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SUNFALL DI JIM AL-KHALILI

Sunfall di Jim Al-Khalili, 2014, Traduzione
di Carlo Prosperi, (Prima ed. 2019), 2022,
Bollati Boringhieri, Torino

L’autore è in primo luogo un fisico di fama internazionale, che con la presente opera si è prestato a redigere un romanzo, a differenza di altri suoi scritti di divulgazione sulle nozioni e sugli sviluppi della Fisica contemporanea. I concetti e i termini impiegati sono veri e verosimili, in quanto i neutralini, sebbene siano già stati ipotizzati e circoscritti in modelli coerenti a livello teorico, in data attuale non hanno avuto un preciso riscontro sperimentale. L’appunto a queste particelle che dovrebbero costituire la materia oscura, è la base su cui si innesta quest’opera: una narrazione distopica di eventi possibili qui e ora.

Le tempeste solari in modo ciclico investono i pianeti che gravitano intorno alla nostra stella. La Terra grazie alla intensità del suo campo magnetico riesce a deviare gran parte di queste radiazioni, mantenendo così integra la sottilissima pellicola che chiamiamo atmosfera e per conseguenza gli ecosistemi per noi vitali. Le tempeste solari negli evi passati hanno invertito i poli del nostro campo magnetico, e in queste fasi per le leggi fisiche relative alla densità di campo, lo hanno indebolito, e quindi hanno permesso una maggiore incidenza radioattiva negli strati più bassi dell’atmosfera. Si ipotizza che ciò abbia contribuito a causare l’estinzione di specie viventi, dalla flora fino agli animali a sangue caldo.

Il romanzo si incentra su questo evento e nella concomitanza della tragica evidenza che il polo magnetico avrebbe raggiunto una sua inversione e quindi un equilibrio in un periodo di tempo molto più lungo di quello delle coorti generazionali dell’uomo, in termini di nascita, età adulta, e morte. La conseguenza è una altissima probabilità di estinzione dei mammiferi, per il caldo crescente, per i raggi solari letali, per l’innalzamento delle acque, e nel complesso per lo sconvolgimento climatico sì temporaneo, ma devastante.

È un romanzo di avventura, di spionaggio, che si incentra nel tentativo di veicolare i neutralini in un modo tale da permettere al campo magnetico di assestarsi. Non rivelo nulla, e lascio al lettore il gusto dell’approfondimento e della scoperta, anche perché è un romanzo che scorre in un ritmo che cerca il climax e la sorpresa.  

I personaggi sono però stereotipati, perché nelle dinamiche di relazione sembrano che vivano tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Sì vi sono donne e uomini che nel campo della scienza, della politica, e dello spionaggio risultano pari agli uomini nelle prestazioni, ma nelle disposizioni emotive verso i colleghi di lavoro, i partner e i familiari stretti, seguono modelli di due generazioni fa.

La visione di fondo tra gli uomini e le donne sebbene sia limitata in questi stereotipi prevedibili, da una parte facilita la comprensione degli eventi scanditi in un ritmo agevole. Tale semplificazione lascia quindi il tempo per concentrarsi riguardo la comprensione dei concetti di fisica che via via sono espressi, dai quali si ricavano le connessioni di causa ed effetto delle azioni dei protagonisti.

Vi è un tema di fondo reale e non fantascientifico che è rivolto nella concreta possibilità dell’avverarsi di accadimenti terrestri e cosmologici di frequenza singolare o ciclica tali da arrecare danni all’ambiente di vita favorevole nel suo complesso per la nostra sopravvivenza.

La gravità di tali rischi nel loro concretizzarsi in pericoli manifesti abbisogneranno di una collaborazione interstatuale tra i popoli. La condivisione delle conoscenze, la partecipazione democratica al loro sviluppo e messa in opera, definiscono la speranza di concepire la soluzione.

La convinzione di adottare un approccio collaborativo nell’integrare le proprie risorse materiali, tecnologiche e di sapere, avviano le strategie di impieghi impensabili delle nostre capacità nel manifestare positivamente la nostra volontà di sopravvivenza.

L’umiltà di considerarsi solo una parte del pianeta Terra che è la nostra unica e sola casa di fronte alla collettività, garantisce di una caratura morale che invita alla fiducia e alla volontà di agire non solo per i propri esclusivi interessi.

È un libro progettato per attrarre il grande pubblico nella lineare scansione degli eventi e nella costruzione, non estremamente sofistica, nel delineare le personalità dei protagonisti. La voluta semplicità della trama, però, offre un linguaggio tecnologico rivolto a problemi scientifici attuali che fa sentire il lettore partecipe di questo processo nel pensare su di sé e sul proprio destino, vivendo da quasi due secoli in un ambiente che non è mai stato così favorevole in tutta la storia dell’umanità.

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Nota tecnica dell’autore sulla materia oscura L’idea di fondo del Progetto Odino si basa sul comportamento della materia oscura. Ma quanto c’è di scientificamente accurato in tutto questo? Be’, lasciatemi chiarire un paio di cose. Anzitutto, la materia oscura è reale. È ciò che tiene insieme le galassie. Anzi, nell’universo la materia oscura è cinque volte la materia cosiddetta normale. Il problema è che, al momento in cui scrivo, ossia dicembre del 2018, non sappiamo ancora di cosa la materia oscura sia composta. Quali che siano le sue particelle costituenti, a oggi non ne conosciamo nulla. I fisici la chiamano «materia non barionica».

Sappiamo che la materia oscura percepisce la forza di gravità ma non quella elettromagnetica (il che le permette di attraversare la materia normale come se questa non ci fosse). Il secondo punto è che uno dei potenziali candidati come costituente della materia oscura è effettivamente il neutralino, un’ipotetica particella prevista da una teoria tuttora speculativa chiamata Supersimmetria. La mia remora nell’usare il neutralino in Sunfall era che potesse essere scoperto prima dell’uscita del libro o, ancora peggio, che qualche nuovo risultato sperimentale escludesse categoricamente la sua esistenza, magari rivelandoci che la materia oscura è composta da tutt’altra particella. Finora, invece, tutto bene. I neutralini sono ancora in corsa. Quanto al fatto che i fasci di materia oscura interagiscono con se stessi, ciò è all’incirca corretto, almeno sulla base delle attuali conoscenze.

Al proposito, tuttavia, mi sono preso alcune libertà, nel senso che l’auto-interazione della materia oscura è probabilmente molto debole, altrimenti ne vedremmo le testimonianze in astronomia. D’altro canto, se al momento di collidere i fasci sono dotati di sufficiente intensità ed energia… Quanto alla questione del decadimento dei neutralini pesanti in chargini e di questi, a loro volta, in neutralini leggeri – tutta quella roba necessaria affinché la traiettoria del fascio possa essere deviata dai magneti – be’… non è sbagliata ma solo estremamente semplificata. Se ne stanno occupando fisici teorici di tutto il mondo, attualmente al lavoro su modelli matematici come il Modello Standard Supersimmetrico Minimale con parametri complessi (o cMSSM) o il modello di concordanza cosmologica, ΛCDM, che si legge «lambda-CDM» e ha per elementi costitutivi la materia oscura fredda e la costante cosmologica. Oh, siete stati a voi a chiedermelo! Come dite? No? Ah, ok.

§CONSIGLI DI LETTURA: STARPLEX

Starplex, di Robert J. Sawyer (Autore),
Mauro Gaffo, Traduttore, Urania, 1996,
Mondadori, Milano

“Starplex” è un crocevia di luoghi classici della fantascienza in ordine ai temi dei viaggi interstellari, alla natura delle leggi della relatività generale, e al destino degli esseri viventi e dell’intero universo, all’interno di un processo di acquisizione di conoscenze, attraverso gli stimoli e le domande che vengono calibrate dagli impieghi tecnologici.

È anche una riproposizione dei grandi afflati di democrazia, di apertura, di approccio con lo straniero e le culture “altre”, tipici degli anni sessanta, individuati da saghe come “Star Trek” e non è un caso il rimando indiretto del titolo del libro.

Le produzioni di fantascienza proiettano le storie e i conflitti individuali e sociali tra singoli e interi agglomerati statuali al di fuori del pianeta Terra, in luoghi in cui risiedono umanoidi o forme di vita radicalmente diverse che hanno però, comunque un nostro tratto tipico di comportamento e di valori, che induce a una relazione conflittuale e/o di collaborazione. Le vicende che avvengono tra le entità senzienti sono poi tradotte in avventure con un climax tale da indurre inconsciamente, e non, al lettore una valutazione morale ed etica delle questioni che riguardano direttamente il nostro vivere.

Se il modo di vedere l’esterno è quello di un confine di guerra, allora ogni forma d’intelligenza è un nemico, e quindi estendiamo la nozione di pericolo all’intero cosmo. La ricerca di cibo, di energia, di ambienti adeguati atti alla prosecuzione della nostra specie, si allarga a quella di ambienti interplanetari per arrivare a quelli ultra galattici.

Dalle tensioni derivate dalla volontà di acquisire il potere, di soddisfare i bisogni primari e quelli più evoluti, si esprime una dinamica di scontro e di dialogo tra le diverse razze e forme di vita al limite dei nostri parametri di loro riconoscimento.

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“Starplex” però offre un passo ulteriore di approfondimento che dalla iniziale antica domanda sul “chi siamo noi” umani su questa Terra e su questo Cosmo, e quindi nelle due divaricazioni tra l’origine e lo scopo, la si estende a porre tale questione a forme senzienti tremendamente più antiche e potenti, fino poi a porre in questione il destino dell’intero universo.

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Il tema è sviluppato nel corso della prosecuzione degli avvenimenti. E pone, quindi, dilemmi morali che riguardano noi terrestri, oggi, qui, sul pianeta Terra. Robert J. Sawyer è un canadese come gli altri suoi colleghi coevi sente il bisogno di indagare il tema del riconoscimento delle minoranze, delle culture altre, e di una convivenza aperta e reciprocamente fruttuosa. Ciò deriva dalle condizioni storiche, politiche e statuali della loro nazione di residenza. È opportuno precisare che l’autore non propone facili soluzioni che esortino a un vivere dove tutti si vogliano bene, in un mondo incantato costituito dalla collaborazione e convivenza stretta senza porsi in discussione ed affrontare il sistema dei valori e delle conoscenze in cui si è inseriti. Tale necessità non deriva da una adesione semplicemente volontaria e di abnegazione ma di una riflessione razionale per la quale, l’assenza di una volontà di condividere le risorse e le conoscenze, porterebbe comunque alla estinzione di ogni presunto contendente.

L’autore ha studiato in modo approfondito di astronomia, di meccanica aerospaziale di teoria della relatività. Il romanzo descrive scenari verosimili, pur all’interno di alcune ipotesi fantascientifiche. Tutto però è descritto in modo coerente, con azzardi ben congegnati e adeguatamente descritti. La lettura è anche un’occasione per comprendere le nostre nozioni riguardo la velocità della luce, la materia oscura, i modelli di descrizione dell’espansione o meno indefinita dell’universo, la struttura delle galassie, e infine l’uso della variabile temporale in un’ottica in cui il limite costante della velocità della luce sia posto in discussione.

È veramente immaginifico e nutre la creatività del lettore spingendolo ad immaginare scenari in cui si possa veramente trovare nelle situazioni dei protagonisti.

Il perno fantascientifico è relativo ai salti interstellari causati da una rete di scorciatoie artificiali che costella la Via Lattea e non solo. Ed è qui un punto focale che abbisogna di chiarire, perché gli stratagemmi del salto, del passaggio, del tubo magico, della singolarità che sono usati in innumerevoli racconti di fantascienza si basano tutti sull’idea di poter aggirare il limite della velocità della luce e quindi di uscire fuori dalla concavità del cono spazio temporale, e quindi considerare lo spazio come un punto e il tempo anche con una misura negativa, che comporta la possibilità, quindi viaggiare nel tempo.

Parliamoci chiaro: non è solo una questione di impossibilità tecnologica o di una mancanza di una teoria scientifica attualmente oscura. All’interno del paradigma relativistico in cui pensiamo, per viaggiare alla velocità della luce, o addirittura superarla, ci vorrebbe una quantità tale di energia che ammonterebbe a quella di tutto l’universo.

In un’ottica ipercritica si potrebbe considerare tale ipotesi abusata, pigra, di maniera, ma non se ne può fare una critica eccessivamente spinta all’autore, anche perché non sarebbe più un libro di fantascienza. A suo merito però si pone l’intenzione di discutere di tale natura di salto e di porre una spiegazione plausibile non tanto verso le relazioni dello spazio-tempo, quanto invece, sull’analisi della continua dilatazione dell’universo stesso in rapporto alla materia oscura. Ecco qui l’autore descrive ipotesi interessanti, pregevoli, coerenti rispetto alle ipotesi immaginifiche iniziali, ma coerenti rispetto al nostro bagaglio teorico effettivo.

Non descrivo in modo compiuto la trama e alcune vicende, perché il romanzo è denso di sorprese, e toglierei il piacere della lettura al pubblico. Posso soltanto suggerire alcune questioni di fondo che pone il libro, per chi volesse rifletterne in modo più approfondito:

  • Poiché l’universo ha più di 14 miliardi di anni, siamo così sicuri che la sua evoluzione è volta ad adempiere a uno scopo predefinito quali la creazione degli esseri viventi che hanno di base il carbonio e quindi giungere alla razza umana? Siamo davvero noi il picco della piramide evolutiva?
  • È proprio necessario reagire in modo automatico al sopruso, all’attacco violento, o a una azione di ostilità interstatuale? Non si può lasciar correre? Non accettare lo schema di azione e di reazione? Non è meglio invece rispondere in modo asimmetrico cercando invece la collaborazione, anche tenendo ferme le proprie possibilità di difesa? In altri termini, è proprio necessario che gli inevitabili conflitti che intercorrono tra forme aggregate debbano sfociare poi in azioni che abbiano sempre le etichette dell’odio e della rabbia

È un romanzo che fa respirare l’aria di montagna: fresca, tonda, e vivificante. Un’avventura verso noi stessi e le domande sul nostro destino.

Sia una meraviglia di lettura.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL SUSSURRO DEL MONDO

Il sussurro del mondo di Richard Powers (Autore),
Licia Vighi (Traduttore), Ed. La Nave di Teseo, Milano,
(Ed. Originale: The Overstory: A Novel, 2018,
W. W. Norton & Company
, New York, Usa)

37 “C’è un detto cinese che recita: ‘Quand’è il momento migliore per piantare un albero? Vent’anni fa.’” L’ingegnere cinese sorride. “Davvero niente male.” “‘Quand’è il prossimo momento migliore? Adesso.’” “Ah! Okay!” Il sorriso diventa reale. Fino a quel giorno, lui non ha mai piantato nulla. Ma l’Adesso, quel prossimo momento migliore, è lungo, e riscrive tutto.

La struttura di fondo della narrazione è circolare, disposta in cerchi concentrici come quelli della sezione di un tronco di un albero. Il tempo non dilegua scorrendo su una linea, ma è conservato come gli anelli di ogni fusto sulla Terra, i quali connettendosi poi con quelli esterni, mutano conservandosi.

41-42 “[…] Ma questi uomini?” Schioccò la lingua e alzò il pollice, come se questi piccoli Buddha fossero gli unici su cui puntare, nel corso del tempo. A quello schiocco, una Mimi adolescente si alzò dalle sue spalle di bambina di nove anni per contemplare gli arhat dall’alto e da anni di distanza. Dall’adolescente estasiata uscì un’altra donna, persino più grande. Il tempo non era una corda che si srotolava di fronte a lei. Era una colonna di cerchi concentrici con lei al centro e il presente che fluttuava verso l’esterno lungo l’orlo più lontano. Future Mimi si affollavano sopra e dietro di lei, ritornando in quella stanza per lanciare un’altra occhiata al pugno di uomini che avevano risolto la vita. “Guarda il colore,” disse Winston, e tutte le sue identità successive crollarono davanti a Mimi[…”

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Vista e orecchio sono necessari per la lettura di questo romanzo, dato che le vicende vivono di scrittura e di potenziali sonori evocati. Il lettore è accanto agli alberi e scorre le righe con il ritmo di vita degli alberi. Ondeggiamo nella immedesimazione nei rami della sintassi, che detengono le foglie dei significati, lasciandoli e ricevendoli con quelli emanati dal bosco infinito dei segni e sei simboli. Ognuno è disallineato, stando assieme agli altri.

Ed è qui il sublime, perché sentiamo il nostro e il loro limite. I sentieri lunghi cosparsi da foglie cui aspiriamo linfa di lettere e gocce di parole, riverberano sulle carezze dei venti. I fruscii conservano il nostro passato, perché raccolgono e rimandano le nostre parole e le correlative azioni, picchettando tracce di coloro che furono.

I sorrisi lacrimano, accomunando i volti di ogni individuo della Terra, nell’assorbire la memoria delle radici.

Rivivere la nascita e il senso del perire di sé e delle appendici a noi originarie, effonde lo struggimento nella speranza della gloria. E ci si ritrova aggrappandoci nel dire “Sì” al vivere che è la meraviglia e il dolore. Questo paradosso è la matrice del limite che impone il senso della finitudine, che radica l’indeterminatezza, seme delle infinite possibilità di esistenza.

Gli alberi aggrovigliano le nostre correnti temporali. Sono il nostro appiglio, perché con loro ci confrontiamo, essendo il baluardo dell’ignoto e i generatori delle spore, ovvero le anticipazioni del futuro. Dialogano con vettori e frequenze inaspettate dell’altro mondo che bussa tra le radici e il sotto suolo, ove l’acqua parla con i Sali e il carbonio. La pioggia carsica della terra che va verso il cielo, emana l’arcobaleno delle sostanze nella trasmutazione dei colori dall’inorganico all’organico, ricevendo per converso gocce di luce, che si depositano nel cuore della Terra. E noi come loro, prima ancora dei giudizi, ne siamo un timbro che risuona.

È un gigantesco coro di un pianeta solitario, così sottile di vita, che spedisce alberi in cammino tra gli spazi in espansione coltivando semenze di tempo.

124  “Sappiamo così poco di come crescano gli alberi. Quasi nulla di come fioriscano e ramifichino e si diffondano e si curino. Abbiamo imparato qualche cosa di alcuni di essi, presi isolatamente. Ma non c’è nulla di meno isolato o di più socievole di un albero.”

I protagonisti si avvicinano, genitori e figli, agli alberi. Tra gli stadi dell’esistenza si uniscono a quell’unico grande albero che è la foresta. Le loro storie si diramano e convergono con rami, altri rami, foglie, polline e spore, asessuate e sessuate. Da un mondo all’altro, assieme e grazie ai funghi e ai batteri, i loro piedi e le loro mani.

228-229 “[…]Rimuovere il tronco significa uccidere il picchio che tiene sotto controllo i punteruoli che ucciderebbero gli altri alberi. Descrive le drupe e i racemi, le pannocchie e gli involucri cui una persona potrebbe passare accanto senza mai accorgersene. Racconta di come da un ontano dalle pigne legnose si raccolga oro. Di come un noce americano alto due centimetri e mezzo possa avere una radice profonda quasi due metri. Di come la corteccia interna delle betulle possa nutrire gli affamati. Di come un amento del carpino bianco abbia diversi milioni di grani di polline. Di come i pescatori indigeni usino foglie di noce frantumate per stordire e catturare i pesci. Di come i salici ripuliscano il terreno dalle diossine, dai PCB e dai metalli pesanti. Illustra come le ife fungine – infiniti chilometri di filamenti ripiegati in ogni cucchiaio di terreno – riescano a far aprire le radici degli alberi e ad attingere a esse. Come i funghi collegati alimentino i minerali degli alberi. Come l’albero contraccambi queste sostanze nutrienti con gli zuccheri, che i funghi non riescono a produrre.

[…]

Sta succedendo qualcosa di meraviglioso sotto terra, qualcosa che stiamo solo imparando a vedere. Tappetini di associazioni micorriziche collegano gli alberi in enormi e intelligenti comunità sparpagliate lungo centinaia di acri. Insieme, formano vaste reti di scambio di prodotti, servizi e informazioni… Non ci sono individui in una foresta, né eventi separabili. L’uccello e l’albero su cui è posato sono una cosa sola. Un terzo o più del cibo che un grosso albero produce può sfamare altri organismi. Persino tipi diversi di alberi formano delle società. Tagliate una betulla, e un abete di Douglas nei paraggi può soffrirne… Nelle grandi foreste dell’est, le querce e i noci americani sincronizzano la produzione dei loro frutti per confondere gli animali che si cibano di essi. Si sparge la voce, e gli alberi di una data specie – che siano al sole o all’ombra, bagnati o asciutti – producono molti frutti o affatto, insieme, da comunità quale sono… Le foreste si risanano e si modellano attraverso sinapsi sotterranee. E, nel farlo, modellano anche le decine di migliaia di altre creature collegate che le formano dall’interno. Magari è utile pensare alle foreste come a enormi ed eccezionali alberi che si allargano e ramificano sotto terra […]”

Lei, lui, le coppie si formano come spore e pistilli. Si distaccano dalle reti e dalle radici dei rami sociali. Evocano il sottosuolo, assumendo atteggiamenti devianti. Profeti, visionari, alchemici, scienziati, produttori, maghi, programmatori. Sono parti di questo grande albero che continua ad esistere.

387 Si è trasferito nel mondo parallelo insieme a centinaia di milioni di altre persone, ognuna nel proprio videogioco preferito. Non riesce a ricordarsi l’epoca precedente alla comparsa del Web. È proprio questo il compito della coscienza, trasformare l’Adesso nel Sempre, confondere ciò che è con ciò che doveva essere. Certi giorni, è come se lui e il resto della Valle della Gioia del Cuore non abbiano inventato la vita online, ma si siano limitati a incidere una radura in essa. Evoluzione nella fase tre.

514 I greci avevano una parola, xenia – accoglienza dello straniero – un obbligo di occuparsi dei forestieri in viaggio, di aprire la porta a chiunque si trovi là fuori, perché chiunque passi di lì, lontano da casa, potrebbe essere Dio. Ovidio racconta la storia di due immortali che arrivarono sulla Terra travestiti da viaggiatori per guarire il mondo malato. Nessuno li lasciò entrare tranne una vecchia coppia, Filemone e Bauci. E come ricompensa per aver aperto la porta a dei forestieri offrirono loro una vita eterna trasformandoli in due alberi – una quercia e un tiglio – enormi e benevoli e attorcigliati. Finiremo per assomigliare a ciò di cui ci prendiamo cura. E quello a cui assomigliamo ci sosterrà, quando non saremo più noi stessi…

le.

515 I segnali dicono: Vale la pena reinventare una buona risposta da zero, in continuazione. Dicono: L’aria è un miscuglio che dobbiamo continuare a creare. Dicono: C’è tanto sotto terra quanto sopra la superficie. Le dicono: Non sperare o disperare o predire o esser colta di sorpresa. Non arrenderti mai, ma dividiti, moltiplicati, trasformati, congiungiti, crea, e resisti perché hai a disposizione tutta la lunga giornata della vita. Ci sono dei semi che hanno bisogno del fuoco. Semi che hanno bisogno del gelo. Semi che hanno bisogno di essere inghiottiti, corrosi dall’acido digestivo, espulsi come rifiuti. Semi che devono essere sventrati prima di germogliare. Una cosa può spostarsi ovunque, stando semplicemente ferma.

Attenzione: nell’ultimo quarto del libro, se si continua a leggere pensando che si è passati il climax della storia, per giungere alla fine in cui le scene si ricompongono per il finale che determina la chiusura alla stregua di un bilancio aziendale, si avrà la sensazione di ricevere qualche mattone negli occhi. I protagonisti riprendono i temi principali, per continuare sì lo sviluppo degli eventi, ma non per liquidarli, quanto per riaggregarli nella grande foresta del mondo, tra i boschi della poetica. Le vicende dei protagonisti che vengono mosse in modo parallelo sempre più vorticoso, sebbene agiscano secondo i rami delle storie del passato, creano qualcosa di nuovo: partoriscono il futuro. Ecco perché si ha difficoltà e quasi l’impazienza di terminare la lettura.

Si crea un nuovo cerchio nel nostro albero personale: l’animo mio e tuo.

Altro non dico: la sorpresa sarà irripetibile per ognuno che rivedrà davanti il suo passato, per orientarsi in un nuovo e ulteriore accadimento.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL RICONOSCIMENTO DELLE COMPETENZE DEGLI IMMIGRATI ADULTI SUBSAHARIANI

Brigida Angeloni
IL RICONOSCIMENTO DELLE COMPETENZE DEGLI IMMIGRATI ADULTI SUBSAHARIANI
Adult Education and Lifelong Learning, Roma TrE-PRESS, 2022

Questo rapporto prospetta una politica di formazione per gli adulti immigrati più incisiva, e indirettamente anche per noi italiani. Occorre una strategia politica con maggiori piani di azione che il mondo della formazione può offrire. Vi è una analisi a livello locale e mondiale dei flussi di migrazione e delle esigenze di formazione per gli adulti, considerando le tendenze di lungo periodo che stanno avvenendo in Italia.

Sarebbe auspicabile concepire l’immigrato un compagno di viaggio per conseguire una piena cittadinanza democratica, avente una tendenziale e una maggiore disponibilità ad accogliere le nostre esigenze di formazione cognitive e di apprendimento civico.

L’educazione degli adulti non è volta esclusivamente al recupero o alla compensazione di mancanze pregresse, quanto anche all’adeguamento delle esigenze lavorative e personali. È un investimento teso a sviluppare una serie di competenze condivise, riconosciute a livello istituzionale.

 Nella vita degli individui adulti le opportunità di apprendimento sono più ampie di quelle esplicitamente intenzionali, e si presentano nella vita quotidiana attraverso le esperienze, gli incontri, le relazioni, e la partecipazione alla vita sociale e politica, e alle attività professionali. A livello di ricerca e normativo è necessario un quadro teorico che approfondisca la dimensione adulta, le forme e i modi apprendere e le strategie correlate.

Il World Migration Report 2020, dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM, 2019), è la principale fonte per conoscere dati e tendenze sulla mobilità umana a livello globale (Italia compresa). Nel 2019 il numero di migranti internazionali è cresciuto, attestandosi a circa 272 milioni, pari al 3,5% della popolazione mondiale.

Di tutte le persone che si spostano a livello globale (272 mln), i migranti per motivi di lavoro sono stimati in un numero pari a 164 milioni. Secondo il Global Trend Report (UNHCR, 2020) la popolazione di migranti forzati, in- vece, ammonta a 79,5 milioni di persone, di cui 45,7 milioni di sfollati interni, 26 milioni di rifugiati (la Siria rimane al primo posto con 6,6 milioni seguita dal Venezuela con 3,7 milioni), e 4,2 milioni di richiedenti asilo.

La grande maggioranza delle persone (circa 200 milioni) migra per motivi legati soprattutto al lavoro, alla famiglia e allo studio. Esiste però una crescente quota di persone costrette a lasciare le loro case e i loro paesi per motivi gravi, come conflitti, persecuzioni e disastri. Si tratta degli sfollati e dei rifugiati che, pur costituendo una percentuale relativamente contenuta di tutti gli immigrati (29%) (UNHCR, 2020).

22 “[…] I dati EUROSTAT (2018) riferiti ai 28 paesi dell’UE rilevano, nel 2018, circa 3,2 milioni di primi permessi di soggiorno rilasciati nell’Unione europea a cittadini di paesi terzi. Le ragioni familiari hanno rappresentato quasi il 28%, i motivi di lavoro il 27%, i motivi di studio il 20%, mentre altri motivi, compresa la protezione internazionale, hanno rappresentato il 24%. Con riferimento alla cittadinanza di chi ha ricevuto più permessi nell’UE nel 2018, i cittadini ucraini sono quelli che hanno beneficiato di permessi di soggiorno principalmente per motivi di lavoro (65% di tutti i primi permessi di soggiorno rilasciati agli ucraini nel 2018), quelli cinesi per l’istruzione (67%), mentre i cittadini marocchini (61%) hanno beneficiato prevalentemente di permessi di soggiorno per motivi familiari (Forti, 2020, p.14) […]”

In Italia principalmente gli immigrati, anche se sovra qualificati, sono impiegati in attività a bassa produttività pesanti, pericolose, precarie, poco pagate.

In Italia la sovra qualificazione riguarda il 77% dei nati fuori dall’UE e istruiti all’estero e il 25% dei nati fuori dall’UE e istruiti nel nostro paese. In questo caso la difficoltà del riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero è un aspetto che non facilita i processi di integrazione lavorativa. I più istruiti si sentono maggiormente discriminati, rispetto a quelli meno qualificati, che, paradossalmente, percepiscono un miglioramento del loro status lavorativo precedente.

Nel campo dell’educazione degli adulti si possono individuare due campi di ricerca rispetto al tema dell’educazione destinata agli immigrati: l’educazione alla cittadinanza e l’educazione per gli immigrati. In termini generali, l’educazione alla cittadinanza ha come obiettivo di preparare gli individui a diventare cittadini di una determinata comunità politica.

I bisogni formativi degli immigrati riguardano:

• l’apprendimento della lingua del paese di accoglienza ad un livello che possa permettere al soggetto di interagire con le istituzioni pubbliche, i soggetti privati e le reti informali;

• la conoscenza della cultura del paese di accoglienza;

• gli elementi base dell’organizzazione dello stato, del sistema scolastico e sanitario;

• il bisogno di informazione sui diritti e sulla loro accessibilità;

• l’alfabetizzazione per i soggetti che non hanno potuto esserlo nei paesi di nascita o provenienza;

• l’acquisizione dei titoli di studio di base, quali il diploma conclusivo del primo ciclo di istruzione e/o secondaria superiore.

A questi si aggiungono altri bisogni, concernenti l’istruzione e la formazione:

• il bisogno del riconoscimento dei propri titoli di studio e qualifiche professionali già possedute;

• il bisogno di accedere a corsi di istruzione e formazione professionale che tengano conto delle caratteristiche della popolazione immigrata, in termini di apprendimenti pregressi, di disponibilità di tempo e di raggiungimento delle sedi formative, nonché in una logica di coerenza con il progetto migratorio del singolo.

Con la normativa attuale in Italia, che è descritta in modo analitico nel rapporto, vi sono tantissime possibilità di raccordo tra gli enti preposti alla formazione degli adulti e agli enti locali per stipulare percorsi ad hoc, diversificati per settore di impiego.

La disponibilità di orari e giorni differenziati per le lezioni assume dunque un’importanza decisiva, assieme alle condizioni di isolamento dei migranti, la precarietà nel lavoro e nell’abitazione, i tempi lunghi di regolarizzazione, i difficili percorsi di inclusione a tutti i livelli.

Occorre un approccio qualitativo e biografico che punti anche al riconoscimento e alla ricollocazione delle competenze del soggetto, attraverso la ricostruzione degli apprendimenti realizzati dal soggetto nel corso della sua vita sociale e professionale.

Nella cultura africana, l’importanza dell’età anagrafica o biologica nella definizione dell’età adulta è relativa, poiché esiste una gerarchia delle età. Vi è l’assunto che l’anziano ha avuto più tempo per accumulare conoscenza ed esperienza; pertanto, in queste società l’anziano detiene tutto il potere. Ogni membro della comunità è consapevole del proprio status e del ruolo che deve svolgere. Questi sono determinati dal numero di funzioni che aumentano con l’età (attraverso il matrimonio, il parto, il lavoro). La prima pratica pedagogica di passaggio sono riti iniziatici.

Un adulto è colui che è produttivo, che contribuisce al sostentamento della famiglia e della comunità, come pure colui che è in possesso di alcuni tratti psicologici, come il concetto di sé che permette agli individui di esprimersi in un modo che li rappresenti. Pertanto, un soggetto che dal punto di vista anagrafico è giovane, anche un bambino, ma che dimostri di avere una percezione di sé in grado di assumere delle responsabilità, può assumere lo status di adulto. Altre caratteristiche che sono associate allo status adulto in Africa sono la fiducia, la pazienza, la resistenza, la perseveranza, il coraggio e la stabilità emotiva. Queste qualità permettono alle persone di contribuire alla sicurezza pubblica, di arbitrare una disputa, di motivare i membri più giovani della comunità e di promuovere fiducia, rispetto, assistenza reciproca, pace e ordine, rappresentando un modello da imitare per i più giovani.

Non esiste un momento in cui l’individuo termina il processo di educazione. Lo status sociale dell’adulto, quindi, è una nozione relativa.

Le tre componenti del sapere (tecnico, mitico e retorico) si acquisiscono durante gli anni, fase per fase, attraverso il susseguirsi delle iniziazioni, legate al contesto.

La portabilità delle competenze, secondo la Dichiarazione dell’ILO (ILO, 2007) è una combinazione tra:

• la possibilità di utilizzare le competenze professionali in diverse attività lavorative;

• la certificazione e il riconoscimento delle competenze nel mercato del lavoro nazionale ed internazionale.

Attenzione: questi orientamenti sono congruenti anche con la maggior parte della popolazione adulta in Italia, che, in rapporto ai paesi tecnologicamente avanzati è in una fase di analfabetismo di ritorno, con la dispersione di abilità, deficienza di conoscenza, degradazione delle competenze.

Una strategia è quella di poter dare voce a tutti, anche a noi italiani, riguardo le esigenze di cittadinanza e di formazione. La narrazione autobiografica utilizzata nei percorsi di bilancio delle competenze porta in luce aspetti delle competenze trasversali ed emotive, atte a pianificare un nuovo percorso di apprendimento.

Ecco perché il riconoscimento delle competenze in ambito interculturale è un obiettivo strategico. Vi sono sicuramente effetti positivi anche per il mondo dell’impresa, che può conoscere i lavoratori e le loro caratteristiche, aprendo un ulteriore dialogo con il sistema di istruzione e formazione e i servizi per l’impiego attraverso un linguaggio comune.

Occorre inoltre conciliare l’esigenza di lavorare con i tempi dello studio, perché molti cittadini immigrati lavorano senza un contratto di lavoro regolare, il che non gli permette di accedere a permessi di studio o a giornate di ferie retribuite, ma soprattutto li sottopone ad orari di lavoro che superano largamente i limiti consentiti dalla legge. Le condizioni lavorative precarie e irregolari, la scarsa disponibilità di risorse economiche portano queste persone a vivere in situazioni di disagio abitativo, con un sistema di trasporti inefficiente.

Per quanto riguarda coloro i quali si trovano ospiti nei centri di accoglienza, la durata sempre più breve del progetto di accoglienza va a discapito della possibilità di considerare un progetto di inclusione educativa che vada oltre il conseguimento del livello base della lingua italiana. Per quanto riguarda le persone che arrivano con un bagaglio di competenze di medio alto livello, si verifica il trasferimento verso altri paesi europei dove si presentano migliori possibilità di inclusione per i cittadini immigrati.

La ricostruzione della propria biografia e l’emersione delle proprie esigenze, per definire un piano condiviso di una formazione itinerante, costituiscono le risorse per tutti gli adulti nativi e immigrati qui in Italia, oggi.

§CONSIGLI DI LETTURA: HAIL MARY

Project Hail Mary di Andy Weir (Autore),
Vanessa Valentinuzzi (Traduttore),
Prima edizione 2021, Edizione Italiana 2023,
Mondadori, Milano

Il romanzo di Andy Weir segue lo stile dei due precedenti come Martians (Premere qui per leggere un consiglio scritto di lettura) e (Premere qui per leggere un consiglio scritto di lettura) Artemis. Vi sono protagonisti, maschile nel primo, femminile nel secondo, che hanno un rapporto conflittuale con le autorità. Mostrano una distonia tra ciò che il potere e il diritto pretendono per il mantenimento dell’ordine sociale e per risolvere problemi scaturiti da pericoli incombenti, a fronte dei valori di libertà e democrazia che conferiscono a loro autorità.

Le esigenze del collettivo, o delle élite, se sopravanzano le richieste e le aspirazioni del singolo, spingono il protagonista del romanzo a opporsi a seguire una accondiscendenza formale ed acritica, fino a incorrere in reati penali come in Artemis. Il protagonista, come qui, in Hail Mary, cioè Randy Grace è una reincarnazione del Cow Boy Usa che è si fedele ai valori della comunità tutta, ma che è capace di azioni di rivolta, di rinuncia, di conflitto. Intraprende una vera ribellione, non tanto per sovvertire l’ordine costituito, quando, secondo la sua ottica, di renderlo più aderente e non contraddittorio nell’esercizio del suo potere, rispetto a ciò che dichiara e a ciò cui si appella in ordine all’etica, alla morale e al diritto.

A fronte di un pericolo mortale per l’intero pianeta Terra, Randy Grace accetta di collaborare mantenendo un atteggiamento da battitore libero sia nell’effettuare una ricerca di biologia e di ritrovarsi poi coinvolto in una missione spaziale, a dir poco suicida.

Lo scrittore Andy Weir, qui, affina sempre più, come nei due romanzi precedenti, il suo stile ironico e avvincente, per coinvolgere il lettore come se stesse seguendo un serial in tv. Offre una rappresentazione scenica in cui si ha la sensazione di essere immersi accanto ai personaggi. Anche qui, in modo mirabile, segue il filone della Hard Fiction, ovvero la scrittura di fantascienza che ha sì una idea attualmente irrealizzabile, ma che, se presa per vera, tutto il contorno tecnologico e le nozioni di fisica, chimica e astronomia, sono vere e coerenti nella loro relazione. Vi è una attenzione maniacale dei moti dell’astronave. Si rileva che ha studiato molto di microbiologia, e delle relazioni tra la luce e lo scambio di energia negli organismi viventi.

È uno scrittore superlativo, e non è un caso il suo successo, anche nella riproduzione filmica dei suoi romanzi, in merito a una narrazione attenta ai ritmi di comprensione di ciò che è esposto. Non è un caso che ci si senta portare per mano nel comprendere l’ambiente ipertecnologico che fa da contesto. Anche qui ha frasi “slang” che possono essere comprese in modo compiuto solo da chi vive negli USA, anche per i riferimenti a particolari modi di dire riferiti a luoghi e a persone specifiche. E questo è un limite delle traduzioni di tutta l’opera di Andy Weir: sarebbe il caso di corredare con note esplicative, quella massa di riferimenti quotidiani che è offerta. Si dovrebbe avere la capacità, la voglia, e il tempo, come solitamente il sottoscritto compie, di avviare ricerche laterali per quei termini e per quei rimandi oscuri, che in realtà però sono rivelatori di analogie e di riferimenti che offrono nuove chiavi interpretative circa lo sviluppo della narrazione.

È un peccato che non siano esplicitate, perché queste rendono più concreti i personaggi, e in particolare il loro vissuto. Senza contare poi, che lo stile è comico, con battute e motti di spirito, che potrebbero essere più ficcanti, nell’inquadrare i contesti in modo meno approssimato.

Nei romanzi di Weir, come in questo, il monologo del protagonista la fa da padrone: scandisce l’intervallo con i dialoghi con gli altri personaggi. In Martians il soliloquio mentale traccia il prima e il dopo con i dialoghi e spiega lo svolgersi dei momenti topici nell’atto del loro svolgersi. In Artemis si riprende tale stile, aggiungendo un doppio dialogo che la protagonista ha con gli eventi del passato, in modo che siano incasellati nelle scelte dell’azione presente. Anche in Hail Mary vi sono queste due caratteristiche, ma il ricordo qui, non è solo un elemento per coordinare il monologo interiore, quanto un vero e proprio antagonista. Randy Grace all’inizio del romanzo è smemorato, e i ricordi arrivano goccia a goccia, non soltanto come elementi inerti, ma come un groviglio di situazioni reali che si accostano nelle vicende del presente.

Il passato viaggia in parallelo con il presente, e la riflessione, e la chiave dell’interpretazione viaggiano entrambe nel participio passato. Il futuro, invece, si ritrae continuamente. Tutto ciò rende dinamica la storia. Va vissuta fino all’ultimo senza farsi prendere dalla voglia di sapere immediatamente la fine. Una chiave dei successi di questi libri, risiede nell’abilità dell’autore di moltiplicare il personaggio principale in tanti se stessi sia nei dilemmi morali sia nel corso della narrazione, in modo che tutti siano presenti, offrendo quindi una riflessione autoironica, disincantata e briosa.

È facile immedesimarsi con i protagonisti, perché, nonostante le avversità, i disastri, i propri limiti, hanno comunque uno spirito positivo. Cercano di capire l’oscura minaccia che si avvicina e affrontano il pericolo nel tentativo di elaborare tattiche e strategie di risoluzione. Si rimane stupiti di quante risorse emotive e cognitive i protagonisti tirino fuori dal cappello, ma Andy Weir è abile nel mostrarcele nei momenti di massima tensione, offrendo quindi l’immagine che anche noi, in condizioni di necessità, saremmo capaci di reagire in modo proficuo ed adeguato.

Per questo stile che definirei fresco e corroborante, questo libro andrebbe vissuto e sperimentato nel chiedersi quali siano i propri limiti, e nel pensare le soluzioni più adeguate per risolverli o perlomeno ridurli.

Dietro l’apparente comicità del romanzo, però sono trattati temi capitali, come l’ambiente, il senso della propria esistenza qui in questo pianeta, e l’anomalia stessa che è la Terra rispetto agli astri. Vi è un tributo alla volontà di vivere associata a una genuina sete di conoscenza.

Come in ogni sua opera Andy Weir si documenta in modo minuzioso chiedendo la collaborazione di esperti e di scienziati circa gli argomenti e gli ambiti scientifici e tecnologici in cui la narrazione è intessuta. Vi sono descrizioni della biologia molecolare e quella dei batteri. Vi è anche una ideazione comparativa riguardo le diverse forme ucroniche di evoluzioni della vita in pianeti diversi. Vi è un’ottima applicazione dei modelli delle teorie dell’evoluzione. E alla base di tutto, vi è una descrizione precisa ed attendibile dei fenomeni astrofisici e delle leggi di rotazione e di spinta per i viaggi interstellari.

La lettura di questo libro offre un’occasione per approfondire l’ostico concetto delle teorie della relatività, in particolare per le relazioni tra lo spazio e il tempo in funzione di velocità quasi prossime a quella della luce. L’esposizione, infatti, è accessibile, lineare, senza scorciatoie “gergali” o ad “effetto” che mascherano eventuali incongruenze fisiche e astronomiche.

È uno scrittore onesto: parte da una idea che è fantascientifica, ma l’ambiente e lo sviluppo della narrazione è coerente con le nostre effettive conoscenze teoriche e con le possibilità tecnologiche di oggi.

Per questo l’autore può essere considerato un rappresentante dei nostri giorni degli approcci dei grandi scrittori di fantascienza della “Età dell’oro” che oggi si definisce tra gli anni quaranta e metà anni sessanta del secolo scorso.

Vi è un elemento ulteriore che è più strettamente estetico. All’interno della trama, vi sono due grandi proiezioni dei modelli dei cicli vitali qui nella Terra e delle diverse forme di un paradigma finalistico di ciò che è il futuro e delle responsabilità delle specie più evolute. Qui siamo in un campo in cui è lo scrittore che si confronta con l’etica e la speranza.

È un’opera a tutto tondo che riempie i polmoni d’aria fresca e pulita e si sorride con piacere nell’adagiarsi a una lettura avvincente, onesta, e tutt’altro che superficiale.

§CONSIGLI DI LETTURA: L’ESTATE INCANTATA

L’estate incantata di Ray Bradbury, 2019,
(Prima ed. 1957) Collana: Moderni,
Mondadori Milano

L’incanto nella visione di un bambino in una veste animistica. Ogni cosa acquista una vita propria. Il Sole nelle case, nelle mura, le luci. Le stelle che spariscono con un soffio del bimbo per offrire lo spazio per il ciclico tragitto del carro del sole. Le strade che si illuminano come occhi di drago. Arriva l’estate. Lui, Douglas, sveglia tutti. Le luci del mattino delle case si aprono come grappoli nell’orizzonte e nel converso i lampioni nella città si spengono come candele su una torta nera. Voler essere nudo tra gli alberi, portando sulla pelle il freddo del congelatore e il caldo della nonna che arrostisce i polli.

Metafora, sinestesia, allegoria. Per un bimbo tutto è un simbolo che si scopre per ogni oggetto: la magia che porta nuove parole dalle fiabe e dai racconti. Ogni elemento della realtà è uno scrigno di invenzioni.

La città viva che pulsa rigogliosa nelle nuove e crescenti ramificazioni estive per ragazzi che giocano tra il possibile e il reale, tentando di realizzare l’immaginazione negli eventi del mondo.

Gli adulti sono ancora bambini e non lo sanno: ecco perché falliscono. Non riconoscono di esser già quello che di cui vanno perseguendo, ma Douglas e i suoi compagni invece riescono a scorgere il tesoro. La macchina della felicità di Spaulding fallisce miseramente, ma alla fine si accorge che questa è fornita dall’amore della moglie. Il vecchio colonnello Freleeigh cerca di mantenersi in vita riportando il passato nel presente, capendo però alla fine di esser lui stesso la congiunzione temporale, utile e benefica per i più giovani.

La quasi centenaria Loomis che offre nuove vite e altri mondi già accaduti al giornalista Forrester, che la segue abbeverandosi alle sue considerazioni, fino a quelle più preziose.

“[…] In un pomeriggio di primo settembre William Forrester attraversò il giardino di Helen Loomis e la trovò intenta a scrivere. Lei mise da parte la penna e l’inchiostro. «Le stavo scrivendo una lettera» confessò. «Be’, dato che sono qui può risparmiarsi la fatica.» «No, si tratta di una lettera speciale. Guardi.» Gli mostrò la busta azzurra, che chiuse e premette. «Se la ricordi. Quando il postino gliela recapiterà, lei saprà che sono morta.» «Che discorsi sono questi?» «Si sieda e mi stia a sentire.» […]

 «Ma lei non può predire la sua morte» disse Bill. «Per cinquant’anni ho guardato la pendola in salone, William; dopo averla caricata so indovinare al secondo quando si fermerà, e nel mio caso è lo stesso. I vecchi le sanno, queste cose: sentono la macchina che rallenta e gli ultimi pesi che calano sul piatto. Oh, per favore, non mi guardi a quel modo… per favore.» «Non ci posso fare niente» disse lui. «Abbiamo passato insieme dei bei momenti, vero? Le nostre chiacchierate quotidiane erano qualcosa di speciale. C’è una frase abusata in proposito: “l’incontro di due spiriti”.» Helen rigirò fra le mani la busta azzurra. «Ho sempre saputo che la qualità dell’amore viene dallo spirito, anche se il corpo a volte si rifiuta di ammetterlo. Il corpo vive per conto suo, vive per cibarsi e aspettare la notte. È essenzialmente notturno. La mente invece, William, è nata nel sole, e passa gran parte della vita sveglia e all’erta. Si può trovare un equilibrio tra il corpo, pietosa ed egoista creatura della notte, e l’intelletto, fatto per una vita solare e attiva? Non lo so. Ma so che quando la sua mente e la mia si sono incontrate, i nostri pomeriggi in giardino si sono trasformati in qualcosa di unico. C’è ancora molto da dire, ma rimanderemo alla prossima occasione.» […]”

Douglas gioca, si interroga, sperimenta, vede le nascite e gli abbandoni. Da dodicenne qual è sente nel suo intimo l’idea del mutamento e il senso della morte. Prova la disperazione del rifiuto di tutto, inizialmente perché non vuole dipendere da nessuno, dato che tutti prima o poi lo abbandoneranno o moriranno, e le cose come le scarpe da tennis e i giocattoli si romperanno.

“[…] Quindi…! Inalò due profonde boccate d’aria e le espirò lentamente, fra i denti stretti. QUINDI. L’ultima parte la scrisse in tutte maiuscole. QUINDI SE I TRAM, LE MACCHINE, GLI AMICI E I CONOSCENTI POSSONO ANDARSENE PER UN POCO O PER SEMPRE, ARRUGGINIRE O CADERE A PEZZI; SE LA GENTE PUÒ ESSERE ASSASSINATA, SE PERFINO LA BISNONNA, CHE AVREI GIURATO CAMPASSE IN ETERNO, PUÒ MORIRE… SE TUTTO QUESTO È VERO… ALLORA IO, DOUGLAS SPAULDING, A MIA VOLTA UN GIORNO… DOVRÒ… Ma le lucciole, come spente dai suoi lugubri pensieri, non facevano più luce. In ogni caso non posso scrivere più, pensò Douglas. E non lo farò. Finirò un’altra volta, non stanotte. Dette un’occhiata a Tom, che dormiva appoggiato sul gomito, la guancia nel palmo della mano. Gli bastò dargli una spintarella perché Tom crollasse nel letto, silenziosamente. Douglas prese il grande boccale con le lucciole e lo agitò: come vitalizzate dal suo tocco, le bestiole splendettero di nuovo. Douglas guardò l’ultima pagina, che aspettava le sue conclusioni. Invece di scrivere parole andò alla finestra, alzò la zanzariera e liberò le lucciole, che si sparsero di qua e di là nella notte senza vento. Si affidarono alle ali e volarono via. Douglas le guardò scomparire. Se ne andavano come i pallidi frammenti dell’ultimo crepuscolo di un mondo morente. Se ne andavano come gli ultimi brandelli di calda speranza dal palmo della sua mano.

[…]”

Ma l’intimità della sua irresistibile capacità a stupirsi e a notare che anche l’estate prendeva congedo, lo lasciò di nuovo ammirato per i primi doni dell’autunno che lanciava messaggi di arrivo. E anche qui, sentì nel suo intimo l’incanto di questi doni, che, non avendo ancora nomi, la sua meraviglia li portavano in una presenza piena di vita, e con uno slancio poetico tra i suoni e le luci, nuove sinestesie apparvero.

Quest’opera è un formidabile canto dei corsi del vivere, sempre diverso, mutevole, caduco, ma tenace, tra il dolore e il sorriso, nella conoscenza del dolore e nell’abbraccio al tesoro del proprio animo: l’inimitabile patimento del vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: POETI D’UCRAINA

Poeti D’Ucraina, a cura di Alessandro Achilli –
Yaryna Grusha Possamai, Mondadori,
Collana Lo specchio, 2022


Questo libro è un’apertura ed un invito verso un mondo caleidoscopico e muta forma, accogliente e resistente rispetto alle avversità dei tempi, dei lutti, dei rivolgimenti in una terra in cui si sono riversati i popoli nei millenni, lì in parte risiedendo e in altre continuando ad attraversarlo.

Le terre d’Ucraina sono state e sono una spugna e un filtro degli attriti terrestri e delle strade ventose d’Asia e d’Europa, svolgendo, in più, una cesura d’equilibrio rispetto al medio oriente e ancor oggi parla e manda vita e cibo alle terre d’Africa. I popoli, le lingue, le culture, le genti, chi in pace e chi offendendo, hanno preso e preteso in questo paese. Considerato inesistente o gigantesco. Eppure anche nelle volontà d’arrecare danno e inibizione per questi luoghi, considerandoli meramente materia disponibile, tutti a loro si rivolgono. Non possono fare a meno di volgere lo sguardo in questo mondo, che, nonostante le offese e il sangue, sempre nuova vita è rinata. E nuove parole e modi di vedere il mondo. Certo è comune a tante vicende e popoli della terra, però, qui, si ha una caratteristica che risalta: la memoria di ciò che si è stati, di come ci si è trasformati con l’avvento di nuovi popoli, mantenendo un filo conduttore comune cui la lingua e le espressioni culturali essendone una espressione mutevole, a esso risalgono. La consapevolezza di avere una propria definizione: essere parte dei popoli d’Ucraina.

Nei secoli l’Ucraina ha accolto le lingue, le persone, gli stili letterali e poetici dei paesi limitrofi, e tra i confinanti e i loro figli lì nati, si sono innestati nuovi rami che hanno contribuito a generare non un singolo albero, ma intere foreste di trame narrative, storiche e di miti che conferiscono un senso, un colore e un’estetica. Ciò si è delineato fino ad oggi a determinare le ricostruzioni storiche che permettono una visione feconda e creativa verso il futuro.

I poeti d’Ucraina solo negli ultimi due secoli sono stati autoctoni, russofoni, polacchi, lituani, tartari, cosacchi, romeni, moldavi, slovacchi, ungheresi, provenienti da quell’altro agglomerato in continua evoluzione che sono i popoli delle terre del Caucaso, e fra gli stessi popoli provenienti dalle terre della Russia. 

L’attività poetica è verticale. Ogni testo poetico cerca di rappresentare l’universalità partendo da una occasione sentimentale, temporale, o da un oggetto considerato trasparente, ovvio, banale. Vi è una differenza però per il lettore medio italiano. In Italia da decenni siamo abituati a considerare il poeta nostrano inserito in un contesto nazionale che ha il patrimonio della lingua italiana come un mare creativo trasparente e ovvio. Certo può essere anche un poeta sperimentale e dialettale. Non importa: sempre nell’alveo di un contesto italico è reso nell’immaginario estetico uniforme. Così non è per l’Ucraina: ogni persona è già bilingue o trilingue dalla sua stessa famiglia, oppure anche se reputa di parlare una lingua unica, usa termini propri di ceppi diversi. Ovvero ogni poeta, qui in Ucraina, è un gruppo di persone, più famiglie, luoghi diversi, ricordi ancestrali che vanno dall’Austria fino al Kazakistan. E sì vi è anche di italiano. Anzi molto di noi italiani, genovesi, veneziani (prima ancora dell’unità d’Italia) in Ucraina. Ogni poeta e poetessa ucraina è una moltitudine di approcci linguistici diversi all’interno di una lingua e anche una lingua con più approcci culturali diversi. Eppure ognuno sa dentro di sé distinguere quel nucleo che è la linfa sua creativa e che parte dall’appartenenza primaria alle terre d’Ucraina.

Molti di loro sono stati e sono ancora oggi, di queste ore, perseguitati, torturati, incarcerati, uccisi, e le loro opere obliate. Anzi, nei secoli i popoli circostanti oltre a voler negare l’esistenza istituzionale dell’Ucraina, hanno voluto e ancor oggi cercano di eliminare la lingua, la storia, l’anima ucraina.

Eppure, nei dibatti attuali, specialmente di questi giorni di guerra, di stragi e di orrori in quelle terre, l’Ucraina offre tanto al mondo di cibo, di materie prime, di persone che lavorano all’estero, di idee, di creatività, di manufatti sempre più sofisticati. E principalmente sperimentazioni estetiche e narrative, che hanno anche una valenza identitaria popolare, politica, di resistenza, di cittadinanza. La caratteristica è l’apertura e la creazione di qualcosa che sia sempre ulteriore, avendo però un occhio rivolto alle proprie origini.

E mia sia consentito dire ai russi: l’Ucraina sarebbe stata e lo è e lo sarà per il prossimo futuro, una occasione formidabile per la quale potranno essere qualcosa di diverso, di migliore e di fecondo per i popoli a venire. Di lasciare la visione imperiale che avanza fagocitando e distruggendo, ma di ampliare migliori condizioni di possibilità per l’esistenza di ogni abitante del luogo e anche dei vostri paesi delle Russia. La libertà d’Ucraina è la garanzia futura per la sopravvivenza della Russia e per un suo sviluppo inedito e migliore. La madre Russia crea come quella Ucraina, ma molti dei figli suoi, la rinnegano e avanzano solo volendo il sangue. L’estetica, la democrazia e la creatività ucraina sono forse l’unica occasione affinché la Russia come la conosciamo possa prosperare nel futuro. Sembra un paradosso, ma lo stesso sviluppo dell’Ucraina salderebbe nuove radici per la Russia, partendo proprio dalla poesia: il luogo della gloria, della bellezza, dell’amore, della morte, della sofferenza e della rinascita.

Questo libro è iniziato a esser redatto otto anni prima della pubblicazione nel 2022. Non è solo un prodotto derivato indirettamente dalla tragedia in corso. Vi sono ovviamente selezioni, quello che offre è un insieme di chiavi di accesso, e qui per quanto mi riguarda mi soffermerò in modo non esaustivo, su alcuni punti di riflessione per noi italiani, in una terra che consideriamo lontana, eppure i nostri avi tanto ne hanno avuto a che fare. Dimentichiamo che molti ucraini e ucraini in questi ultimi decenni si sono stabiliti in Italia, e hanno teso rapporti forti, plurimi e diffusi, tanto da apparire trasparenti. Le culture dell’Ucraina da decenni sono aperte al popolo italico e stanno seminando inedite prospettive già presenti. Sta solo alla nostra curiosità, alla nostra capacità di ascolto e di interagire, permettere che questo fiume carsico, finalmente emerga, fecondo e bello di vita.

Mi focalizzerò su alcuni tratti che emergono dalle poesie degli autori, che rimando alla lettura del libro, perché sono tante e per ognuna non basterebbero dieci pagine per discuterle.

Vasyl’ Stus (1938-1985 – morto anche per le lunghe detenzioni nei Gulag). È uno degli uomini più osteggiato e perseguitato fino a controllare ogni ora se avesse o meno la possibilità di scrivere, per negare anche l’atto di prendere una matita, o un pezzo di legno. Un ponte gigantesco della poesia dell’ottocento, non solo delle terre D’Ucraina, anche dell’intera Europa. Classico e romantico. Una esplosione di creatività e di versificazione. L’<io> come colui che è un mondo gigantesco, multiforme che si interroga su di sé, sul mondo, sul tempo, sul senso dell’esistenza, partendo però dal suo stesso dubbio. Le sue poesie hanno domande e invocazioni che sanno già in negativo dell’impossibilità della risposta. Dalla limitatezza e dallo struggimento, dalla concatenazione logica e razionale, procede nei versi con un crescendo continuo di richieste, sempre più profonde, fino ai sensi ultimi dell’esistenza. Nella traduzione italiana il ritmo delle domande e dell’accostamento verso il tempo, il mondo e l’eternità è giustapposto con invocazioni al futuro, risposte del passato, in un gerundio ritmico che non è ripetitivo. È una spirale che riparte dal punto iniziale come un nastro di Moebius in timbri sempre nuovi. È una continua variazione nel chiedere chi sono “io”. È un chiedersi estetico meraviglioso in cui questo uscir da sé, è un ritorno nei punti di appoggio: nascita e morte, speranza e orrore, corpo e sangue. Ecco perché ogni potente e ogni dittatore ha paura della sua opera: svela l’inganno e la violenza sciocca e muta. Hanno cercato di obliarlo in tutti i modi, ma Vasyl’ Stus riesce a parlare anche attraverso la sua morte.

***

La poesia libera della “Scuola di Kyjiv” nata negli anni Quaranta nega la prospettiva storica proposta dal regime sovietico nell’ottica di una predeterminazione diretta da un apparato statale che è ordine e senso del mutamento sovraordinato sopra qualsiasi individuo. I luoghi creativi intessono relazioni astoriche tra le cose, cioè il mondo con l’uomo che è un individuo aperto a prescindere del suo “ruolo” e “funzione”. Lo stile talvolta astratto ed ermetico tende a delineare una attività poetica difficilmente riassumibile dai canoni totalitari politici ed estetici e a generare luoghi in cui nuove istituzioni immaginarie della società possano apparire. I loro testi furono pubblicati finalmente nella seconda metà degli anni Ottanta.

Mykola Vorobjov offre istantiquotidiani e privati, apparentemente immediati, ma l’uso e la sperimentazione di colori, toni, aggettivi sostantivati delle cose del mondo come la neve, le foglie, i diamanti, il pesce, sono attrattori di metafore e traslazioni predicative di azioni e di funzioni, dove il poeta, il parlante, l’individuo, ricostruisce il passato saputo ora, nell’attività poetica, come “suo”, e lo proietta nel presente, assieme al lettore. La situazione nella attività di versificazione scandisce un tempo che delinea senso nel ritmo delle strofe e in queste cuce una biografia itinerante, attorno a un istante, che in tal modo, può essere di tutti.

Mychajlo Hryhoriv invece adotta uno stile asciutto, di non facile comprensione, ma con scopi analoghi a Vorobjov: affidarsi a una spinta creativa nel chiedere il “perché” delle cose. La richiesta è rivolta a sé, e poiché si parla di poeti, l’attività del versificare è ciò che ritorna nel punto iniziale. Il dito è rivolto verso il proprio petto. La struttura di questo domandare è analoga a quella del mondo, ed è una metafora dell’espressione estetica.

Vasyl’ Holoborod’ko richiede risposte impossibili come i due poeti precedenti con uno stile immaginifico, decisamente diverso. Le “cose” e le “situazioni” di Vorobjo e di Hryhoriv, infatti, appiano scarne e minute, tali da agglutinare significati nascosti, accessibili solo dal versificare del poeta che cerca di attirarle mediante domande esistenziali. Holoborod’ko invece si lascia travolgere dalle costellazioni di significati che erompono con metafore ed analogie, per le quali l’io del poeta incarna ogni loro significato. Il poeta è l’albero e la pioggia che assieme al mondo crea una comune situazione estetica piena di luci, timbri, slittamenti semantici, ostili a qualsiasi criterio regolativo.

***

Negli anni di Gorbaciov nasce il gruppo visimdesjatnyky cioè i “poeti degli anni Ottanta”, figli di famiglie di intellettuali, e studenti universitari con uno sguardo meno legato alle tradizioni e alla postura emotiva del periodo della Stagnazione, cioè di Breznev. Vivevano gran parte a Kiev ed essendo molti coetanei, frequentando l’università e luoghi di ritrovo come i bar, scrivevano dappertutto anche nei tovaglioli, scambiandosi citazioni, versi, idee, spunti, contrastando quindi il forte controllo quotidiano e la censura. L’altro polo del gruppo è nella città di Leopoli che usa la cultura carnevalesca come uno stile poetico di resistenza e agonistico verso il potere, attraverso l’ironia, il sarcasmo, il comico. Innovativi, ma con uno spirito che noi diremmo medievale, in cui le maschere di carnevale, e i giullari assolvevano a una funzione antiautoritaria. E qui questa poesia funge da ponte per gli anni novanta.

Hryc’ko  Ćubaj, scomparso nel 1982 a Leopoli, offre una lirica ermetica che si genera nell’istante di tempo, considerato infinito, in uno spazio per il quale qualsiasi oggetto di una stanza, o di un ramo visto dalla finestra, rappresenta l’occasione di esprimere un patimento cosmico. I corpi vengono descritti nelle relazioni che il poeta ha con l’amante, con il cielo, il Sole. Le sensazioni nel ritmo dei versi, attraverso le sinestesie e le metafore in una espressione progressivamente più intensa di aggettivi sostantivati, compongono l’io del poeta in quell’istante che è tutto. Tutto lui, tutto il mondo e l’integrale delle emozioni che si hanno rispetto a ciò che è innanzi. Le sue poesie sono un grande collettore di metafore, che, più complesse sono, più riescono ad abbracciare gli astri in un cammino aperto e infinito. 

Natalka Bilocerkivec’ (poetessa) tende lo stile in un passaggio conflittuale tra la realtà e la sua rappresentazione, componendo per ulteriore contrasto un’affinità tra i due poli, considerando la vita quotidiana e quindi anche sotto quella della censura, una recita teatrale, vera però e concreta, fertile comunque per il poeta. L’attività estetica è la memoria di questa ipotetica scissione, e il testo poetico ne è la rivelazione, indicando, in più, un vivere ulteriore e indefinitamente più ampio.

Oksana Zabuźko (poetessa) porta l’intero popolo ucraino nel tempo del novecento, mostrando come nel secolo del presente, il vivere e il respiro sia stata rubato e truffato da parole e idee che hanno ferito le città, i giardini, le terre. Il ritmo del poetare varia da strofa a strofa, in connessioni logiche ed entimematiche di più livelli, dove l’invocazione e la richiesta di attenzione verso il lettore, attraverso gli oggetti mancanti e quelli desiderati, proietta il futuro all’indietro in questo presente agro. Il collasso temporale è la stessa composizione poetica che permette la memoria, feconda e innovativa per chi sa e per chi voglia raccogliere le voci nostalgiche convertite nella speranza pudica, ma tenace.

Ihor Rymaruk   il poeta che nella prigionia, avverte l’impossibilità di porsi in relazione libera con l’ambiente, attraverso lo slancio poetico, decomponendo il suo io, per immergersi di volta in volta, e in concomitanza, con gli animali, con la risata di un bambino, con una rosa. Vi sono analogie che diventano legami corporei fino a fondersi nelle interiezioni che invece di troncare gli accenti e le consonanze, aprono ai suoni che compongono slanci ibridi di nuove forme estatiche, al di fuori dei manuali, delle regole, degli ordini, delle prescrizioni artistiche. La terra d’Ucraina è la pagina infinita di questo versificare.

Oleh Lyšeha La fuga come libertà, l’inversione simbolica che rompe il mare di ghiaccio e di violenza fredda e istituzionale. L’io è più libero e vero, quando si estrania, alienandosi da sé, nel senso non di negare concetti, idee e valori di vita, quanto nel riconoscere la loro limitatezza. Tutto ciò, essendo piccolo, non può inglobare il mondo inconosciuto. Non a caso il suo poetare è centrifugo, ma i versi che dileguano, le allitterazioni e le invocazioni che non si chiudono, i singoli predicati che offrono plurimi complementi oggetti in quanto astratti, quindi possibili di singole individuazioni, ecco tutto ciò non è sintomo di una demolizione. Lo stato apparente di vuoto riceve una costellazione di tracce timbriche lasciate dalle strofe, in modo tale che l’io del lettore abbia il suo sentiero biografico da percorrere.

Attyla Mohyl’nyj diffonde versi che invertono i tempi portando un passato non pienamente compreso e vissuto, che, diventando una mancanza, viene catapultato in un futuro anteriore, attraverso il ritmo poetico riferito alle assonanze predicative verbali del camminare, vagare, salire e scendere, tra vie e filobus, tra muri e periferie, tra tempi di lavoro e di svago. È una clessidra che dal centro proietta strofe verso le due basi in modo simmetrico, applicando un collasso temporale, in cui la linea del tempo narrato diventa un nastro circolare, e in esso s’emana l’abbraccio della speranza, dell’amore, dell’amata, e del canto. Un inno alla casa comune che è l’Ucraina.

Jurij Andruchovyč offre il gran pentolone degli stili che convergono in vortici di consonanze terminologiche e assonanze metriche che rimandano a canti dei cosacchi, alla poesia “importante” europea. A prima vista sembra un vestito di Arlecchino di citazioni, ma ognuna di loro è strettamente connessa nell’offrire una melodia tra le parafrasi che permette il gioco, in modo da rompere le catene della prosa lineare e carceraria. Non è un caso che i tratti biografici emergano, come la fuga in Italia, e la consapevolezza di esser straniero e clandestino, ma nella volontà di lasciarsi giudicare e parlare dagli italiani, lui e la sua compagna, in modo da assorbire i nuovi punti di vista e le estranee parole per tradurle nell’ultima struggente poesia pubblicata qui. Ed è questo lo spirito Ucraino: accogliere gli influssi altrui per riproporli in una sensibilità inedita.

Tra gli anni Novanta e Duemila appaiono i “poeti dell’Indipendenza”, coloro che nacquero tra gli anni Settanta e Ottanta. E si caratterizzano in primo luogo per le esibizioni orali al pubblico, più che comunicare prevalentemente con la carta stampata. Si moltiplicano i caffè letterari e gli ascoltatori. E partendo da un’impostazione orale, il verso libero ne è la matrice, per il quale all’interno della prosodia, fioriscono i neologismi, gli slang e il lessico quotidiano. L’io del poeta, passa in primo luogo attraverso il corpo, la materia, l’odore. Esplodono le assonanze e le allitterazioni. Le piazze sono il luogo di sintesi come nel 1990 per la “Rivoluzione sul Granito”, la prima Majdan, successivamente nel 2004 e infine nel 2013-2014. Il poeta non guarda all’istituzione, a un posto di docente, ma di vivere della propria libera professione di poeta che è quindi una pratica di vita.

Serhij Žadan

La presenza del proprio tempo. Qui la storia delle terre d’Ucraina e delle genti, del passato, delle loro confluenze tra i popoli, tutti convergono nel conflitto che inizia, non tanto per rivendicare una nazione libera, quanto per rivendicare l’autonomia che già esiste, nonostante sia malferma, per gli attacchi esteri, e per conflitti interni. Qui Žadan versifica nel confine e nei punti cardinali che orientano i vortici dei conflitti, ove i linguaggi, i tempi, e il mito sono concretamente confluiti nella sofferenza dei singoli. Si mantiene la propria aspirazione alla vita e alla libertà attraverso lo sguardo strabico che ha ogni cittadino. Est e ovest: i poli che conferiscono un senso ai confini del paese e che, nel contempo emanano spinte di opposta direzione. Il treno, la ricerca di uno spazio e di un lavoro, oltre a ingegnarsi ogni giorno con il fucile per sopravvivere a una guerra subita, sublimano in versi che diventano un memoriale. L’innovazione risiede nello scambiare il ritmo dei verbi che descrivono i patimenti dell’<io> ucraino, in un inno che celebra la normalità del quotidiano come un fine da perseguire, respirando arterie di ferrovie, globuli rossi di vagoni, tra le giunture dei capolinea. Un corpo che pulsa dolore e vita della terra.

Marianna Kijanovs’ka

Una poetessa che moltiplica il proprio io in tante donne, che, tutte assieme, rappresentano le anime delle genti d’Ucraina, dove ognuna di esse s’accomuna con le lacrime, la gioia, e la morte. Il corpo dell’io della donna diventa un amplificatore dei moti della natura, degli animali, della flora, in cui ogni verso utilizza aggettivi e attributi dell’ambiente vivo e inanimato, rendendoli soggetti che compongono le declinazioni di questo poetare. Questo versificare è lo stesso patimento del corpo e della voce della poetessa. Tra le esplosioni di metafore, di allegorie e di sinestesie, tutte però non fuggono, ma convergono in questa terra. Tra i magnifici versi, ne cito solo uno che dice tutto in una volta: “L’ambra e lo smalto di una pioggia calda”.

Halyna Kruk ci avvolge con spirali prosodiche nelle quale l’<io> del poeta si converte nelle strofe in un “noi”. Il patimento, il dolore, e la speranza, non è solo mia che li canto e li declamo, ma di tutti, e di tutte queste anime di questa terra, e di me stessa, Halyna : una pluralità di voci che hanno una relazione con ogni altra pluralità fuori di me.  Esplodono le allegorie, tra un arcobaleno di metafore tra sentimenti, unioni, corpi, nascite e morti.

Oleh Kocarev cammina tra versi di uno o due parole concatenate foneticamente e intrecciate semanticamente, in una struttura sequenziale che va di pari passo con il tempo. È un versificare che scandisce e riporta i secondi che viaggiano, trasformandoli in storia. Tutto ciò che appare e muta in modo concomitante, attraverso il poeta che raffigura e che prefigura, il mondo si sfila in un binario temporale. Attraverso una descrizione della terra, del popolo e della lingua, le strofe esprimono la tensione prosodica tra l’aria che disperde e la terra che sotterra, e qui nei tentativi di render senso alla memoria e scopo per il futuro, come due acciarini, la fiamma poetante crepita senza fine.

Olesja Mamčyč è il luogo della poesia che riporta un mondo reale come se fosse una favola. Ogni predicato è già una sintesi di significati, concreti e duraturi. Lo stare dell’io del poeta, si rivela attraverso gli entimemi e la sineddoche. Ogni luogo diventa un ambiente attraverso la prosodia, e quindi ogni relazione assume una funzione attraverso l’armonia delle consonanze. È l’infanzia che gioca e crea.

Dopo gli eventi cruenti del 2014, sull’onda della Rivoluzione della Dignità, l’ucraina ha cominciato a pensarsi in un’ottica di ricostruzione e in particolare anche per la cultura. I poeti risentono della violenza, dello scoppio della guerra come se d’improvviso la terra si rivelasse una zattera su un mare in tempesta, sotto le intemperie di un vento che riporta le urla ancestrali del giogo e del sangue. Gli strumenti espressivi risultano monchi rispetto ai nuovi e tragici avvenimenti, ma tantissimi poeti versificano e vivono sulla loro pelle ciò che di lirico riescono ad esprimere. Dal 2014 come per reazione alle bombe e agli spari che rimbalzano sul terreno, riverbera una montagna di polvere che muta in poesia e in un inno verso le genti che ora definitivamente si vedono ucraine. Ed infatti ora i poeti provengono da ogni zona del paese.

Iryna Cilik

Ella più di tutti all’inizio canta come gli elementi siano violati, di come le nuvole sporche e appesantite lottino contro il Sole, e che i vapori siano intrisi dei fumi di sangue di un cielo ferito. Il mondo urla alla primavera che sembra dileguata. L’io del poeta che si proietta come corpo nel mondo, si ricompone nel dolore, attraverso la domanda del perché di tutto questo e di come ogni speranza sembra convergere in un imbuto silente e interrato. Lo stile innovativo dispone versi di domande incastonate e descrizioni semanticamente disallineate, rimanendo però inscritte in forme canoniche come i sonetti. Ed è qui, anche nel grigio irrespirabile, che il canto riemerge e fornisce un nuovo sentiero temporale e melodico.

Ljuba Jakymčuk riprende i temi di Iryna Cilik e approfondisce la decomposizione squartata di Luhans’k, di Donec’k, di Debal, con sperimentazioni innovative in tratti grafici appositi. È un poetare che va letto e parlato. La ripetizione e le cantilene compongono una struttura bivalente e a più livelli, infattida canto funebre commemorativo, si passa al lamento e allo strazio, generando un ritmo che si trasforma in iati e troncamenti. Le concatenazioni vuote, però, demarcano strofe che agiscono in parallelo e che quindi risentono e si riconoscono nella mancanza di una unione vivifica. Come radici di un albero divelto, i versi si immergono nel terreno per trarre linfa da nuove ramificazioni di senso.

La poesia pubblicata di Anastasija Afanas’jeva sembra rispondere a Ljuba Jakymčuk: Sì. È possibile poetare dopo che la gente è divisa, dopo Donec’k, Luhans’k, dopo che lo stesso versificare è considerato un rumore di fondo indistinguibile. Sì: è possibile perché, anche nella flebilità più anemica di energie e speranze, rimane l’ultima fiammella cui attingere il tempo, il senso, lo scopo, l’immagine stessa del vivere.

Ija Kiva, Jurij Izdryk si avventurano nel territorio strappato, nelle lingue bucate e censurate, nella ricerca di un nuovo equilibrio, dove il privato e il pubblico tentano nuovi intrecci, perché costellati da burroni di tombe, e rattoppi dispersi sui frammenti di pelle delle terre d’Ucraina. I versi attraversano i verbi all’infinito che predicano le azioni che si dovranno intraprendere per cercare le radici di una vita che non ha ancora un nome. L’ambiente ferito sgorga ancora linfa vivificante dalle vene lacerate. Si è obbligati a concatenare le strofe tagliandosi le mani e la bocca, ma non vi è scelta, perché la strada stilistica del patimento del poeta è quella che può dissotterrare le puzzolenti parole umide, per rischiararle con fatica sotto un Sole ottenebrato dal cielo fumante di ferro e acciaio. Le trame prosodiche sono lise custodi del tempo futuro.

Oksana Lutsyshyna e Pavlo Korobčuk parlano del divenire tramortito, dei figli mai nati e nominati, alternandola la rabbia e la preghiera verso il padre e il signore. I versi incuneano una collana di eventi nel presente che, essendo luttuoso, tramuta la prosodia in una catena che immobilizza. Nella fissità temporale i predicati verbali collassano in attributi degli oggetti che descrivono i colori del canto del poeta. Le Invettive e le preghiere ritornano sul poeta stesso, perché, non essendoci una risposta trascendente e immanente oltre la linea di confine del dolore, i complementi oggetti mancanti lasciano una esortazione che suggella le strofe in liriche d’attesa.

Serhij Žadan già citato nelle righe precedenti, riappare nel tempo della guerra di questi anni e come Oksana Lutsyshyna e Pavlo Korobčuk, converge il suo stile in un tono d’esortazione lirica che descrive il destino dei popoli e di queste terre, nel fuggire momentaneamente e portare con sé ciò che vale: le lettere, il pane della rinascita, le verdure delle terra che risponde sì, e non solo attraverso il sangue avvelenato. Dato che ogni confine è un Limes di guerra, il poetare deve versificare non più camminando, bensì nuotando nell’oralità dei fiumi e nelle correnti cromatiche tra le stelle, per conservare il nucleo di ciò che stava nascendo di questi anni. Il pesce deve volare. Le metafore debbono diventare verticali. Le allegorie utilizzano temi marinari. È struggente ed indicativa il titolo di una sua poesia: “Non dire mai queste parole se non fosse possibile” in cui vi è un verso che risponde “Proprio per questo non smetto mai di parlare”. I testi del poetare mutano le loro strofe in branchie e le loro relazioni in ovuli in cui germina la speranza.

Kateryna Kalitko   si inoltra nelle strade della notte, nelle terre silenziose, nei cieli senza sole, e negli anfratti di un al di là, dopo la devastazione e la perdita, eppure il ritmo dei versi in questa discesa fredda e infernale, pone il suo canto, che riverbera in una prosodia evocante l’eco di un futuro che rinasce dal passato. Il cammino e la strada, la strofa e l’elisione connettono un sentiero, dove le tracce di coloro che vivi furono, segnano la presenza nelle mele d’inverno, nella terra nera che risplende, nelle ossa dei cadaveri che si offrono agli uccelli. Per il ciclo ritmico delle assonanze che ripromettono il pasto che trasfigura in una nuova comunione.

Iryna Šuvalova  e  Julija Musakovs’ka offrono i canti dell’amore che proiettano elegie, laudi, inni alla ricerca del contatto verso l’altro, la terra, il mondo. Da un trifoglio emerge l’apertura d’un abbraccio in uno stile che è proprio del clima mutevole delle terre d’Ucraina. Anche dal freddo, dal ghiaccio, e dal ramo d’acciaio argentato che batte su un letto di fiume sparso di ossa, tra le scritte doloranti sui muri, nuove carezze richiamano il viandante con suoni evocanti la comunione dei versi.

E anche Borys Chersons’kyj con la satira e l’invettiva e Alex Averbuch con uno stoico realismo, indicano le strade per una rinascita. Uno giocando con gli stili linguistici, per affermare una lingua che è uno strano miscuglio come quella ucraina, e lo fa con un tono da giullare, in una corrosiva rima antiautoritaria. Mentre  Alex Averbuch nella consapevole insensatezza di nascere tra una linea di morte e dolore che finisce come un chiodo di legno rinsecchito, trasfigura il versificare in una palingenesi che abbraccia il destino di ogni essere umano. Il terrore dell’esistenza informa che riconosciamo il dolore e che quindi esistiamo pienamente consci nello stare nel mondo. È una lirica che avanza a tentoni, incespicando nella violenza, ma è tenace nel richiamo e nell’ode verso il caos della vita. 

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Le poesie scritte dopo gli eventi del 2014 sono tronche, documentaristiche, con il precetto morale di assolvere anche a una testimonianza storica, perché accerchiata, dato che la lingua e la possibilità di versificare sono sotto attacco con la minaccia di essere entrambe obliate. Più che mai ora, dal 2022 fino a queste ore e le prossime, tale condizione è presente e sempre più concreta.

Iryna Šuvalova dai precedenti canti d’amore, ora è costretta a patire il tragico senso poetico della guerra, non in modo metaforico o allegorico, o con sinestesie. Qui l’io della poetessa è totalmente fisico: il rifugio, la perforazione e la decrepitezza sotto i colpi e i fendenti della morte che ora è presente, dura, antropomorfa. I baci sono di questa amante nera che aspira cuore e anima a tutti. Le rime e le assonanze rispondono all’andirivieni della mietitrice di arti e di sentimenti, con il contrappunto della consapevolezza. Le strofe iniziano per negazione, mostrando come la realtà sicura è flebile e decomposta, ma nel contempo allaccia nuove versificazioni nel voler parlare un secondo in più, perché il dolore è ancora un segno di vita, come indica Julia Musakovs’ka. 

Lesyk Panasjuk riporta il dolore e la morte in un memoriale che ha lo scopo di documentare ciò che i russi stanno compiendo. Eppure dai volti sparsi sulla terra fioriscono gambi e steli di resistenza che, nel canto poetico, imbrigliano le prose scarne e dirette dei russi. Una terra d’Ucraina che permane e cresce.

E si conclude con Oleksandr Irvanec’, Viktorija Amelina e Halyna Kruk che offrono la resistenza del poeta assieme a quella del singolo individuo. Vi è il cuore che ritma, rima e pulsa in assonanza con le terre martoriate e in consonanza con l’impegno e la declamazione della promessa che fonda il futuro di un’Ucraina più unita e salda. Pienamente consapevole di una lingua che tra l’orrore, il buio e la morte, parla, patisce, e tiene salda la sorgente poetica, la quale in una funzione germinale coltiva il senso del vivere e del sorridere.

§CONSIGLI DI LETTURA: LE ORCHIDEE ROSSE DI SHANGHAI


Le orchidee rosse di Shanghai di Juliette Morillot,
Titolo originale: Les orchidées rouges de Shanghai,
© Presses de la Cité, 2001, et 2021 pour la présente édition,
Traduzione dalla lingua francese di Margaret Petrarca
e Serena Tardioli,
Prima edizione e-book: giugno 2022
© 2022 Newton Compton editori s.r.l., Roma

Nota dell’autrice: Questo romanzo è basato su fatti storici e numerose testimonianze. Tuttavia, per il bene della storia, l’autrice ha talvolta semplificato il corso degli eventi, soprattutto per rispettare i ricordi parzialmente confusi di Mun-halmeoni.

In aggiunta, io credo che molti di quegli avvenimenti siano stati a Lei attribuiti, dato che sembrano attribuibili, per mere logiche spaziali e temporali, a persone diverse. Ciò deriva anche dal fatto di non riferirsi a eventi in cui tantissime vittime (le donne di conforto – le prostitute schiave) hanno subito.

I Giapponesi non hanno mai subito un processo simile a quello avviato per i tedeschi a Norimberga.

In guerra i militari, se sono fortunati, hanno qualche giorno di riposo e di licenza, le donne no, perché esse subiscono la guerra ogni ora. I militari difendono una linea, un terreno, le donne, invece, salvaguardano l’intero ambiente e ne sono le prime a morire.

È un viaggio in un altro universo pieno di sensazioni, bellezze, speranze, orrori, tragedie, tutte vere ed accadute.

È rievocata la lunga guerra che parte dalla fine dell’ottocento, che la Corea subisce per opera dell’invasione del Giappone e di come ognuno cerchi di sopravvivere alle pratiche di oppressione costante e pervasiva per opera dei giapponesi: cancellare la lingua e l’identità di una nazione. Renderla una periferia dell’impero. I giapponesi perseguirono la volontà di generare intere popolazioni di Iloti: schiave del sesso, schiavi nel lavorare e prestare servizio, prostituirsi ideologicamente: vendere le proprie radici, e per pochi privilegi, diventare giapponesi di serie B. Rigettare la propria religione aderendo allo Shintoismo e venerando il Tenno: l’imperatore.

La storia rievocata di questa donna, dal nonno combattente, alla madre e al padre in dissidio, la famiglia di lei, fieramente resistente ai giapponesi, e il padre, devoto e ricco per aver venduto la sua anima all’oppressore.

La lettura del libro costituisce un’occasione per conoscere la cultura millenaria delle Coree, attraverso il cibo, le usanze, le parole, le spiegazioni di questi alfabeti e la loro differenza rispetto al linguaggio nipponico. Quante bellezze e sofferenze sono rievocate da queste culture millenarie che hanno subito invasioni dai mongoli, dai cinesi, dai giapponesi ripetutamente, dai francesi, e poi dagli americani. Fino ai nostri giorni, in cui l’attuale divisione nel trentottesimo parallelo, demarca a nord la fame e l’oppressione e a sud, oggi fiorente, l’addensarsi di nuove ostilità contro la Cina, e forse in prospettiva, nuovi ambiti di tensione contro il Giappone. Si respirano profumi e sapori intensi vivendo con i protagonisti e si subiscono emotivamente i flussi dei conflitti millenari e degli odi secolari.

Ed è notevole lo stile dell’autrice che alterna una descrizione del contesto conforme al lunghissimo monologo biografico della protagonista che parla ad una giovane che sta andando via dalla Corea. Tale stratagemma conferisce dinamicità rispetto allo svolgersi degli eventi, moltiplicando i personaggi in una loro concreta posizione antagonistica. L’espediente narrativo facilita un andirivieni coerente e lineare della postura presente dei dialoghi verso eventi prossimi e remoti. Riacquistano vita le sensazioni del suo corpo, dall’orrore della prigionia, alla solitudine da parte della famiglia, ad eccezione della solidarietà e cura donata dai nonni materni.

È mostrata, giorno per giorno la caduta nell’abisso senza fondo delle donne costrette alla prostituzione: la forma più infame, crudele e distruttiva di schiavitù. Nonostante tutto si riesce ad assaporare la volontà di vivere e di assaporare i pochi e residuali attimi di speranza. È offerta una sintassi di umanità che è comune a loro e a noi qui in Italia. Un abbraccio tra due mondi distanti, eppure così in risonanza, tra le paure e le speranze.

E quanto vi è di più universale dello svolgersi in presenza e nel tempo del rapporto tra una madre e la figlia? Tra la Corea e i suoi figli?

§CONSIGLI DI LETTURA: RESISTENZA E RESA

Dietrich Bonhoeffer
RESISTENZA E RESA Lettere e scritti dal carcere Introduzione di Italo Mancini.
Titolo originale: “WIDERSTAND UND ERGEBUNG”. Copyright 1951 by Chr. Kaiser Verlag, Munchen. Traduzione dal tedesco di Sergio Bologna.
Dietrich Bonhoeffer
RESISTENZA E RESA Lettere e scritti dal carcere Introduzione di Italo Mancini.
Titolo originale: “WIDERSTAND UND ERGEBUNG”. Copyright 1951 by Chr. Kaiser Verlag, Munchen. Traduzione dal tedesco di Sergio Bologna.

Un testo che forse può orientarci nei dubbi e nelle paure che attraversano questi giorni di guerre e pandemie e di angosce verso sempre nuove “crisi”.

Bonhoeffer  ha un atteggiamento e una visione del mondo da credente profondo, impegnato, con una fede pervasiva. Le sue riflessioni hanno per fondamento la fede verso la divinità. Per coloro che hanno un atteggiamento meno intenso, diverso, antitetico a quello del credente che professa attivamente la fede, questi scritti, sono comunque d’interesse perché toccano i temi relativi all’individuo in rapporto al potere che opprime e che uccide, alla norma che è sì coerente, ma che involve verso il male e la distruzione, al mondo che impone scelte vincolanti, comunque compromissorie e portatrici di dolore per sé e per gli altri.

B. afferma l’impossibilità a uscire fuori dal mondo, e anzi riflette sul fatto della presunta postura di distacco e di ascesi solipsistica, che è illusoria, ipocrita o arrogante, o stupida in certi casi. E nell’ultimo caso ritiene sia la condizione più pericolosa, perché derivata dalla volontà corrotta di non ammettere la propria paura, e quindi di obliare la convinzione di credersi il metro e l’unico portatore di sofferenza nel mondo.

Nonostante molte delle sue posizioni oggi ci allontanerebbero immediatamente dai suoi scritti, come quello (diciamo eufemisticamente “retrogrado”) del ruolo della donna all’interno del matrimonio, nello spazio pubblico, invece l’etica, la convivenza, il coraggio, la resistenza, la compassione, la limitatezza di sé in rapporto alla storia e al mondo, invitano a una riflessione sul nostro vivere.

“Resistenza e Resa” raccoglie le lettere ed altri testi scritti da Bonhoeffer nel carcere berlinese di Tegel, dove fu detenuto dall’aprile ’43 all’ottobre ’44, per poi essere trasferito nel carcere sotterraneo della Gestapo in Prinz-Albrecht-Strasse. Di lì i contatti furono molto difficili e rari, il 7 febbraio ’45 fu trasferito al campo di concentramento di Buchenwald, il 3 aprile fu a Regensburg, l’8 aprile passò da Schönberg a Flossenbürg, dove verrà giustiziato. La presente edizione alterna le lettere di Bonhoeffer a quelle inviatigli da parenti ed amici, suoi interlocutori sono i genitori, il nipote quattordicenne Christoph von Dohnanyi, il fratello Karl-Friedrich, l’amico fraterno e pastore egli stesso Eberhard Bethge (che diverrà il suo biografo) con sua moglie Renate, nipote di Bonhoeffer e qualche altro parente. Non vi sono le lettere alla fidanzata Maria von Wedermeyer con la quale Bonhoeffer progettava di sposarsi, rimaste a lungo inedite (esiste ora il volume Lettere alla fidanzata-Cella 92. Dietrich Bonhoeffer-Maria von Wedermeyer 1943-45, Bologna, Queriniana). In carcere Bonhoeffer riesce a leggere, scrivere, riflettere, pregare, riceve pacchi dai familiari e lettere, sia ufficialmente, sia clandestinamente. La corrispondenza con Bethge, che contiene le più importanti riflessioni teologiche di Bonhoeffer, inizia il 18 novembre ’43 durante la prima licenza di Bethge, militare in Italia, a Berlino, ed è clandestina.

42  Bonhoeffer pone come fondamento della libertà quella verso Dio nella visione di una teologia negativa. La divinità è indubitale, anche nella sua necessaria assenza nel mondo. L’essere umano non può vederla ed è impossibile che si nomini vate e custode del vero (cioè Dio). L’uomo e la donna testimoniano la lacerante certificazione dell’assenza della divinità, attraverso Cristo, cioè attraverso il suo annichilimento nel mondo. Non possiamo dire alcun “che” del vero, anche nella impossibilità a negarlo.

L’essere umano può sì agire, nella convinzione della libertà e quindi nel rischio di errare e di cadere nel male. Ed ecco che le lettere scritte dalla prigionia, sotto il controllo dei nazisti, testimoniano indirettamente la sua resistenza da prigioniero, perché oppositore del regime nazista, mentre era sotto gli interrogatori che lo porteranno, a pochi giorni della fine della seconda guerra mondiale , a subire l’impiccagione. Lui che poteva fuggire già anni prima, ma che ritornò in Germania per resistere. Lui che poteva evadere, ma che non lo fece per non causare danni a suo fratello già incarcerato.

42 Con la fuga da un confronto pubblico, qualcuno riesce a ripararsi nel rifugio privato dell’essere ́virtuoso. Ma deve chiudere gli occhi e la bocca di fronte all’ingiustizia che lo circonda. Può evitare di sporcarsi con un’azione responsabile soltanto a costo d’ingannare sè stesso. In tutto ciò che egli fa, lo accompagna il tormento per ciò che egli non fa. Finirà per essere sopraffatto da tale tormento oppure diventerà il più bieco fariseo.

44 Finchè il successo è dalla parte del bene, possiamo concederci il lusso di considerare il successo eticamente irrilevante, ma non appena sistemi condannabili conducono al successo, sorge il problema. Di fronte ad una simile situazione, ci accorgiamo che non ne veniamo a capo nè con un atteggiamento di chi osserva e critica sul terreno teorico e vuol avere sempre ragione, ossia rifiuta di porsi sul terreno delle cose, nè con l’opportunismo, cioè con la rinuncia a sè stessi e la capitolazione di fronte al successo. Non vogliamo nè dobbiamo essere critici offesi o opportunisti, ma corresponsabili nella formazione della storia – caso per caso e a ogni istante, come vincitori o come sconfitti.

47

“Disprezzo per l’uomo?”

Il pericolo di lasciarci trascinare a disprezzare l’uomo è molto grave.

Sappiamo benissimo di non averne alcun diritto e che in tal modo finiremmo per porci in un rapporto quanto mai sterile con l’uomo. Possono difenderci da questa tentazione le seguenti riflessioni: disprezzando l’uomo incorriamo proprio nell’errore maggiore dei nostri avversari. Chi disprezza un uomo non potrà mai cavarne fuori qualcosa. Nulla di ciò che disprezziamo nell’altro ci è completamente estraneo. Quante volte noi aspettiamo dall’altro più di quello che noi stessi siamo disposti a fare! Perché abbiamo continuato a considerare con così scarsa obiettività l’uomo, la sua facilità a cedere alle tentazioni, le sue debolezze? Dobbiamo imparare a considerare gli uomini non tanto per quello che fanno o non fanno quanto per quello che soffrono. L’unico rapporto fecondo con l’uomo – e in particolare con il debole – è l’amore, cioé la volontà di mantenere con lui una comunione.

50-51

“Compassione”.

Bisogna tener conto che la maggioranza degli uomini si ravvede solo dopo aver subito esperienze sulla propria pelle. Così si spiega in primo luogo la stupefacente incapacità della maggioranza degli uomini a compiere una qualsiasi azione preventiva – si pensa sempre di poter sfuggire al pericolo, finchè è troppo tardi; in secondo luogo l’apatia verso la sofferenza altrui; con il crescere della paura per la minacciosa vicinanza della disgrazia, nasce la compassione.

Ci sarebbe molto da dire per giustificare tale atteggiamento; dal punto di vista etico: non si vuol fermare la ruota della fortuna; soltanto quando la situazione si fa seria si trova l’ispirazione e la forza di agire; non si è responsabili di tutta l’ingiustizia e il dolore del mondo e non ci si vuol erigere a giudici del mondo; dal punto di vista psicologico: la mancanza di fantasia, di sensibilità, di disponibilità interiore vengono bilanciate da una solida rilassatezza, da un’imperturbabile energia lavorativa e da una grande capacità di soffrire.

52-53

“Ottimismo”.

E’ più da furbi essere pessimisti: si dimenticano le delusioni e si sta in faccia alla gente senza compromettersi. Così l’ottimismo è passato di moda presso i furbi. Nella sua essenza, l’ottimismo non è un modo di vedere la situazione presente ma è un’energia vitale, una forza della speranza là dove altri si sono rassegnati: la forza di tenere alta la testa anche quando tutto sembra fallire, la forza di reggere i colpi, la forza che non lascia mai il futuro all’avversario ma lo reclama per sè. Certo, c’è anche un ottimismo stupido, vile, che deve essere vietato. Ma l’ottimismo come volontà di futuro non dev’essere mai disprezzato anche se porta a sbagliare cento volte: rappresenta la sanità della vita, quello che il malato non deve intaccare. C’è gente che ritiene poco serio, cristiani che ritengono poco pio, sperare in un migliore futuro terreno e prepararsi a esso. Credono nel caos, nel disordine, nella catastrofe come nel senso degli eventi contemporanei e si sottraggono – con rassegnazione o con la pia fuga dal mondo – alla responsabilità di continuare a vivere, di ricostruire, alla responsabilità verso le generazioni future. Può darsi che il giudizio universale cominci domani; allora, e non prima, smetteremo di lavorare per un futuro migliore.

74-75

Penso che sia semplicemente un fatto di natura; la vita umana si spinge ben oltre la mera esistenza corporea di noi stessi. Probabilmente chi lo sente più forte è una madre.

195 E nel trascorrere dei mesi, B. tentava di portare serenità agli altri carcerati e indefesso, tra i malanni e le privazioni, continuava il suo lavoro di riflessione e di impegno. Si noti come da una domanda teologica, vi è una domanda filosofica sotto, che lacera il dissidio, e che pone tante contraddizioni, e cerca di rendere manifesta, fenomenologica per assenza la trascendenza. Da riflettere. In tutti i casi.  Per analogia, la trascendenza quasi una proiezione all’infinito di un punto polare delle coniche di Apollonio.

 b) Chi è Dio? Non, prima di tutto, fede generica in Dio,

nell’onnipotenza di Dio e via dicendo. Questa non è autentica esperienza di Dio, ma un pezzo di mondo prolungato. Incontro con Gesù Cristo. Prendere coscienza che qui è avvenuto un rovesciamento di ogni essere umano, che Gesù esiste solo per gli altri. Lo  ́esistere-per-gli-altri di Gesù è la presa di coscienza della trascendenza. Dalla libertà da sè stesso, dall’ ́esistere-per-gli-altri fino alla morte scaturiscono l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnipresenza. Fede è partecipazione a questo essere di Gesù. (Incarnazione, croce, resurrezione.) Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto  ́religioso con l’Essere più alto, più potente, più buono: questa non è vera, autentica trascendenza; il nostro rapporto con Dio è una nuova vita nell’ ́esistere-per-gli-altri, nella partecipazione all’essere di Cristo. Il trascendente non è doveri infiniti, irraggiungibili, ma il prossimo, dato volta per volta, raggiungibile. Dio in forma umana!, non come nelle religioni orientali in forma ferina, il Mostruoso, Caotico, Lontano, Raccapricciante; ma nemmeno nelle forme concettuali dell’Assoluto, del Metafisico, dell’Infinito eccetera; e neppure la figura greca del dio-uomo che è l’ ́uomo in e per sè, ma l’ ́uomo per gli altri!, quindi il Crocefisso. L’uomo che vive del trascendente.

E questa è un frammento di un’ultima poesia di settembre a noi rimasta.

227

“[…]

Disteso sul tavolaccio

fisso la parete grigia.

Fuori, un mattino d’estate,

ancora non mio,

esultando va verso la campagna.

Fratelli, finchè non giunge, dopo la lunga notte,

 il nostro giorno,

resistiamo!

§CONSIGLI DI LETTURA: MUSICA ROCK DA VITTULA

Musica Rock Da Vittula di Mikael Niemi,
(Populärmusik från Vittula, 2000),
K. De Marco (Traduttore),
2010, Iperborea, Milano

È un romanzo di formazione semi autobiografico, dove le vicende del passato si miscelano con le riflessioni nel presente che l’autore fa di se stesso di quel periodo con i suoi compagni, considerando l’evoluzione e i contrasti di quella zona della Finlandia dove convivono i Lapponi, comunità svedesi con diverse forme di interpretazione del luteranesimo.

L’interiorità del protagonista costituisce il sistema di riferimento per inquadrare lo spazio e il tempo narrativo. La visione animistica del cosmo e della natura offre uno stile narrativo che facilita la commistione tra il passato e il presente.

12-13 “[…] Nel gergo popolare il nostro quartiere veniva chiamato Vittulajänkkä, che tradotto vorrebbe dire la Palude della Passera. L’origine del nome non era chiara, ma doveva avere a che fare con il gran numero di bambini che ci nascevano. In molte case si arrivava a cinque, se non di più, e il nome rendeva una specie di crudo omaggio alla fertilità femminile […]”

16-17 “[…] Smisi di spingere e lasciai che l’altalena perdesse a poco a poco velocità. Alla fine saltai sul prato, feci una capriola e rimasi sdraiato a terra. Guardai il cielo. Le nuvole rotolavano bianche sopra il fiume. Sembravano grosse pecore lanose che dormivano nel vento. Se chiudevo gli occhi vedevo degli animaletti muoversi sotto le palpebre. Dei puntini neri che strisciavano su una membrana rossa. Se li stringevo ancora più forte riuscivo a vedere degli omini viola nella mia pancia. Si arrampicavano gli uni sugli altri e formavano delle figure. Anche lì dentro c’erano degli animali, anche lì c’era un mondo da scoprire. Mi prendeva un senso di vertigine, capivo che il mondo era una serie infinita di sacchetti infilati uno nell’altro […]”

I titoli dei paragrafi spiegano le gesta, in modo analogo a un racconto a quelle d’arme e d’amore di un tempo. Il mito del passato intesse una narrativa lirica. La memoria costituisce una storia che snoda il romanzo di formazione in una sequenza di Odissee per le quali il lettore possa partecipare emotivamente, attraverso una descrizione del mondo visiva, odorifera e tattile. Le immagini risultano concrete, olografiche, come quelle di un bimbo, contraddistinte da olografie antropomorfe. Gli oggetti rappresentano significati spirituali ed etici (buono, giusto, repellente) o caratteriali (eroico, pavido, fermo).

71 “[…] Quel pomeriggio stesso cominciò la lite per l’eredità. Si attese che finissero i riti funebri e che vicini e predicatori se ne fossero andati. Poi le porte della fattoria si chiusero agli estranei. I vari rami, escrescenze e innesti della famiglia si riunirono nella grande cucina. I documenti furono disposti sul tavolo. Gli occhiali furono estratti dalle borsette e messi in equilibrio su nasi lucidi di sudore. Si schiarirono le voci. Si inumidirono le labbra con lingue affilate. Poi scoppiò il finimondo […]”

178 Durante la gara di bevute clandestina dei ragazzi, il narratore interpretando se stesso da bambino, riveste le vicende con uno stile fiabesco, ma nella sostanza coerente nel descriverle in modo estremamente razionale per analizzare i fenomeni della natura, le leggi morali e il loro impiego. Per il contrasto comico sapientemente dosato, mostra l’assurdità e il ridicolo delle imprese dei suoi coetanei e di quelli di poco più grandi nell’imitare i comportamenti degli adulti. Ridicoli perché goffi e impotenti non avendo la cognizione, l’esperienza e il fisico per le imprese, e assurdi perché riuscivano benissimo a imitare i miserevoli comportamenti degli adulti. Mentre in alcuni romanzi di formazione i ragazzi e le ragazze (Tom Sawyer o Pippi Calzelunghe) mostrano l’ipocrisia e la violenza degli adulti attraverso il loro comportamento conflittuale e di sfida, contravvenendo sistematicamente alle regole, qui i giovani disubbidiscono alle prescrizioni, ma per uniformarsi allo stile di vita dei più grandi.

Le comiche e malriuscite imprese dei ragazzi, costituiscono una accusa indiretta all’ipocrisia dominante. Nonostante tutto, vi è da parte del protagonista, e quindi dell’autore, un moto di compassione e di affetto per tutti. Se i ragazzi intraprendono imprese impossibili destinate al fallimento, gli adulti raccontano e si magnificano del loro passato in modo così iperbolico, da risultare esilarante.

Il romanzo offre l’occasione per studiare la storia e il modo di vivere dei finlandesi di confine con la Lapponia, la Russia, i rapporti di inimicizia e di ammirazione nascosta per gli svedesi, il conflitto tra la città e la campagna, il campanilismo tutto particolare tra i quartieri e le zone rurali più isolate di questa comunità che parla una lingua semi finlandese, mischiata a quella lappone. È estremamente interessante osservare il rapporto quotidiano con le prescrizioni della religione luterana, dei riti pagani ancestrali, e dagli influssi della visione ortodossa russa. Il utto immerso in una visione magica della natura.

Vi è anche la cronaca della trasformazione sociale di questa comunità che subì la guerra più volte e le invasioni di Svedesi, Prussiani, Russi prima e poi ancora Svedesi, Tedeschi e Sovietici dopo. Bellissime e toccanti sono le descrizioni della natura e dei moti delle stagioni e qui i lettori italiani dovrebbero porre maggiore attenzione a comprendere gli aggettivi riferiti alla notte, al buio, al freddo, alla tempesta, al ghiaccio, all’afa. Quello che nel testo è scritto in modo normale, per noi popoli del clima mediterraneo l’intensità di tutto ciò sarebbe superlativa: dalla distesa delle foreste, dei laghi, dal vento che taglia e ghiaccia, dalla notte artica del nord che è buio completo, dal freddo che significa meno di dieci gradi in giù.

È una narrazione autobiografica introspettiva che rivolge un atto di accusa e un atto di amore per il proprio passato, per i famigliari, per una terra che mantiene una memoria sotterranea, condita da un umorismo che tende a esprimere fanfaronate, ma in un modo così discreto che rende disponibile il lettore ad avvicinarsi con affetto.

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245 “[…] Tutti abbassarono i bicchieri e si sedettero. La festa aveva ormai raggiunto lo stadio della malinconia, e la musica arrivava a puntino. Cantavo guardando il nonno, che abbassò timidamente lo sguardo. “Oi Emma Emma, oi Emma Emma, kun lupasit olla mun omani…” Proseguimmo con Matalan torpan balladi. L’atmosfera divenne così triste che si appannarono i vetri alle finestre. E per finire attaccammo Canzone d’amore di Erkheikki, un valzer lento in minore con un assolo lamentoso di Holgeri che avrebbe commosso una pietra. Poi gli uomini vollero brindare con noi. Come si usa nel Tornedal, nessuno disse una parola di commento sulla nostra prestazione, perché gli elogi inutili alla lunga non portano ad altro che a progetti smodati e al fallimento. Ma si vedeva dai loro occhi cosa sentivano […]”

247-248 “[…] Com’è bella l’estate, così perfetta, così eterna! Il sole di mezzanotte sul limitare del bosco, nuvole rosse che risplendono nella notte. Calma di vento assoluta. L’acqua ferma liscia come uno specchio, senza un’increspatura. E poi all’improvviso un cerchio che si allarga lentamente su quella calma sublime. E lì, in mezzo al silenzio, si posa una farfalla notturna. Resta impigliata sulla superficie dell’acqua con la polvere delle ali. Scivola giù nelle rapide, vortica tra le pietre e la schiuma. Sopra le cime dei pini le zanzare sciamano leggere come piume nel caldo sempre più intenso. Ecco cosa si vede quando ci si trova in quel sottile interstizio che è una notte d’estate, fluttuando sulla fragile membrana tra due mondi […]”