se si esprime in una mimetizzazione e in una diluizione della sua tradizione nella secolarizzata società italiana ed europea. È questo il contesto storico articolato e multiforme in cui il demone della politica appunto abita – inizia ad abitare – in Adriano. Il quale vive le contraddizioni degli uomini e si trova a operare nelle pieghe della Storia, che ora lo fanno stare come su un panno rosso e ora lo stringono al collo come una corda di canapa, ora ne fanno un protagonista ammutolito dall’eccitazione delle cose e ora lo trasformano in un ingranaggio reso silenzioso e grigio dal procedere della quotidianità
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120-122 “[…] L’economia pubblica e la pubblica amministrazione, il governo e i ministeri. Il partito unico. Tutti questi elementi compongono la realtà. Il rapporto con loro diventa essenziale e vitale, necessario e naturale. La normalità è fatta di legami organici e non episodici con i corpi dello Stato e con il Partito nazionale fascista. Adriano è un imprenditore. La Olivetti è una società italiana. Opera su un mercato a bassa concorrenzialità e a elevato controllo da parte della politica e della pubblica amministrazione. Sono poche le altre imprese che producono macchine per scrivere e macchine da calcolo. La Olivetti, per svilupparsi e per prosperare, deve misurarsi con i regolatori e i controllori di una realtà economica e sociale che, negli anni Trenta, si trovano nelle stanze della politica, negli uffici della pubblica amministrazione e nelle sezioni del Partito nazionale fascista. Il 27 ottobre 1933 (con una lettera in cui alla data è aggiunto il numero romano XI, undicesimo anno dell’era fascista) Adriano scrive una lettera al ministero delle Corporazioni. La richiesta è quella di inserire il settore delle macchine per scrivere fra i comparti per i quali è necessaria l’autorizzazione del governo, forma grossolana e potente di controllo dell’attività industriale privata: «Con riferimento al R. Decreto 15 maggio 1933, n. 590, il quale assoggetta all’autorizzazione governativa i nuovi impianti e l’ampliamento di quelli esistenti per un determinato gruppo di industrie, esponiamo i motivi per i quali riteniamo necessario che l’industria delle macchine per scrivere venga compresa nell’elenco»10. Adriano gioca duro. Ha interesse a limitare sia la concorrenza interna sia quella estera. Sulla concorrenza interna, dice con una ambiguità abbastanza esplicita sulla presunta irrazionalità e, in ogni caso, sul presunto non interesse nazionale che nuovi investitori italiani entrino in un mercato in crisi: «Qualunque quota del risparmio nazionale indirizzata nell’industria delle macchine per scrivere non potrebbe che risolversi in uno spreco del capitale nuovo ovvero nell’indebolimento o nell’annientamento delle vecchie industrie del ramo che da sole hanno sopportato tutti i pericoli e gli oneri dell’inizio e dell’affermarsi di un’industria nuova per il nostro paese»11. C’è, poi, il rischio che altri gruppi stranieri entrino in Italia: «Ci risulta che importanti fabbriche nord-americane impressionate dalla quasi totale perdita del mercato italiano, dovuta alla nostra affermazione, stanno studiando la possibilità di costruire fabbriche di montaggio e costruzione parziale in Italia»12. Adriano, nel rivolgere la sua richiesta di inserimento del settore fra quelli a maggiore controllo autorizzativo pubblico, scopre la carta più pesante: «Nella nostra organizzazione lavorano oltre 1100 fra operai e impiegati. Se la minaccia di una nuova concorrenza interna alimentata anche da capitale e appoggio di nostri concorrenti interni avesse un inizio di esecuzione, noi dovremmo immediatamente e drasticamente ridurre non solo le ore di lavoro, ma anche il numero dei nostri dipendenti»13. Che sia una minaccia reale o solo tattica, l’Adriano portatore dell’insegnamento paterno, secondo cui la disoccupazione involontaria sarebbe stata la peggiore condizione umana per la classe operaia, in questo caso sonnecchia. E, al di là di questo, la Olivetti che ormai opera in condizione di semimonopolio si rapporta con il governo da monopolista. La Olivetti godrebbe di una posizione di forza da una misura che restringesse la possibilità per tutti di fare nuovi investimenti. Ne avrebbe un vantaggio strutturale. E Adriano ottiene questa misura. […]”
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“[…] 152-155 Adriano ha un atteggiamento di adesione neutrale o di consenso passivo alla dimensione politica del fascismo. È un imprenditore. Fa gli interessi della sua azienda. Gioca su più tavoli con la pubblica amministrazione. Opera in un’economia in cui il protezionismo è la vera ragione prima di ogni estremizzazione autarchica e in cui la concorrenza è ridotta al minimo dall’influenza della politica e dai corpi dello Stato, da cui Adriano, per la sua azienda, riesce a ottenere molto […]”
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209-210 “[…] Dopo l’apertura, nel 1937, dell’asilo per i figli dei dipendenti con meno di cinque anni, nel 1940 è stata costruita la nuova struttura riservata ai bimbi con meno di tre anni. Alla Olivetti si può essere una mamma che lavora. Nel giugno del 1941, quando viene ampliato l’asilo nido progettato da Figini e Pollini in stile razionalista e con citazioni di Le Corbusier, viene riorganizzato tutto il servizio per l’infanzia e per la maternità offerto dall’impresa. In Italia il trattamento previsto dalla Cassa mutua e dall’Istituto nazionale di previdenza è minimo: stai a casa ricevendo l’equivalente del salario di due mesi, uno prima del parto e uno dopo. Al trentunesimo giorno di vita di tuo figlio, devi tornare in fabbrica o in ufficio. Alla Olivetti, nel 1941, viene emanato un regolamento – l’ALO, Assistenza lavoratrici Olivetti – secondo il quale le lavoratrici sono esonerate dal lavoro da 75 giorni prima del parto fino al settimo mese compiuto dal loro piccolo o dalla loro piccola e continuano a ricevere, grazie a un sussidio aziendale, il medesimo ammontare del salario: un trattamento così favorevole alla lavoratrice è un’eccezione nell’economia e nella società internazionali, non soltanto del Novecento. Peraltro, tutto questo accade sempre e comunque: non importa che tu sia sposata o che tu sia ragazza madre. È così. La membrana che separa la Olivetti dal mondo è fatta anche di quella particolare materia che è l’accudimento dei bambini da parte delle loro mamme. Intorno alla mamma e al bambino si crea un mondo. Si stabiliscono premi di natalità aziendali così da «alleggerire l’onere della famiglia in un momento particolarmente delicato»79. Sono previsti contributi straordinari, in caso di famiglie con particolari difficoltà economiche o con particolari condizioni di salute. A sette mesi, quando la mamma torna nello stabilimento o in ufficio, il piccolo viene accolto nell’asilo nido. All’asilo nido si trova una camera per l’allattamento, così la mamma può allontanarsi per il tempo necessario dall’ufficio o dalla linea produttiva e dare il suo latte al piccolino o alla piccolina che ne abbia ancora bisogno. A tre anni, i bimbi vengono accolti all’asilo e, poi, a quattro anni – e fino ai sei – alla scuola materna aziendale. Al compimento dei sei anni – fin dal 1938 – possono andare alla colonia montana di Champoluc, che rimarrà attiva per decenni, e al mare a Loano, servizio che invece smetterà di funzionare nel 1941. A differenza delle altre imprese italiane, i dipendenti che lo desiderino possono accompagnare i figli in colonia. La membrana che separa la Olivetti di Adriano dal resto del mondo definendone l’anomalia è formata da un ultimo, prezioso, strato: nell’asilo nido aziendale, che ha un numero limitato di posti, fra il figlio dell’operaio e il figlio dell’impiegato viene data la precedenza al figlio dell’operaio […]”
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È incerto, fra tante sponde. Deve andare a Milano, aprire le sedi a Barcellona, in Francia, Inghilterra, Svizzera, ma il fulcro è però quasi paesano: Ivrea. Tende a dimenticare e rimuovere il passato socialista del padre, il fascismo, le sue discussioni con gli alti gerarchi e con lo stesso Benito Mussolini sul corporativismo e sulla concezione di una nuova azienda. Propose confusamente il modello di una nuova economia ai servizi segreti inglesi e USA, a causa del quale fu messo da parte come agente principale di un eventuale colpo di stato ai tempi dell’8 settembre 1943. Sembra comportarsi come un reggitore di una Signoria dei secoli andati.
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262-63 “[…] La crisi della democrazia liberale, il Biennio rosso, l’ascesa violenta del fascismo, la ribellione delle minoranze, il consenso di massa, l’adesione, la via fascista alla modernità, la partecipazione agli organismi dei corpi intermedi, il lavoro intellettuale sul corporativismo, i rapporti con la ristretta cerchia di Mussolini, la crescita della Olivetti in un regime di oligopolio, i legami con la pubblica amministrazione e la politica fasciste. Tutto cancellato, dimenticato, rimosso, destinato all’oblio. A poche settimane dal rientro a Ivrea, nel suo primo discorso ai dipendenti – in una occasione, dunque, fondante – Adriano costruisce il suo nocciolo duro di riflessione per la contemporaneità e per il futuro su una crisi che è di civiltà, sociale e politica: «Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo? Cosa è la fabbrica nel mondo di domani? Come possiamo contribuire con il nostro sforzo e con il nostro lavoro a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti, affinché giorni così tristi né i nostri figli né i figli dei nostri figli e molte generazioni ancora non potranno dimenticare né potranno, una seconda volta, affrontare?» […]”
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E si arriva alla fine del suo percorso.
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486 […] Le cose, dunque, non vanno bene. Adriano, dopo il fallimento alle elezioni politiche nazionali del 1958, si trova a operare in una condizione di negoziato continuo con gli altri famigliari e gli altri soci. Conosce il legame fra finanza d’impresa (al servizio, appunto, dell’impresa) e finanza straordinaria (al servizio, anche, degli azionisti). In questa nota si legge che questi 8 miliardi corrispondono «a più di due volte le emissioni di nuove azioni di tre miliardi», un fattore di persistente tensione con gli azionisti della Olivetti, abituati da dieci anni a portare fuori capitali sotto forma di dividendi e ad autoassegnarsi aumenti di capitale non a pagamento, vedendo crescere la loro ricchezza individuale senza pagare alcun dazio. In un contesto simile la questione della Fondazione, che di necessità interromperebbe l’assorbimento di dividendi da parte degli Olivetti dalla Olivetti, diventa astratta e irrealistica e il tema del Consiglio di gestione appare significativo, ma minimo. L’intero edificio non regge più. Non funziona il meccanismo nel rapporto fra impresa e azionisti, che sono abituati ad avere tanti, tanti dividendi. Non funziona il rapporto fra Adriano e gli altri famigliari. Non funziona, paradossalmente, nemmeno il rapporto fra Adriano imprenditore e Adriano politico perché, come in una dissociazione, il secondo è stato «spogliato» delle sue finanze personali dal primo […]”
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E appena pochi mesi dopo la sua morte:
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509-512 “[…] Il 10 febbraio 1961, il Comitato centrale del Movimento di Comunità si scioglierà. Tutto questo succede sei anni dopo il discorso di Adriano ai lavoratori di Pozzuoli: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». Ma è tutto il mondo di Adriano a perdere consistenza, a sfibrarsi e a sfilacciarsi nella realtà e, allo stesso tempo, a impiantarsi, a crescere e ad assumere vita nell’immaginazione degli altri. Con la scomparsa di Adriano, è come se all’improvviso le radici nascoste dell’albero della crisi prendessero vita e si manifestassero nella Storia ed è come se, simultaneamente, una nuova dimensione civile e affettiva venisse costruita prima di tutto sulla sua assenza. La stessa Olivetti, segnata dai conflitti famigliari e dalla mancanza di un leader carismatico seppur discusso come Adriano, sarà scossa da uno sbandamento strategico e si ritroverà in una fragilità finanziaria di cui c’erano già segni evidenti fra il 1958 e il 1960. Pochi anni dopo rischierà di diventare di proprietà delle banche svizzere, che avranno in pegno le azioni degli indebitatissimi Olivetti: per evitarlo, il ripianamento dei debiti personali di questi ultimi e la ricapitalizzazione della società verranno realizzati dal gruppo di intervento coordinato da Mediobanca e composto da Fiat, IMI, Pirelli e La Centrale. La Olivetti, però, perderà la sua autonomia, diventando un’impresa industriale senza un imprenditore. La riduzione dell’autonomia sarà duplice: la Olivetti, diventata acefala, dovrà rinunciare alla grande elettronica, ceduta alla General Electric, e si troverà in una sorta di camera iperbarica finanziaria, con una specializzazione produttiva concentrata sulla meccanica e sulla piccola elettronica e una dipendenza completa dal sistema bancario italiano. Succederà tutto questo, nel 1964, esattamente cinquant’anni dopo la prima volta di Adriano in uno stabilimento: «Nel lontano agosto 1914, avevo allora tredici anni, mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina. Per molti anni non rimisi piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso all’industria paterna»56. Succederà tutto questo pochi anni dopo che Adriano ha vissuto il suo ultimo giorno. Un ultimo giorno in cui ha mangiato cacciagione e ha bevuto champagne, ha festeggiato la quotazione in Borsa della Olivetti con i suoi famigliari e i suoi dirigenti industriali, si è occupato di libri e di editoria, ha aumentato lo stipendio ai redattori di una rivista, è salito su un treno diretto in Svizzera per discutere con i banchieri e per andare ad amare […]”
Prima ancora della trasmissione nei cinema del film “Oppenheimer” del 2023, questa ricostruzione storica in forma di romanzo, è sorprendente nel rivelare il gran numero di persone coinvolte, alcune impensabili, e altre dimenticate. Vi è un’ottima documentazione che parte dagli archivi dei servizi segreti delle nazioni che furono coinvolte nella seconda guerra mondiale.
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Tutto ciò che è accaduto è reale. Personaggi, biografia, avvenimenti, avventure, esperimenti, vita privata. Persone famose come i ragazzi di Via Panisperna, la famiglia Curie, sportivi famosissimi un secolo fa, tutti, agirono per non permettere ai tedeschi di sviluppare la bomba atomica. Chi agì come una spia, chi intraprese attività di guerriglia durante il conflitto, chi, da lontano, accelerò nelle ricerche per nuove scoperte scientifiche.
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Il libro ha una struttura di un romanzo con una grande quantità di protagonisti, l’uno ignaro dell’altro, ma tutti agenti in modo corale lungo gli anni. E sebbene la struttura narrativa dia l’impressione che sia immaginifica, in realtà le vicende narrate, sono tutte ben documentate, anche dagli stessi attori, mentre erano ancora in vita.
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È un libro che trasforma resoconti di ciò che accadde in un insieme di storie parallele avvincenti che non inventano alcunché, perché la Brigata dei Bastardi fu un accrocco simile a una sporca dozzina composto da campioni sportivi, premi Nobel per la fisica, agenti segreti improvvisati, esuli militari e politici dalla unione Sovietica, e dalla Germania nazista, nonché dall’Italia fascista.
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Alcuni mesi prima dell’inizio della seconda guerra mondiale in Europa e negli Stati Uniti cominciò a esser sempre più viva la preoccupazione che la Germania Nazista stesse compiendo velocemente la capacità di ottenere energia atomica atta per un a riconversione di tipo militare.
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Tra alti e bassi di costituirono nuove organizzazioni di spionaggio coinvolgendo personaggi famosi alcuni, oscuri altri, diversissimi tra loro, ma consapevoli del pericolo.
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Le vicende coinvolsero anche chimici e fisici che decenni prima scoprirono alcune leggi relative al comportamento fissile di alcuni elementi chimici e le correlative ricadute in ambito fisico. Mancava una concreta possibilità di applicazione ingegneristica. Adolf Hitler diede una sveglia a tutti.
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Le letture in cartaceo o in formato digitale dovrebbero essere accompagnate da ricerche su web in contemporanea alla presentazione dei personaggi, e al richiamo di nozioni di fisica e di chimica. È un ottimo indicatore per approfondire conoscenze reperite distrattamente e in modo forse episodico negli anni, ma anche per recuperare il nostro passato. Sì, in questo libro ritroviamo noi stessi, perché tutti costoro sono stati la nostra storia. Hanno determinato indirettamente paradigmi di opinioni con le quali ancora oggi, tentiamo di valutare ciò che intorno ci accade.
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Da segnalare le chiarissime spiegazioni relative ai processi fisici che portarono alla fissione nucleare.
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Commoventi sono state le biografie di resistenza dei Marie Curie e di sua figlia, anch’essa valente scienziata Irène Curie con il suo marito, altro premio Nobel, Frédéric Joliot, il quale divenne poi un capo segreto dei partigiani francesi.
Le vicende dei nostri ragazzi di Panisperna, da Enrico Fermi a Edoardo Amaldi, e di come cercarono ognuno a suo modo di mantenere l’umanità e di resistere contro la barbarie.
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Irresistibili le vicende di Moe Berg, la spia più improbabile, ma incredibilmente letale contro la Germania, il campione di Baseball, poliglotta, gran affabulatore, mestatore, irrecuperabile spendaccione, fuori da ogni regola. E non si può non sospettare che sia stato l’ispirazione per migliaia di film di spionaggio del dopoguerra.
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Senza contare il Generale Leslie Groves e i suoi collaboratori: dei veri e propri “bastardi”. E vi sono anche le vicende di coloro che affrontano pericoli consapevoli di poter morire da un momento all’altro, come Joe Kennedy Jr, fratello maggiore di John e Robert Kennedy.
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E naturalmente ai dubbi, e ai nuovi problemi morali conseguenti, perché conoscenze così imponenti nei loro possibili ambiti di applicazione, comportano nuovi paradigmi interpretativi su ciò che è la responsabilità relativa all’uso della conoscenza. Ad esempio, tra i tanti, il chimico Otto Hahn e il fisico Robert Oppenheimer che portarono un dolore infinito per tutta la loro vita, a causa dei complessi di colpa. E si rimane, forse per l’opinione pubblica di bassa lega, dalla quantità di scienziate che contribuirono alla ricerca e alla resistenza contro tutto e tutti, ad esempio Lise Meitner.
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E però, si provano grandi turbamenti sull’animo umano che ha una doppia faccia. Un cuore pieno e generoso che però nello stesso tempo, ha lati oscuri e riprovevoli, come il premio Nobel per la fisica Werner Karl Heisenberg che rimase a lavorare per i nazisti fino alla fine. Che ebbe la convinzione di salvare la scienza e la ricerca comunque anche in Germania, nonostante e contro Hitler. Colui che assieme ad altri suoi collaboratori, si diede da fare per salvare di nascosto tantissimi ebrei, organizzando una struttura operativa per farli fuggire dalla Germania. Colui che durante i bombardamenti degli alleati, si comportò eroicamente per salvare individui sconosciuti dagli incendi e dai crolli dei palazzi, rischiando in prima persona, mentre un momento prima parlava di come inventare nuove soluzioni per costruire una bomba atomica a servizio della Germania. Colui che non aiutò a salvare i genitori di un suo amico che lo favorì tantissime volte, fisico come lui, ovvero Samuel Abraham Goudsmit.
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Vi è un campionario di varia umanità ricchissimo, inesauribile di spunti. Irritante e ammirevole nello stesso tempo. Leggendo il libro è impossibile non immedesimarsi con questi personaggi, perché sono il nostro specchio. Sono proprio come noi.
Sono passati mesi, qui, oggi, nel mese di Luglio 2023, dall’assedio di Mariupol. In quest’opera vi sono i resoconti, i fatti, di documenti di alcuni attori di questa vicenda che lì, e attorno, è purtroppo ancora in svolgimento. Non parlano comodamente da un divano. Molti di loro ne sono stati vittime. Feriti comunque nell’animo, oltre che nel fisico, anche per la perdita delle loro famiglie e della comunità. Il processo di distruzione ha coinvolto le dimore, i quartieri, le vie, le scuole: l’intero paesaggio. Mariupol non può essere appellato come se fosse un cimitero, perché anche quello è stato distrutto.
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E loro sono i più fortunati, perché sono vivi.
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È utile conservare tutto ciò, in modo che si possano richiamare gli eventi, le persone e riutilizzare l’incontro tra il giornalista e altri studiosi e indagatori, in modo che il futuro non agisca univocamente nel traslare le interpretazioni in una univoca direzione di negazione e ancor peggio di consapevole sviamento.
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Per il pubblico, qui in Italia, quest’opera è un invito a non incedere in una postura pigra di uno spettatore del Colosseo, acefalo e voluttuosamente voglioso di sangue per estraniare il dramma, considerare i fatti come favole, o peggio ancora giustificare inconsciamente le proprie inclinazioni pornografiche nel provare l’acre soddisfazione nello spiare il dolore altrui.
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Quest’opera è un esempio di un processo di ricerca che è metodologicamente ben impiantato, attraverso la dichiarazione degli intenti, il dispiegamento degli indicatori di rilevazione, la messa in opera delle procedure di indagine, di inchiesta e di intervista. In più vi è la cura della sistemazione e della scelta di ciò che si è raccolto. La spiegazione di ciò che è considerato notizia è collocata in una struttura semantica che ha per base il <<fatto>>.
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Vi è una consapevole parsimonia nel correlare le relazioni tra gli eventi se non attraverso un lavoro artigianale, e quindi limitato, di ciò che si è rilevato dalle interviste e dalla visione sul campo. Vi è il valore aggiunto di rendere disponibile al lettore il ventaglio delle supposizioni e la logica di costruzione dei giudizi.
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È un lavoro onesto che invita il pubblico ad ascoltare in modo disciplinato ed eticamente corretto. È una possibilità ulteriore per evitare l’inclinazione verso considerazioni superficiali, o dettate univocamente dai pregiudizi che riguardano il proprio vivere e nulla entrano in quel luogo totalmente stuprato.
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Andrea Nicastro non scrive dal suo divano e non assume il ruolo di predicatore morale circa gli accadimenti in corso come se fosse un turista impermeabile a tutto. Non ha neanche il tono del giornalista che si atteggia a eroe titanico perché affronta la discesa agli inferi, sapendo di riveder le stelle degli applausi del pubblico. L’opinione di massa acefala vogliosa di racconti mitici e quindi semplici, cui spalmare emozioni ed istinti un tanto a serata prima di bersi un caffè o di usare lo stuzzicadenti, mentre commenta tra sé e sé di saperla lunga.
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No. Qui il narratore sta assieme alle vittime, anche perché non si aspettava quello che via via accadde ogni giorno, lì, a Mariupol: la città che nel giro di qualche orbita solare sarebbe divenuta un cielo di piombo e una terra di sangue. Le testimonianze e le memorie, sono raccolte nella penuria di acqua, di luce, di vestiti invernali e denaro.
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Ecco perché gli aggettivi non sono così sempre declinati al superlativo, perché chi narra, descrive la distruzione che ha appena spostato il suo corpo e la sua camera per le detonazioni. È anche il suo corpo che parla, tra l’udito e lo sconquasso delle ossa.
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Ottantadue giorni: millenovecento sessantotto ore. Questa è la storia che si fa attraverso la pratica giornalistica, viva, partecipata e concreta.
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11-12 “[…] Di alcuni eventi sono stato testimone diretto, di altri cronista, raccogliendo centinaia di storie, impressioni, frammenti di chi usciva vivo durante e dopo quegli ottantadue infiniti giorni di assedio medievale. La forma del romanzo, invece che del reportage, mi ha permesso di mescolare facce e vite, sommarle, dividerle, dare loro consistenza. O almeno provarci. In ogni personaggio ci sono i racconti di dieci persone diverse più, magari, il ricordo di un fantasma incrociato nelle notti dei bombardamenti. Prima di farvi leggere queste pagine le ho ripulite dalla cronaca più cruda perché mi rendo conto che credere alla realtà è più difficile che credere a ciò che creiamo con la fantasia. La prima ci spiazza, la seconda, figlia dell’esperienza, sappiamo in qualche modo riconoscerla. Esiste invece un qualcosa, magia l’ho chiamato, che uomini e donne sanno concepire nei momenti più drammatici. È un intuito o un agire che ha spesso soccorso l’umanità dai suoi stessi mostri. E ha salvato anche me da Mariupol. Lo troverete, spero, nel racconto assieme allo stupefacente dolore di quell’assedio e alla scintilla di umano che ho visto resistere anche nelle atrocità […]”
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53-54 “[…] a me che non è mai piaciuto seguire le notizie, adesso che siamo senza elettricità, adesso a me manca anche la tv, la predica uguale per tutti, qualcuno che mi dica come fare. Mi manca. Mi manca terribilmente. Non voglio pensare da solo, che lo facciano altri per me. Se c’è qualcuno incapace di vivere in un assedio, ecco, sono io.[…]”
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Mariupol e l’Ucraina, proprio perché tese all’autodeterminazione, minano il mito fondativo della Russia, sia come impero sia nella sua incarnazione dei soviet. Ancor di più frammenta la monolitica la narrazione cristiana russa di essere la portatrice del messaggio trascendente. Mariupol per la sua economia del ferro e del carbone, che propone nuovi modelli di relazioni sociali dal basso, si trasforma in una occasione di sorgente di mutamento per l’intera Russia, la quale risponde con una crudele volontà di annichilire e negare l’aspirazione alla libertà.
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Qui alcuni passi. Aggiungerò solo note di raccordo. Loro, queste persone in carne ed ossa stanno offrendo ora questo presente che diverrà storia, dolorosa per la quale noi tutti dovremo misurarci, per eventuali omissioni, ipocrisie, pregiudizi di comodo.
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58-59 “[…] In quel periodo anche Mariupol ha cominciato a cambiare. Poi si è sciolto di colpo pure l’impero che difendeva il comunismo e per Mariupol è stata una corsa. La Russia era rimasta affezionata all’idea che uno decidesse per tutti anche perché soffriva di nostalgia per quando tutto il comunismo del mondo aveva a Mosca la sua capitale. Mariupol, invece, ha voltato pagina. Ha smesso di essere solo la città delle acciaierie e delle montagne di carbone come voleva la Madre russa e comunista e ha cominciato a riempirsi di computer e università. Tra gli operai sporchi di fumo e carbone hanno cominciato a circolare giovani, frizzanti, con le mani delicate di chi non ha mai lavorato con pala e piccone, giovani che volevano costruirsi un futuro su misura. Sono convinta che la Russia ha deciso di essere crudele con Mariupol proprio perché la città era cambiata troppo. L’assedio era contro quei nuovi abitanti che non si ricordavano più che cosa volesse dire essere comunisti o obbedire al capo. Per anni e anni a Mariupol avevano vissuto solo minatori e operai con la testa bassa, ma alla vigilia dell’assedio la città era piena di gente curiosa, libera, un po’ cosacca che guardava dritto davanti a sé. La Russia non riusciva a sopportarli […]”
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86-7 «Per il forno, non ti preoccupare [Pavel: nota mia: soldato russo richiamato a combattere, ora panettiere che sognava di migliorare l’attività di fornaio]. Sono contento di stare qui, so di essere fortunato a non andare come te a combattere. Penserò a tutto io, tu impegnati a tornare sano e salvo. Questa guerra non mi piace.» «Perché? Cos’ha di diverso da quelle che hai fatto tu?» «In Afghanistan c’eravamo noi e c’erano gli altri. Tra noi ci si capiva. Noi eravamo noi, i nemici, nemici. Noi potevamo riconoscere i compagni da ogni respiro, da un verso, da un colpo di tosse. Degli afghani non sapevamo nulla e non ci importava niente. Potevamo ammazzarli tutti per quel che ci interessava e avremmo dormito sereni. Erano come marziani. Avevano vestiti diversi, parole diverse, anche la loro puzza era un’altra dalla nostra. Qui invece ci siamo noi da tutt’e due le parti. Quelli che sono dentro Mariupol cercheranno di ucciderti, conoscono le nostre procedure, hanno studiato le stesse manovre, hanno le stesse armi. Sanno come pensiamo. È una guerra innaturale. Quelli di là sono come Caino con Abele. Siamo stati attaccati alla stessa mammella e adesso decidono di accoltellarci alle spalle. Bastardi. Traditori. Nazisti di sicuro. Ma come può essere una guerra normale se è tuo fratello che ti vuole ammazzare?» «Me la caverò.» «Lo accetti un consiglio dal tuo garzone?» «Dai, cosa dici?» «Stai con le forze speciali o, se non ci riesci, stai vicino a qualche mezzo costoso. La fanteria è sacrificabile. I soldati sono numeri, non contano nulla, per i generali le armi valgono molto di più. Le forze speciali, beh, loro sanno proteggersi da sole. Anche dai comandanti carogna e ti assicuro, ce ne sono a bizzeffe in ogni operazione di comandanti carogna. Fatti amico delle forze speciali e quando tornerai il forno sarà uno specchio, uguale a come l’hai lasciato.»
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120 Ogni bomba era diversa. Dal negozio senza vetri si sentivano molto meglio che in cantina. Ce n’erano di quelle che sembravano tuoni estivi, rombi prolungati dopo un primo scoppio. Altre, dallo schiocco acuto, erano come schiaffi di un gigante isterico: arrivavano sempre ravvicinate, cinque o sei alla volta perché il gigante era furioso e solo dopo una scarica di schiaffoni si stancava di colpire. Altre ancora erano cupe, potenti, ma isolate, te le immaginavi con la nuvoletta di polvere a forma di fungo in lontananza. Altre avevano il suono di porte sbattute dal vento. Facevano meno paura di tutte perché sembravano davvero lontane. Poi c’erano gli spari, raffiche in genere, tre colpi alla volta, difficile capire quanto vicini se non quando parevano biglie da biliardo che si toccano l’una con l’altra, allora potevi essere sicuro che fossero lontane. Infine, c’era il rumore dei jet che sentivi dove già non erano più, pericolosissimi perché imprevedibili come i missili o qualunque cosa sospirasse prima di esplodere. Quei veloci rantoli trasportati nell’aria erano gentili perché davano il tempo di ripararsi. Un avviso sul filo dei secondi, tre, quattro al massimo, ma abbastanza per scappare all’interno se si stava cucinando.
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121-122 Il missile cadde al di là del parco senza che vedessero l’esplosione. Videro solo l’onda d’urto che investiva il lato del palazzo dove avrebbero voluto rifugiarsi. La videro arrivare nella terra che si sollevava, nell’asfalto che si crepava, nei loro corpi che si schiacciavano contro il cordolo del parco fino a che l’onda di energia si schiantò contro l’edificio. Una scena che non avrebbero dimenticato per il resto della vita. I vetri delle finestre si gonfiarono come bolle di sapone, le lesene di pietra si curvarono, il muro oscillò. Una frazione di secondo in cui la fisica dei giorni di pace smise di avere senso: la materia era diventata molle. La stessa energia che piegava i muri come fossero di tela aveva attraversato anche i loro corpi. Sentirono la mano appoggiata al muretto fondersi con la pietra, le loro braccia, le teste e gli organi interni muoversi ciascuno per proprio conto. Videro i vetri gonfi come palloncini esplodere in minuscole schegge. E infine, un attimo dopo, il rumore più spaventoso che avrebbero mai sentito, alle loro spalle, al di là del parco. Rimbalzarono dal muretto alla terra gelata. Il cuore ricominciò a battere tutto d’un colpo, all’impazzata. Le gambe non rispondevano. Respirarono assieme come quando si emerge da sott’acqua, avidi d’aria. Erano vivi. La terra e il muretto a cui erano rimasti aggrappati, erano tornati a essere duri. Il palazzo, che per pochi istanti era sembrato un drappo al vento, appariva di nuovo rigido. Le finestre sventrate, i cornicioni sbrecciati, la strada, pulita prima dell’esplosione, era coperta da un tappeto di frammenti.
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175 «Chiedi alla donna come hanno fatto a scappare a piedi.» Olga ricacciò un ciuffo di capelli sotto il berretto di lana e guardò la telecamera che aveva davanti. Raccontò del carro armato e dei cecchini che li osservavano dalle finestre sventrate dei palazzi. Raccontò dell’umiliazione di sentirsi senza valore, senza diritti, in balia di uomini armati. La paura che qualcuno potesse sparare loro a ogni angolo. Raccontò dei cadaveri abbandonati per strada, del loro tentativo di cambiare marciapiede perché i bambini non li vedessero. Parlò dei posti di blocco e degli uomini perquisiti e del cibo che avevano ricevuto. Parlò del contadino che li aveva raccolti, un angelo, disse, capitato su una strada dell’inferno quando le vesciche ai piedi non permettevano più loro di camminare. Raccontò dello speculatore che li aveva portati sino a Zaporizhya, di come quel brodo bollente non riuscisse a scaldarli. Quanto risultava obliquo, difficile da spiegare, controverso, scomparve dalla traduzione. Secondo l’interprete e quindi secondo il servizio che andò in onda, la famiglia era sfuggita a un carro armato russo e aveva dovuto strisciare lungo i muri per evitare i cecchini mandati da Mosca a trucidare chiunque cammini per le strade. Rimasero le vie piene di cadaveri, ma i bambini costretti a scavalcarli non dormivano più per gli incubi. Ai posti di blocco poi scomparve l’acqua e il cibo e restarono le perquisizioni dei maschi, ricerche violente e ingiustificate, così come svanì il tassista profittatore mentre il contadino si trasformò in coraggioso patriota, forse un partigiano, che li aveva portati gratuitamente sino lì. «Sperate di tornare un giorno a Mariupol?» «Mariupol non esiste più.»
È una crepa nel presente che cresce come un vortice, attirando moti d’aria e d’attenzione, perché non si può smettere di leggere. I personaggi sono introdotti con indizi che a mo’ di esca, attraggono e seducono, evocando una irresistibile curiosità.
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Gli eventi e i luoghi sono sorgenti di misteri che veicolano la narrazione. Anche rimanendo tali, li sentiamo scandire il ritmo delle vicende.
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La descrizione dei personaggi si accompagna ai loro atti e alla osservazione partecipante dell’autrice che è una dei partecipanti. Si è nel dubbio se la scrittrice stia rievocando la sua biografia, o se sia una inventata. In ogni caso, le protagoniste si sdoppiano nell’offrire un diario degli eventi. I quali a loro volta viaggiano in un binario esterno cronologico e uno interiore che curva e si torce nelle storie di vita accadute di ognuno.
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Nonostante i rimandi e le spirali, non si hanno sensazioni di pesantezza nel voler definire un ordine logiche di cause che scateneranno nuovi sommovimenti. Anzi, il lettore è invitato a supporli amplificando una ricca offerta di climax nella narrativa.
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È una magnifica prova di scrittura per Magda Szabò, non a caso ritenuta una delle scrittrici ungheresi più autorevoli del ‘900. Dovette subire decennali e multiple forme di censure, resistendo comunque, attraverso un’incessante opera di libera divulgazione, tesa a scandagliare i processi più profondi dell’animo umano, correlati a precise e tragiche vicende storiche.
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La storia delle protagoniste è anche uno specchio della storia del popolo ungherese, con rimandi continui tra gli anni e i secoli. L’inconscio di una bimba è quella di un popolo, e ogni ciclo famigliare costituisce una individuazione del corso di crescita dell’Ungheria.
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4-6 “[…]. I miei sogni sono assolutamente uguali, tessuti di visioni ricorrenti. Sogno sempre la stessa cosa, sono in piedi, in fondo alle nostre scale, nell’androne, mi trovo sul lato interno del portone con il telaio d’acciaio, il vetro infrangibile rinforzato di tessuto metallico, e cerco di aprirlo. Fuori, in strada, si è fermata un’ambulanza, attraverso il vetro intravedo le silhouette iridescenti degli infermieri, hanno volti gonfi, innaturalmente grandi, contornati da un alone come la luna. La chiave gira nella serratura, ma i miei sforzi sono vani, non riesco ad aprire il portone, eppure so che devo far entrare gli infermieri altrimenti arriveranno troppo tardi dal mio malato. La serratura è bloccata, la porta non si muove, come se fosse saldata al telaio d’acciaio. Grido, invoco aiuto, ma nessuno degli inquilini che abitano sui tre piani della casa mi ascolta, non possono farlo perché – me ne rendo conto – boccheggio a vuoto come un pesce, e quando capisco che non solo non riesco ad aprire il portone ai soccorritori, ma sono anche diventata muta, il terrore del sogno raggiunge il culmine. A questo punto vengo risvegliata dalle mie stesse urla, accendo la luce, provo a dominare il senso di soffocamento che mi assale sempre dopo il sogno, intorno ci sono i mobili conosciuti della nostra stanza da letto, sopra il letto l’iconostasi di famiglia, i miei avi parricidi che indossano i dolman con gli alamari secondo la moda del barocco ungherese o del biedermeier, vedono tutto, capiscono tutto, sono gli unici testimoni delle mie notti, sanno quante volte sono corsa ad aprire la porta agli infermieri, all’ambulanza, quante volte ho provato a immaginare, mentre udivo filtrare dal portone aperto il passo felpato di un gatto, o lo stormire delle fronde, invece dei noti rumori diurni delle strade ora ammutolite, che cosa succederebbe se un giorno lottassi invano e la chiave non girasse nella serratura. I ritratti sanno tutto, in special modo ciò che mi sforzo di dimenticare, che ormai non è più sogno […]”
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Una governante e la padrona in perenne conflitto che ricercano comunque attraverso gli anni un universo coerente circa gli eventi subiti e immaginati, perché questi non cadono mai nel participio passato. Rimangono lì, modificando lo spazio, indirizzando i comportamenti, coltivando le superfici perennemente seminate di nuovi simboli.
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L’ossessiva descrizione degli ambienti e delle persone fin nei minimi particolari, potrebbe instillare un pigro e sonnolento giudizio circa la dilatazione temporale delle storie. Quasi uno stato di indugio autocompiaciuto. In realtà ogni offerta degli scenari provoca uno slittamento semantico che ricompone un nuovo quadro di significato. S’aprono ulteriori direzioni che avvertono nuovi accadimenti in relazione con quelli accaduti.
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La doppia riflessione su una narrazione che è già una strada di analisi, trasla ciò che è compiuto accostandolo a ciò che in quel momento è considerato l’attimo presente. Il passato si espande nel presente, ma non dilegua, perché lascia aperta una porta al lettore, illudendolo che sia il censore che finalmente risolve il dissidio, ma che in realtà diviene il vettore di una nuova strada possibile: cioè il futuro.
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Gli oggetti, i luoghi apparentemente banali e i dialoghi di raccordo, d’improvviso evocano le guerre mondiali, quelle dell’ottocento, le dominazioni subite e inflitte ai confinanti. Le prime forme statuali emergono d’improvviso, come mattoni nello spazio in cui i protagonisti si muovono. Ogni famiglia è una comunità, e questa è un popolo. La città è la nazione ungherese e questa è parte dei popoli che in essa la attraversarono e che ancora lì sono presenti, tra i cimiteri, le nascite, le guerre, e le stagioni.
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La governante è la padrona instaurano un dialogo ininterrotto, scambiandosi a volte il ruolo della coscienza che disvela, e quello dell’errante cieco, sordo e muto. Eroiche e malate entrambe. Ignare comunque di portare l’eredità di questa storia personale e collettiva, anzi di esserne loro stesse un simbolo che via via si accosta a tutti gli altri di questo percorso accidentato tra le porte, le serrature, e i muri: ostacoli prima, illusioni dopo, ed enigmi sempre.
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33-34 “[…] Al momento del mio risveglio non la vidi in casa, né in strada quando partii per l’ospedale, ma il marciapiede scopato e sgombro di neve davanti al portone rivelava la presenza del suo lavoro. «Evidentemente Emerenc sta facendo il giro delle altre case», spiegai a me stessa mentre il taxi mi portava a destinazione; non ero piú angosciata, avevo il cuore leggero, sentivo che in ospedale mi aspettavano solo buone notizie, ed effettivamente fu cosí. Rimasi fuori fino all’ora di pranzo, rincasai affamata, sicura che lei fosse là seduta nell’appartamento e aspettasse il mio ritorno, ma mi sbagliavo. Mi trovai nella situazione, cui non ci si riesce mai ad abituare, di chi torna a casa e non trova nessuno curioso di sapere che notizie porta, liete o funeste che siano – l’uomo di Neandertal probabilmente imparò a piangere quando capí per la prima volta di essere completamente solo accanto al corpo del bisonte trascinato nella caverna, di non aver nessuno con cui condividere le avventure della caccia, nessuno cui mostrare il trofeo o le ferite subite. L’appartamento mi aspettava vuoto, la cercai dappertutto, chiamai il suo nome ad alta voce, semplicemente non volevo […]”
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133 “[…] Emerenc, se mai credeva in qualcosa, credeva nel tempo: il Tempo, nella sua personale mitologia, era un mugnaio che macinava senza sosta nel suo mulino eterno e dosava la tramoggia degli eventi a seconda del sacco che le persone gli posavano davanti. Nella fede di Emerenc nessuno restava a mani vuote, nemmeno i morti, non capiva come, ma era convinta che il mugnaio macinasse anche il loro grano e riempisse i loro sacchi, solo che alla fine erano altri a caricarsi la farina in spalla e a portarla via per cucinare il pane […]”
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Il tempo, la scrittura, il ritmo, e la porta: il grande ostacolo che in realtà è tale in base alle domande che il singolo si pone. Una sfida stimolante per il lettore, perché in questo romanzo è direttamente chiamato in causa, assieme alla sua intera biografia itinerante.
Questi bambini furono una contraddizione vivente rispetto agli intenti e alle narrazioni della edificazione rivoluzionaria della società socialista in URSS. Dai genitori uccisi per la guerra civile, per le carestie subite a fronte degli espropri, delle ricorrenti crisi economiche che contraddicevano i grandi piani emanati dal partito, dallo Holodomor il genocidio per fame voluto scientemente da Stalin e dal suo apparato prevalentemente lì in Ucraina. Il serbatoio agricolo di parte dell’intera Russia Occidentale e dell’Europa Orientale. Lì che si ebbe l’inferno fino al cannibalismo.
Fino alla nuova crisi di produzione degli anni trenta e alle nuove epurazioni volute dall’astro nascente, dal grande padre Giuseppe Stalin, e da gran parte dell’apparato politico, istituzionale e poliziesco, con l’appoggio morale della nuova classe di eletti che avevano potere e ricchezze, come aderenza a questa nuova chiesa vorace di sangue.
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Mi sia consentito per una volta un aneddoto biografico. Lessi degli studi del prof. Luciano Mecacci nel lontano 1989, riguardo ai grandi pedagogisti come Makarenko e psicologi, che cercarono scientificamente di ampliare le nozioni delle scienze umane, correlando la nozione di agente sociale con quello delle relazioni di contesto sociale e di processo storico culturale, fino ai processi psichici più profondi.
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Le loro tecniche di analisi e di ricerca furono oggetto di studio per tutta la comunità scientifica mondiale nei decenni a venire. Ma non era solo un’attività di laboratorio. SI impegnarono per cercare di offrire un corpus di modelli pedagogici e di teorie e prassi psicologiche, nonché didattiche ed organizzative per offrire una formazione a tutti. E anche morale, seppure poi declinata nella visione del partito e della rivoluzione socialista. E quindi anche e principalmente per questa massa di bambini e adolescenti abbandonati e lasciati nei posti oscurati della società sovietica senza una prospettiva futura.
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Questo libro come in tutte le opere di Luciano Mecacci vi è una quantità sterminata di fonti, tutte documentate con la relativa spiegazione a parte del loro ritrovamento, nel modo di rilevazione, di interpretazione e di impiego nella stesura dei testi. È un libro profondo, ma ben spiegato e onesto nel mostrare il corpo delle premesse e i loro procedimenti di sviluppo argomentativo, innestati nella storia della critica e della ricerca per questo terribile processo sociale.
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Il testo non descrive cinematograficamente gli eventi o con dati già confezionati senza spiegare le tecniche di valutazione. Vi sono le testimonianze, i pensieri, i ricordi, le emozioni, le speranze dei protagonisti. Luciano Mecacci, infatti, descrive il criterio di Anton Semenovyč Makarenko, per il quale la rieducazione pedagogica si attua attraverso la responsabilizzazione, e i contributi di Lev Vygotskij, oltre alla raccolta dei saggi di Alexander Lurija. Tutti costoro e la quasi totalità degli intellettuali del periodo, oltre ai registi (citati nel libro con i relativi film, disponibili in rete web, che consiglio di vedere), agli scrittori, ai romanzieri che descrissero le condizioni di queste centinaia di migliaia di bimbi e bimbe, furono emarginati, perché il regime già dal 1935 considerò il fenomeno superato e definì la censura fino alla morte di Breznev. Molti di loro furono fucilati o condotti nelle carceri della Lubjanka o nei Gulag.
(Di questa tragedia dei deportati e degli incarcerati dei lunghi decenni del periodo staliniano e oltre ricordo di averne trattato consigliando quel capolavoro immenso che è “Vita e destino” di Vasilij Grossman, consultabile QUI e nel libro più terribile, ove si arriva nel fondo dell’animo umano di Varlam Salamov “I racconti di Kolyma”, consultabile QUI )
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E non è un caso che molti provenissero dall’Ucraina.
Pgg.15-16 Dante Corneli, emigrato in Russia nel 1922, deportato in un lager con l’accusa di trockismo nel 1935 e rilasciato, dopo alterne vicende, solo nel 1960. Nella sua descrizione della caotica situazione a Mosca nel 1922, dove «non era facile mantenere l’ordine pubblico: furti, rapine e violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno», e dove «in certi quartieri, spesso teatro di sparatorie, i soldati e i miliziani facevano sistematicamente grandi retate», le scene più impressionanti riguardano i besprizornye. Ma ciò che mi colpiva di più e che mi è poi rimasto impresso per tutta la vita era la vista dei bezprisorni, ragazzi randagi affamati, spesso malati, che si spostavano da una parte all’altra della città e dell’intero paese come branchi di piccoli animali. I più erano bambini, i più grandi avranno avuto non più di sedici anni. Provenivano tutti dalle regioni del Volga, dove nel 1921 una popolazione di quaranta milioni di abitanti era stata colpita da una tremenda siccità. In molti casi erano stati i loro stessi genitori a spingerli a fuggire dai villaggi dove sarebbero sicuramente morti di fame. Invisi a tutti come lebbrosi, neri di sporcizia e cenciosi, si aggiravano per le strade e nei mercati in cerca di cibo. A sera si rintanavano nei negozi e negli stabili abbandonati o semidistrutti. Là passavano la notte, ammucchiati gli uni sugli altri per riscaldarsi.7 Nella prima metà degli anni Venti i besprizornye erano centinaia di migliaia, con un picco di circa sette milioni nel 1922 (nel 1926 la popolazione dell’URSS era di poco superiore ai 147 milioni di abitanti). Nel 1922 a Mosca arrivarono non meno di mille bambini al mese.8
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Pgg. 17-19 Anche André Gide durante il suo viaggio in Russia nel 1936 ne incontrò, con rammarico, ancora molti: «speravo proprio di non vedere più besprizorni».12 I besprizornye dei primi anni Venti avevano in genere tra i sette e i quindici anni, e quindi a metà degli anni Trenta non erano più bambini. Ma alla passata ondata se ne aggiungeva ora una nuova, seppure inferiore per dimensione, costituita dai figli dei «nemici del popolo» spediti nei campi di lavoro o fucilati. E un’ulteriore ondata sarebbe arrivata durante la Seconda guerra mondiale: gli orfani di genitori uccisi dalla guerra e i bambini che scappavano dalle proprie case per la fame e la disperazione. Una volta diventati adulti, che ne fu dei besprizornye? Nonostante il trionfalismo della propaganda stalinista – quei ragazzi che vivevano di aria e di sventura sarebbero stati recuperati e reintegrati operosamente nella società sovietica – per buona parte di loro la sorte fu decisamente meno gloriosa: in genere entrarono nelle file della criminalità, e molti finirono nei lager, destino su cui ha scritto pagine terribili Aleksandr Solženicyn in Arcipelago Gulag. Nei lager i ragazzini, che potevano avere anche dodici anni, erano chiamati dai detenuti adulti maloletki (malo = poco e leta = anni), marmocchi. I maloletki anche da liberi capivano benissimo che la vita è basata sull’ingiustizia. Ma allora non era tutto crudamente messo a nudo, qualcosa era coperto da una patina di decenza, qualcos’altro addolcito da una parola buona della madre. Nell’Arcipelago, invece, i marmocchi videro il mondo come appare agli occhi dei quadrupedi: soltanto la forza è giustizia! soltanto il rapace ha diritto di vivere! Così vediamo l’Arcipelago anche in età adulta, ma siamo capaci di contrapporgli la nostra esperienza, le nostre riflessioni, i nostri ideali e quanto abbiamo letto fino a quel giorno. I bambini invece recepiscono l’Arcipelago con la divina ricettività della fanciullezza. E in pochi giorni diventano bestie! le peggiori bestie, senza alcun concetto etico (se si guardano gli enormi occhi tranquilli di un cavallo o si accarezzano le orecchie abbassate di un cane colpevole, come si può negare che abbiano un’etica?). Il marmocchio impara che se qualcuno ha i denti più deboli dei suoi, deve strappargli il boccone, è suo.
Pg. 13 Dmitrij Lichačëv, grande studioso della cultura russa antica, arrivato da detenuto nel 1928 alle isole Solovki, primo nucleo del sistema concentrazionario sovietico, rimase impressionato da ciò che vide svegliandosi dopo la prima notte di detenzione: Sui tavolacci [dove dormivano i detenuti] superiori giacevano dei malati, e sotto di noi c’erano delle braccia protese a mendicare un pezzo di pane. Quelle braccia smunte erano il dito indice della sorte. Sotto i tavolacci vivevano i «pidocchiosi», gli adolescenti che non avevano più vestiti e vivevano da «fuorilegge»: non uscivano per le ispezioni, non avevano diritto al cibo, vivevano sotto i tavolacci perché non li facessero uscire, nudi, al freddo e ai lavori pesanti. Le autorità sapevano della loro esistenza, ma per eliminarli si limitavano a non dare loro la razione di pane, minestra o kaša. Finché riuscivano, vivevano del buon cuore altrui. Quando poi morivano, li portavano fuori e li chiudevano in una cassa per poi trasportarli al cimitero. Erano i besprizorniki, ragazzini abbandonati o senza famiglia, spesso condannati per vagabondaggio o per piccoli furti. Quanti ce n’erano in Russia! Bambini senza più genitori, che nel frattempo erano morti ammazzati o di fame, cacciati oltre confine con l’Armata Bianca o emigrati. Ne ricordo uno che sosteneva di essere figlio del filosofo Cereteli. Da liberi dormivano nei calderoni dove si prepara l’asfalto e vagavano per la Russia in cerca di tepore e frutta fresca dentro le casse poste sotto le carrozze viaggiatori o nei vagoni vuoti dei treni merci. Sniffavano la cocaina, che durante la rivoluzione arrivava dalla Germania, il tabacco e l’hascisc. Molti avevano le mucose del setto nasale bruciate. Mi facevano tanta pena quei «pidocchiosi» che mi trovavo a barcollare come un ubriaco, stordito dal dolore. La mia non era una sensazione, quanto vera sofferenza, e sono grato alla sorte che di lì a sei mesi mi mise in grado di aiutare alcuni di loro.
La condizione in cui si trovarono gettati i besprizornye durante la Prima guerra mondiale, la guerra civile, la carestia del 1921-22, la grande carestia dei primi anni Trenta, le repressioni staliniane e infine la Seconda guerra mondiale fu segnata dal bisogno primario della fame, e dagli espedienti per soddisfarlo: mendicare, rubare, uccidere.
Appena dieci anni dopo il discorso tenuto dalla Krupskaja al congresso di Mosca del 1924, alla progettualità rieducativa era ormai subentrata la soluzione repressiva. La svolta decisiva avvenne con la risoluzione congiunta del Comitato esecutivo centrale dell’URSS e del Consiglio dei commissari del popolo, approvata il 7 aprile 1935: si decise di abbassare il limite d’età per perseguire penalmente i giovani delinquenti e i besprizornye. A partire dai dodici anni di età, i minorenni riconosciuti colpevoli di furto, violenze, lesioni personali, menomazioni, omicidio o tentato omicidio, sono passibili di giudizio penale, con l’applicazione di tutte le misure punitive.16 Il limite dei dodici anni fu aggiunto personalmente da Stalin sulla bozza di proposta preparata da Andrej Vyšinskij, il procuratore generale dell’URSS che di lì a poco avrebbe rappresentato l’accusa nei grandi processi di Mosca. Pochi giorni dopo, il 20 aprile 1935, una nota segreta fu trasmessa agli organi competenti: vi si chiariva che tra le «misure punitive» andava annoverata anche «la pena capitale (fucilazione)». Non è noto il numero dei besprizornye che furono fucilati in applicazione di questa «nota esplicativa», ma testimonianze e documenti indicano che già negli anni precedenti si era fatto ricorso ai proiettili per «liquidare» quei ragazzi vestiti di stracci. Da ultimo, il decreto del 31 maggio 1935 sanciva la fine del fenomeno dell’infanzia abbandonata.
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Negli anni venti fino a metà degli anni trenta, la condizione dei besprizornye fu alleviata dagli operatori e dai volontari della Croce Rossa internazionale, tra le quali, anche quella italiana, dalle fondazioni inglesi, francesi e Usa. Furono poi cacciate tutte, perché il partito decise che il problema era risolto. Non esistevano più besprizornye nella gloriosa società sovietica!
In questo volume vi sono una miniera di indicazioni, di nomi, di volti, di luoghi, che svelano processi di lungo periodo, tristemente ancora attivi oggi: un paese, una cultura, un mondo che divora i propri figli.
Le mie sono solo risposte a un tuo continuo richiamo…