Mondi senza fine, 2023, Urania, Mondadori, Milano, di Clifford D. Simak (Autore), Davide De Boni (Traduttore)
Il volume contiene 4 romanzi di Clifford Donald Simak: “Oltre l’invisibile”; “City”; “Way Sation” e “L’Ospite Del Senatore Horton”. Sono contraddistinti da una narrativa immaginifica con un senso della meraviglia, che invita il lettore a espandere il suo orizzonte visivo nel cosmo, mentre ci si immerge nel profondo dell’animo umano.
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Il cuore del singolo e l’infinito del cosmo che convergono in una domanda: “Perché io Esisto?” e “Cosa è l’umanità?”
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Domande terribili, che, però, sono dispiegate in una narrazione fantascientifica, evocativa, pudica e discreta, con una poetica magica, che effonde una pacifica suggestione di rilassatezza e di buona disposizione a pensare l’incertezza.
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È impossibile leggere questi romanzi in modo distaccato, perché l’autore esige la collaborazione e la compassione del lettore rivolta a tutte le creature viventi e a quella particolare manifestazione del cosmo che è l’uomo, anche nelle sue gesta violente e distruttive.
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Vi sono domande radicali, cui il lettore non può evitare di interrogarsi. Nel romanzo “Oltre L’invisibile” è posto principalmente il tema della presunta superiorità e del diritto dell’essere umano di disporre di ogni essere vivente dell’universo.
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59-60 “ […] «Per farla breve,» proseguì Stevens «siamo portavoce dell’idea che agli androidi dovrebbe essere garantita l’uguaglianza con il genere umano. Di fatto, sono umani sotto ogni aspetto tranne uno.» «Non possono avere figli»
[…]
«Migliaia di anni fa è stato cancellato ogni legame di schiavitù tra esseri umani biologici. Ma oggi esiste un altro tipo di schiavitù, che lega l’umano fabbricato a quello biologico. Perché gli androidi sono una proprietà. Non vivono come padroni del proprio destino, ma al servizio di una forma di vita identica alla loro… identica sotto ogni aspetto, tranne per il fatto che una è biologicamente fertile, mentre l’altra è sterile» […]”
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203-204 Tutta la vita possiede un destino, non soltanto quella umana. Esiste una creatura del destino per ogni altro essere vivente. Per ogni essere vivente e anche di più. Aspettano che la vita accada, e ogni volta che si manifesta una di loro è lì, e ci rimane fino alla conclusione di quella specifica vita. Non so come, né perché. Non so se il vero Johnny sia alloggiato nella mia mente e nel mio essere o se rimanga semplicemente in contatto con me da 61 Cygni. Ma so che è con me. So che resterà.
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“City. Anni senza fine” si compone di una sapiente architettura di racconti mitici circa l’esistenza della presunta “razza umana”. E qui si arriva alla definizione del ciclo della nascita e della morte di ogni età del mondo, e delle specie viventi in essa coeve. Il timore della memoria e della ricerca di senso di ciò che si è stati e dello scopo di ogni senziente è mostrato, in una riflessione dolorosa, sperduta, alla ricerca di almeno una rispondenza temporale della veridicità del proprio esser stati in vita.
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622-624 “”[…] «Ci sono altri mondi là fuori,» stava dicendo Andrew «e in alcuni di essi c’è vita. E persino una qualche forma di intelligenza. C’è del lavoro da fare.» Non poteva trasferirsi nel mondo delle ombre in cui si erano stabiliti i Cani. Molto tempo prima, quando tutto era iniziato, i Webster se n’erano andati per far sì che i Cani fossero liberi di sviluppare la propria civiltà senza interferenze da parte degli umani. E lui non poteva essere da meno rispetto ai Webster, perché anche lui, dopotutto, era un Webster. Non poteva intromettersi nelle loro vite; non poteva interferire. Aveva tentato la strada dell’oblio, provando a ignorare il tempo, ma non aveva funzionato, perché nessun robot poteva dimenticare. Si era convinto che le formiche non avrebbero mai avuto importanza. Si era risentito per la loro presenza, certe volte le aveva persino odiate, perché se non fosse stato per loro, i Cani sarebbero stati ancora lì. Ma adesso si rendeva conto che tutta la vita aveva importanza. C’erano ancora i topi, ma quelli stavano meglio da soli. Erano gli ultimi mammiferi rimasti sulla Terra, e non dovevano esserci interferenze. Loro non ne volevano e non ne avevano bisogno, se la sarebbero cavata bene. Avrebbero forgiato da soli il proprio destino, e se il loro destino non fosse stato altro che rimanere semplici topi, non ci sarebbe stato niente di male in questo.
[…]
Col tempo non ci sarebbe stata più nessuna casa, ma solo un tumulo d’argilla a contrassegnare il punto in cui in passato ne sorgeva una. Tutto derivava dal fatto di aver vissuto troppo a lungo, meditò Jenkins – aver vissuto troppo a lungo e non essere in grado di dimenticare. Quella sarebbe stata la parte più difficile: lui non avrebbe mai dimenticato. Si voltò e riattraversò la porta e il patio. Andrew lo stava aspettando ai piedi della scala che portava a bordo dell’astronave. Jenkins tentò di dire addio, ma non ne fu capace. Se solo avesse potuto piangere, pensò… ma i robot non potevano piangere […]”
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“Way Station. La casa delle finestre nere” accoglie tutti noi in una sensazione di struggimento, nostalgia di amore, di una civiltà, del tempo, il passato e il presente, che si confronta con l’eternità, per venirne a patti. Il dilemma scaturito dalla consapevolezza che la mortalità ha le idee, i pensieri, la memoria, le aspirazioni, la fantasia.
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Se diventassimo immortali, d’altro canto e se fosse impossibile cambiare il proprio sé rispetto ai tempi più lunghi imposti al proprio io e alla propria mente, ciò colliderebbe con la nostra specifica individualità: la nozione dell’<Io>. Simak suggerisce che il sottoscritto, voi, e ogni mortale che ancora deve nascere, ha dei limiti nella sua evoluzione.
Il dubbio che l’evoluzione trascenda la mia intelligenza: informa che io sono destinato a diventare un passato, ovvero una parte di ciò che avverrà, o semplicemente di comporsi in un magma che sprofonda nell’oblio.
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La volontà di sopravvivere, mantenendo la memoria e la biografia del proprio animo, nella sua tensione di espandersi verso il tutto, ha la sua evoluzione in una sublimazione in un futuro che ingloba il passato.
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Il mortale, quindi, ha come suo elemento costitutivo la perenne oscillazione di senso tra l’oblio e la negazione della realtà come altra da sé. Si rimane quindi imprigionati in questo dilemma, avendo la tentazione della scappatoia verso la morte. Con il terribile timore che l’eternità possa soltanto promettere l’angoscia del fallimento.
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Certamente Simak non pensava nel modo in cui il sottoscritto sta radicalizzando i suoi intenti e la sua poetica, ma egli è un grande scrittore che supera il genere della fantascienza, perché i suoi romanzi sfuggono dalle sue stesse premesse e intenti. Diventano dei classici. Acquisiscono una vita propria e si nutrono del fascino e delle sensibilità del pubblico che sopravviene nel tempo e nei luoghi ulteriori a quelli di riferimento all’atto della pubblicazione dello stesso autore.
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I suoi romanzi hanno un lirismo poetico, una struttura mitica, una passione commovente nel cercare un abbraccio di consapevolezza circa i propri dilemmi, verso qualunque essere umano, anzi oltre esso: qualsiasi forma del vivere.
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Sono il protagonista del mondo? Certamente i valori, i criteri della verità sono tali, coerenti e adeguati entro la mia specie, che si vede unica e il resto dell’universo un residuo. Mi concedo, quindi, il lusso di guerreggiare e distruggere. Ma l’intelligenza e l’idea dell’anima, questo mio “io” e “destino” correlato, sono i punti insondabili di ciò che è la rappresentazione del mondo. Oppure ne sono un epifenomeno tra i tanti? E quindi ancora la nozione del vivere e la rappresentazione di esso, nei modelli di vita, non potrebbero essere di più e diversi da noi?
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L’insignificanza, ancora prima dell’oblio, comporta in questi romanzi, dalla paura della supremazia del primo romanzo, a quella della estinzione del secondo, al terrore della propria insignificanza nel terzo, la percezione dell’abisso e nel contempo la visione di una prospettiva più ampia dell’universo. Fino alla irresistibile richiesta di un perché della realtà nel quarto romanzo “L’ospite del senatore Horton”.
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E qui che vi è il poetico e lo struggimento, perché Simak utilizza la vastità delle galassie per mostrare la periferia infima del nostro settore dell’universo e noi in esso, ma offrendo, con questa amara consapevolezza, un arricchimento del proprio vivere, qui ed ora.
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È impossibile che noi non ci si possa porre le domande sul nostro senso dell’essere, del luogo, e dell’anima, nonostante che l’insensatezza sembra essere l’unica conclusione.
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Eppure nei romanzi si mantiene un filo di speranza nel mantenere la memoria e una costanza di comprensione, ove il luogo è una semplice, pudica, ma universale compassione, forse anche al di là della volontà dell’autore. Tra i monologhi interiori, le domande retoriche, i picchi drammatici, le scene d’azione, sublimano in un lirismo in cui il proprio dolore di una nostalgia di ciò che non è mai accaduto e di ciò che da sempre fu impossibile sperare, rivela la capacità infinità di subire la sconfitta della morte, mantenendo l’attitudine a cantare e a poetare della propria condizione, tra il ritmo della caduta ultima, al verso stilistico dell’insignificanza.
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L’accoglienza del dolore invita alla lettura, al richiamo, all’acclamazione di un segno di speranza all’infinito, in uno spiraglio di insensatezza eterno, tra gli spazi e i millenni.
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I romanzi sono contraddistinti da una iniziale descrizione dell’eroe che, in primo luogo, esce fuori dalla comunità. È il deviante. Chi per il tempo, chi perché deve compiere una impresa per conto di potenti organizzazioni, ovvero quelle che costituiscono la trasfigurazione del “grande padre”. L’eroe intuisce il mistero, e in quell’istante diventa il pericoloso deviante.
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L’uomo che viaggia nel tempo. Il mutante con i tre corpi. L’uomo immortale. Protagonisti solitari al limite del crimine e della follia. Ogni loro individuazione è aiutata dalla donna “Beatrice” che assume il ruolo di una guida, che offre un luogo, una risorsa, una parte umana di sé che riaffiora. Ella è sempre la figlia di un padre che è l’autorità, che dipende da quella organizzazione dove il protagonista ha avuto lo scopo e la missione. Ma che ritorna contravvenendo agli scopi iniziali.
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Il deviante consegna un messaggio che rende insensato lo scopo iniziale e quindi la stessa organizzazione, ovvero la specie umana. La nazione che si crede la più potente. La razza umana che si crede di dominare le altre. Di essere unica. La razza umana che pretende la galassia. Ognuna di queste trame della follia, diventa arcaica, una facezia, un soffio d’aria dileguante.
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Simak si interroga sul messaggio religioso del mistero. Non è un caso che gran parte dei nomi dei personaggi hanno riferimenti a caratteristiche di virtù, di inclinazioni, di debolezze, di luoghi che hanno avuto significati storici e religiosi. Tali assonanze sono poste in corrispondenza con le capacità, le attitudini, le capacità fisiche, e l’aspetto. Attraverso i termini scientifici, usa i miti medioevali, traslati in altri tempi, in altri mondi. Il mostro, il lupo, la minaccia del pericolo, e del male, che è proiettato fuori e che forse è dentro di sé. L’eroe difende i più deboli, e quindi cerca la parte più debole di sé.
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È la canzone dell’eroe che cerca il Graal, tuffandosi nella realtà. Il protagonista sopravvive se la sua visione del mondo volge nel pietismo, nella compassione, e nell’accettazione dei limiti. È il messaggio morale nascosto di Simak forse a lui stesso non esplicito, ma che si trova nei decenni traslato in sempre nuovi romanzi.