Archivi categoria: futuro

§CONSIGLI DI LETTURA: L’UOMO CHE METTEVA ORDINE AL MONDO

Ove: nostra nemesi e nostro specchio

Fredrik Backman L’uomo che metteva in ordine il mondo.

 Traduzione di Anna Airoldi, 2014, Mondadori.

È un romanzo che induce a piangere commossi e a ridere a crepapelle nello stesso istante: alterna gli stili comici e tragici riguardo al protagonista antipatico e ombroso, ma da tutti voluto per risolvere problemi, data la sua assurda e tenace coerenza.

Si piange e si ride, perché nel corso delle pagine, si avverte la sensazione che anche noi potremmo incontrare il protagonista davanti allo specchio

Pgg. 1-2 “[…] Ove ha 59 anni. Guida una Saab. La gente lo chiama “un vicino amaro come una medicina” e in effetti lui ce l’ha un po’ con tutti nel quartiere: con chi parcheggia l’auto fuori dagli spazi appositi, con chi sbaglia a fare la differenziata, con la tizia che gira con i tacchi alti e un ridicolo cagnolino al guinzaglio, con il gatto spelacchiato che continua a fare la pipì davanti a casa sua.

Ogni mattina alle 6.30 Ove si alza e, dopo aver controllato che i termosifoni non stiano sprecando calore, va a fare la sua ispezione poliziesca nel quartiere. Ogni giorno si assicura che le regole siano rispettate. Eppure qualcosa nella sua vita sembra sfuggire all’ordine, non trovare il posto giusto. […]”

Ove sente di avere tutti contro: i vicini, gli oggetti, la strada. Vuole il controllo perfetto anche del proprio suicidio, in un vortice dove tutto è disprezzato, perché disturba la propria memoria, i propri valori e illusioni.

Pag. 17 “[…] “Sarà bello prendersela un po’ comoda” gli hanno detto ieri al lavoro. Sono entrati nel suo ufficio un lunedì pomeriggio e hanno spiegato che non avevano voluto affrontare la questione di venerdì perché “non volevano rovinargli il fine settimana”. “Vedrà che bello potersela prendere con più calma” hanno detto. Ma che cosa ne sanno loro di cosa significhi svegliarsi un martedì mattina e non avere più una funzione? Loro, con il loro Internètt e i loro caffè espressi, che cosa ne sanno dell’assumersi le proprie responsabilità? Ove guarda il soffitto. Strizza le palpebre. È importante che il gancio sia bene al centro, decide. […]”

Per ammissione dello stesso autore, lo stile non è che sia eccelso, e purtroppo anche la traduzione a tratti, è a dir poco disordinata. Lo stile però è coinvolgente: passa in uno stesso periodo da un tono serioso così esagerato da indurre il lettore a ridere senza controllo, per attirarlo subito dopo in profonde malinconie.

Pag. 30 “[…] Era ancora lì quando è tornato dall’ispezione. Ove lo ha guardato. Il gatto ha guardato Ove. Ove lo ha minacciato con un dito e gli ha intimato di andarsene con tale impeto che la sua voce è rimbalzata tra le case come una palla da tennis impazzita. Il gatto è rimasto a fissare Ove per qualche altro istante. Poi si è alzato con fare estremamente pomposo, come se volesse sottolineare che non se ne andava perché gliel’aveva ordinato Ove, ma perché aveva di meglio da fare, ed è scomparso dietro l’angolo della rimessa.  […]”

Lui era un uomo in bianco e nero, mentre sua moglie era il colore. Tutto il suo colore.

Ove sosteneva che la gente vuole essere quello che dice, ma era invece convinto che ognuno è quello che fa, come deve essere e nel modo corretto.

Arriva a un punto della sua vita in cui non percepisce più la sua funzione e si sente abbandonato dalla moglie perché deceduta, dal suo ex amico con cui litigò e continuò a litigare per anni. La rabbia alla fine è contro se stessi. Si litiga per mantenere memoria di sé.

Pag. 220 “[…] Forse il dolore per i figli che non erano arrivati avrebbe dovuto riavvicinarli. Ma il dolore è infido: se non viene condiviso, è capace di separare profondamente le persone. Era possibile che Ove non riuscisse a riconciliarsi con Rune perché, dopotutto, Rune un figlio l’aveva avuto, anche se ormai non sapeva quasi dove fosse. E forse Rune non riusciva a far pace con Ove perché quell’invidia sotterranea lo metteva a disagio. Forse, nessuno dei due riusciva a perdonare se stesso per non aver saputo dare alla donna che amava ciò che desiderava davvero. Così, il figlio di Rune e Anita era diventato adulto, tagliando la corda alla prima occasione, e Rune era andato a comprarsi una di quelle BMW sportive, in cui c’è spazio solo per due persone e una borsetta. «Perché ormai siamo solo io e Anita» aveva detto a Sonja un giorno che si erano incontrati nel parcheggio. «Non si può mica guidare Volvo tutta la vita» aveva continuato con un sorriso sghembo, nascondendo le lacrime. Quando Sonja gliel’aveva raccontato, Ove aveva capito che una parte di Rune si era arresa per sempre. Forse era soprattutto per questo che Ove non lo aveva mai perdonato, e che Rune, in fondo, non aveva mai perdonato se stesso. Certa gente credeva che emozioni e automobili non avessero niente in comune. Ma si sbagliava di grosso. […]”

Ove vive in una routine, perché gli eventi traumatici non se ne vanno, e quindi vuole incorporarli e renderli sua realtà. Vi è però una eccedenza indomabile di dolore e di bellezza che trascende il proprio vivere personale. La realtà arriva in faccia senza avvertire con il biglietto da visita del tempo. Sempre limitato e in scadenza.

Pag. 293  “[…] La morte è una cosa curiosa. Viviamo tutta la vita come se non esistesse, ma il più delle volte è una delle ragioni in assoluto più importanti per vivere. Alcuni di noi ne diventano consapevoli così in fretta che vivono più intensamente, più ostinatamente, e in maniera più furiosa. Altri necessitano della sua costante presenza per sentirsi vivi. Altri ancora finiscono per accomodarsi nella sua sala d’attesa molto tempo prima che lei abbia annunciato il suo arrivo. La temiamo, eppure la gran parte di noi teme soprattutto l’eventualità che colpisca qualcun altro, qualcuno a cui vogliamo bene. Perché la più grande paura legata alla morte è che ci passi accanto. Che si prenda chi amiamo. E che ci lasci soli.[…]”

Tutto ciò vale anche per i suoi rumorosi, sgangherati e invasivi vicini che lo coinvolgono negli episodi più assurdi, boicottando indirettamente i suoi goffi tentativi di suicidio.

Una menzione particolare va ai due alter ego di Ove: il gatto Ernesto e il gatto spelacchiato. Le gesta di questi due felini valgono l’immediata lettura del romanzo.

Si piange e si ride per ognuno dei protagonisti.

§CONSIGLI DI LETTURA: Trilogia dello Sprawl

Gibson, William. Trilogia dello Sprawl: Neuromante – Giù nel cyberspazio – Monna Lisa cyberpunk (Italian Edition) . MONDADORI. Edizione del Kindle.

Tonnellate di pagine sono state scritte su questa trilogia magnifica che ha avviato un genere, più rigoglioso che mai, fino ad oggi. Si può offrire uno spunto in più, partendo dalle tecnologie di oggi. Lo stile riprende Burroughs, nel tono e nella sintassi violenta, e si frammenta in un gergo digitale. La droga è elemento chimico, strumento, tecnologia, non più pozione. Sotto vi è il mito dell’immortalità per opera di un’alchimia tra scienza, tecnologia, fede.

Il primo volume connota uno stile che continua negli altri due in una inclinazione analogica nell’evocare strumenti, meccanismi, ditte, marche, oggetti del passato: tutti fusi e impastati in un grande GOLEM: l’osare. Andare oltre i limiti e quindi pagarne lo scotto. Da Philip Dick al mito di Icaro, ad Adamo ed Eva.

William Gibson è uno scrittore unico: scrive coniando termini come ciberneutica e cyperpunk, senza conoscerne effettivamente le tecnologie sottostanti. I romanzi sono stati scritti negli anni ottanta, ma risentono di modi di vedere dei due decenni precedenti: l’impostazione è meccanica. Si riprende dell’innesto corpo macchina che è orrorifica nella locuzione del <<cyborg>>. Oggi le tecnologie sono più soft, l’impostazione è sì di rete, ma più articolata e dematerializzata. Dal tendine al muscolo, si arriva alla molecola, al Dna.

Il punto di vista è statunitense, più precisamente asiatico-californiano.

I luoghi sono claustrofobici: tombe per dormire, scale e piani a chiocciola. È una distesa cibernetica di reti, nelle quali i nodi, gli uomini e le donne, possono essere costruiti, decostruiti, riprogrammati, distrutte. Sia nelle città sia nello spazio, negli asteroidi e dentro il cyberspazio.

Nei tre libri emergono grandi quantità di oggetti di tutti i tipi: una chincagliera sterminata nel tempo, tra elicotteri, accendini, mobili, ringhiere, banconi, vestiti. Un enorme supermercato semovente pacchiano, altamente tecnologico, assieme alla sporcizia, al vecchiume, all’immondizia. Ognuno è potenzialmente un residuo che è sempre in vendita: parti del corpo, e pure le loro molecole e neuroni. Una continua presenza di polvere e pulizia patinata. Un’osmosi putrida, come i filtri di un rene.

Tutto deve essere pieno in un continuo vortice che trasmette, ingoia, pulsa oggetti. È emblematico nel secondo romanzo, il robot con le tante braccia che assembla scatole, relazioni, dati, oggetti, simboli. Significati. Il cyberspazio che parla con se stesso e ingoia continuamente se stesso.

È una trilogia che permette una nuova visione del nostro inconscio.

Sia consentita però una nota traduzione in italiano del terzo volume. Vi sono errori sistematici nell’uso dei condizionali con in congiuntivi. E talvolta l’uso di verbi fattuali ripetuti che denotano una semplificazione eccessiva del testo in lingua originale. E non mi si dica che è una traduzione letterale dell’autore. Non esiste sia nel testo inglese e anche per il fatto che nella lingua italiana si ha una maggiore libertà nel comporre le forme verbali, rispetto a quelle inglesi, e in particolare di Gibson che non usa un linguaggio sofisticato.

Nei libri che compongono una saga, o che più semplicemente si riferiscono l’un con l’altro vi è il rischio di dover elaborare finali non troppo originali, per mantenere la coerenza giustapposta in romanzi che magari all’inizio erano progettati per essere unici. Vi sono comportamenti prevedibili per alcuni personaggi alla fine. Come se l’autore volesse tirare le fila e chiudere i discorsi aperti e di poco incoerenti degli altri libri, ma il livello è altissimo nella tensione emotiva per la scansione degli eventi.

§CONSIGLI DI LETTURA: la cacciatrice di storie perdute

La storia del passato e le storie del presente nell’incontro tra madri e figlie

Titolo originale: The Storyteller’s Secret Copyright © 2018 by Sejal Badani All rights reserved. Traduzione dall’inglese di Valentina Legnani e Valentina Lombardi. Prima edizione ebook: giugno 2019 © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma ISBN 978-88-227-3431-0

“[…] era solito raccontarmi mio padre da bambina, ogni volta che chiedevo perché non avessi fratelli o sorelle. «Non sarebbe stato carino nei confronti delle altre famiglie se avessimo chiesto di più dalla vita». Eppure, di rado mi è capitato di sentirmi una benedizione per mia madre. Al massimo riuscivo a essere una delusione per lei: lo vidi dal modo in cui le sue labbra si strinsero quando persi alla finale della gara di spelling in quinta elementare; dal modo in cui il suo viso sembrò irrigidirsi quando non riuscii a entrare nella squadra delle cheerleader; o dallo sguardo distante che ora vedo nei suoi occhi, mentre contempla la mia incapacità di dare alla luce un bambino. […]”

“[…] «La promessa è stato il prezzo che ho dovuto pagare per essere nata. È tutto ciò che hai bisogno di sapere». Con voce stanca, mi augura la buonanotte. […]”

Le storie di Jaya nata negli USA, da una coppia indiana e delle vicende della Nonna Amisha, raccontata da Ravi, vanno in parallelo, quando lei si recò in India, scappando letteralmente da tutto, dopo il terzo aborto spontaneo. E lì nella casa, i due tempi si incrociano: il suo di Jaya che, attraverso i racconti di Ravi, va alle fonti del passato, e l’altra di Amisha, che cerca di imparare l’inglese perché voleva scrivere. I due tempi vanno simultaneamente da quella casa: una in avanti nel tempo e una indietro, ridefinendo un nuovo presente.

“[…] Amisha alzò il capo e i loro sguardi si incrociarono. Negli occhi di lui, vide confusione e distacco. Senza dire una parola alla moglie, Deepak si riaddormentò alla tenue luce della luna. Amisha, invece, continuò a scrivere, trovando conforto nell’unico posto che conosceva, ossia le parole che sgorgavano dal suo cuore. […]”.

“[…] «Io sono un intoccabile». Ravi batté il terreno con un piede nudo e distolse lo sguardo per la vergogna. «È importante che voi lo sappiate». «E io sono una donna». Abituata a vivere una realtà perennemente in ombra, rivolse lo sguardo al sole. «Ora abbiamo stabilito i nostri ruoli». «Voi siete la figlia del proprietario del mulino», ribatté Ravi. «I miei genitori e i miei fratelli sono vagabondi come me. Mendicare è il nostro destino». […]”

Il sentiero di questo tempo è l’India tra le divinità, l’indipendenza, le riforme sociali ed economiche, in un cammino dove le donne e le caste cercano di scrollarsi i vestiti e le catene. Nel libro vi è una sovrabbondanza di monologhi interiori che hanno lo scopo di parlare degli assenti, quali i genitori di Jaya negli Stati Uniti, suo marito Patrick dal quale si è separata, ma ancora non divorziata e i fantasmi del passato raccontati da Ravi, che spiegano gli eventi del presente. Attraverso i racconti e il vivere di quei giorni Jaya si immerge nel cibo, nei ritmi, negli odori, nelle divinità presenti, concrete, dove l’immagine è soggetto a sé e non rimando del divino. Proprio perché il libro viaggia nel tempo, le azioni sono quasi raccontate in uno stile giornalistico. Ed infatti Jaya è una giornalista, scrive come la nonna Amisha, e comprende spinte sue interiori, conoscendo la storia dei suoi parenti lì in India.

Una storia mai raccontata dai suoi genitori.

“[…] Forse, la sua passione per la scrittura non era una sofferenza da tollerare, bensì un dono da amare e proteggere. Le sue storie erano l’unico passaporto che l’avrebbe condotta in luoghi in cui non era mai stata. Senza di loro, sarebbe rimasta intrappolata per sempre in quel villaggio. […]”

“[…] Amisha raddrizzò la schiena e tentò di raccogliere la sua forza limitata, eppure si sentiva piccola rispetto all’imponente donna inglese. «Insegnerò qui perché questo è ciò che mi è stato chiesto». Pensò alle sue storie e all’importanza che avevano per lei. «Per quanto riguarda ciò che insegnerò, non lo so ancora bene», ammise. Nell’affrontare quella donna, si sentì ancora più giovane dei suoi anni. «Chiederò agli studenti di mettere per iscritto quello che si annida nei loro giovani cuori. E se le storie li condurranno in terre lontane, li incoraggerò a intraprendere questo viaggio». Amisha concesse un sorriso a quella donna irremovibile. «Insegnerò loro, quando viaggeranno con le storie, a rispettare le persone che incontreranno e i loro valori. Non sta a noi giudicare gli usi e i costumi degli altri, ma possiamo sfruttare l’occasione per imparare». Ignorò il fatto che la donna la guardasse con gli occhi sbarrati, e concluse dicendo: «Perché quando tendi la mano in segno di rispetto, sarai a tua volta accolto con benevolenza». […]”

“[…] Gli studenti si sporsero in avanti, ansiosi di conoscere quel mistero. «“Prima che nasceste voi, non ero mai stata una mamma”, dissi loro. “Sto imparando a essere la vostra mamma come voi state imparando a essere i miei figli”». «Avete detto loro queste cose?», chiese un’altra studentessa. Emozionata dal modo in cui i bambini stavano interagendo con lei, Amisha annuì. «Sì, l’ho fatto. Erano sorpresi. Probabilmente, credevano che io fossi nata mamma». Sorrise alle loro risate. «Così abbiamo stretto un patto. Loro mi avrebbero aiutato a essere una mamma migliore e io li avrei aiutati a essere dei buoni figli». Amisha si alzò e cominciò a camminare tra le file di banchi. «Propongo a ciascuno di voi lo stesso patto. Non sono mai stata un’insegnante prima d’ora. Se voi mi aiuterete a diventare una brava insegnante, io farò del mio meglio per aiutarvi a diventare degli scrittori migliori». […]”.

“[…]  «Da dove vengono le storie?» «Dalle nostre menti», rispose uno studente. «Dalle varie storie che ascoltiamo», disse un altro. «Dai nostri sogni», esclamò una ragazza. […]”

“[…] Entusiasta per l’interesse dimostrato dagli allievi, Amisha disse: «Voglio che ciascuno di voi scriva della creazione di qualcosa che desiderate, della distruzione di qualcosa di cui non avete bisogno, e della protezione di ciò che è vitale. E dovete spiegare le sensazioni che il vostro cuore, la vostra anima e la vostra mente provano riguardo a ognuno di questi eventi». Amisha stava riordinando la classe quando entrò Stephen, lanciando uno sguardo alla lavagna. «La Terra?» […]”

Jaya comprende che gli Stati Uniti, lei stessa, l’India e sua nonna erano e sono in cammino verso nuove porte del sapere.

“[…] «Non sei d’accordo sulla perfezione della mia pronipote?», chiede Ravi. Urla a Misha di salutare i suoi amici. «Nella mitologia indiana, quando la luna copre il sole, le tenebre hanno il potere di coprire la tua vita». Lentamente, si fa strada attraverso la sala, in direzione dell’uscita. «Ma non è sempre necessario che il sole splenda per avere la luce. Nel buio, dobbiamo cercare le stelle. Anche la loro luminosità ha un potere». «Perché mi hai portata qui, Ravi?», domando. Mi rivolge un sorriso triste. «Mi hai detto che sei venuta in India per fuggire dal tuo dolore. Ho pensato a cosa ti avrebbe detto tua nonna se fosse stata qui». Abbassa la testa. «Non potrei mai pensare di parlare per lei, ma…». […]”

E colei che era venuta per cacciare e raccontare le storie, comprende di esserne parte integrante. Sebbene il finale del libro, ricalca uno stile quasi prevedibile nelle relazioni tra il marito e i genitori e con Ravi, tale senso di ordine, permette invece di immergersi totalmente nella consapevolezza della propria rinascita, dove non si caccia alcunché e la preda è inesistente, perché si è se stessi, testimoni del proprio vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: la danzatrice bambina

La danza del cuore che genera pelle e futuro

Flacco, Anthony. La danzatrice bambina (Bestseller Vol. 36) (Italian Edition) . EDIZIONI PIEMME, © 2006 – Edizioni Piemme Spa Titolo originale: Tiny Dancer © 2005 by Anthony Flacco with Dr. Peter and Rebecca Grossman – Traduzione di: Paola Conversano

La storia vera di una bambina tremendamente ustionata per un incidente domestico che è aggrappata alla vita, nonostante la devastazione del suo corpo, in un dolore infinito: come l’intera popolazione dell’Afghanistan. Il libro racconta lo spasmo di questa bambina aggrappata al dolore più forte della pelle arsa che tenta di cicatrizzarsi. Eppure vive come l’Afghanistan nel sangue e nel cuore. Il lettore leggendo, lo sente nello stomaco e nelle braccia.

“[…] Nell’amore per la musica e per la danza aveva trovato un rimedio per scacciare la noia e per proteggersi dalla tristezza.  Ma la sua vita di danze spensierate stava per finire. Secondo le leggi delle forze talebane, a partire dal suo decimo compleanno non avrebbe mai più potuto correre e giocare all’aperto con le altre bambine e men che mai avere un amico maschio. Lo sapeva e percepiva l’incedere del tempo. […]”.

“[…] La preoccupazione che Hasan mostrava per la sua piccola era in genere riservata ai figli maschi. Era prassi comune che i genitori abbandonassero una figlia morente nel deserto o, se il patriarca aveva un animo più generoso, mettessero fine alla sua vita in modo più rapido e indolore, sparandole un colpo alla testa per poi sotterrare il corpo in segno di rispetto. Dopo tutto, una figlia femmina non poteva far molto per proteggere i genitori anziani dall’indigenza, visto che al momento del matrimonio veniva portata via e rinchiusa dietro altre mura. […]”

“[…] La prima delle sorprendenti trasformazioni di Zubaida fu quasi immediata: appena l’incisione praticata lungo la linea della mascella venne completata, la testa automaticamente si piegò all’indietro, recuperando la normale posizione supina: subito buona parte della smorfia che le distorceva il viso scomparve. […]”

Dal fuoco di guerra che imprigiona la pelle, alla scissione del legame per donare il fuoco del sangue che libera.

“[…] Durante l’ora e mezza che seguì, vide riaffiorare dalla maschera mostruosa le sembianze di una bambina. Iniziò eseguendo due delle più complesse e impegnative operazioni: una per liberare la testa e il collo nel punto in cui si erano fusi con il petto e la seconda per liberare il braccio sinistro dal tessuto cicatriziale che lo inglobava al tronco. […]”.

Si è dentro il corpo di questa ragazza nel respiro traviato, nel dolore che consuma e urla nella pelle, nell’urlo che sgretola la gola, e impietrisce la bocca. Si sente la limitazione delle giunture, il blocco degli arti, la progressiva liberazione. La continua concertazione per la speranza della crescita del proprio corpo. L’angoscia e il dispiacere e la sensazione del carcere, dove il fuoco ha divorato parti di sé, e quindi ha rubato la possibilità di muoversi, di toccare, di sentire e proiettare il proprio spazio di azione. La lettura di ogni pagina è un impegno al quale non ci si può sottrarre, per non rimanere nello stato di prostrante agonia. Ogni pagina è una scalata faticosa e pesante, che permette comunque, ad ogni avanzamento, la liberazione di una zavorra.

“[…] Era fondamentale preparare la classe in modo adeguato. L’insegnante sapeva che i bambini di quell’età sono capaci tanto di crudeltà involontarie quanto di dolcezza e dedizione. Quest’ultimo sentimento solitamente si sviluppa quando qualcosa permette loro di entrare in empatia invece di giudicare. Ritornata in classe, la maestra cominciò subito a prepararli, informandoli che sarebbe arrivata entro pochi giorni una nuova compagna che si era iscritta in ritardo. Si trattava di una bambina proveniente da un paese chiamato Afghanistan, e che non era mai andata a scuola perché nel suo paese le bambine non potevano farlo. Cercò con gli occhi tutte le bambine e attese che l’informazione venisse assimilata. «Pensate se tutte le bambine della classe dovessero andare a casa subito, per non tornare mai più. Se non potessero più imparare nulla del mondo in cui vivono.» Poi passò all’argomento più delicato. «Questa ragazzina ha avuto un incidente terribile l’anno scorso. È stata vittima di un tremendo incendio che le ha causato ustioni gravissime. È riuscita a sopravvivere, ma le ustioni erano così profonde che è dovuta venire in America a farsi operare per un anno intero in modo da tornare a essere quella di prima.» La maestra chiese quanti di loro erano mai stati in ospedale e contò le poche mani alzate. «Questa ragazzina è stata negli ospedali di tutto il mondo, ma non è riuscita a ottenere l’aiuto di cui aveva bisogno finché non è arrivata qui. Ha dovuto subire tantissimi interventi già nei mesi scorsi, uno dopo l’altro. E dovrà essere operata di nuovo. Quindi, quando arriverà, vedrete una ragazzina ancora piena di cicatrici, anche se adesso sta meglio: sarà assente ogni tanto per andare in ospedale e sottoporsi ad altri interventi.» Chiese ai suoi allievi di immaginare di essere lontani, molto lontani da tutti quelli che conoscevano, senza famiglia o amici. Vide un paio di volti impallidire al pensiero. «Quello che dobbiamo fare non è solo aiutarla a imparare. Dobbiamo essere la sua famiglia, i suoi amici, perché questo sarebbe ciò che vorremmo che altri facessero per noi.» Il concetto fece breccia: ne vide l’impatto su tutti quei piccoli volti. […]”

I bambini la aiutano: curano le sue cicatrici interiori e la accolgono.

 “[…] Nonostante l’estremismo fondamentalista fosse stato imposto nel nome dell’Islam, nella pratica era antitetico ai suoi insegnamenti. Fin dal quattordicesimo secolo, l’Islam aveva dichiarato l’uguaglianza delle donne su tutti i fronti, all’interno della famiglia e nella società. Il Corano dice espressamente che le donne possono andare a comprare e a vendere al mercato proprio come gli uomini, e che devono godere della protezione della società nel suo insieme di fronte alla diffusione di pregiudizi nei loro confronti.

Gli uomini trarranno beneficio da ciò che guadagneranno, e le donne trarranno beneficio da ciò che guadagneranno. (Corano, 4,32) […]”

“[…]  Di lì a poco le capitò di sentire Peter e Rebecca che parlavano di quanto la nuova medicina la stesse aiutando. Riuscì a capire che entrambi ritenevano che fosse più contenta e tranquilla e pensavano fosse dovuto ai dottori, alla medicina e a tutto il parlare del terapeuta. Zubaida la pensava diversamente. Stava meglio perché la musica era ritornata, continuava a risuonare dentro di lei e le ricordava che lei era lei. Stava meglio perché finalmente le ferite erano abbastanza guarite da permetterle di muoversi, senza esagerare, al ritmo della musica. Già soltanto per questo era valsa la pena di vivere tutti quegli eventi incredibili del suo penoso viaggio. Nonostante tutte le incertezze, sapeva che finché avesse avuto la sua musica, avrebbe potuto essere la Zubaida che conosceva. Sia che le circostanze fossero familiari o assolutamente estranee, avrebbe saputo essere forte quando era necessario. Avrebbe potuto sostenere ogni genere di prova rimanendo tranquilla, perché la musica e la danza erano un’arma potente contro la disperazione. Forse, in futuro, quest’arma l’avrebbe protetta dalla tremenda depressione che così spesso attanagliava sua madre, che non sapeva danzare. Zubaida sapeva che senza musica non avrebbe potuto essere di aiuto agli altri perché sarebbe stata così di cattivo umore che nessuno l’avrebbe voluta attorno. […]”.

La danza e la musica sono la cura dove Zubaida ritorna in se stessa. Peter finisce di essere un chirurgo e diventa un padre: cambia pelle anche lui. Non vede più una paziente, ma una bambina, una eventuale figlia, e così per Rebecca, la donna che non può avere i figli, prova a essere una madre.

Negli ultimi capitoli l’autore racconta dal passato eventi che verranno dopo, dando la sensazione di giustificare in toto l’operato degli americani. E i dialoghi si riducono.  Nonostante tutto alla fine, la speranza rifiorisce nel sorriso pieno della bimba che danza.

§CONSIGLI DI LETTURA: la bambina che scriveva sulla sabbia

Le bambine: la sorgente creativa della comunità nel disporre l’orizzonte del futuro

La bambina che scriveva sulla sabbia di Greg Mortenson – © 2009 RCS Libri S.p.A., Milano Prefazione © Khaled Hosseini, 2009Titolo originale dell’opera: STONES INTO SCHOOLS

Semplicemente: è un libro in cui vale la pena tuffarsi, per percorrere la speranza dentro l’inferno più cupo.

“[…] Un giorno del 1993, in un villaggio tra Pakistan e Afghanistan, Greg Mortenson ha visto una ragazzina che, seduta in terra, imparava a scrivere usando un rametto come penna e la sabbia come quaderno. Promise, a se stesso e alla piccola studentessa, che le avrebbe costruito una scuola vera, con banchi, lavagne, matite. Oggi, dopo che di scuole ne ha costruite oltre cento e ha raccontato la sua storia nel best seller mondiale Tre Tazze di Tè, Mortenson torna a scrivere di quei due Paesi e dei loro bambini, della violenza che sembra condannarli e della speranza che può regalare loro un futuro diverso. Una testimonianza entusiasmante e commovente, la sfida di un eroe disarmato, convinto che l’ingiustizia e la povertà si possono combattere senza bombe, sui banchi di scuola. […]”

 –

“[…] La filosofia di Greg Mortenson è semplice. Si basa sulla sincera convinzione che la vittoria nel conflitto in Afghanistan non arriverà grazie ai fucili o agli attacchi aerei, ma grazie a libri, quaderni e matite: gli strumenti del benessere socio-economico. Privare i bambini afghani dell’istruzione, afferma Mortenson, equivale a compromettere per sempre il futuro del Paese e a spegnere sul nascere la minima prospettiva di maggiore prosperità e benessere. […]”

“[…] Mortenson ripete sempre questo mantra: «Istruire un ragazzo significa istruire un individuo; istruire una ragazza, invece, significa istruire una comunità». […]”.

Lo stile del libro è asciutto, simile a una cronaca giornalistica, anche perché narra di fatti veramente accaduti, esposti in modo chiaro e rilevanti immediatamente per la prosecuzione degli eventi scritti al presente.

L’obiettivo primario delle ragazze diplomate è quello di diventare infermiere e ostetriche, per salvare le donne dal parto e garantire un anno di vita almeno ai nati. L’autore si accorse immediatamente che una maggiore alfabetizzazione per le donne, corrisponde all’aumento di reddito, a sposarsi di poco più tardi, ad avere meno aborti e meno morti per parto, e meno figli, nel senso di avere un numero accettabile che garantisca la comunità e non un aumento esponenziale della popolazione e quindi della povertà.

“[…] All’epoca, trovai questo imprevisto e i conseguenti rinvii esasperanti. Soltanto anni dopo cominciai a comprendere l’immenso valore simbolico del fatto che prima di costruire la scuola fosse assolutamente necessario realizzare un ponte. La scuola, naturalmente, avrebbe ospitato tutte le speranze risvegliate dalla promessa di istruzione, ma il ponte incarnava qualcosa di più elementare: le relazioni che nel corso del tempo avrebbero sostenuto quelle stesse speranze e senza le quali qualsiasi promessa sarebbe equivalsa a una manciata di parole vuote. Terminammo la scuola di Korphe nel dicembre del 1996. Da allora, ogni altro edificio scolastico che abbiamo realizzato è stato preceduto da un ponte. Non necessariamente da una struttura fisica, ma da un arco di legami affettivi accumulati in molti anni e rinsaldati con molte tazze di tè bevute insieme. […]”.

Occorreva la costruzione dei ponti e la volontà di intessere rapporti con gli abitanti, rispettando le culture, entrare in punta di piedi, bere il tè, per costruire le case in zone impossibile le più sperdute. E sono gli uomini: i contrabbandieri, i mercenari, i truffatori che capiscono l’importanza di tutto ciò per i figli e per le figlie; addirittura dagli anziani che rigettano le idee dei talebani. Le donne devono studiare per sopravvivere, e non crepare di parto

“[…] Ma ciò che contava ancora di più, credo, era il fatto che in ogni comunità parlavamo e ci confrontavamo con gli anziani e i genitori per capire di che cosa secondo loro avessero bisogno. In un certo qual modo, anche se eravamo arrivati in quella valle così provata per costruire scuole e promuovere l’istruzione, invitavamo le persone del posto a diventare i nostri insegnanti. Così, Sarfraz e io finimmo con l’apprendere nuovamente la lezione che mi era stata impartita, tanti anni fa, da Haji Ali, il nurmadhar dalla barba d’argento del villaggio di Korphe. Quando trascorri il tempo ad ascoltare effettivamente, con umiltà, ciò che la gente ha da dire, è sorprendente quanto c’è da imparare. Specialmente se capita che le persone che stanno parlando sono bambini.

[…]”

“[…] La descrizione che Farzana fece di quanto era accaduto quella mattina fu molto vivida ed eccezionalmente ricca di dettagli; non solo la lucida precisione delle sue parole, ma anche il modo in cui i suoi pensieri e le sue emozioni sembravano attraversarle il volto mentre parlava mi portarono a chiedermi se quella ragazza avrebbe potuto spiegarmi perché ora i ragazzi sopravvissuti faticavano a frequentare regolarmente le lezioni. Le posi la domanda. «Perché nelle tende non ci sono banchi» disse con molta disinvoltura. Interessante, ma anche strano. In questa parte del mondo, molte case non hanno le sedie e le persone stanno più comode sedute per terra. In molte delle nostre scuole in tutto il Pakistan e l’Afghanistan, non è insolito che un’intera classe sia seduta per terra con le gambe incrociate mentre l’insegnante resta in piedi. La mancanza di banchi mi parve una strana ragione per non andare a scuola. «Come mai i banchi sono così importanti?» chiesi. «Perché i bambini si sentono più sicuri» mi spiegò poi, con i banchi, le tende somigliano di più a una vera scuola.» Questo sembrava più plausibile, e annuii, ma non aveva ancora terminato. «Ma anche se le lezioni fossero tenute all’esterno, dovrebbero esserci lo stesso i banchi» aggiunse. «Solo allora i bambini verranno a scuola.» Mi parve alquanto misterioso, ma c’era qualcosa nella schiettezza di Farzana che mi spinse ad avere fiducia in lei. Così, il giorno successivo, Sarfraz e io cominciammo a rovistare in un cumulo di macerie in quel che rimaneva della scuola femminile e scovammo i pezzi sparsi di varie decine di banchi. Quel pomeriggio chiamammo a raccolta alcuni uomini e li pagammo perché cominciassero a rimetterli a nuovo. La notizia di questa attività si diffuse rapidamente e, nell’arco di un’ora o due dalla sistemazione dei banchi nella tenda, decine di bambini erano in fila per entrare nelle classi. Farzana aveva capito che, nelle menti dei bambini, i banchi rappresentavano una prova concreta che almeno entro i confini delle loro aule erano tornati ordine, stabilità […]”

I banchi come spazio intimo luogo di sé assieme a tutti i compagni.

“[…] Il capo degli uomini armati, un tipo con sopracciglia nere e una barba perfettamente curata che iniziava a ingrigirsi, era Wohid Khan, il capo della Border Security Force (BSF) del Badakshan, ovvero colui che ci aveva dato ospitalità in casa sua e ci aveva offerto la cena durante la notte dei disordini di Baharak nell’autunno del 2005, quando incontrai per la prima volta Abdul Rashid Khan e firmai il contratto per la scuola dei chirghisi a Bozai Gumbaz. Ormai quarantaduenne, Wohid Khan aveva iniziato a combattere i sovietici alla giovane età di 13 anni, e, come molti altri ex mujaheddin la cui educazione era stata interrotta dalla guerra, teneva in gran conto l’istruzione e la vedeva come la chiave per riparare ai danni di circa tre decenni di combattimenti. Era appassionato di letteratura femminile e della costruzione di scuole per ragazze, e insieme al suo amico mujaheddin commandhan Sadhar Khan, era diventato uno dei nostri alleati più importanti nel Wakhan. […”.

E anche loro come i soldati americani che combatterono in Afghanistan e in Iraq aiutarono Greg  per la costruzione delle scuole, per dare loro le licenze, chiarire chi fossero le varie etnie nei luoghi più disparati e a quali anziani rivolgersi per intavolare le riunioni (le Jirga bevendo le tazze di tè per convincerli a costruire le scuole e principalmente le scuole per le ragazze e le bambine). È impressionante rilevare nel libro come gli uomini più duri, i combattenti che hanno visto i morti, subire le bombe, versare sangue per anni e decenni, e a loro volta feriti, e che impararono a combattere con qualsiasi arma, alla fine la loro aspirazione e richiesta più PROFONDA FU QUELLA DI COSTRUIRE LE SCUOLE, IN PRIMO LUOGO PER LE BAMBINE). Al culmine della guerra, e delle atrocità che vissero sia i soldati americani, sia i Mujaheddin, sia i talebani che fuggirono dal Mullah Omar, sia i famigerati e temibili combattenti Kirghisi, tutti volevano la stessa cosa: Le scuole.