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Tutti i racconti di Beppe Fenoglio

Tutti i racconti di Beppe Fenoglio, Luca Bufano
(Curatore), Einaudi, 2018, Torino

I racconti di Beppe Fenoglio raccolti in questo tomo, suddivisi nelle aree temporali cui sono ambientati e precisamente dagli inizi del 900, passando per la grande guerra fino alla prima metà circa del regno fascista, per poi, infine distribuirsi negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale.

È una mole impressionante di scritti che mostra un luogo preferito di composizione. Non sono solo cicli a tema, o raccolte sporadiche di episodi. I racconti sono un diario vivente che non è un resoconto di ciò è accaduto in una giornata o in un anno, ma una fucina sempre accesa che cola la materia del passato e del presente, individuata dal singolo esperire dell’autore.

Gli attori, i linguaggi, gli accadimenti, sono presenti e vicini alla sua vita lì, nelle langhe, e si rifanno a personaggi veri e alcuni a lui contemporanei. I luoghi sono quelli della sua origine, del suo lavoro, e delle faccende quotidiane. I racconti del novecento che sembrano rivestiti dal mito e sfumati dalle innumerevoli variazioni sul tema, per il passaparola intergenerazionale, rimangono comunque negli ambiti della cronaca, e dell’avventura, perché gli aedi che narrano le gesta, sono in carne ed ossa ed ascoltati da Beppe Fenoglio, per le vie della città e dei paesi, delle osterie, del suo luogo di lavoro, del cortile fuori della sua casa. In più questi hanno conosciuto in gioventù i protagonisti effettivi degli eventi passati.

Non sono neanche concepiti in modo seriale e rapsodico, perché si hanno rimandi a protagonisti di racconti ulteriori e di eventi già trascritti. Beppe Fenoglio non pensa episodicamente con la creatività dell’attimo, perché in mente ha già in mondo. Forse questa complessità del suo estro immaginifico, è una causa preminente che lo porta a preferire istintivamente il racconto breve. Distilla, infatti, in un flusso ordinato il ritmo degli accadimenti. Non è un caso, allora, che i suoi romanzi, sembrano quasi espansioni dei racconti lunghi, che attingono appunto a questo lavoro quasi quotidiano di scrittura, dato che un’opera chiusa e compatta in un mondo esclusivo, avrebbe ristretto la visione panoramica dell’autore.

Nei romanzi, e ancor di più nei racconti, quindi, si rilevano collegamenti e presenze di modi di dire, esperimenti linguistici e attori che compaiono in modo orizzontale nelle composizioni. Da qui emerge una caratteristica di Beppe Fenoglio: la scelta dei nomi e la variazione di alcuni finali per questi attori cui le caratteristiche fisiche, l’idioma, il soprannome, portano già una chiave del loro destino.

Il mito narrato da Beppe Fenoglio, allora non è una trama collegata dai fili del presente e così intessuta: sembra quasi la matrice che produce la cronaca del presente, conferendo ad esso un significato, attraverso un collegamento logico con il passato.

Egli visse in modo distaccato. Lucido rispetto alle battaglie ideologiche e politiche dei contemporanei e quindi da tutti criticato. Prudente ma disinvolto a sfruttare i nuovi stimoli di retorica e di stile moderno che ricevettero idee e modelli dalle letterature estere, come quella inglese. Era presente e attento a ciò che fermentava nel dopoguerra fino alla sua morte, ma non volle mai porsi come un rappresentante esplicito di nuovi corsi, nonostante che iniziasse a usare termini inglesi, e gli stili diretti dei romanzi di largo consumo che si stavano espandendo anche oltre oceano. Anzi, negli anni ‘50, importò anche il gergo giornalistico, sportivo, e di cronaca popolare. Cercò di porre in relazione gli idiomi natii con la lingua italiana nelle versioni formali ed autoritarie fasciste, per quelle auliche delle tradizioni letteraria, a quelle dell’italiano che si stava formando con la televisione.

Beppe Fenoglio reperiva e ad inventava le storie vivendo ogni giorno con i suoi concittadini. La difficoltà risiedeva nell’impegno a sublimarle nell’opera poetica, mantenendo però, la verosimiglianza, la coerenza compositiva, la creatività stilistica.

In questi racconti il lettore riceverà un tesoro di spunti negli approcci alla composizione e alla rifinitura quotidiana, senza sconti, con una disciplina ed una rara onestà intellettuale nel sottoporsi a severe auto analisi. Quest’opera in divenire è continuamente modellata da mani che impastano la creta delle idee con un’estrema e delicata precisione e che scolpiscono il marmo delle forme letterarie con il sudore e il dolore, al fine di ricavare un contrappunto per una tensione di ricerca estetica senza fine.

Un tesoro di fatica a noi donato.

CONSIGLI DI LETTURA: POIROT, Tutti i racconti

““Poirot. Tutti i racconti (Hercule Poirot) di Agatha Christie (Autore), D. Fonticoli (Traduttore), G. M. Griffini (Traduttore), L. Lax (Traduttore), Ed. Italiano 2012, Mondadori, Milano

Quando una copia muta divenendo altro dal modello originale, e trasfigurandosi in un capolavoro che esprime inediti sensi estetici.

Hercule Poirot con il suo correlato capitano Hastings all’inizio dei primi racconti, si riferiscono entrambi a Sherlock Holmes e al dottor Watson. Vi è un evento traumatico dovuto ad un assassinio, ad un furto, ad una truffa che portano a misteri circa l’autore, il motivo, gli eventi sotterranei concomitanti e passati, nella stessa dinamica del fatto criminoso.

Agatha Christie ne fu consapevole, e iniziò a scrivere i primi racconti brevi e a puntate per le riviste settimanali e mensili, come lo stesso Arthur Conan Doyle intraprese decenni prima, avendo un pubblico crescente di lettori e un aumento ininterrotto degli introiti. Agatha Christie ne fu un’ottima allieva: una delle scrittrici più prolifiche con un occhio rivolto agli aspetti imprenditoriali, organizzativi, editoriali, in particolare per i ricavi.

Poirot nasce per opposizione alle caratteristiche morfologiche e caratteriali di Holmes, sebbene il risolvimento del caso si ha per una trama che esprime una dialettica elementare di fondo fissa. L’evento snoda i ritmi del racconto tra il luogo familiare di Sherlock fino all’analisi del luogo, nella valutazione dei soggetti implicati, per poi ritornare nella dimora propria che è anche quella mentale, dove ritessere i racconti, le bugie, e gli echi attorno all’evento accaduto, per risalirne alla causa.

Tutto questo vi è anche in Poirot all’inizio. Negli anni successivi di pubblicazione dei racconti, le situazioni si fanno più articolate. Vi sono anche i comprimari, donne e uomini, che agiscono per suo conto, e durante alcuni passi, lui rimane nello sfondo. Se entrambi sono razionali, analitici ed esprimono il senso sperimentale delle scienze tra la fine del secolo diciannovesimo per l’inizio del ventesimo, nelle pratiche investigative, Sherlock, però, era un drogato ciclotimico maniaco depressivo, mentre Poirot è un maniaco dell’ordine, estremamente controllato e attento alla sua salute e alla esteriorità ed eleganza.

Sherlock amplia le sue conoscenze enciclopediche in funzione del risolvimento dei casi, mentre nei periodi di stasi è quasi catatonico. Poirot, invece, seleziona le sue vaste conoscenze in funzione delle esigenze di investigazione, per la sua irresistibile curiosità. Entrambi sono vanitosi e ci tengono ad essere considerati i più abili investigatori del loro tempo, sebbene Sherlock in modo indiretto, a differenza di Poirot che lo esige.

Fin qui si potrebbe dire che Agatha Christie abbia fornito una eccellente copia, innovativa, con estro ed agilità nello stile di scrittura. E forse vale solo per i primi racconti, ma ella scrisse di Poirot all’inizio della prima guerra mondiale fino al 1939. Ella è di due generazioni più avanti rispetto ad Arthur Conan Doyle. I suoi personaggi diventano sempre più complessi. In Sherlock Holmes le donne acquisiscono una autonomia intellettiva però rivolta ancora al male, e allo straordinario, e man mano hanno sempre più possibilità di studiare, agire, riflettere nella trasformazione dell’epoca Vittoriana. In Agatha Christie le donne acquisiscono ruoli lavorativi ed istituzionali sempre più avanzati, segno del progresso generale del primo novecento e anche della sensibilità ed estrema intelligenza, nonché dello spirito di osservazione da vera ricercatrice sociale di Agatha Christie. Non si hanno solo i personaggi neri della donna d’amore malato e della arpia rapace, ma anche delle segretarie estremamente capaci, delle donne che collaborano con Poirot per incastrare i colpevoli, rischiando in prima persona, assieme alle forze dell’ordine. Compaiono vedove e donne sole che amministrano beni, e tengono su le famiglie contro i rispettivi mariti, figli, e amanti inetti.

Consapevole del suo pubblico, e della necessità di guadagnare, lentamente, Agatha Christie con ironia, rende quasi naturale che le donne avessero un ruolo letterario e sociale sempre più vicino per le capacità, i diritti, le possibilità a quelle degli uomini. Irresistibile nel sarcasmo circa le mode del secondo ventennio del ventesimo secolo, dai vestiti, alle musiche, alle abitudini, alle convinzioni rese ridicole della tradizione, non in modo polemico, con invettive dirette, ma nel rendere ridicoli i parrucconi con un perfetto humor inglese.

Agatha Christie registrava i nuovi modi di interagire rispetto alle abitudini delle classi sociali più elevate in Gran Bretagna, rendendole accessibili verso gli strati della borghesia che si allargavano sempre di più. Questo è uno dei fattori del suo successo. E il bello è che il fustigatore è quello snob belga quasi sempre fuori tempo di Poirot, che, con il suo sguardo tagliente, ma involontariamente ridicolo, aderiva indirettamente alla tradizione elitaria, e moralistica inglese.

Cambiano i collaboratori di Poirot, e anche i tempi della narrazione in cui il passato e il presente delle sue gesta si mischiano, e così anche i poliziotti con cui collabora: all’inizio tronfi, sciocchi, incapaci ed ottusi, fino ad acquisire una propria autonomia di azione e di supporto al nostro protagonista.

Come Sherlock che pian piano mostra le trasformazioni urbanistiche, lo sviluppo industriale e tecnologico dell’Inghilterra e in particolare della città di Londra, così è anche per Poirot, ma in quest’ultimo vi è un’attenzione agli arredi, alla vita materiale, anche di tutta la Gran Bretagna e di altri luoghi d’Europa. Poirot va nel continente più volte, e anzi anche in Egitto. Agatha Christie ci offre piccoli quadri delle dinamiche sociali dell’epoca. Il lettore ne sente i profumi, i colori, l’arredamento delle case vissute, gli odori dei cibi.

Conan Doyle fu dapprima un giornalista e poi uno scrittore eccellente. Fu la sua fortuna nel creare racconti con più registri linguistici accessibili ai lettori. Agatha Christie acquisì la stessa abilità, ma non può essere inscritta solo in questa poetica di scrittura. In base ai personaggi cambia lo stile: da quello diretto e gergale in stile realista, a quello finemente psicologico, fino a comporre descrizioni decadenti dal punto di vista estetico, per poi lanciarsi in velocità verso ritmi d’azione quasi poliziesca moderni. Riesce a condensare tali stili in un unico racconto, disponendolo in un ritmo che armonicamente pone in una successione lineare e continua gli eventi.

I racconti potrebbero essere apprezzati ancor di più, se in concomitanza fossero letti in lingua originale. Si avverte quasi subito, di come Ella assorbisse nuovi termini anche di uso quotidiano e gergale e li innestasse nelle forme canoniche di interpretazione, fornendo però in modo discreto una sua interpretazione che è un doppio inganno, perché le rende a prima vista naturali, benché siano una sua creazione compositiva. E qui è la sua grandezza: è una generatrice continua di dialettismi gergali che attraverso la sua opera quotidiana, diventano frasi comuni, per condensarsi in veri e propri schemi letterari di scrittura.

Agatha Christie è una vera Maestra di scrittura con la “M” maiuscola, che, nel contempo, permette la fruizione estetica della lettura, di un genere che attraverso il suo minuzioso lavoro quotidiano ha generato solchi narrativi e visivi ancora in opera oggi. Con dietro il suo personaggio Hercule Poirot che se la ride soddisfatto, bevendo una tisana calda, con i piedi davanti al calorifero a gas, così regolare nelle sue linee, a differenza del disordinato, rumoroso e puzzolente polveroso camino a legna.

§CONSIGLI DI LETTURA: STARPLEX

Starplex, di Robert J. Sawyer (Autore),
Mauro Gaffo, Traduttore, Urania, 1996,
Mondadori, Milano

“Starplex” è un crocevia di luoghi classici della fantascienza in ordine ai temi dei viaggi interstellari, alla natura delle leggi della relatività generale, e al destino degli esseri viventi e dell’intero universo, all’interno di un processo di acquisizione di conoscenze, attraverso gli stimoli e le domande che vengono calibrate dagli impieghi tecnologici.

È anche una riproposizione dei grandi afflati di democrazia, di apertura, di approccio con lo straniero e le culture “altre”, tipici degli anni sessanta, individuati da saghe come “Star Trek” e non è un caso il rimando indiretto del titolo del libro.

Le produzioni di fantascienza proiettano le storie e i conflitti individuali e sociali tra singoli e interi agglomerati statuali al di fuori del pianeta Terra, in luoghi in cui risiedono umanoidi o forme di vita radicalmente diverse che hanno però, comunque un nostro tratto tipico di comportamento e di valori, che induce a una relazione conflittuale e/o di collaborazione. Le vicende che avvengono tra le entità senzienti sono poi tradotte in avventure con un climax tale da indurre inconsciamente, e non, al lettore una valutazione morale ed etica delle questioni che riguardano direttamente il nostro vivere.

Se il modo di vedere l’esterno è quello di un confine di guerra, allora ogni forma d’intelligenza è un nemico, e quindi estendiamo la nozione di pericolo all’intero cosmo. La ricerca di cibo, di energia, di ambienti adeguati atti alla prosecuzione della nostra specie, si allarga a quella di ambienti interplanetari per arrivare a quelli ultra galattici.

Dalle tensioni derivate dalla volontà di acquisire il potere, di soddisfare i bisogni primari e quelli più evoluti, si esprime una dinamica di scontro e di dialogo tra le diverse razze e forme di vita al limite dei nostri parametri di loro riconoscimento.

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“Starplex” però offre un passo ulteriore di approfondimento che dalla iniziale antica domanda sul “chi siamo noi” umani su questa Terra e su questo Cosmo, e quindi nelle due divaricazioni tra l’origine e lo scopo, la si estende a porre tale questione a forme senzienti tremendamente più antiche e potenti, fino poi a porre in questione il destino dell’intero universo.

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Il tema è sviluppato nel corso della prosecuzione degli avvenimenti. E pone, quindi, dilemmi morali che riguardano noi terrestri, oggi, qui, sul pianeta Terra. Robert J. Sawyer è un canadese come gli altri suoi colleghi coevi sente il bisogno di indagare il tema del riconoscimento delle minoranze, delle culture altre, e di una convivenza aperta e reciprocamente fruttuosa. Ciò deriva dalle condizioni storiche, politiche e statuali della loro nazione di residenza. È opportuno precisare che l’autore non propone facili soluzioni che esortino a un vivere dove tutti si vogliano bene, in un mondo incantato costituito dalla collaborazione e convivenza stretta senza porsi in discussione ed affrontare il sistema dei valori e delle conoscenze in cui si è inseriti. Tale necessità non deriva da una adesione semplicemente volontaria e di abnegazione ma di una riflessione razionale per la quale, l’assenza di una volontà di condividere le risorse e le conoscenze, porterebbe comunque alla estinzione di ogni presunto contendente.

L’autore ha studiato in modo approfondito di astronomia, di meccanica aerospaziale di teoria della relatività. Il romanzo descrive scenari verosimili, pur all’interno di alcune ipotesi fantascientifiche. Tutto però è descritto in modo coerente, con azzardi ben congegnati e adeguatamente descritti. La lettura è anche un’occasione per comprendere le nostre nozioni riguardo la velocità della luce, la materia oscura, i modelli di descrizione dell’espansione o meno indefinita dell’universo, la struttura delle galassie, e infine l’uso della variabile temporale in un’ottica in cui il limite costante della velocità della luce sia posto in discussione.

È veramente immaginifico e nutre la creatività del lettore spingendolo ad immaginare scenari in cui si possa veramente trovare nelle situazioni dei protagonisti.

Il perno fantascientifico è relativo ai salti interstellari causati da una rete di scorciatoie artificiali che costella la Via Lattea e non solo. Ed è qui un punto focale che abbisogna di chiarire, perché gli stratagemmi del salto, del passaggio, del tubo magico, della singolarità che sono usati in innumerevoli racconti di fantascienza si basano tutti sull’idea di poter aggirare il limite della velocità della luce e quindi di uscire fuori dalla concavità del cono spazio temporale, e quindi considerare lo spazio come un punto e il tempo anche con una misura negativa, che comporta la possibilità, quindi viaggiare nel tempo.

Parliamoci chiaro: non è solo una questione di impossibilità tecnologica o di una mancanza di una teoria scientifica attualmente oscura. All’interno del paradigma relativistico in cui pensiamo, per viaggiare alla velocità della luce, o addirittura superarla, ci vorrebbe una quantità tale di energia che ammonterebbe a quella di tutto l’universo.

In un’ottica ipercritica si potrebbe considerare tale ipotesi abusata, pigra, di maniera, ma non se ne può fare una critica eccessivamente spinta all’autore, anche perché non sarebbe più un libro di fantascienza. A suo merito però si pone l’intenzione di discutere di tale natura di salto e di porre una spiegazione plausibile non tanto verso le relazioni dello spazio-tempo, quanto invece, sull’analisi della continua dilatazione dell’universo stesso in rapporto alla materia oscura. Ecco qui l’autore descrive ipotesi interessanti, pregevoli, coerenti rispetto alle ipotesi immaginifiche iniziali, ma coerenti rispetto al nostro bagaglio teorico effettivo.

Non descrivo in modo compiuto la trama e alcune vicende, perché il romanzo è denso di sorprese, e toglierei il piacere della lettura al pubblico. Posso soltanto suggerire alcune questioni di fondo che pone il libro, per chi volesse rifletterne in modo più approfondito:

  • Poiché l’universo ha più di 14 miliardi di anni, siamo così sicuri che la sua evoluzione è volta ad adempiere a uno scopo predefinito quali la creazione degli esseri viventi che hanno di base il carbonio e quindi giungere alla razza umana? Siamo davvero noi il picco della piramide evolutiva?
  • È proprio necessario reagire in modo automatico al sopruso, all’attacco violento, o a una azione di ostilità interstatuale? Non si può lasciar correre? Non accettare lo schema di azione e di reazione? Non è meglio invece rispondere in modo asimmetrico cercando invece la collaborazione, anche tenendo ferme le proprie possibilità di difesa? In altri termini, è proprio necessario che gli inevitabili conflitti che intercorrono tra forme aggregate debbano sfociare poi in azioni che abbiano sempre le etichette dell’odio e della rabbia

È un romanzo che fa respirare l’aria di montagna: fresca, tonda, e vivificante. Un’avventura verso noi stessi e le domande sul nostro destino.

Sia una meraviglia di lettura.

§CONSIGLI DI LETTURA: POSTDIRITTO. NUOVE FONTI. NUOVE CATEGORIE

Giuseppe Zaccaria, Postdiritto.
Nuove Fonti, nuove categorie,
Il Mulino, Milano, 2022

È un libro denso per opera di un eminente studioso del diritto, ancora in attività. Come intendiamo il diritto e la sua applicazione? Che relazioni vi sono oggi tra il diritto, i valori, le norme? Come valutiamo l’incidenza delle pratiche giuridiche in coerenza con gli schemi formali del diritto in rapporto alla Costituzione e allo Stato, ove questi subiscono una riduzione di applicazione in conformità verso enti privati transnazionali e istituzioni sovranazionali?

È percorso un dibattito a tema che cerca di ridefinire qui in Italia le nozioni di giusnaturalismo, giuspositivismo, tra originalismo ed ermeneutica.

Vi sono temi antichi che si ripropongono assieme a dilemmi, controversie e ai limiti delle interpretazioni, delle pratiche e delle giustificazioni di fondazione del diritto e delle giurisprudenze correlate.

Il dibattito storicamente ha attinto anche agli strumenti propri della filosofia del linguaggio, della logica, della retorica, e della storia giuridica relativa alla nozione della definizione dei principi e delle tecniche di giustificazione.

Se è concesso esprimere qualche perplessità, che non inficia l’inarrivabile autorità e preparazione dell’autore, rispetto al sottoscritto, per chi conosce i dibattiti della filosofia teoretica e delle questioni di sociologia, sembra che vi sia una ripetizione di ciò che già decenni fa, fu considerato già sorpassato.

D’altra parte per chi ne è a digiuno, tale approccio, invece è un ottimo viatico per offrire la possibilità di porsi nuove domande indefinitamente più articolate.

Per quanto riguarda lo stile, a tratti sembra vi siano toni di arringa innanzi a un tribunale, ma questa inclinazione verso una scrittura che richiama una dizione orale, rende più colorita e partecipe una narrazione altrimenti astratta per i neofiti.

A mio parere non bisognerebbe subito cadere nel giudizio che il diritto sia in crisi relativamente alla nozione di universalità, con la coerenza e la validità della sua applicazione. La questione è relativa a quell’articolo determinativo “il”. Il diritto è antecedente all’apparizione della forma statuale di nazione, ovvero attraverso una Carta di Identità di un testo Costituzionale.

È un libro ricchissimo che offre al lettore di rivedere parole che usa ogni giorno in un’ottica più ampia, rilevando come la collettività, la nostra Repubblica, e tutti i soggetti correlati a livello interno e internazionale, provengono da lontano, essendo in continua mutazione.

Mi si perdoni questo egocentrismo, ma sto prendendo alla lettera l’insieme delle indicazioni evocate dal testo, perché il diritto non è astratto, infatti si realizza nei casi e nel fatto concreto. A mio parere, dunque, EMERGE UNA SPINTA ETICA: ESSERE PRESENTI NEL PROPRIO TEMPO, nel comprendere la propria relazione rispetto agli altri e alle istituzioni, all’interno di valori indisponibili in una concezione universale degli ambiti di definizione e di giudizio.

Ovvero rendere grazie a coloro che ci hanno offerto un mondo ben più amichevole e materno rispetto al passato, per adempiere alla responsabilità di conservarlo, al fine di renderlo disponibile per le generazioni future.

Dal Codice Pandettistico si passa alla necessità di un ritorno a logiche plurali del diritto in cui la relazione diretta, fatto, caso, norma non sia l’unica matrice dove si inscrive la prescrizione, la regola, la coattività, la tutela, il titolo.

È un libro urticante. Ci fa riflettere. Prende una posizione, inducendo il lettore ad oscillare nell’essere a favore o contro rispetto agli argomenti trattati

È uno stimolo comunque per essere presenti nel nostro tempo, in modo di non subire l’effetto inconsapevole dei processi storici e sociali in atto.

Il diritto penale del nostro tempo è composto da un corpo di leggi, spesso promulgate in funzione pedagogica, più che sanzionatoria rispetto a determinati comportamenti sociali: con una conseguente tendenza ad un aumento dei reati e ad un inasprimento delle pene, non più caratterizzate da certezza e dal principio di proporzionalità. La proliferazione incontrollata, la cattiva qualità e l’ambiguità di una legislazione frutto di compromessi, minano dall’interno il principio di legalità ed accentuano notevolmente lo spazio di discrezionalità dei giudici, privando nei fatti il cittadino di quelle garanzie di libertà dagli abusi del potere punitivo dello Stato e di ragionevole prevedibilità delle conseguenze dei propri comportamenti – come precondizione di libertà nelle proprie scelte – che sulla carta dovrebbero essergli riconosciute.

Nel mondo globale il diritto perde il suo rapporto esclusivo con un determinato territorio e tramonta il monopolio degli Stati nel produrre diritto. Regimi giuridici di diversa origine convivono e si moltiplicano in una pluralità di istanze che interagiscono e spesso si pongono in reciproca competizione. Nuovi soggetti, ufficiali e non ufficiali, non solo statali né solo pubblici, producono una serie di prassi non più riconducibili a logiche unitarie.

Ampie zone del mondo giuridico vengono privatizzate, preferendo la scelta del foro più conveniente agli interessi che si intendono perseguire. Contestualmente, per risolvere controversie e conflitti, accanto ai giudici nazionali, si diffondono organismi giudiziari e para giudiziari che espandono i diritti individuali, introducendo garanzie e rispetto delle forme contro le violazioni dei diritti.

Al pluralismo sociale si affianca un pluralismo giuridico con fonti pubbliche e private, tra loro non più disposte in un rigido rapporto gerarchico. Al diritto «scritto» (basato esclusivamente sulla legge) si affianca il diritto di fonte giurisprudenziale. Si ingigantisce il ruolo degli interpreti, soprattutto degli interpreti giudici in qualità di protagonisti per risolvere le difficoltà o le carenze prodotte dalla cattiva qualità o dall’assenza degli interventi legislativi.

Il rimprovero alla pervasività dell’intervento giudiziale è frequentemente mosso da quella stessa politica che lo rende inevitabile con la propria mancanza di scelte nette. I pilastri del moderno Stato di diritto, il principio di legalità e di separazione dei poteri, trasformati in luoghi comuni e dogmi intangibili, denotano una maggiore difficoltà, rispetto al recente passato, nel tenere il passo circa l’imprevedibilità di casi concreti in cui ciascuno pretende una giustizia personalizzata.

L’attuale mutazione del diritto, non più imperniata sulla legge ma sui due poli della Costituzione da un lato e delle corti dall’altro, ridimensiona fortemente, in questa forma parzialmente destatalizzata del diritto, il modello continentale moderno con le sue istanze di potere statale e di preminenza del legislativo.

Si consuma la rottura del monopolio e del rigido controllo statuale sul diritto. Si tratta in ogni caso di processi di adattamento e di cambiamento che indubbiamente mettono in discussione antichi confini e storici assetti, ma che non possiedono ancora sufficienti elementi di univocità e di chiarezza.

L’uso smodato del ricorso alla sanzione penale (secondo recenti ricerche 7.000 norme penali in Italia, tra codici e leggi complementari) alimenta infatti disposizioni ben lontane dalla chiarezza e dalla precisione.

La conseguenza è quella di un tasso rilevante di ideologicità e di genericità in molte disposizioni di legge, tutte piegate al perseguimento di obiettivi contingenti di immediata utilità politica, e non di rado contenenti espressioni con funzione emotiva più che normativa. Tutto ciò inevitabilmente implica proprio la rinuncia alla funzione di orientamento dei comportamenti che sarebbe propria di una norma penale precisa e circoscritta.

 L’idea che tramite il diritto penale si possa rimediare ad ogni ingiustizia e ad ogni male sociale e che di conseguenza si debba ricorrere più intensivamente alla punizione ed alla repressione, origina un diritto penale non volutamente frammentario, ma duramente sanzionatorio.

Insomma, si fatica ancora nel mondo penalistico a riconoscere che l’ipertrofia legislativa, soprattutto quella dettata da emotività più che da razionalità, non è una deprecabile deviazione dalla retta via, ma una condizione strutturale della legislazione contemporanea.

Lo stesso processo rischia così di legittimare provvedimenti di natura amministrativa ed ispirati all’opportunità politica. Esorbitando nel suo potere, il giudice rischia di divenire così non colui che colma delle lacune, ma il giudice moralizzatore e giustiziere, il vero protagonista di una politica criminale soltanto declamata in modi strumentali dal legislatore ma in realtà propria e dotata di una forte funzione di prevenzione generale.

Il dilemma ritorna alla relazione tra i principi entro i quali il diritto si forma e i contesti della giustificazione nei quali le pratiche della giurisprudenza devono tener conto.

La dimensione giustificativa, relativa tanto alla giustificazione delle regole quanto a quella dei fatti, implica il fatto di parlare di casi concreti, di applicazione normativa nella prassi giuridica e di giustificare le ragioni addotte a sostegno della correttezza della soluzione individuata. Il giudice deve fornire le ragioni che hanno orientato il modo con cui la sua decisione compone gli interessi in gioco ed i valori in competizione.

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Il ragionamento giuridico presenta caratteristiche specifiche, che lo differenziano da altri tipi di ragionamento. Vale a contraddistinguerlo, anzitutto, la sua funzione pratico-normativa, il fatto che muovendo da premesse normative esso ricavi conclusioni normative. In secondo luogo, sarebbe auspicabile un suo uso all’interno di un contesto istituzionale da soggetti pubblici tenuti a giustificare le loro decisioni.

La teoria del ragionamento giuridico indaga le condizioni alle quali la conclusione di un ragionamento giuridico possa dirsi giustificata, e dunque razionalmente accettabile. Occorre ancor di più una funzione di controllo e di garanzia circa il rispetto di principi fondamentali dello Stato costituzionale di diritto, dal principio di legalità a quello di uguaglianza di fronte alla legge, per non dire di quello di separazione dei poteri.

Vi è nelle scelte del giudice un aspetto di discrezionalità ineliminabile, rispetto al quale la necessità di argomentare e di fornire ragioni rappresenta un antidoto ed un elemento di verifica. Molto meglio – anche ai fini di controllo dei modi di esercizio di tale discrezionalità – è che tali scelte non restino occultate all’interno delle pieghe del ragionamento e vengano anzi esplicitate, evidenziandone i presupposti e dando ragione delle regole di inferenza impiegate. Il controllo è momento essenziale del procedimento interpretativo e ad esso funzionalmente connesso.

In una tendenza storica che prevede un diritto crescentemente incerto, il giudice non deve essere lasciato solo. La decisione ed il relativo consenso rappresentano entrambi aspetti fondamentali della giustizia.

§CONSIGLI DI LETTURA: ANTONIN SCALIA

Antonin Scalia di Giuseppe Portonera, 2022,
Istituto Bruno Leoni Libri, Torino

L’operato del giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Antonin Scalia (1933-2016) fornisce un’occasione per comprendere lo spirito più profondo circa l’intima struttura su cui poggia la nazione degli Stati Uniti.

Logica e argomento versus fede e opinione. Scalia afferma che il soggetto, l’individuo, l’attore, colui che impersona un ruolo, un giudice, è sì fondamentale, ma non è il fondamento della validità del giudizio, e non è l’origine esclusiva di ciò che è vero, tradotto nella pratica di ciò che è bene e opportuno fare.

In vita fu un cattolico osservante e un conservatore, ma ciò non fu determinante nei suoi orientamenti, scritti e sentenze che contribuì a stilare e ad approvare in più di trenta anni di attività in qualità di giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti.

“[…] [Al] contrario di presidenti, ministri, senatori e deputati, i giudici federali non svolgono (o non dovrebbero svolgere) un’attività politica, dovendo invece discernere accuratamente e applicare onestamente le scelte politiche fissate, dai rappresentanti del popolo, nelle leggi, tranne quando queste ultime sono in conflitto con il testo della Costituzione, le tradizioni che fanno da sfondo a quest’ultimo o i precedenti vincolanti della Corte suprema. Proprio come non c’è un modo cattolico di cucinare un hamburger, così non c’è un modo cattolico di interpretare un testo, analizzare una tradizione storica, o stabilire il significato e la legittimità di precedenti decisioni giudiziarie – eccetto, naturalmente, fare queste cose onestamente e perfettamente[4] […]”

La fiducia in una giurisprudenza dell’intenzione originaria riflette una profonda adesione all’idea di democrazia. La Costituzione rappresenta il consenso che il popolo ha espresso nei confronti delle istituzioni e dei poteri del governo. La Costituzione è la volontà fondamentale del popolo: ecco perché è la legge fondamentale.

Scalia ha perfezionato e sviluppato all’interno delle prassi proprie della giurisprudenza, il senso «politico» dell’originalismo e del testualismo.

L’originalismo oltre a essere un metodo interpretativo è una teoria sulla genesi dell’obbligazione politica, fondata su due assiomi:

primo: in un sistema democratico imperniato sulla separazione dei poteri, l’autorità di legiferare spetta ai rappresentanti investiti della legittimazione popolare;

secondo: gli individui osservano le regole perché ne riconoscono la legittimità, e ne riconoscono la legittimità perché hanno avuto parte, diretta o indiretta, nella loro formazione.

I giudici devono quindi applicare lealmente le leggi, lasciando che sia l’elettorato a premere per una loro modifica là dove esse dovessero risultare inadeguate. Si tratta, in altre parole, di mantenere viva la ripartizione di poteri e responsabilità tra elettori, eletti e magistrati, senza accedere a un modello che potrebbe invece definirsi «collaborativo», ossia uno in cui, semplificando, l’istituzione giudiziaria sia parte attiva della promozione del cambiamento sociale.

Questa impostazione è stata considerata nell’ultimo trentennio del secolo scorso una pratica ad alto tasso di conservatorismo, considerando però che nei parametri moderni degli ultimi anni andrebbe distinto il conservatorismo politico-partitico dal conservatorismo proprio delle attitudini giudiziali.

In un discorso tenuto all’Università Gregoriana di Roma nel 1996, Scalia affermò che il ricorso alla tradizione del diritto naturale è incompatibile con un sistema democratico, giacché autorizzerebbe i giudici a imporre alla maggioranza della popolazione ciò che questa potrebbe non volere. Venti anni dopo, proprio qualche giorno prima di morire ribadì ancora il concetto: “[…] Non ci si può sottrarre al dettato della legge. Questo condurrà a un mondo perfetto? Certo che no: alcune leggi sono stupide, e alcune sono malvagie; ciò, però, condurrà a un mondo migliore di quello in cui i giudici sono liberi di applicare la loro idea di diritto naturale ed equità. Il primato del diritto sarà sempre secondo al primato dell’amore, ma dobbiamo lasciare quest’ultimo per il prossimo mondo […]”

È opportuno chiarire che l’originalismo/testualismo, come lo stesso Scalia ha sempre riconosciuto, non è in verità una sua invenzione. L’idea che il significato delle parole della legge sia fissato al momento dell’adozione della legge stessa, e che quest’ultima possa essere modificata solo per via legislativa, era dominante nel primo abbondante secolo di giurisprudenza statunitense.

A partire dalla New Deal Revolution, però, l’originalismo/testualismo perse importanza, per poi apparentemente tramontare del tutto durante gli anni sessanta per un’idea di una giurisprudenza propositiva verso una legislazione avente un orientamento teso ad una ridefinizione positiva dei diritti civili e sociali e nelle relazioni istituzionali tra gli Stati e gli organismi federali.

Scalia, invece, ridette vita nuova a ciò che fu obliato nelle pratiche giuridiche e negli studi dottrinali. Durante i suoi trent’anni alla Corte suprema, infatti, soltanto lui e Thomas (due giudici su nove) impiegavano coerentemente la metodologia testualista e originalista. Oggi, dopo poco più di cinque anni dalla sua morte, è l’orientamento prevalente nella Corte (cinque su nove).

In questo libro sono trattati gli sviluppi, le critiche e la messa a punto dell’impostazione testualista e originalista e si rimanda alla lettura del testo, che è redatto da copiosi contributi ben sintetizzati.

Quello però che potrebbe interessare un lettore italiano, che vive in una Repubblica orleanista e non basato sul Common Law (orale) del Commonwealth e di quello scritto che è proprio degli USA, è il rapporto che potrebbe avere l’approccio di Scalia nella comparazione con l’approccio che noi abbiamo con il diritto.

Luigi Mengoni ritiene che l’approccio di Scalia sia distante dalle posizioni del normativismo puro che riduce l’interpretazione ad una attività che coglie significati normativi già compiutamente precostituiti e immutabili, ritenuto non sostenibile, perché il giudice partecipa comunque al processo di formazione del diritto, attraverso un atto di decisione che individui, fra i vari possibili, il significato normativo applicabile al caso in questione. D’altro canto, il vincolo letterale delimita il senso del testo. In altri termini “[…] l’interpretazione resta subordinata alla legge, in quanto circoscritta dal vincolo di congruenza con le parole del testo e con la razionalità complessiva in cui la decisione deve integrarsi […]”

Dalla valutazione del giurista Mengoni si potrebbe ritenere che tutto ciò sia il vero intendere di Scalia che è quindi inscrivibile nella cultura giuridica italiana.

Un altro giurista Nicolò Zanon, invece, argomenta che Scalia abbia portato una procedura di trasparenza: “[…]  «mentre negli Stati Uniti il dibattito sulle teorie dell’interpretazione pare assai vivace, […] ed è quindi sintomo di un pluralismo assai ricco», nella dottrina italiana manca «altrettanta vivacità di pensiero» e pare, anzi, che in essa si diano un po’ per scontate tante cose. Un atteggiamento vagamente «neocostituzionalista», un’adesione tendenzialmente acritica a teorie interpretative per «valori», senza alcuna consapevolezza di quel che le teorie dei valori sono e implicano, l’esaltazione di ogni scelta giurisprudenziale, la quale deve, ovviamente, ampliare l’area dei diritti dell’individuo («più diritti per tutti»), la conseguente adesione, spesso acritica, a tutto ciò che la giurisprudenza decide, meglio se in contrapposizione a ciò che il legislatore voleva. Con scarsa consapevolezza delle implicazioni politico-costituzionali di quel che si sostiene. Ed è possibile che questa scarsa vivacità finisca per riflettersi anche sulla giurisprudenza costituzionale, che non viene stimolata o criticata su questi terreni, e perciò non vi si impegna[65] […]”

Vi è, quindi, nel dibattito attuale un dissidio tra una visione «maggioritarista» di Scalia che intende il giudice impotente, rispetto all’operato delle maggioranze che hanno il compito di definire soluzioni nuove a problemi non coperti dalla legge, a quella che ritiene la funzione giudiziaria necessariamente impegnata a interpretare e rendere concrete le aspirazioni di rinnovamento sociale, attraverso l’organo giudiziale.

I due poli suddetti se presi alla lettera avrebbero la conseguenza o di creare una struttura giudiziale che diventerebbe o un puro meccanismo di trasmissione di parole di ordine politico, o un ceto detentore del vero interpretare i processi sociali per coordinarli, con il rischio di generare una struttura a dir poco dittatoriale.

All’interno di questi dibattiti, più che mai attuali, in particolar modo relativi all’aborto, all’eutanasia, alla nozione di nucleo famigliare, ai nuovi spazi di azione tra l’individuo e l’ambiente e tra l’individuo e le strutture amministrative locali e nazionali, le impostazioni metodologiche e le indicazioni operative di Antonin Scalia si caratterizzano per un approccio prevalentemente pragmatico con la concezione del carattere «limitato» delle Costituzioni, così da riscoprire la maggiore flessibilità dello strumento della legge ordinaria.

La ricchezza degli argomenti definiti da Scalia, si esprime nel sollecitare nuovi modi nel porsi domande circa le relazioni tra la giustizia, la democrazia e la mutevole ridefinizione del bilanciamento tra i poteri.

§CONSIGLI DI LETTURA: I Beati paoli

Luigi Natoli I Beati Paoli Edizione integrale Newton Compton editori

Prima edizione ebook: ottobre 2016 © 1989, 2006, 2016 Newton Compton editori s.r.i. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-9909-5 Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma www.newtoncompton.com

È un romanzo avvincente dei primi anni del 1900. Ha un approccio simile a quello di Alexander Dumas per i romanzi come “Il Conte di Montecristo” e la “Sanfelice”. Attinge agli eventi storici realmente accaduti con alcuni personaggi veramente esistiti e in luoghi urbani e naturali ancora esistenti. Ha le caratteristiche di una saga, pubblicata a puntate nei periodici dell’epoca, nella quale diversi stili di scrittura convivono con una prosa scorrevole. Vi è una sintassi fluida con un’ottima caratterizzazione dei personaggi ed un’eccellente descrizione emotiva. I personaggi hanno un retro pensiero accompagnato da una doppia comunicazione verbale e fisica, quindi manifesta, e un’altra interrogante di sé e degli altri. I moti degli animi attraggono il lettore, come il vortice dell’angoscia nei tribunali segreti degli incappucciati. Non è un caso che Luigi Natoli fu veramente un massone.

È ambientato a Palermo tra il 1688 e il 1721.  

Nello scorrere degli eventi che consiglio di leggere per mantenere la tensione emotiva, i protagonisti si confrontano con i propri errori, anche nel subire o nel togliere l’ingiustizia agli altri. Il romanzo è un’esposizione monumentale del conflitto che scaturisce tra la pretesa e l’esercizio della giustizia.

“[…] I Beati Paoli apparivano ed erano di fatto come una forza di reazione, moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: erano uno Stato dentro lo Stato, formidabile perché occulto, terribile perché giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecutori di giustizia. Essi parevano appartenere al mito più che alla realtà. Erano dappertutto, udivano tutto, sapevano tutto, e nessuno sapeva dove fossero, dove s’adunassero. L’esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di lettere, che capitavano misteriosamente. L’uomo al quale giungevano, sapeva di avere sospesa sul capo una condanna di morte. Come eran sorti?… Donde? Mistero. Avevano avuto degli antenati: quei terribili “vendicosi”, che ai tempi di Arrigo vi e di Federico ii erano diffusi per il regno e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro compito quello di vendicare le violenze patite dai deboli.  […]”

La descrizione delle piazze, dei palazzi, degli interni ha una poetica barocca strabordante e meravigliosa.  Luigi Natoli è a un tempo un fotografo e un esteta. 

285 Non aveva alcuna meta prefissa: pure andava innanzi e oltrepassato il ponte dell’Ammiraglio, s’avviava verso i villaggi. Egli era così immerso nelle sue idee, che non s’accorgeva del cammino. Erano gli ultimi di marzo; un pomeriggio tiepido e roseo, come ce n’è soltanto in Sicilia, e tutte le campagne verdi e i mandorli bianchi; nell’aria un odore di cose ignote che infondeva nel sangue una mollezza, una specie di lassitudine piena di desideri, una malinconia dolce e sognatrice. Le anime che vivono nella solitudine sentono in queste giornate primaverili l’orrore del vuoto che le circonda, e sentono nel cuore una felicità a ricevere le impressioni e a schiudersi alla commozione e alla tenerezza.

I Beati  Paoli traducono l’etica in un ordine giuridico parallelo.

pp. 313-14  […] «Non li affronterete… » . «Perché? » «Ve lo impediranno » . «Mi assassineranno? » «Vi puniranno… » . «È la stessa cosa » . «No; il boia punisce e non assassina… Essi sono esecutori di giustizia » . […]

La giustizia dei Beati Paoli è redistributiva in un modo proporzionale. Tu fai il male e ricevi il pegno.

Pag. 514 “[…] « Ah no!», interruppe vivamente il capo dei Beati Paoli; «vacilla soltanto la fede nella caporali; non paghiamo giudici; non cerchiamo nei codici gli arzigogoli per contestare l’ingiustizia. Apriamo l’orecchio e il cuore alle voci dei deboli, di coloro che non hanno la forza di rompere quella fitta rete di prepotenza, entro la quale invano si dibattono, di coloro che hanno sete di giustizia e la chiedono invano e soffrono. Chi riconosce la nostra autorità? Nessuno. Chi riconosce in noi il diritto di esercitare giustizia? Nessuno. Ebbene, noi dobbiamo imporre questa autorità

e diritto e non abbiamo che una arma, il terrore, e un mezzo per servircene, il mistero, l’ombra. Non ci nascondiamo per viltà, ma per necessità. L’ombra moltiplica il nostro esercito e desta la fiducia di coloro che invocano la nostra protezione. Chi non oserebbe ricorrere a un magistrato legale per difendere se, la sua casa, l’onore delle sue donne, perché il ricorso lo esporrebbe alle ire, alle rappresaglie, alle vendette del barone o dell’abate, confida volentieri nell’ombra il suo dolore e la violenza patita; un uomo che egli non vede, non conosce, raccoglie il suo lamento. Noi vediamo se egli ha ragione. Un avvertimento misterioso giunge al sopraffattore nel suo palazzo stesso, al magistrato complice nel suo scanno; l’ascoltano? Non cerchiamo di meglio: lo disprezzano e compiono la prepotenza, e continuano l’offesa? Puniamo, e vendichiamo l’offesa. Nessuno vede il braccio punitore, nessuno può dunque sottrarvisi… Questa è la nostra giustizia. Essa non ha punito mai un innocente, ed ha asciugato molte lagrime». […]”.

Il testo del romanzo è corredato da un vocabolario alto e pieno di riferimenti di luoghi e mestieri. Traspare una sapiente e superlativa conoscenza della lingua italiana. In più i non detti dei protagonisti mostrano la profonda, antica e complessa cultura siciliana, nelle interiezioni, nelle frasi ammiccate, nelle analogie, nelle metafore. Ogni frase e ogni smorfia ha significati multipli. Dalle movenze e dai toni, alla apparente impassibilità, emerge un mondo di sentimenti e intenti.

Pgg.722-23 “[…] «Sangue, sangue!… Le mie mani grondano sangue!… Toglietemi questo sangue; portate via questi morti!… Pietà!… pietà!… Mi opprimono. Mi squarciano il cuore… Ah!… quanto sangue! affogo!… affogo!… affogo!…». La sua voce andò spegnendosi tra i singhiozzi che gli squassavano il petto e nulla era più straziante che vedere quell’uomo lordo di sangue, con le mani distese come per allontanare qualche cosa di terribile, gemendo fra i singhiozzi che gli laceravano il petto, con gli occhi aridi, esterrefatti. Don Francesco gli si avvicinò di nuovo per rifargli la fasciatura, ma don Raimondo stridette e riprese a gridare: «Non mi toccate!… non mi toccate! Tutto sanguina!… Il sangue è dovunque… Un fiume!… E ce ne vuole ancora. Hanno i pugnali e ammazzano… Ammazzano!… Ammazzano!… Dov’è Blasco?… C’è anche lui!… Ecco l’hanno ammazzato!… Sangue!… c’è sangue!… sempre sangue!… sempre sangue!…». […]”.