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Tutti i racconti di Beppe Fenoglio

Tutti i racconti di Beppe Fenoglio, Luca Bufano
(Curatore), Einaudi, 2018, Torino

I racconti di Beppe Fenoglio raccolti in questo tomo, suddivisi nelle aree temporali cui sono ambientati e precisamente dagli inizi del 900, passando per la grande guerra fino alla prima metà circa del regno fascista, per poi, infine distribuirsi negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale.

È una mole impressionante di scritti che mostra un luogo preferito di composizione. Non sono solo cicli a tema, o raccolte sporadiche di episodi. I racconti sono un diario vivente che non è un resoconto di ciò è accaduto in una giornata o in un anno, ma una fucina sempre accesa che cola la materia del passato e del presente, individuata dal singolo esperire dell’autore.

Gli attori, i linguaggi, gli accadimenti, sono presenti e vicini alla sua vita lì, nelle langhe, e si rifanno a personaggi veri e alcuni a lui contemporanei. I luoghi sono quelli della sua origine, del suo lavoro, e delle faccende quotidiane. I racconti del novecento che sembrano rivestiti dal mito e sfumati dalle innumerevoli variazioni sul tema, per il passaparola intergenerazionale, rimangono comunque negli ambiti della cronaca, e dell’avventura, perché gli aedi che narrano le gesta, sono in carne ed ossa ed ascoltati da Beppe Fenoglio, per le vie della città e dei paesi, delle osterie, del suo luogo di lavoro, del cortile fuori della sua casa. In più questi hanno conosciuto in gioventù i protagonisti effettivi degli eventi passati.

Non sono neanche concepiti in modo seriale e rapsodico, perché si hanno rimandi a protagonisti di racconti ulteriori e di eventi già trascritti. Beppe Fenoglio non pensa episodicamente con la creatività dell’attimo, perché in mente ha già in mondo. Forse questa complessità del suo estro immaginifico, è una causa preminente che lo porta a preferire istintivamente il racconto breve. Distilla, infatti, in un flusso ordinato il ritmo degli accadimenti. Non è un caso, allora, che i suoi romanzi, sembrano quasi espansioni dei racconti lunghi, che attingono appunto a questo lavoro quasi quotidiano di scrittura, dato che un’opera chiusa e compatta in un mondo esclusivo, avrebbe ristretto la visione panoramica dell’autore.

Nei romanzi, e ancor di più nei racconti, quindi, si rilevano collegamenti e presenze di modi di dire, esperimenti linguistici e attori che compaiono in modo orizzontale nelle composizioni. Da qui emerge una caratteristica di Beppe Fenoglio: la scelta dei nomi e la variazione di alcuni finali per questi attori cui le caratteristiche fisiche, l’idioma, il soprannome, portano già una chiave del loro destino.

Il mito narrato da Beppe Fenoglio, allora non è una trama collegata dai fili del presente e così intessuta: sembra quasi la matrice che produce la cronaca del presente, conferendo ad esso un significato, attraverso un collegamento logico con il passato.

Egli visse in modo distaccato. Lucido rispetto alle battaglie ideologiche e politiche dei contemporanei e quindi da tutti criticato. Prudente ma disinvolto a sfruttare i nuovi stimoli di retorica e di stile moderno che ricevettero idee e modelli dalle letterature estere, come quella inglese. Era presente e attento a ciò che fermentava nel dopoguerra fino alla sua morte, ma non volle mai porsi come un rappresentante esplicito di nuovi corsi, nonostante che iniziasse a usare termini inglesi, e gli stili diretti dei romanzi di largo consumo che si stavano espandendo anche oltre oceano. Anzi, negli anni ‘50, importò anche il gergo giornalistico, sportivo, e di cronaca popolare. Cercò di porre in relazione gli idiomi natii con la lingua italiana nelle versioni formali ed autoritarie fasciste, per quelle auliche delle tradizioni letteraria, a quelle dell’italiano che si stava formando con la televisione.

Beppe Fenoglio reperiva e ad inventava le storie vivendo ogni giorno con i suoi concittadini. La difficoltà risiedeva nell’impegno a sublimarle nell’opera poetica, mantenendo però, la verosimiglianza, la coerenza compositiva, la creatività stilistica.

In questi racconti il lettore riceverà un tesoro di spunti negli approcci alla composizione e alla rifinitura quotidiana, senza sconti, con una disciplina ed una rara onestà intellettuale nel sottoporsi a severe auto analisi. Quest’opera in divenire è continuamente modellata da mani che impastano la creta delle idee con un’estrema e delicata precisione e che scolpiscono il marmo delle forme letterarie con il sudore e il dolore, al fine di ricavare un contrappunto per una tensione di ricerca estetica senza fine.

Un tesoro di fatica a noi donato.

TRILOGIA DEI MENDICANTI DI Nancy Kress

Trilogia dei mendicanti di Nancy Kress,
Traduzione di Antonella Pieretti, 2022,
Urania Millemondi, Mondadori,
Milano (Ed. Originali dei tre romanzi: 1993, 1994, 1996 )

Il Ciclo di questi romanzi fu scritto tra il 1993 e il 1996.  Narra di vicende che partono dai primi anni del 2000. In un certo senso è un romanzo distopico connotato da una verosimiglianza per l’espediente letterario che pone un principio scientifico per noi condivisibile che innesta l’avvio della narrazione. Il fattore fantascientifico è rivolto alle tecnologie afferenti agli studi del campo della genetica, e nell’introduzione del diritto privato e del diritto commerciale nel poter predeterminare attivamente alcune caratteristiche morfologiche e cognitive dei propri figli.

Nancy Kress è una scrittrice prolifica e immaginifica che riesce a coniugare il ritmo della narrazione con un coerente sviluppo degli eventi collocati in ambienti tecnologici avanzati all’interno di una cornice fantascientifica. Dopo più di trenta anni dalla pubblicazione, noi, oggi, non siamo dotati, come allora, di manipolare in modo puntuale e attendibile le caratteristiche specifiche delle generazioni a venire.

Nonostante tutto, le tecnologie di comunicazione e gli ambienti virtuali risentono delle conoscenze e delle applicazioni degli anni novanta. Decisamente ora siamo avanti in un ambiente telematico molto più virtuale di quello descritto nel libro. Tale limitazione è comunque un indice di un libro di eccellente qualità che ha un impianto solido e robusto nel disporre gli eventi. E questo apre il discorso sul desiderio di conferire un potenziamento intellettivo predeterminato spinge alla riflessione riguardo temi più che mai attuali.

Dalla nozione di invidia verso chi ha più capacità, a quella del rancore sociale verso chi è più ricco. Vi è il senso del tempo e del decadimento delle generazioni che si susseguono. Attraverso l’ausilio di nuove tecnologie vi è il tentativo di concepire nuove opportunità tese all’acquisizione di nuove conoscenze e all’ottenimento di nuove ricchezze. In concomitanza emerge la visione di strati sociali che intendono bloccare e inibire le prospettive di miglioramento.

Sono posizioni odierne che ritroviamo nel conflitto di chi lavora e ha privilegi, verso coloro che cercano di accedere a un vivere più pieno di interazioni sociali e di guadagno. Si va dal singolo lavoratore che ha paura di perdere il posto del lavoro, se non la stessa nozione delle sue mansioni, agli stati che di fronte allo sviluppo economico e commerciale di altri limitrofi, si chiudono come un riccio, assumendo atteggiamenti nazionalistici.

Nel primo tomo vi è la fase della crescita e dell’adolescenza degli “insonni” e dei “dormienti” e i loro contrasti, che in età adulta si riverberano verso le interazioni sociali e formali.

Gli insonni, essendo una minoranza della popolazione, vengono bersagliati da improperi, minacce, insulti e aggressioni fisiche, i quali si difendono espandendo le reti commerciali e patrimoniali, anche per finanziare l’edificazione i luoghi ben precisi dove risiedere e difendersi in una posizione di separazione rispetto a tutti gli altri.

Si rilevano analogie con il processo di formazione di uno Stato che in origine è un luogo di rifugiati come è inteso dai più.

Vi è anche il rapporto tra i genitori e i figli. Gli amori dedicati e quelli negati. Le reazioni dei figli o di quelli che aderiscono ad un identico stile di vita dei genitori. Vi sono temi universali posti in termini oppositivi nell’ambito dell’etica, come la simmetria tra la solidarietà e l’individualità, la cooperazione e la competizione.

Un ruolo fondamentale che fa da contrappeso narrativo alle singole vicende, è interpretato dal ruolo della comunicazione e dello spettacolo anche nei tribunali. È sottile la capacità dell’autrice di narrare i dibattiti processuali, mostrando i temi giuridici, morali ed etici su questioni che anche oggi sono di pubblico dibattito. Indirettamente e con lentezza emerge il problema dell’idea della giustizia e della libertà, come quello di poter praticare la ricerca scientifica.

Nel secondo tomo sono narrati i mutamenti sociali derivati da una maggiore disponibilità a concepire la prole, secondo indicazioni prescrittive.

Vi è il presupposto per il quale dal punto di vista legislativo e culturale, è accettata la possibilità di manipolare il patrimonio genetico del feto, in modo da indurre una filogenesi di tratti somatici, corporei, e cognitivi, prestabiliti dai futuri genitori. Tale pratica innesta una coincidenza tra caste sociali e differenziazione biologica di specie. Vi sono i muli, ovvero le persone più prestanti, che producono, detengono il potere, comprano le elezioni. Sono quelli che si danno da fare, studiano, sperimentano, ma esigono il potere da gestire in modo esclusivo. Vi sono i mendicanti, coloro che vivono di elargizioni e si collocano in modo marginale rispetto al vivere sociale. I vivi, coloro che consumano, e che perciò completano il ciclo economico. Di modesta intelligenza e cultura, vivono come cicale, sebbene la loro condizione di vita sia quasi prestabilita dai muli, che li considerano una zavorra necessaria, anche dal punto di vista istituzionale. Il loro valore è il voto e il consenso da influenzare, e veicolare secondo canali prestabiliti.

Gli sviluppi tecnologici vanno avanti, ed emergono gli insonni che, con una costituzione sempre più robusta, vivono quasi più di due secoli in buona salute e in una forma di giovinezza apparente. Diventano ricchissimi e cercano di usurpare il potere dei muli. Da qui in poi, fino al terzo tomo, vi è la storia degli scontri di questi corpi sociali e di specie, che si intensifica ancor di più con la comparsa dei figli modificati degli insonni: i super insonni i quali sono ancora più dotati e hanno l’idea come i loro padri di modificare la società, e il destino di tutti secondo i loro criteri di valutazione.

Entrano in gioco tanti attori, per una trama avvincente, costellata di climax che via via emergono. Le tre caste hanno alterne vicende di successo, in un viatico dove tutti subiscono modifiche sia in rapporto all’igiene, al modo di mangiare, alla ricerca continua di energia. Non dico altro: è una lettura che va goduta fino alla fine.

Però alcune considerazioni si possono dispiegare come la concezione iniziale della scrittrice che richiama una critica ad una idea del capitalismo alquanto semplificato di un motore che determina una dialettica binaria tra gli sfruttati e gli sfruttatori, dove i primi per la loro condizione di minorità, hanno un’etica superiore. La dialettica economica e il demone della figura mitologica del “capitalismo, sebbene siano figure suggestive e facilmente comprensibili, invitano a ulteriori chiavi interpretative che oltrepassano quelle esclusivamente economiche.

Ogni protagonista mostra lati oscuri, anche in virtù delle buone intenzioni dichiarate. Nancy Cress scrivendo questi tre romanzi e approfondendo sempre più i temi esposti, affina l’analisi circa le logiche del potere, del carisma, della ricerca del leader -semidio, all’affidamento da parte del singolo per la sua razionalità limitata, a risposte semplici e dirette, che si mostrano poi crudeli e fallimentari. E arriva, forse inconsapevolmente, a delineare un tema di sottofondo: la nozione di persona, come unità di corpo, di soggetto, di cognizione, di animo, si spande e si rifrange nelle nuove relazioni sociali che emergono in virtù anche alle incredibili e nuove disponibilità tecnologiche in uso. L’integrità del corpo diventa un incrocio di forme da assumere.

Ciò comporta, in particolare nel terzo tomo, a nuove inedite interazioni sociali. Ad differenza dei primi due tomi, si passa da una critica etica e psicologica, ad una analisi sociologica di questi nuovi e immaginifici corpi sociali, attraverso la volontà di diventare un corpo sociale autonomo e isolato rispetto agli altri. Emerge il conflitto che è scaturito dalla volontà di accaparrarsi le risorse a disposizione, arrivando a un paradosso di una guerra universale ordalica.

Da tale contraddizione si sviluppano gli eventi del terzo tomo.

Nancy Cress è veramente una autorità della “Fantascienza dura”: studia approfonditamente di biologia, genetica, medicina e di economia. Miscela tali nozioni in sviluppi coerenti, aventi come è tradizione una idea che è propriamente fantascientifica. Inoltre è una scrittrice immaginifica che è capace di grandi visioni di società alternative ben determinate.

Il voler scrivere una saga, però, comporta la necessità di richiamare i protagonisti dei tomi precedenti per fissarli nei nuovi contesti. E ciò crea ridondanze e slabbrature circa la prosecuzione degli eventi.

Ciò è compensato però dalla sua straordinaria capacità di cambiare i registri linguistici tra i protagonisti e di variare il ritmo della scansione degli eventi, in modo che il lettore sia stimolato ad andare avanti.

È un’opera imponente che ha retto lo sviluppo tecnologico trentennale e che anzi, propone ancora oggi domande per noi inevase.

277-78 Quando aveva cominciato a trovare buffe cose come i piedi? Certamente non quando era giovane, a venti, trenta o cinquant’anni. Tutto era stato molto serio allora, di conseguenze tali da sconvolgere la terra. Non soltanto le cose che avrebbero potuto effettivamente scuotere la terra, ma tutto. Doveva essere stata davvero pesante. Forse i giovani non avevano alcuna possibilità di essere seri senza essere pesanti. Mancava loro l’importantissima dimensione della fisica: il momento torcente. Troppo tempo davanti, troppo poco alle spalle, come un uomo che tentasse di portare orizzontalmente una scala tenendola a un’estremità. Nemmeno un’onorevole passione poteva fornire un buon equilibrio. Mentre ci si muoveva faticosamente a scatti, solo per mantenere il proprio equilibrio, come si sarebbero potute trovare divertenti le cose?

280-282 «Nooo. Hanno scuole loro.» Guardò Leisha come se lei fosse stata tenuta a saperlo, e, ovviamente, lei lo sapeva. Gli Stati Uniti erano ormai una società a tre strati: i nullatenenti, che tramite il misterioso e edonistico narcotico della Filosofia del Vivere Vero erano divenuti i beneficiari del dono dell’ozio. I Vivi, l’ottanta per cento della popolazione, che si erano liberati dell’etica del lavoro per sostituirla con una godereccia versione popolare dell’antica etica aristocratica: i fortunati non devono lavorare. Sopra di loro, oppure sotto, c’erano i Muli, Dormienti migliorati geneticamente che gestivano la macchina politica ed economica, come dettato dai, e in cambio dei, voti signorili della nuova classe oziosa. I Muli tiravano avanti: i loro robot lavoravano. Alla fine c’erano gli Insonni, quasi tutti invisibili all’interno del Rifugio, che venivano trascurati dai Vivi, se non dai Muli. L’intera organizzazione a trifoglio, Es, Io e Super Io, come qualcuno l’aveva sardonicamente etichettata, veniva assicurata dall’economica, onnipresente energia-Y che alimentava le fabbriche automatizzate rendendo possibile l’esistenza di una prodiga assistenza sociale che barattava pane e giochi del circo con voti. »

297-298 Non si poteva mai riposare. Il Corano e la storia degli Stati Uniti concordavano almeno su un punto: “E coloro che raggiungeranno il loro accordo solenne e sopporteranno con coraggio la sfortuna, le difficoltà e il pericolo… questi saranno i veri fedeli al loro credo”. E poi: “Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza”.

353-354 Jennifer si sedette con grazia sulla sedia della scrivania di Tony. Le pieghe della sua nera abaya si adagiarono a terra accanto al corpo accucciato di Miri. «Per la prima parte della sua vita, sì. La produttività, però, è una cosa relativa. Un Dormiente può avere cinquant’anni di produttività, iniziando, diciamo, dai venti. Ma, a differenza di noi, verso i sessanta o i settant’anni i loro corpi si indeboliscono, sono preda di esaurimenti, si sfaldano. Possono vivere tuttavia per almeno altri trent’anni, un fardello per la comunità, una vergogna per se stessi perché è una vergogna non lavorare quando gli altri lo fanno. Anche se un Dormiente fosse industrioso, ammassasse denaro per la vecchiaia, acquistasse robot che si prendessero cura di lui, finirebbe per essere isolato, incapace di prendere parte alla vita quotidiana del Rifugio, degenerando. Morendo. Dei genitori che amano il proprio bambino lo condannerebbero a un simile destino? Una comunità potrebbe mantenere molte di queste persone senza assumersi un fardello spirituale? Pochi, sì: ma che sarebbe dei principi coinvolti? «Un Dormiente allevato fra noi non sarebbe soltanto un estraneo qui, inconscio e morto cerebralmente per otto ore al giorno, mentre la comunità va avanti senza di lui. Avrebbe anche il tremendo peso di sapere che un giorno o l’altro potrebbe avere una paralisi, un attacco di cuore, un cancro o una delle miriadi di malattie cui sono soggetti i mendicanti. Sapendo che lui stesso diventerà un peso. Come potrebbero un uomo o una donna di sani principi vivere in questo modo? Sai che cosa dovrebbero fare?» Miri capì. Ma non lo disse. «Dovrebbero suicidarsi. Una cosa tremenda a cui costringere il bimbo che ami!» Miri strisciò fuori da sotto la scrivania. «M-m-ma, n-nonna… t-t-tutti d-d-dovremo m-m-orire un giorno. Anche t-t-tu.» «Ovviamente» rispose con compostezza Jennifer. «Ma quando lo farò, sarà dopo una vita lunga e produttiva come membro completo della mia comunità: il Rifugio, il sangue del nostro cuore. Non vorrei niente di meno per i miei figli e per i miei nipoti. Non mi accontenterei di niente di meno. Nemmeno la madre di Joan.»

678 Miri mi aveva detto una volta che esistevano solamente quattro domande importanti che si potevano porre su qualsiasi essere umano: come riempie il proprio tempo? Che sensazioni ha riguardo al modo in cui riempie il proprio tempo? Che cosa ama? Come reagisce rispetto a coloro che ritiene inferiori oppure superiori? «Se fai sentire le persone inferiori, anche non intenzionalmente» aveva detto con un intenso sguardo negli occhi scuri «loro si sentiranno a disagio in tua presenza. In questa situazione, alcune persone attaccheranno. Alcune cercheranno di ridicolizzarti per “ridurre la tua dimensione”. Alcune tuttavia ti ammireranno e impareranno da te. Se tu fai sentire le persone superiori, alcune reagiranno licenziandoti. Alcune eserciteranno il loro potere in modo maggiore o minore. Alcune, tuttavia, si sentiranno portate a proteggere e aiutare. Tutto questo si applica ad appartenenti a una piccola loggia così come a un gruppo di governi.»

690-91 «Ha fatto centro, signor Arlen. I Vivi sono il vero popolo di questo paese, proprio come lo era l’esercito di Marion. Avevano la volontà di decidere per se stessi in quale tipo di paese volevano vivere e anche noi abbiamo la volontà di decidere per nostro conto. Abbiamo la volontà e abbiamo l’ideale di come dovrebbe essere questa gloriosa nazione, anche se adesso non lo è ancora. Noi I Vivi. E se non ci crede, caspiterina, guardi che casino hanno fatto i Muli di questo grande paese. Debiti nei confronti di nazioni straniere, alleanze capestro che ci risucchiano ogni risorsa, l’infrastruttura che ci si sgretola in faccia, la tecnologia mal utilizzata. Proprio come gli inglesi utilizzavano male i cannoni e i fucili ai loro tempi.»

Nota mia: (ricorda più di una recente campagna elettorale… )

704  «Oh, figliolo, ma non vi insegnano proprio niente in quelle vostre scuole alla moda? Non dovrebbe essere permesso, no, non dovrebbe proprio. Caspita, proprio qui nel Preambolo, c’è scritto chiaro come il sole che “Noi, il Popolo” stiamo scrivendo questa cosa “così da formare un’Unione più perfetta, amministrare la Giustizia, assicurare Tranquillità domestica, fornire la difesa comune” eccetera. Dove sta la perfetta unione se si lascia che i Muli controllino il genoma umano? Questo non fa altro che separare ancora di più le persone. Dove sta la Giustizia nel non permettere al bimbo di Abby e Joncey di partire dalla stessa base di un bambino Mulo? Come può creare tranquillità domestica? Che diavolo, crea invidia e risentimento ecco cosa crea. E che caspita può essere, sulla verde terra del buon Dio, la “difesa comune” se non la difesa della gente comune, i Vivi, in modo che possano avere dei figli che contano esattamente come un bimbo modificato geneticamente? Abby e Joncey stanno combattendo per loro stessi, proprio come i genitori naturali di ogni posto, e la Costituzione dà loro il diritto di farlo, proprio lì, in quel sacro paragrafo.»

Il libro mostra il carisma, il settarismo, il credo religioso messianico che però si fonda sul nemico da creare, da perseguire e distruggere perché ad esso è attribuito il male. Tale attribuzione è conferita per la fede. Esclusivamente per la fede. Il complotto è il teatro che risolve tutto.

1178-1179 «Miranda, non conosco la parola giusta per descrivere come diventa la gente quando non si sente più ferita e sola. Però le accade qualcosa. Quando continua a prendere quel genere di neurofarmaci per non sentirsi “se stessa”, presto non riesce più a sentire nemmeno l’altra gente. Diventano tutti come gli amici di Cazie, e forse come la stessa Cazie, non so. Cazie è buona, in fondo, ma ha inalato tanta roba per coprire la propria sofferenza che non si è più accorta nemmeno della sofferenza di Jackson e, dopo, non si è più accorta nemmeno di Jackson. Lui è solo un altro mobile nella sua vita, un altro robot. «Le persone devono soffrire. Devono permettersi di sentire la sofferenza. Devono sopportarla e non cercare di eliminarla con l’Endorbacio, i neurofarmaci, il sesso, i soldi: è l’unico motivo per cui sappiamo che dovremmo fare qualcosa di diverso, che dovremmo continuare a cercare con più impegno dentro di noi e dentro gli altri. Non si può solo aggirare il dolore, bisogna passarci attraverso per arrivare dall’altra parte, dove l’anima è… Oh, non lo so! Non sono abbastanza intelligente per sapere! Nella mia modificazione genetica embrionale è andato storto qualcosa, non sono intelligente come Cazie o Jackson, ma so che dovresti darci altre siringhe del Cambiamento perché i bambini vivano abbastanza a lungo da sentire il proprio dolore e cominciare a imparare. Forse non avresti dovuto darci le siringhe. Però lo hai fatto e ora i Vivi non possono sopravvivere senza perché noi Muli li abbiamo lasciati in asso e controlliamo tutte le risorse. Ci devi dare altre siringhe del Cambiamento perché quei bambini possano vivere abbastanza da cercare quello che importa davvero.

1241-42 Eden. Per quanto tempo ancora? C’erano siringhe nascoste, probabilmente, famiglia per famiglia, in tutte le enclavi, una o due qui, altre lì. I neonati sarebbero stati iniettati, segretamente, prima che gli outsider venissero a conoscenza dell’esistenza delle siringhe per poterle rubare. Quando le siringhe messe da parte fossero finite tutte, il tasso di natalità sarebbe crollato anche più di quanto già non avesse fatto, quando i genitori Cambiati avessero preso in considerazione i problemi relativi a malattie e al bisogno di cibo dei figli non-Cambiati. Alla fine la gente avrebbe ricominciato comunque ad avere bambini, perché succedeva sempre così. A quel punto la medicina si sarebbe ripresa dal febbricitante coma di ricerche nel campo delle droghe del piacere e i Muli se la sarebbero cavata bene, più o meno come avevano sempre fatto, dietro i loro scudi a energia-Y, sempre più impenetrabili, che si sarebbero estesi ogni anno a causa della necessità di destinare aree sempre maggiori all’agricoltura, alle industrie casearie e a quelle di sintesi della soia. Le enclavi si sarebbero adattate. Avevano tutta la tecnologia per riuscirci. Non ci sarebbe stata alcuna cacciata dall’Eden. E i Vivi? Non c’era bisogno di chiedersi cosa sarebbe accaduto loro. Accadeva già. Carestia, morte, malattia, guerra. Alla fine, avrebbero imparato nuovamente le tecniche per la sopravvivenza. Se invece il neurofarmaco che inibiva la tolleranza per le novità avesse continuato a diffondersi, non avrebbero imparato. Sarebbero rimasti attaccati alle vecchie mansioni adatte a corpi Cambiati che la nuova generazione non avrebbe posseduto. I Muli, inaspriti dalle Guerre del Cambiamento e consci che i Vivi non erano più necessari economicamente per almeno tre generazioni, non avrebbero fatto nulla. Genocidio tramite immobilismo universale. Il Signore non aiuta i cerebrochimicamente incapaci di aiutare se stessi, troppo terrorizzati dai cambiamenti per lasciare che qualcuno si avvicini loro e che hanno perso da poco i loro ultimi paladini extraterrestri.

1253 PARTE TERZA MAGGIO 2121 È impossibile, per una creatura come l’uomo, restare completamente indifferente riguardo al benessere o al malessere dei suoi simili e non essere pronta, per proprio conto, a stabilire, nel caso in cui non abbia particolari impedimenti, che ciò che promuove la loro felicità è bene e ciò che porta alla loro afflizione è male. DAVID HUME, Ricerca sui principi della morale

CONSIGLI DI LETTURA: Tutti i romanzi di Beppe Fenoglio

Tutti i romanzi (Einaudi tascabili. Biblioteca Vol. 62) di Beppe Fenoglio (Autore), G. Pedullà (a cura di), Torino, 2012

Signore e signori lui va letto integralmente.

Beppe Fenoglio fu considerato uno scrittore controverso per le sue sperimentazioni linguistiche, per la sua visione dei processi storici appena terminati in seguito alla fine della seconda guerra mondiale, per gli avvenimenti politico e sociali che apparvero in Italia fino all’anno della sua morte, nel 1963.

Fu criticato da editori e da letterati aderenti alle ideologie di sinistra e da quelle comuniste filosovietiche. Essendo stato un partigiano, fu radicalmente avverso al mondo fascista e alle destre a cui esse nel dopoguerra si richiamavano. Disincantato rispetto all’assetto statuale risorgimentale monarchico, guardò con distacco l’evoluzione delle interazioni sociali e civili della Repubblica Italiana.

Negli anni successivi alla morte e in corrispondenza delle dispute letterarie che tenevano conto di quelle ideologiche investite dalle posizioni di campo della guerra fredda, fu considerato un novelliere non tanto eccelso e un mediocre romanziere. Fu reputato un goffo sperimentatore linguistico nel tentativo di miscelare il linguaggio formale letterario con quello dialettale delle comunità codificate nelle nuove estetiche del neorealismo degli anni cinquanta. Impietosamente appellato come un dilettante nell’introduzione di neologismi stranieri nel suo stile di scrittura, nel tentativo di dispiegare nuovi orizzonti narrativi in cui inserire le vicende dei personaggi bassi, devianti e normali, grigi nelle loro vite assenti di un climax tragico.

Rimproverato nella sua indifferenza all’uso delle tradizioni narrative italiche, variando topi stilistici nel porli come meri strumenti sussidiari nel linguaggio parlato, sincopato nel ritmo, scarno nelle descrizioni dei luoghi, se non nella caratterizzazione degli eventi. Le trame dei suoi romanzi, anche incompiuti, vertono su un evento da assolvere, da ricevere, da subire, in cui innestare una linea narrativa concentrica in cui il passato e il presente entrano in gioco per suggerire il destino del protagonista e il giogo che sembra già assegnato. Una visione arcaica per alcuni, senza che ci si potesse raccapezzare nella totale mancanza di enfasi tra la dialettica dell’eroe e dell’antagonista, la quale non si chiude mai, se non per l’evanescente finale dell’attore delle gesta, in cui il presente rimane sospeso.

Avversato, quindi dagli scrittori ortodossi, da quelli antisistema, e dagli sperimentatori delle nuove possibilità linguistiche che provenivano dall’estero.

Eppure, nonostante l’alluvione di perplessità che investì in vita e dopo, questo scrittore schivo e radicato nel suo Piemonte, le istituzioni, le parti politiche, i mondi intellettuali, e il pubblico che man mano si faceva più letterato, lo posero come un riferimento rispetto ai temi letterari, sociali e politici dei decenni successivi.

E se ciò già negli ultimi anni della sua vita, fu richiamato nei dibattiti per usarlo come un esempio negativo, il fatto è che indirettamente e inconsciamente fu considerato un interlocutore. Le critiche che si sono susseguite in realtà, agli occhi nostri, ora, mostrano invece i limiti e le esigenze dei loro punti di vista specifici. Nonostante tutto Beppe Fenoglio sembra essere molto di più di come fu inteso e descritto dai luoghi di discussione politici, letterari e di costume dei vari decenni del novecento fino ad ora.

Insomma, chi fu Beppe Fenoglio?

Prima di tutto, ed è questa la sua specificità quasi originale nel ventennio fascista, fu un giovane innamorato della cultura albionica. Per sua spinta personale, con l’avvio di alcuni docenti che avversavano le politiche autarchiche fasciste nel piano linguistico, ideologico, e dottrinale, studiò ed acquisì le nozioni sulla lingua e sulla cultura inglese. Divorò intere raccolte di poesie e romanzi degli scrittori moderni e contemporanei del mondo anglosassone. Li visse nel suo immaginario.

Vi è un elemento, che forse non traspare immediatamente nelle descrizioni ultradecennali di questo giovane che si appassionò a tradurre autonomamente interi passi di drammi teatrali, di poesie, di racconti della letteratura inglese e poi statunitense: l’immedesimazione viva, concreta, presente verso i mondi letterari e le vicende trascritte in quelle opere.

Così schivo, già rispetto alla sua famiglia, dato che si chiudeva nella sua camera, a studiare e a scrivere, divenne, nel parlare e nel pensare i termini e i luoghi tradotti, una parte viva di essi, in cui la sua città, il suo paese, il quartiere, il negozio, si fusero con le campagne d’Irlanda, d’Inghilterra, con i castelli e le magioni dei nobili, con le baracche dei contadini e le fortificazioni dei guerrieri e degli eserciti.

In mondo italico meno che provinciale, lì tra i paesi e le campagne del Piemonte, questo ragazzo pensava e parlava del mondo e dei secoli oltre le Alpi e gli Oceani.

Lo strumento narrativo principale per riannodare eventi così scollegati, fu quello dell’analogia e della ripetizione in cui la metafora e l’allegoria furono spianate in una narrazione ciclica, e quindi mitica. Ma anche qui in un’ottica moderna, da romanzo d’appendice, aperto a tutti, con un linguaggio piano e parlato, con idiomi locali dei luoghi descritti.

E proprio perché Fenoglio vuole vivere ciò che scrive, lo ripete come se si svegliasse ogni mattina, perché poi dalle traduzioni e dalle uscite serali in osteria, dai giochi a carte, dal lavoro di impiegato quotidiano, la notte ricomponeva l’ideazione estetica nella traduzione operativa nella scrittura. Ed ecco, quasi inconscio, l’uso degli stessi protagonisti con l’identico nome per romanzi diversi, in cui le storie prendono percorsi alternativi, come se fosse un racconto orale, con continue variazioni a tema.

E proprio perché fu un partigiano, ritorna a parlare di quello scarto di storia italica, in cui il regno non ci fu più, dal giorno dell’otto settembre 1943 fino all’inverno del 1944. Non arriva neanche alla fine della seconda guerra mondiale, in quasi tutti i romanzi che scrisse.  

Perché? Certamente noi non possiamo entrare nella testa dello scrittore, ma abbiamo indirizzi manifesti che permangono quasi un secolo dopo. Noi non abbiamo fatto i conti con il nostro passato fascista. Abbiamo, in più, dichiarato guerra a tutto il mondo. Siamo stati alleati con l’orrore. Abbiamo chiuso gli occhi, coprendoci di disonore, esibendo la vigliacca mediocrità. E non affrontiamo quella guerra civile che iniziò già con gli scontri del 1919 che portò il partito fascista al potere, fino al 1943, in cui il regime dichiarò guerra contro il suo stesso popolo per mano della Repubblica Sociale Italiana. Non vogliamo pensare di essere stati salvati da quelli che oggi guardiamo con ironia, e che ci hanno dato la mano più volte anche economicamente e che ci hanno protetto da eventuali conflitti fino ad oggi.

E se la parte progressista guardò a un altro regime terribile come quello staliniano, la parte laica e liberale mostrò un’anemica e viscida visione del mondo.

Beppe Fenoglio volle parlare anche del nostro disonore, e di come gli stessi partigiani, dopo la guerra fossero usati in modo mitico e settario, per gli scontri politici e sociali della seconda metà del novecento. Non erano tutti uguali, non erano tutti eroi, non erano tutti dalla stessa parte e si sono avversati ed odiati. E in più Fenoglio parlò dell’altra parte: lo scandalo più orrendo del nostro passato: la Repubblica Sociale Italiana. La caratteristica che diede fastidio ai contemporanei (perché parlava di loro) e di noi ancora oggi, fu quella di rappresentarli come persone normali, che non avevano una idea complessiva degli attori politici, dei leader, dei processi mondiali in corso. Gente analfabeta che a malapena uscì a poche decine di chilometri dal proprio paese.

Narrò gli scontri e le vicende delle varie parti in gioco, in modo volutamente non artefatto, con persone aventi difetti, meschinità, paure, speranze, di trovarsi addirittura quasi per caso e in modo irriflesso da una parte o dall’altra. Ma, attenzione, lui fu un partigiano ed aveva ben chiara la condanna morale dei repubblichini, che condannò moralmente ancor di più dei tedeschi. Non a caso fece dire ai suoi protagonisti partigiani, che loro arrivavano fino alla fine per uccidere un repubblichino e viceversa, perché a differenza dei tedeschi che agivano in modo tattico e logistico, tra di loro ci si voleva “bene”, e quindi si cercava di uccidersi anche in modo strategicamente suicida.

Beppe Fenoglio narrò di sé. I protagonisti sono quei partigiani maschi istruiti, quasi sempre solitari, distaccati, con uno sguardo critico, conoscitori della lingua inglese. Lui non inventa tutto. Parte proprio in modo traslato dalla sua famiglia. Dai rapporti con il padre e con la madre, con i parenti, con i vicini, con il paese natio, con il territorio atavico, con i partigiani badogliani e rossi, con i fascisti, con i repubblichini, con i traditori e i collaborazionisti.

Fu causa di dispute, perché la matrice da cui partiva era vera, in carne ed ossa, ed era di testimonianza diretta, anche se fu edulcorata, ampliata e sublimata nell’opera letteraria. Ecco perché i suoi scritti non potevano essere intesi come opinioni, o visioni settarie dilaganti negli anni cinquanta della guerra fredda.

Si scrisse che non fu però a livello meramente estetico, preciso e coerente nelle sue sperimentazioni linguistiche. Può essere, ma queste sono istanze che furono definite negli anni sessanta, quando appunto le nuove correnti letterarie di retorica, di filosofia del linguaggio, delle nuove tecnologie di scrittura, fornirono interi sistemi di strutture semiotiche e narrative.

Beppe Fenoglio le usava in modo strumentale rispetto alle sue specifiche esigenze narrative. Il modo in cui intervalla i termini gergali inglesi, con quelli dialettali piemontesi, con il parlato urbano e dei villici illetterati, era funzionale a caratterizzare il suo percorso narrativo, innestato nella visione della persona comune, come quella del contadino. Delle donne e degli uomini dei monti, che vivevano in modo aspro, al limite della sopravvivenza.

La visione organica e ben delineata a livello storico era tale nei nuovi canoni degli anni sessanta e settanta, dove entrano le nozioni delle ricerche sociologiche e psicologico sociali. Beppe Fenoglio parla di quel mondo tra il 1943 e il 1944 in uno stato di sospensione dentro un inferno, dove i politici, i miti, le religioni, erano visti senza mediazioni dalle persone illetterate, dal popolo. Dagli italiani, ovvero da come eravamo. Toglie l’eroismo, se non nell’atto individuale.

In questi romanzi si percepiscono gli odori, i sudori, le paure, le speranze, le angosce, le prove di sopravvivenza. Fenoglio ci prende con le mani i fianchi e l’intestino.

È fonte di irritazione, perché parla di noi. Un popolo più vecchio di quel periodo. Un popolo che continua a far voler dimenticare, negando il passato, sperando di seguire l’illusione di vivere in un’isola autarchica fuori dal mondo.

Va letto e goduto, perché nella letteratura, appare il godimento estetico, in cui riconosciamo parti sopite di noi stessi: un tesoro da spolverare a mani nude. È una pratica che forse all’inizio irrita la pelle, ma promette una possibilità per ritornare a guardar ciò che fummo e siamo.

CONSIGLI DI LETTURA: L’INVENZIONE DELLA SOLITUDINE

“L’invenzione della solitudine (The Invention of Solitude) 1982, Ed. Italiano 1997, Einaudi, Torino, di Paul Auster (Autore), Massimo Bocchiola (Traduttore)

Cosa si potrebbe dire di Paul Auster? Il ritmo della narrazione è intimamente correlato con l’evento, tradotto nel fatto narrato. Lo stile è parte integrante del messaggio, e, nello scorrere del testo si apre come una gondola che culla il lettore navigando nelle acque della scrittura.

Sembra così naturale il modo in cui narra. Rievoca riflettendo nell’uso di stili diversi e cambiando con una eccellente appropriatezza il timbro degli aggettivi, li aggroviglia con partitivi aggettivali e predicativi in una spirale senza fine. Eppure ciò si integra in una cadenza piana, traslata in una esposizione lineare delle linee del racconto che, in modo armonico, espone lo sviluppo della trama.

La soffice e leggera scansione degli eventi, nasconde il pensiero a più dimensioni parallele di Paul Auster, mentre scrive. Non è dato sapere se avesse già in mente una disposizione così complessa e ben integrata. Il punto è che o se all’inizio, o durante la scrittura, o nelle successive revisioni, alla fine, emerge questo fiume lento di parole che è in realtà una individuazione di diversi piani tematici, innestati su una varietà impressionante di stili di scrittura. Il monologo apre una doppia finzione di un dialogo tra lo scrittore e i personaggi assenti. Dai tempi passati, a quelli rievocati, che giocano con l’interpretazione della loro relazione in un participio passato che allontana lo scrittore nel momento in cui rievoca.

I verbi e i modi sembrano orbite di un sistema solare, dove la stella pulsa una ciclica riflessione a una domanda.

Il libro è composto in due racconti. Si parte dell’esperienza luttuosa della morte del padre, con la quale si inizia un percorso inverso di memoria per riportarlo in vita rispetto al figlio, che già lo vedeva assente da anni. La seconda parte è dedicata a suo figlio, e qui vi sono giochi di specchi rispetto alla precedente sezione.

Il protagonista è lo stesso scrittore che declina in una serie di rimandi a più opere che viaggiano parallele a un tratto, incidenti in un altro, coincidenti fino ad essere completamente divergenti, mantenendo ognuna la gamma degli espedienti letterari classici di narrazione.

Quest’opera forse può essere anche intesa come un diario di memorie che fabbrica un romanzo per creare una vita di relazione tra il padre e il figlio, mai accaduta, e una riformulazione di domande fondamentali che rappresentano il vivere stesso dell’autore, attraverso la sua individuazione di scrittore.

Questo romanzo rende di più nella lettura in lingua, in particolare dell’anglo americano del nord est, che si immerge in una variazione armonica da un tono alto, elegiaco, a quello colloquiale, aneddotico e popolare. Il tono umoristico nella lingua italiana è più attenuato nei mottetti di spirito, nei giochi di parole, nei riferimenti alle ricette culinarie, ai personaggi televisivi, e più in generale alla cultura pop rievocata in lampi di frasi. Questi ultimi, però, nella cultura profonda degli USA, hanno significati che rimandano a luoghi retorici e a stereotipi sui caratteri delle persone, sui modi di dire, sulle frasi fatte, sul patrimonio di senso comune.

33-34 “[…] Quando ho iniziato credevo che tutto sarebbe sgorgato spontaneamente, come l’effetto di una trance. Tanta era l’urgenza di scrivere che pensavo che la storia si sarebbe fatta da sé. Ma fin qui le parole sono uscite cosí lentamente: anche nelle giornate piú produttive non sono mai riuscito a scrivere piú di una pagina o due. Come fossi malato, inchiodato da un’incapacità della mente a concentrarsi su quello che sto facendo. Piú volte ho visto i miei pensieri volare via dal lavoro che ho di fronte. Non fa in tempo a venirmi un’idea che questa ne evoca un’altra, e poi un’altra, finché i dettagli non si accumulano cosí fitti che mi sento soffocare. Mai prima d’ora avevo percepito tanto chiaramente lo spazio che divide pensiero e scrittura. Negli ultimi giorni, in realtà, ho avuto la sensazione che la storia che sto tentando di scrivere sia come incompatibile con il linguaggio, e che il suo grado di resistenza a esso dia la misura esatta di come sono vicino a dire qualcosa di importante. Poi, quando arriverà il momento di dire l’unica cosa importante (sempre ammesso che esista), non ci riuscirò. C’è stata una ferita, e scopro adesso quanto fosse profonda. Invece di guarirmi come pensavo, l’atto di scrivere l’ha tenuta aperta. Ne ho sentito anche il dolore, concentrato nella mia mano destra, al punto che ogni volta che prendevo la penna e la premevo sul foglio la sentivo straziata, dilaniata. Invece di compiere la sepoltura di mio padre queste parole l’hanno tenuto in vita, forse adesso piú che mai. Non solo lo vedo com’era, ma com’è ancora, come sarà, e tutti i giorni è qui a invadere i miei pensieri penetrandovi furtivo, senza preavviso; disteso nella bara sotto terra, col corpo ancora intatto, le unghie e i capelli che continuano a crescere. Ho l’impressione che, se voglio capire qualcosa, dovrò entrare in quell’icona di tenebra, penetrando l’oscurità assoluta della terra. […]”

7-12 “[…] Ancor prima di fare i bagagli e partire per le tre ore d’auto che ci separavano dal New Jersey, sapevo che avrei dovuto scrivere di lui. Non avevo un progetto, né una precisa idea di che cosa questo volesse dire. Non ricordo nemmeno di averlo stabilito. Semplicemente era lí, come una certezza, un comandamento che cominciò a imporre la sua legge nel momento in cui appresi la notizia. Pensai: mio padre non c’è piú. Se non faccio in fretta, tutta la sua vita scomparirà con lui. Riflettendoci adesso, anche da una distanza breve come tre settimane, quella reazione mi pare molto strana. Da sempre ero convinto che la morte mi avrebbe stordito, paralizzato di dolore; ma adesso che era accaduto, non versai una lacrima, non mi sentii come se il mondo attorno a me fosse crollato. Chissà come, mi scoprii preparato ad accettare la sua morte, per inaspettata che fosse. A turbarmi era un altro pensiero, staccato dalla morte di mio padre e dalla reazione che mi suscitava: il constatare che non aveva lasciato tracce. Non aveva moglie, né una famiglia che dipendesse da lui, nessuna vita sarebbe stata modificata dalla sua assenza. Forse per un attimo avrebbe spaventato un gruppetto di amici, scossi non meno dall’idea dei capricci della morte che dalla perdita subita; ma sarebbe stato solo un breve cordoglio, poi piú nulla. Come se non fosse mai vissuto. Era assente già prima di morire, e le persone piú vicine a lui avevano imparato da un pezzo ad accettarne l’assenza, considerandola il tratto piú essenziale del suo essere. Adesso che se n’era andato, non sarebbe stato difficile per il mondo assimilarne la scomparsa definitiva: la natura della sua vita – una specie di morte anticipata – aveva preparato il mondo circostante alla sua morte, e se e quando lo avessero ricordato, sarebbe stato una memoria vaga, niente piú che vaga. Digiuno di passioni per le cose, le persone o le idee, incapace o avverso a svelarsi in qualsiasi circostanza, era riuscito a mantenersi staccato dalla vita evitando di tuffarsi nel vivo delle cose. Mangiava, andava al lavoro, aveva amici, giocava a tennis, eppure non era presente. Era un uomo invisibile nel senso piú profondo e piú concreto: invisibile agli altri, e molto probabilmente anche a se stesso. Se da vivo continuavo a sondarlo cercando in lui il padre che non c’era, sento ancora il bisogno di cercarlo da morto. La sua morte non ha cambiato nulla. L’unica differenza è che mi manca il tempo. È vissuto da solo quindici anni. Caparbio, opaco, come immune dal mondo. Piú che un uomo che occupa uno spazio, sembrava un blocco di spazio impenetrabile in forma di uomo. Il mondo lo colpiva di rimbalzo, gli sbatteva contro, a volte aderiva a lui, ma non lo attraversava mai […]”

53-55 “[…]  Per tutta la vita sogno di diventare milionario, di essere l’uomo piú ricco del mondo. Non desiderava tanto il denaro in sé, ma ciò che esso rappresentava: non solo il successo agli occhi del mondo, ma uno strumento per rendersi intoccabile. Possedere denaro non significa soltanto la possibilità di comprare le cose, ma anche la certezza che il bisogno universale non ti toccherà mai. Denaro come protezione, dunque, non come voluttà. La povertà sofferta da bambino, e la conseguente vulnerabilità ai capricci del mondo, gli resero la ricchezza sinonimo di immunità dal male, dalle sofferenze, dall’essere vittima. Non cercava tanto di comprarsi la felicità quanto l’assenza di infelicità, e i soldi divennero la panacea, l’oggettivazione dei suoi desideri piú profondi e inesprimibili. Non ambiva a spenderli, ma a possederli, alla certezza di poter contare su di loro. Insomma, il denaro non era un elisir, ma un antidoto: la bottiglietta che ti porti in tasca avventurandoti nella giungla… nel caso ti mordesse un serpente velenoso […]”

Dal secondo racconto lui, lo scrittore che è padre anch’esso appena separato dalla moglie, cerca però un contatto con suo figlio e lo richiama nella sua biografia adolescenziale.Rimane affascinato dalla scoperta che Anne Frank è nata lo stesso giorno di suo figlio. Il dodici giugno. Sotto il segno dei Gemelli. Un’immagine gemellare: un mondo dove tutto è duplice, e ogni cosa si ripete sempre due volte. La memoria: lo spazio in cui le cose accadono per la seconda volta.

E da qui si esplicita la solitudine come spinta a utilizzare il potere della memoria e il suo ruolo nel plasmare la nostra identità.

Il secondo racconto è suddiviso in paragrafi numerati ove ogni volta si ricomincia a porre lo schema del richiamo del ricordo. Talvolta è autobiografico, altrove è inventato, ed entrambi gli inizi sono riproposti in modo ciclico con persone e tempi diversi. La memoria è lo sfondo di un oceano che, in base alle nostre attuali presenze, lascia riaffiorare frammenti temporali.

L’uso di analogie e assonanze tra nomi di figli, luoghi e personaggi serve a creare un’atmosfera onirica e a sottolineare la fluidità della memoria. I confini tra la realtà e l’immaginazione si sfumano, e il lettore è invitato a immergersi nel flusso di coscienza del narratore.

L’archeologia della memoria ha anche la funzione di connettersi con le persone amate e con quelle fissate in rapporti interrotti.

Vi è un paragrafo in cui Auster sempre nel secondo racconto, analizza dal francese “x, persona, me stesso, vuole dire”. Questa locuzione composta non è banale. Egli scrive che sotto sotto “intende dire”. Cioè questa è la sua intenzione di dire, dove questo dire ancora deve uscire fuori, ovvero entrare nel linguaggio che si manifesta nel dire orale, nella scrittura, nella rilettura. Questo “dire” non è una semplice asserzione, un sasso gettato lì, intero, intonso, immutato. È una selezione di altri detti, di memorie, di situazioni, di tutti i se stessi del passato, dimenticati e di poco ora riaffiorati. Sono tracce indirette che hanno costruito le prime esperienze del bimbo con il padre. Le esperienze primigenie sono a noi oscure, perché sono servite a creare le strutture del ricordo. Ciò implica che noi siamo individuazioni limitati nel “dire”.

Non è un caso che alla fine del racconto si propone la lettera di Nadežda Jakovlevna Mandel’štam che scrive al suo amato Osip Ėmil’evič Mandel’štam imprigionato nel gulag sovietico, non sapendo se sia vivo o no. Da un ricordo rievocato Ella immagina che Osip stia pensando a Lei e che stiano insieme in questa memoria del futuro inventata. La meraviglia fu che Osip scrisse veramente una lettera analoga dal gulag prima di morire.  

Il linguaggio è uno strumento potente, ma non è in grado di esprimere tutto. Ci sono cose che non possiamo dire perché non le conosciamo o perché non abbiamo le parole per farlo. Il “dire” che non può essere detto rimane nell’ombra, come una parte di noi stessi che non può essere completamente espressa. La consapevolezza della nostra finitezza ci spinge a vivere con maggiore intensità, rendendo giustizia al tempo che abbiamo a disposizione. La lettera su indicata è un esempio di come la memoria possa creare un ponte tra il passato, il presente e il futuro.

La “solitudine” è posta come una condizione necessariamente legata alla creazione artistica, e in particolar modo all’atto della scrittura, che non è intesa univocamente nell’isolamento, ma in una meditazione che tenta di ricongiungere ciò che è separato, all’interno di una nuova prospettiva che tenta di allargare la vita, un attimo prima della fine, attraverso la produzione e la fruizione artistica. Il centro della narrazione, infatti, non è un evento accaduto e raccontato, ma l’atto stesso del racconto e della parola. In questa oscillazione vi è uno spostamento continuo della voce narrativa, che si tramuta in quella del racconto stesso che visita i personaggi.

Qui si mostra anche il paradosso insito nella condizione della solitudine dello scrittore che, sebbene sia fisicamente solo in una stanza, è accompagnato dai fantasmi della letteratura e della scrittura degli altri. La “solitudine si mette a parlare”, ed è attraversata da citazioni esplicitate o semplicemente incorporate nel testo, che rimandano alla tradizione della letteratura e della cultura universale, da Pinocchio alle Mille e una notte, dalle riflessioni sulla mnemotecnica ai Pensieri di Pascal, dalle poesie di Holderlin fino alle riflessioni di Freud sul perturbante.

La scrittura si ripiega e parla di se stessa, del suo infinito cominciare a dire l’evento che non può più tornare ad essere, ma è continuamente. Non resta che dire questa impossibilità, e l’unico modo in cui ciò è possibile, è quello della scomparsa di un io narrante che si fonde con la pluralità e l’instabilità di una voce neutra, quella della voce narrativa. Così, tra la scomparsa e la solitudine si viene a creare una risonanza fondamentale che riguarda il modo di creazione dell’opera. La scomparsa non è causa della solitudine e la solitudine non è uno stato di abbandono.

E di ciò il lettore ne è testimone.

§CONSIGLI DI LETTURA: HYPERSPHERE

Hypersphere, di Nick V. O’Bannon
(pseudonimo), 2022, Editore Indipendente

È un romanzo che stimola la curiosità, perché impiega concetti matematici complessi negli ambiti della ricerca fisica nel campo ingegneristico avio spaziale e in quello dello studio degli astri, in modo rigoroso nelle sue determinazioni.

Sembra scritto da un matematico prima di tutto e lo si nota negli stili linguistici dei protagonisti come lo scienziato che ha progettato sistemi di aviazione aventi l’obiettivo di viaggiare attraverso salti gravitazionali. Vi è, inoltre, l’intento di capire o almeno di scoprire le topologie più complesse nel descrivere l’universo.

Vi è anche l’ingegnere che parla attraverso il suo mestiere di ex pilota extra orbitale dei marines, immerso nella nuova attività di comandante della nave aerospaziale Aphrodite. Un prototipo di nuova generazione connesso al grande reattore circolare Venus, lungo più di cento metri, dotato di propulsori atti a viaggiare attraverso le curvature gravitazionali in modo da porsi su sistemi di riferimento tangenti a quelli dei coni, determinati dalle coordinate spaziali della velocità della luce.

In più vi è la figlia dello scienziato che esprime il punto di vista politico e ideale del singolo e dell’umanità in base alla propria responsabilità verso il pianeta Terra e verso le sue specie e la sua sopravvivenza che è posta essenzialmente nel dovere di evolversi e di ricercare e conoscere. Ella è anche l’organizzatrice del viaggio.

La trama segue uno schema mitico che facilita la lettura: si ha, nonostante la variazione multidimensionale dei luoghi, l’unità di luogo all’interno della nave in cui il padre, lo scienziato goffo e distratto nei suoi studi, invano non percepisce la ricerca di attenzione della figlia. E, infine, il pilota acquisisce il ruolo del figlio acquisito che, come un novello Telemaco, ricerca la sua Itaca, essendo scappato dal suo genitore originario: la marina.

Ognuno di loro cerca nuovi stadi della propria esistenza. Lo scienziato, rispettato all’inizio per aver scoperto la possibilità di viaggiare con nuovi sistemi di propulsione, fu deriso poi per le sue teorie relative alla natura dell’universo. Nonostante tutto, vuole confermare la sua visione, sperimentando il nuovo sistema di propulsione con alcuni coprocessori matematici militari appena creati, attraverso una appropriazione indebita, per opera della figlia.

La figlia sfida tutto e tutti, perché rileva una progressiva diminuzione delle possibilità di esistenza da parte del genere umano, a causa di un’etica primitiva basata sul lavoro e sul guadagno, e quindi alla sopraffazione. Profondamente avversa, quindi, contro il consumo indiscriminato e le credenze sacre che non permettono di rispettare l’ecosistema e di ignorare la possibilità che negli astri vi siano altre entità migliori della specie umana.

Il pilota subisce la scissione relativa ai valori in cui ha creduto da una vita, perché hanno mostrato la loro incoerenza e il loro impiego contradditorio e violento da parte dei suoi “padri” d’ordine e d’autorità. Sperso in un vuoto morale, ricerca un filo conduttore per il suo vivere divenuto incoerente e confuso.

Queste figure, ripetute in oceani di film e catene montuose di romanzi, anche qui emergono nella loro tipicità, ma nonostante tutto, dispiegano una base narrativa comoda, pronta a rendere più chiara la complessa realtà fisica in cui gli attori agiscono.

Certo vi sono ingenuità nell’intendere l’economia nella veste di un impianto malevolo e magico che obbliga alla povertà e alla schiavitù. Vi sono da parte della figlia visioni quasi fiabesche nel ritenere la sua visione dell’ecologia il volano verso un paradiso in cui si scambiano tempo ed idee, in un ambiente in cui non esiste il principio della degradazione dell’energia.

Si può essere benevoli nel giudizio circa l’impostazione economica elementare, anche perché oggi è di moda nei luoghi comuni, e quindi bisogna, anche per motivi di marketing, invogliare i lettori alla prosecuzione del testo, specialmente per quelli che non hanno il tempo, le risorse, la volontà di approfondire quanto proposto.

Il nome dell’autore è uno pseudonimo. Forse è un collettivo di scrittori, oppure una figura che ha utilizzato competenze di persone specializzate negli ambiti sopra descritti, perché le soluzioni affrontate, le descrizioni delle astronavi, la programmazione delle orbite, sono di alto livello.

I modelli che descrivono i buchi neri, gli orizzonti degli eventi, la teoria della relatività generale, la natura dell’universo e i suoi modi di presentarsi nelle configurazioni a più dimensioni, presuppongono uno studio pregresso.

Si potrebbe ipotizzare però che l’autore sia un maschio, perché la figura della figlia, talvolta sembra seguire gli schemi degli anni sessanta e ottanta. Per converso l’eroico pilota maschio all’inizio rude e poi sensibile anche per le schermaglie avute, diviene più empatico e disponibile. Insomma, una presentazione dei ruoli molto antica ed elementare rispetto alle dinamiche di genere odierne.

Il punto forte del libro però, e qui occorre riconoscerlo per il fascino che attrae, è rivolto a perseguire un romanzo fantascientifico “hard”, in cui le tecnologie e i principi fisici sono descritti in modo coerente, verosimile, e ben approfondito. Anche se non sono espressi esplicitamente, ed è un bene, altrimenti sarebbe un trattato universitario, vi sono termini come “gradiente”, “varietà differenziale e topologica”, “tensori”. Insomma è presentata una vasta quantità di concetti propri della geometria avanzata, delle relazioni tra la topologia e la metrica impiegata nei modelli della teoria della relatività.

La bellezza di questo libro risiede nel loro uso, attraverso le vicende in cui incappano i protagonisti. Non vi dico la trama: sarebbe un crimine. La sorpresa è una parte importante della narrazione. Posso solo offrire una tra le tante delle chiavi interpretative: richiamano il tentativo di Ulisse di ritornare ad Itaca, ed invece di incontrare i Ciclopi, i Feaci, e di litigare con il Dio Nettuno, affrontano gli astri viaggiando a più dimensioni spazio-tempo.

Stimola moltissimo la nostra fantasia e apre la mente a nuove possibilità nel pensare l’universo, rispetto ai concetti fisici e matematici ritenuti astrusi e faticosi da immaginare.

I fibrati, le varietà differenziali, i quaternioni, le applicazioni delle forme matematiche come i Tori, i nastri di Moebius, le bottiglie di Klein, veri paradossi se rapportati al mondo a tre dimensioni, qui acquisiscono una forma adeguata e coerente.

Nonostante che talvolta vi sia una sintassi imprecisa e piatta nelle locuzioni avverbiali e nell’uso dei tempi, oltre che a una eccessiva semplificazione delle frasi, è però avvincente nel rendere la domanda su di noi e sul mondo, un poco più ricca e colorata.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL POPOLO DELL’AUTUNNO

Il popolo dell’autunno di Ray Bradbury (Autore), Remo Alessi (Traduttore), Oscar Mondadori, Milano, 2013 (Prima edizione: Something Wicked This Way Comes, 1962)

Si piange e si ride, si immagina e si ricorda in questo scritto, perché la sua firma è la meraviglia del mondo e del cuore d’ognuno.

Questo romanzo, è l’ideale prosecuzione del precedente “L’estate incantata” del 1957 (per un’analisi premere QUI). Vi è la stessa città, e questa ruota attorno ai punti di vista di ragazzi quasi adolescenti. Ray Bradbury ha una capacità superlativa di rendere vivi i processi fisici ordinari, e i grandi agglomerati antropici e naturali. Non in un senso allegorico o metaforico, ma in modo diretto. Non è un caso che a tratti la prosa assume toni lirici, quasi di versi in prosa, quando descrive gli ordinari processi metereologici ad esempio. Le albe, e i raggi del Sole, che oltre a illuminare sono dotati di una fisicità tale da dipingere le foglie, sostenere i minuti e smuovere le ombre e i toni che si adagiano, corrono, si inabissano e riemergono dalla terra.

Una formica non è solo un insetto che si muove, cieca del suo destino. No: è un corpo senziente che vive in uno spazio vivo, mutante, dotato di fini nascosti ed obiettivi determinati. Gli insetti, come le foglie, i sassi, le anse dei fiumi, i grovigli dei rovi, i rami degli alberi, parlano tra loro, si muovono e si modificano. Pensano, dormono, riflettono, cantano: usano il vento come mezzo di comunicazione, e usano l’aria e il suono come frecce e faretre.

La narrazione è continuamente tesa a svelare che ogni ente classificabile come “oggetto inanimato” sia in realtà un soggetto dotato di nume, che respira aria, luce, suono, e comunica in piani che oltrepassano i sistemi di riferimento umani instillati nei cinque sensi.

Il linguaggio è mitico. Di prima impressione potrebbe rivestire uno stile favolistico, nello svolgersi degli eventi, il lettore quasi sedotto dal tono fantastico e immaginifico, che lo tranquillizza riportando in luce il suo passato ancestrale di sogno e incanto. Da una lettura più profonda, però, si ricava che il romanzo è tutto il contrario di una favola. Il luogo, il tempo, la coerenza disposta tra le gesta dei protagonisti sono intesi realmente. In modo verosimile.

Il mito qui, non è quello nostro che, in negativo, dilegua rispetto a una descrizione razionale e veritiera degli accadimenti, attraverso la suddivisione tra i principi, le cause, i momenti topici. La poetica ha la pretesa di offrire uno sguardo prospettico e multidimensionale del mondo, e in assonanza con l’universo interiore, che è personale per quanto riguarda le responsabilità delle proprie azioni e della legittimità dei propri scopi, ma che è comune a tutti gli esseri viventi.

Le stagioni scandiscono il ritmo degli avvenimenti, e offrono una idea di un prima e un dopo, ma queste sono destinate a ritornare, e quindi a permettere una partecipazione all’unisono dei giovani e degli adulti, dei figli e dei padri, delle madri e di chi nascerà, dei vecchi e della loro compagna finale: la sorella nera. Ognun di loro cresce, passa da uno stadio all’altro e insieme rispetto al momento di crisi, che vi è sempre, perché ogni stagione ha un limite del prima e del dopo, caratterizza il proprio vivere.

È un autunno che è destino di ogni vivente: dall’uomo, agli animali, alle piante, alle rocce, si interroga, si dispera, ha il timore della propria finitezza e la speranza di comprendere il proprio stare nel tempo che scorre e in ciò che permane mutando.

E quindi ritornano, e son presenti, gli intenti volti a un vivere pieno, e quindi al desiderio d’amare e di gloria, assieme ai corrispettivi volti della decadenza, della malattia, fino alla vecchiaia e alla morte. All’interno della dialettica tra il bene e il male, tra il voler cedere all’arroganza e all’ignoranza, vi è il rischio di voler ignorare i propri limiti e di confondere la propria volontà con ciò che si presume siano gli scopi e gli obiettivi del vivere di ognuno.

Ray Bradbury è abile a definire un equilibrio quasi trasparente tra un approccio arcaico e rituale, a quello di un romanzo di formazione, con un trattato di etica che ha il contrappasso nella pena, e nella personale e conseguente redenzione. Le vicende hanno uno stile d’avventura, ben delineato da uno stile di avventura, che assume caratteristiche quasi etologiche.

Vi sono luoghi retorici che invitano il lettore a colorare gli ambienti con i propri ricordi. Ci si sente pittori nel comporre la narrazione mitica del testo, con la singola vita irripetibile di noi che scorriamo gli eventi di questi due ragazzi, dei loro genitori, dell’intera città, e di ciò che sta ai confini e che entrando, muta gli equilibri ed evoca le paure e gli orrori e ciò che è voluto tenere nascosto dagli stessi cittadini.

Il libro richiama le atmosfere degli scritti dell’ottocento e del primo novecento degli Stati Uniti: il circo è il luogo della scoperta, della magia, e della tentazione. Ne sappiamo qualcosa con il nostro Pinocchio. Vi è un senso della colpa puritana, e una voglia di avventura che dai picari spagnoli, ai guasconi francesi, ai nuovi adolescenti di inizio novecento, che offrono una sedia dove noi, accasandoci, ritroviamo gli stadi precedenti del nostro vivere.

Vi è un tentativo di riavvicinamento tra un padre e un figlio, e una voglia irresistibile di dire sì alla vita, e quindi di riconoscere i propri limiti, per determinare le possibilità di migliorare la propria esistenza. Si ride delle proprie sconfitte, incapacità, e fallimenti. La risata che salva, quella che fa riconoscere il cuore di chi sta vicino. L’autocritica salace previene l’assalto della menzogna e della terra di autunno che disperde i colori dell’estate, e che non vuole mutare per i nuovi impegni dell’inverno che sono faticosi e freddi, ma necessari per custodire un nuovo universo ancora da venire.

Non ho voluto dire nulla sulla trama: è un libro di avventura che va letto senza sapere nulla in anticipo. Si gusta ogni avvenimento, perché chiede il coinvolgimento di tutti noi. E ci fa pensare, commuovere e ridere. Già la sapete: è la storia del v(n)ostro vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica

Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935) di Luciano Mecacci, 2019, Adelphi,Milano

Questi bambini furono una contraddizione vivente rispetto agli intenti e alle narrazioni della edificazione rivoluzionaria della società socialista in URSS. Dai genitori uccisi per la guerra civile, per le carestie subite a fronte degli espropri, delle ricorrenti crisi economiche che contraddicevano i grandi piani emanati dal partito, dallo Holodomor il genocidio per fame voluto scientemente da Stalin e dal suo apparato prevalentemente lì in Ucraina. Il serbatoio agricolo di parte dell’intera Russia Occidentale e dell’Europa Orientale. Lì che si ebbe l’inferno fino al cannibalismo.

Fino alla nuova crisi di produzione degli anni trenta e alle nuove epurazioni volute dall’astro nascente, dal grande padre Giuseppe Stalin, e da gran parte dell’apparato politico, istituzionale e poliziesco, con l’appoggio morale della nuova classe di eletti che avevano potere e ricchezze, come aderenza a questa nuova chiesa vorace di sangue.

Mi sia consentito per una volta un aneddoto biografico. Lessi degli studi del prof. Luciano Mecacci nel lontano 1989, riguardo ai grandi pedagogisti come Makarenko e psicologi, che cercarono scientificamente di ampliare le nozioni delle scienze umane, correlando la nozione di agente sociale con quello delle relazioni di contesto sociale e di processo storico culturale, fino ai processi psichici più profondi.

Le loro tecniche di analisi e di ricerca furono oggetto di studio per tutta la comunità scientifica mondiale nei decenni a venire. Ma non era solo un’attività di laboratorio. SI impegnarono per cercare di offrire un corpus di modelli pedagogici e di teorie e prassi psicologiche, nonché didattiche ed organizzative per offrire una formazione a tutti. E anche morale, seppure poi declinata nella visione del partito e della rivoluzione socialista. E quindi anche e principalmente per questa massa di bambini e adolescenti abbandonati e lasciati nei posti oscurati della società sovietica senza una prospettiva futura.

Questo libro come in tutte le opere di Luciano Mecacci vi è una quantità sterminata di fonti, tutte documentate con la relativa spiegazione a parte del loro ritrovamento, nel modo di rilevazione, di interpretazione e di impiego nella stesura dei testi. È un libro profondo, ma ben spiegato e onesto nel mostrare il corpo delle premesse e i loro procedimenti di sviluppo argomentativo, innestati nella storia della critica e della ricerca per questo terribile processo sociale.

Il testo non descrive cinematograficamente gli eventi o con dati già confezionati senza spiegare le tecniche di valutazione. Vi sono le testimonianze, i pensieri, i ricordi, le emozioni, le speranze dei protagonisti. Luciano Mecacci, infatti, descrive il criterio di Anton Semenovyč Makarenko, per il quale la rieducazione pedagogica si attua attraverso la responsabilizzazione, e i contributi di Lev Vygotskij, oltre alla raccolta dei saggi di Alexander Lurija. Tutti costoro e la quasi totalità degli intellettuali del periodo, oltre ai registi (citati nel libro con i relativi film, disponibili in rete web, che consiglio di vedere), agli scrittori, ai romanzieri che descrissero le condizioni di queste centinaia di migliaia di bimbi e bimbe, furono emarginati, perché il regime già dal 1935 considerò il fenomeno superato e definì la censura fino alla morte di Breznev. Molti di loro furono fucilati o condotti nelle carceri della Lubjanka o nei Gulag.  

(Di questa tragedia dei deportati e degli incarcerati dei lunghi decenni del periodo staliniano e oltre ricordo di averne trattato consigliando quel capolavoro immenso che è “Vita e destino” di Vasilij Grossman, consultabile QUI e nel libro più terribile, ove si arriva nel fondo dell’animo umano di Varlam Salamov “I racconti di Kolyma”, consultabile QUI )

E non è un caso che molti provenissero dall’Ucraina.

Pgg.15-16  Dante Corneli, emigrato in Russia nel 1922, deportato in un lager con l’accusa di trockismo nel 1935 e rilasciato, dopo alterne vicende, solo nel 1960. Nella sua descrizione della caotica situazione a Mosca nel 1922, dove «non era facile mantenere l’ordine pubblico: furti, rapine e violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno», e dove «in certi quartieri, spesso teatro di sparatorie, i soldati e i miliziani facevano sistematicamente grandi retate», le scene più impressionanti riguardano i besprizornye. Ma ciò che mi colpiva di più e che mi è poi rimasto impresso per tutta la vita era la vista dei bezprisorni, ragazzi randagi affamati, spesso malati, che si spostavano da una parte all’altra della città e dell’intero paese come branchi di piccoli animali. I più erano bambini, i più grandi avranno avuto non più di sedici anni. Provenivano tutti dalle regioni del Volga, dove nel 1921 una popolazione di quaranta milioni di abitanti era stata colpita da una tremenda siccità. In molti casi erano stati i loro stessi genitori a spingerli a fuggire dai villaggi dove sarebbero sicuramente morti di fame. Invisi a tutti come lebbrosi, neri di sporcizia e cenciosi, si aggiravano per le strade e nei mercati in cerca di cibo. A sera si rintanavano nei negozi e negli stabili abbandonati o semidistrutti. Là passavano la notte, ammucchiati gli uni sugli altri per riscaldarsi.7 Nella prima metà degli anni Venti i besprizornye erano centinaia di migliaia, con un picco di circa sette milioni nel 1922 (nel 1926 la popolazione dell’URSS era di poco superiore ai 147 milioni di abitanti). Nel 1922 a Mosca arrivarono non meno di mille bambini al mese.8

Pgg. 17-19 Anche André Gide durante il suo viaggio in Russia nel 1936 ne incontrò, con rammarico, ancora molti: «speravo proprio di non vedere più besprizorni».12 I besprizornye dei primi anni Venti avevano in genere tra i sette e i quindici anni, e quindi a metà degli anni Trenta non erano più bambini. Ma alla passata ondata se ne aggiungeva ora una nuova, seppure inferiore per dimensione, costituita dai figli dei «nemici del popolo» spediti nei campi di lavoro o fucilati. E un’ulteriore ondata sarebbe arrivata durante la Seconda guerra mondiale: gli orfani di genitori uccisi dalla guerra e i bambini che scappavano dalle proprie case per la fame e la disperazione. Una volta diventati adulti, che ne fu dei besprizornye? Nonostante il trionfalismo della propaganda stalinista – quei ragazzi che vivevano di aria e di sventura sarebbero stati recuperati e reintegrati operosamente nella società sovietica – per buona parte di loro la sorte fu decisamente meno gloriosa: in genere entrarono nelle file della criminalità, e molti finirono nei lager, destino su cui ha scritto pagine terribili Aleksandr Solženicyn in Arcipelago Gulag. Nei lager i ragazzini, che potevano avere anche dodici anni, erano chiamati dai detenuti adulti maloletki (malo = poco e leta = anni), marmocchi. I maloletki anche da liberi capivano benissimo che la vita è basata sull’ingiustizia. Ma allora non era tutto crudamente messo a nudo, qualcosa era coperto da una patina di decenza, qualcos’altro addolcito da una parola buona della madre. Nell’Arcipelago, invece, i marmocchi videro il mondo come appare agli occhi dei quadrupedi: soltanto la forza è giustizia! soltanto il rapace ha diritto di vivere! Così vediamo l’Arcipelago anche in età adulta, ma siamo capaci di contrapporgli la nostra esperienza, le nostre riflessioni, i nostri ideali e quanto abbiamo letto fino a quel giorno. I bambini invece recepiscono l’Arcipelago con la divina ricettività della fanciullezza. E in pochi giorni diventano bestie! le peggiori bestie, senza alcun concetto etico (se si guardano gli enormi occhi tranquilli di un cavallo o si accarezzano le orecchie abbassate di un cane colpevole, come si può negare che abbiano un’etica?). Il marmocchio impara che se qualcuno ha i denti più deboli dei suoi, deve strappargli il boccone, è suo.

Pg. 13 Dmitrij Lichačëv, grande studioso della cultura russa antica, arrivato da detenuto nel 1928 alle isole Solovki, primo nucleo del sistema concentrazionario sovietico, rimase impressionato da ciò che vide svegliandosi dopo la prima notte di detenzione: Sui tavolacci [dove dormivano i detenuti] superiori giacevano dei malati, e sotto di noi c’erano delle braccia protese a mendicare un pezzo di pane. Quelle braccia smunte erano il dito indice della sorte. Sotto i tavolacci vivevano i «pidocchiosi», gli adolescenti che non avevano più vestiti e vivevano da «fuorilegge»: non uscivano per le ispezioni, non avevano diritto al cibo, vivevano sotto i tavolacci perché non li facessero uscire, nudi, al freddo e ai lavori pesanti. Le autorità sapevano della loro esistenza, ma per eliminarli si limitavano a non dare loro la razione di pane, minestra o kaša. Finché riuscivano, vivevano del buon cuore altrui. Quando poi morivano, li portavano fuori e li chiudevano in una cassa per poi trasportarli al cimitero. Erano i besprizorniki, ragazzini abbandonati o senza famiglia, spesso condannati per vagabondaggio o per piccoli furti. Quanti ce n’erano in Russia! Bambini senza più genitori, che nel frattempo erano morti ammazzati o di fame, cacciati oltre confine con l’Armata Bianca o emigrati. Ne ricordo uno che sosteneva di essere figlio del filosofo Cereteli. Da liberi dormivano nei calderoni dove si prepara l’asfalto e vagavano per la Russia in cerca di tepore e frutta fresca dentro le casse poste sotto le carrozze viaggiatori o nei vagoni vuoti dei treni merci. Sniffavano la cocaina, che durante la rivoluzione arrivava dalla Germania, il tabacco e l’hascisc. Molti avevano le mucose del setto nasale bruciate. Mi facevano tanta pena quei «pidocchiosi» che mi trovavo a barcollare come un ubriaco, stordito dal dolore. La mia non era una sensazione, quanto vera sofferenza, e sono grato alla sorte che di lì a sei mesi mi mise in grado di aiutare alcuni di loro.

La condizione in cui si trovarono gettati i besprizornye durante la Prima guerra mondiale, la guerra civile, la carestia del 1921-22, la grande carestia dei primi anni Trenta, le repressioni staliniane e infine la Seconda guerra mondiale fu segnata dal bisogno primario della fame, e dagli espedienti per soddisfarlo: mendicare, rubare, uccidere.

Appena dieci anni dopo il discorso tenuto dalla Krupskaja al congresso di Mosca del 1924, alla progettualità rieducativa era ormai subentrata la soluzione repressiva. La svolta decisiva avvenne con la risoluzione congiunta del Comitato esecutivo centrale dell’URSS e del Consiglio dei commissari del popolo, approvata il 7 aprile 1935: si decise di abbassare il limite d’età per perseguire penalmente i giovani delinquenti e i besprizornye. A partire dai dodici anni di età, i minorenni riconosciuti colpevoli di furto, violenze, lesioni personali, menomazioni, omicidio o tentato omicidio, sono passibili di giudizio penale, con l’applicazione di tutte le misure punitive.16 Il limite dei dodici anni fu aggiunto personalmente da Stalin sulla bozza di proposta preparata da Andrej Vyšinskij, il procuratore generale dell’URSS che di lì a poco avrebbe rappresentato l’accusa nei grandi processi di Mosca. Pochi giorni dopo, il 20 aprile 1935, una nota segreta fu trasmessa agli organi competenti: vi si chiariva che tra le «misure punitive» andava annoverata anche «la pena capitale (fucilazione)». Non è noto il numero dei besprizornye che furono fucilati in applicazione di questa «nota esplicativa», ma testimonianze e documenti indicano che già negli anni precedenti si era fatto ricorso ai proiettili per «liquidare» quei ragazzi vestiti di stracci. Da ultimo, il decreto del 31 maggio 1935 sanciva la fine del fenomeno dell’infanzia abbandonata.

Negli anni venti fino a metà degli anni trenta, la condizione dei besprizornye fu alleviata dagli operatori e dai volontari della Croce Rossa internazionale, tra le quali, anche quella italiana, dalle fondazioni inglesi, francesi e Usa. Furono poi cacciate tutte, perché il partito decise che il problema era risolto. Non esistevano più besprizornye nella gloriosa società sovietica!

In questo volume vi sono una miniera di indicazioni, di nomi, di volti, di luoghi, che svelano processi di lungo periodo, tristemente ancora attivi oggi: un paese, una cultura, un mondo che divora i propri figli.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL VENTRE DI NAPOLI

Il ventre di Napoli : (venti anni fa, adesso, l’anima di Napoli) / Matilde Serao. – Napoli : F. Perrella, 1906

Questo romanzo fu ed è una inchiesta giornalistica, un trattato di antropologia, una rivendicazione politica, un atto di immedesimazione e di amore verso il popolo napoletano.

9  “[…] Questo libro è stato scritto in tre epoche diverse.

La prima parte, nel 1884, quando in un paese lontano, mi giungeva da Napoli tutto il senso di orrore, di terrore, di pietà, per il flagello che l’attraversava, seminando il morbo e la morte: e il dolore, l’ansia, l’affanno che dominano, in chi scrive, ogni cura, d’arte, dicano quanto dovette soffrire profondamente, allora, il

mio cuore di napoletana.

La seconda parte, è scritta venti anni dopo, cioè solo due anni fa, e si riannoda alla prima, con un sentimento più tranquillo, ma, ahimè, più sfiduciato, più scettico che un miglior avvenire sociale e civile, possa esser mai assicurato al popolo napoletano, di cui chi scrive si onora e si gloria di esser fraterna emanazione.

La terza parte è di ieri, è di oggi: nè io debbo chiarirla, poichè essa è come le altre: espressione di un cuore sincero, di un’anima sincera: espressione tenera e dolente: espressione nostalgica e triste di un ideale di giustizia e di pietà, che discenda sovra il popolo napoletano e lo elevi o lo esalti! […]”.

Matilde Serao racconta Napoli, la parte non detta, le strade vive, ognuna con le sue caratteristiche.  In base ai luoghi, traduce le impressioni in stati emotivi gettati nello stile della scrittura che varia dalla cantilena, al tono declamatorio, alla doglianza medievale quasi. In alcuni passi sembra che l’autrice parli in pubblica piazza, affinché ognuno accolga i lamenti, le richieste, le critiche a nome di chi non può, perché asservito e ricattato dall’indigenza.

21-23 “[…]  

Fortunate quelle che trovano un posto alla Fabbrica del tabacco, che sanno lavorare e arrivano ad allogarsi, come sarte, come modiste, come fioraie! La mercede è miserissima, quindici lire, diciassette, venti lire il mese; pure sembra loro fortuna. Ma sono poche: tutto il resto della immensa classe povera femminile, si dà alla domesticità.

La serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla mattina fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni, scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come un’ombra affranta. Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l’uno e corrono continuamente da una casa all’altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva, per addormentarsi subito.

Queste serve trovano anche il tempo di dar latte

a un bimbo, di far la calza, ma sono esseri mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno trent’anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi.

Non si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di quarant’anni, all’ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante ne avrà portate via il colera!

E tutti gli altri mestieri ambulanti femminili, lavandaie, pettinatrici, stiratrici a giornata, venditrici di spassatiempo, rimpagliatrici di seggiole (mpagliaseggie), mestieri che le espongono a tutte le intemperie, a tutti gli accidenti, a una quantità di malattie, mestieri pesanti o nauseanti, non fanno guadagnare a quelle disgraziate più di dieci soldi, quindici soldi al giorno. Quando guadagnano una lira, le miserelle, fanno economia e si maritano.

Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono, amate, si sono maritate: dopo, il marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri, temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono.

[…]”

Matilde Serao scrive ponendosi accanto alle protagoniste. Non è il grande burattinaio. Sta lì, assieme a loro e li conduce innanzi al lettore. Bussa alla porta del lettore. Sta lì nell’uscio e indica il mondo, le persone, e lo rende sonoro nel dolore delle loro storie. Porta la biografia di una città, di una comunità, di un mondo. La sintassi è ricca di aggettivi e di superlativi. La caratterizzazione è netta, perché ogni protagonista è al limite nel vivere, dal cibo, alla necessità di sopravvivenza. Non è solo povertà, o una rivendicazione economica, ma pure culturale.

È una rivendicazione di soggettività che è non solo sfruttata, come può accadere in altre parti d’Italia, ma è anche culturale, perché si riflette in una considerazione nazionale artefatta da una parte e nel disprezzo e nella svalutazione dall’altra verso il corpo di Napoli all’interno delle sue viscere. Le autorità gestiscono il consenso, per non fare, mantenendo la stasi del controllo. Nei fatti il potere lascia questo boccheggiare acefalo nello stagno dell’indigenza di futuro, di bellezza, di cibo, di serenità anche piccola, per elemosinare lentamente piccole bocche di ossigeno, rendendo verticali tutti i rapporti sociali. Si trae la ricchezza potenziale in un equilibrio che permette il dominio. E alla fine questo corpo di Napoli è sia un agglomerato perennemente morente che conferisce autorità a chi promette l’elemosina e nello stesso tempo un peso per tutte le istituzioni e la società italiana tutta.

25-27 “[…] bimbi che vanno a scuola; quando la provvista è finita, il pizzaiuolo la rifornisce, sino a notte.

Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e dànno un grido speciale, dicendo che la pizza ce l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza.

Con un soldo, la scelta è abbastanza varia, pel pranzo del popolo napoletano. Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano fragaglia e che sono il fondo del paniere dei pescivendoli: dallo stesso friggitore si hanno per un soldo, quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne di carciofi, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici. Per un soldo, una vecchia dà nove castagne allesse, denudate della prima buccia e nuotanti in un succo rossastro: in questo brodo il popolo napoletano vi bagna il pane e mangia le castagne, come seconda pietanza; per un soldo, un’altra vecchia, che si trascina dietro un calderottino in un carroccio, dà due spighe di granturco bollite. Dall’oste, per un soldo, si può comperare una porzione di scapece; la scapece è fatta di zucchetti o melanzane fritte nell’olio e poi condite con aceto, pepe, origano, formaggio, pomidoro, ed è esposta in istrada, in un grande vaso profondo, in cui sta intasata, come una conserva e da cui si taglia con un cucchiaio. Il popolo napoletano porta il suo tozzo di pane, lo divide per metà, e l’oste vi versa sopra la scapece. Dall’oste, sempre per un soldo, si compera la spiritosa: la spiritosa è fatta di fette di pastinache gialle, cotte nell’acqua e poi messe in una salsa forte di aceto, pepe, origano e peperoni. L’oste sta sulla porta e grida: addorosa, addorosa, ‘a spiritosa! Come è naturale, tutta questa roba è condita in modo piccantissimo, tanto da soddisfare il più atonizzato palato meridionale. […]”

28-29 “[…] Con due soldi si compera un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta; con due soldi di maruzze, si hanno le lumache, il brodo e anche un biscotto intriso nel brodo: per due soldi l’oste, da una grande padella dove friggono confusamente ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline, e frammenti di seppia, cava una grossa cucchiaiata di questa miscela e la depone sul pane del compratore, badando bene a che l’unto caldo e bruno non coli per terra, che vada tutto sulla mollica, perchè il compratore ci tiene.

Appena ha tre soldi al giorno per pranzare, il buon popolo napoletano, che è corroso dalla nostalgia familiare, non va più dall’oste per comperare i commestibili cotti, pranza a casa sua, per terra, sulla soglia del basso, o sopra una sedia sfiancata.

Con quattro soldi si compone una grande insalata di pomidori crudi verdastri e di cipolle; o un’insalata di patate cotte e di barbabietole, o un’insalata di broccoli di rape; o un’insalata di citrioli freschi.

La gente agiata, quella che può disporre di otto soldi al giorno, mangia dei grandi piatti di minestra verde, indivia, foglie di cavolo, cicoria, o tutte queste erbe insieme, la cosidetta minestra maritata; o una minestra, quando ne è tempo, di zucca gialla con molto pepe; o una minestra di fagiolini verdi, conditi col pomidoro; o una minestra di patate cotte nel pomidoro.

Ma per lo più compra un rotolo di maccheroni, una pasta nerastra, e di tutte le misure e di tutte le grossezze, che è il raccogliticcio, il fondiccio confuso di tutti i cartoni di pasta, e che si chiama efficacemente monnezzaglia: e la condisce con pomidoro e formaggio.

* **

Il popolo napoletano è goloso di frutta: ma non spende mai più di un soldo, alla volta. A Napoli, con un soldo si hanno sei peruzze un po’ bacate, ma non importa: si ha mezzo chilo di fichi, un po’ flosci dal sole: si hanno dieci o dodici di quelle piccole prugne gialle, che pare abbiano l’aspetto della febbre; si ha un grappolo di uva nera, si ha un poponcino giallo, piccolo, ammaccato, un po’ fradicio; dal venditore di melloni, quelli rossi, si hanno due fette, di quelli che sono riusciti male, vale a dire biancastri.

Ha anche qualche altra golosità, il popolo napoletano: lo spassatiempo, vale a dire i semi di mellone o di popone, le fave e i ceci cotti nel forno; con un soldo si rosicchia mezza giornata, la lingua punge e

lo stomaco si gonfia, come se avesse mangiato.

La massima golosità è il soffritto: dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all’occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite.

***

Questionario:

Carne in umido? – Il popolo napoletano non ne mangia mai.

 Carne arrosto? – Qualche volta, alla domenica, o nelle grandi feste, ma è di maiale o di agnello.

Brodo di carne? – Il popolo napoletano lo ignora.

Vino? – Alla domenica, qualche volta: l’asprino, a quattro soldi il litro, o il maraniello a cinque soldi: questo tinge di azzurro la tovaglia.

Acqua! – Sempre: e cattiva. […]”

Come osservatrice partecipante, l’autrice anche in modo inconsapevole assume uno sguardo da antropologa nel descrivere la natura degli usi e dei linguaggi del popolino tra i vicoli, i miasmi, le viuzze soffocanti, la sporcizia, e l’acqua maleodorante.

***

71 “[…]

Nessuna donna che mangi, nella strada, vede fermarsi un bambino a guardare, senza dargli subito di quello che mangia: e quando non ha altro, gli dà del pane. Appena una donna incinta si ferma in una via, tutti quelli che mangiano o che vendono qualche cosa da mangiare, senza che ella mostri nessun desiderio, gliene fanno parte, la obbligano a prenderlo, non vogliono avere lo scrupolo.

E i poveri che girano, sono aiutati alla meglio, da quella gente povera: chi dà un pezzo di pane, chi due o tre pomidoro, chi una cipolla, chi un po’ d’olio, chi due fichi, chi una paletta di carboncini accesi: una donna, per fare la carità in qualche modo, lasciava che una mendicante venisse a cuocere sul proprio fuoco, sul focolaretto di tufo, il poco di commestibile che la mendicante aveva raccattato. Tanto avrebbe dovuto perdersi, quel resto del fuoco, dopo la sua cucina; era meglio adoperarlo a sollevare una miserabile.

Un’altra faceva una carità più ingegnosa: essendo già lei povera, mangiava dei maccheroni cotti nell’acqua e conditi solo con un po’ di formaggio piccante, ma la sua vicina, poverissima, non aveva che dei tozzi di pane secco, duro.

Allora quella meno povera regalava alla sua vicina l’acqua dove erano stati cotti i maccheroni, un’acqua biancastra che ella rovesciava su quei tozzi di

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pane, che si facevano molli e almeno avevano un certo sapore di maccheroni.

Una giovane cucitrice era stata a Gesù e Maria, l’ospedale, con una polmonite; poi si era guarita, e pallida, esaurita, sfinita, era venuta via. Pure l’ospedale, per assisterla ancora in vista di una tisi probabile, le concedeva, ogni mattina, quattro dita di olio di fegato di merluzzo, che ella doveva andare a prendere, lassù. Ella capitava ogni mattina, col suo bicchiere, sino a che fu rimessa completamente in salute: e allora le dissero che non le avrebbero più data la medicina. Ella si confuse, impallidì, pianse, pregò la monaca che per carità, non gli sospendessero quell’olio – e infine fu saputo che di quell’olio, ella si privava per darlo in elemosina a una povera donna – la quale per miseria, superato il naturale disgusto, lo adoperava a condire il pane o a friggerci un soldo di peperoni. […]”

***

Matilde Serao partecipa a questa condizione rivendicando direttamente la necessità di rete fognarie e di elettrificare le vie per prevenire con il crimine con i lampioni. Richiede una politica abitativa e un mercato degli affitti compatibili per coloro che hanno un basso reddito, costretti a risiedere nelle baracche. Luoghi continui di epidemie che danneggiano tutti indistintamente dal ceto e dalla ricchezza.

E alla fine per stemperare la tensione, cerca di assumere un tono lirico che offra una speranza minima in particolare nel paragrafo sul CHE fare nel quale loda gli imprenditori, gli operai e le donne, che non accettano le tentazioni come Cristo sul monte, perché l’uomo non vive di solo pane, e questo può essere il riscatto per Napoli: onestà, resistenza al vizio, dignità, laboriosità.

Per Matilde Serao il riscatto morale è necessariamente anche politico e sociale.

§CONSIGLI DI LETTURA: I CANI E I LUPI

Irène Némirovsky I cani e i lupi Introduzione di Maria Nadotti
Traduzione di Luisa Collodi Edizione integrale
Titolo originale: Les Chiens et les Loups, 1940,
Newton Compton Editori.

Irène Némirovsky la scrittrice perennemente in fuga da San Pietroburgo, dalla famiglia, dalla Francia, fino a morire nei campi di concentramento nel 1942. Negli anni venti fu una scrittrice di successo. Innovativa, densa, briosa, tagliente, impietosa. Letta da tutti, perché rispecchiava appieno i mutamenti del tempo. Dimenticata a forza per le leggi razziste contro gli ebrei nella Francia occupata. Riscoperta dopo decenni dalla tenacia delle figlie che dal baule conservato, che proposero gli ultimi romanzi non pubblicati e incompiuti.

Questo romanzo, del 1940, è dotato di uno stile conciso e strepitoso che varia dal resoconto alla cantilena di una fiaba secondo il ritmo espressivo dei bambini nel vedere il mondo degli adulti. L’emotività e il carattere dei protagonisti tracciano il ritmo alla storia. Il lettore è guidato per mano, attraverso una prosa ricca di descrizioni

Gli adulti sono caratterizzati dal fisico in assonanza alle loro ossessioni: il vestito degli scopi della loro esistenza. La compulsione offre l’illusione del libero arbitrio nell’azzardo che naufraga nella “hybris”. Il mondo restituisce una immagine dell’agire umano vile e rozza. La bugia è la sorgente dei valori e della presunzione a dichiararsi gli unici artefici della propria volontà. Le proprie abilità sono il nucleo della cupidigia e della sopraffazione. La morale è la cosmesi che tenta di rendere plausibile la bugia, ovvero la sua reduplicazione

Tutti ne sono immersi. Ogni persona è una maschera che intesse la morale nella trama dell’ipocrisia.

Ada e Ben, da bambini, cercano di salvarsi con la fantasia, creando mondi, città e storie, durante il <pogrom>.

“[…] D’istinto i bambini correvano sempre più in alto, verso le colline, voltando le spalle al ghetto. Poi alla fine si fermarono: non sentivano più niente. I cosacchi non li avevano inseguiti, però erano rimasti soli e non sapevano dove andare. Ada si lasciò cadere su una pietra singhiozzando; aveva perso il cappello, i guanti e il manicotto, l’orlo del cappotto si era strappato e pendeva pietosamente; si strofinò la faccia con i pugni; le piccole guance livide erano segnate da macchie nerastre; il pianto si mescolava alla polvere del giorno precedente, formando lunghe striature scure. Ben disse con voce spezzata: «Noi ora scendiamo e cerchiamo di passare da Lilla». «No! No!», gridò Ada in preda a una sorta di crisi di nervi. «Ho paura! Non voglio andare laggiù! Ho paura!». «Ascolta: ti dico adesso quello che faremo! Passeremo per i cortili, dietro le case. Nessuno ci vedrà e noi non vedremo niente».

«Ada», disse, «non bisogna desiderare così forte».

«Madame, non posso fare altrimenti». «Bisogna avere più distacco negli affari di cuore. Essere nei confronti della vita come un creditore generoso e non come un avido usuraio». «Non posso fare altrimenti», ripeté Ada […]”.

Mentre la bella Lilla rappresenta la superficialità ingenua e limitata, Ada ne è il corrispettivo nell’interiorità, entrambe condannate a girare intorno al loro essere ebree perseguitate.

“[…]  «Imbecille», disse lui con tono di aspro disprezzo come quando erano bambini. «Tu non hai mai capito niente? Sì, io millanto, io invento, ma si comincia con immaginare tutto quello che non si può possedere, e si finisce, se lo si desidera con abbastanza forza, per possedere più di quanto si è immaginato». «Lo credi sul serio? Davvero?», mormorò lei. Nascose il viso tra le mani, poi scosse la testa: «A tratti penso che tu ti beffi di me, a tratti invece che sei fuori di senno». «Abbiamo tutti e due il nostro grano di follia! Non siamo esperti in logica, non siamo dei cartesiani, non siamo dei francesi, noi! Non è insensato sognare, a diciassette anni come a otto, di un ragazzo sconosciuto?» […]

«Tu vivi come su un’isola deserta», diceva Harry. «Non ho mai vissuto in altro modo. A che serve attaccarsi a quello che si dovrà perdere?» «Ma perché si dovrebbe perderlo, Ada?» «Non lo so. È il nostro destino. Tutto mi è sempre stato strappato». «Ma io, allora? Io? Tu però mi ami? Tu tieni a me?» «Quanto a te, è tutt’altra cosa. Ho vissuto senza vederti, e quasi senza conoscerti, e tu eri mio come lo sei adesso. Io, che temo sempre la disgrazia, non temo di perderti. Mi puoi dimenticare, abbandonare, lasciare, sarai sempre mio, e unicamente mio. Ti ho inventato, amore mio. Tu sei molto più che il mio amante. Tu sei la mia creazione. È per questo che mi appartieni quasi senza volerlo». […]”

Ada immagina il mondo nella pittura, ricavandone l’interiorità cercando di non occluderla. Ben invece sostituisce il mondo con la sua immaginazione rivolta all’esteriorità, anche per vendetta contro tutti.

L’autrice descrive la CONDIZIONE UMANA NEI SUOI STADI DELLA VITA. SA INTUIRE I PENSIERI DELLE DONNE E DEGLI UOMINI DALLA LORO GIOVINEZZA E DALLA LORO VECCHIEZZA. UNA INTROSPEZIONE FINISSIMA.

Più volte negli anni Ada cammina intorno la casa di Harry con la speranza di essere accolta, e ogni volta è respinta, errando nel ripetere la condizione del popolo errante respinto dal Paradiso.

“[…] «Che tempi, che tristi tempi per una nascita… E la donna è sola». Ma Rose disse: «Bah! Qualunque donna, anche la più ricca e la più adorata, si sente sola il giorno in cui mette al mondo il suo primo bambino, sola come quella che muore o come la prima di noi che abbia dato un figlio alla luce».[…]”

Ed è qui la grandezza di Irène Némirovsky nel descrivere le condizioni universali dell’essere umano dalla contingenza degli eventi storici.

“[…] suo figlio, senza alcun dubbio, conosceva una parte – ed era ciò a conferirgli quell’aria matura e piena di saggezza; lei possedeva l’altra, lei che non lottava più, che non chiedeva niente, che non rimpiangeva niente, che si sentiva insieme così leggera e così stanca. Queste due parti di verità forse stavano per congiungersi e formare una grande luce? La fiamma attacca uno a uno gli alberi e finisce per incendiare tutta la foresta. Contò sulle dita, come un bambino che enumera le sue ricchezze: “La pittura, il piccolo, il coraggio: con questo, si può vivere. Si può vivere benissimo”. Rose Liebig, un po’ preoccupata dal suo silenzio, si alzò e guardò il letto. «State bene tutti e due?», chiese. «Noi stiamo bene», disse Ada. Ripeté, sorridendo, “noi”… Pensava che era la prima volta che poteva pronunciare con certezza questa parola, e che era dolcissima […]”.

Il bambino nasce. Lei diventa la casa di Harry, di suo figlio, del popolo ebraico. La sua maternità continua nel verbo il <<noi>>.

§CONSIGLI DI LETTURA: NON PER ME SOLA. STORIE DELLE ITALIANE ATTRAVERSO I ROMANZI

Questo libro offre una imponente bibliografia ragionata e ben documentata delle storie delle italiane dall’Unità d’Italia ad oggi, scritte da donne. Romanzi alti, e d’appendice, di tutte le offerte per i tipi di pubblico che emergevano, mostrano come dalla scrittrice più quotata a quella “popolare”, la produzione di storie fosse una porta per affermare la piena soggettività della donna, mai realizzata nella storia dell’umanità.

Vi sono nomi che abbiamo letto distrattamente nelle antologie scolastiche, altri sentiti di velocità da un canale all’altro della tv o da canzone nella radio. Risuonano familiari i luoghi evocati, le gesta, i luoghi comuni, gli archetipi dei personaggi, anche se non si è letto nulla e non si ha nemmeno in mente l’immagine dell’autrice.

Eppure ci sentiamo a casa, tutti, uomini e donne, perché questi libri riguardano la nostra infanzia, la vita di tutti noi e di tutte le donne, e ciò è valido per i maschi, perché di grandi scrittori che hanno parlato delle donne ne abbiamo, MA DA UN PUNTO DI VISTA maschile. Ed è qui il punto: lo scrittore maschio quando narra le gesta e le storie, anche le più abbiette cerca di trovare qualcosa di lirico ed eroico, in particolare nei protagonisti maschili. Quelli femminili solitamente vengono sacrificati con dolore e con sangue.

Per le autrici no.

LE DONNE CHE SCRIVONO NON INVENTANO IN MODO ASTRATTO, PERCHÉ PARLANO DELLA LORO VITA E DI TUTTE LE ALTRE DONNE. In carne ed ossa. Le protagoniste dei romanzi delle donne, assieme alle autrici, sono giudicate, criticate, condannate. Le donne scrivendo storie, e romanzi, e biografie, rivendicano la propria memoria, una possibilità di esistenza preclusa dai maschi, dalle leggi, dagli usi e dalle consuetudini. Una donna si poteva uccidere, se tradiva. Non l’uomo. Era il maschio che decideva se una donna dovesse crepare o no di parto. Il maschio decideva dei figli come tenerli, come darli via eventualmente e sottrarli alla madre. La figlia femmina non poteva scegliere: eventualmente elemosinare una concessione di qualche anno di studio. Una donna non poteva uscire e recarsi all’estero senza il permesso del marito o del padre. Tutto ciò fino a pochissimi decenni fa, qui, in Italia.

Ancora oggi vi sono disparità e sono tendenze che partono dalla grande e continua letteratura di queste donne. Conosciute tutte. E se si invertono i modi di lettura, ecco che anche quelle meno dotate dal punto di vista artistico, in realtà hanno compiuto opere inenarrabili solo per riuscire ad ottenere un foglio e una matita, e strappare quote di tempo liberato per scrivere. Tantissime riuscirono per pochi padri e mariti illuminati, ma sempre per una DECISIONE di questi ultimi. Anche i più combattenti per le cause delle donne, in realtà, agli occhi nostri, avevano strati interi di quello che noi oggi diremmo “maschilismo”.

In tutto questo la figura della madre, il ruolo della maternità è l’epicentro di ogni conflitto. La sorgente massima di vita, di tempo, di senso, idolatrata dalle canzoni dei maschi, dai libri dei maschi. La madre è il ciò che è “sacro”: decorporata, se paga il suo ruolo con il dolore, il sacrificio, il sangue. La donna che salva la società, il matrimonio, i figli, il senso comune, è quella che si suicida o che diventa cattiva, pazza internata in manicomio, isterica: insomma se si autosopprime, o se è inscritta nella devianza. Se la donna si ribella, lo fa perché è una malata, o una criminale, o affetta dal demonio. Deve sacrificarsi per ristabilire l’ordine attraverso la tragedia. Questa è la base dei romanzi maschili.

Le donne che scrivono riprendono questi temi, ma nel contempo mostrano, attraverso il loro vissuto interiore, la donna violata, schiavizzata, lentamente annichilita, nella famiglia, nel matrimonio, nei figli, in modo diretto, a colori e non idealizzato. Tantissime opere nel passato vennero censurate, criticate, reputate violente, bugiarde, scandalose. E non è un caso, mostravano il tabù: la donna è come l’uomo. Può pensare, agire, e l’uomo, le leggi, i valori hanno bisogno di lei, sopprimendola in questa relazione coatta. Fino a pochi anni fa, una donna non poteva neanche ereditare le proprietà. Rimangono ancora queste leggi in dottrina: si pensi al cognome. La donna cede il suo nome, cede il figlio e la figlia. Cede il figlio alla patria e fa la ruffiana affinché la figlia possa sposarsi e rivestirsi con un cappio: meglio questo che la schiavitù della strada che porta alla morte precoce.

Tante donne hanno dovuto abbandonare i loro figli. Condannate per aver concepito un figlio fuori dal vincolo giuridico e quindi costrette ad abbandonarlo e celarlo al padre, a meno che quest’ultimo non lo rilevasse a qualche famiglia che lo accudisse. Condannate, comunque, per averlo abbandonato. Giudicate dalla prole, perché causa della separazione. Salvano la famiglia diventando schiave, e disprezzate perché si sono ridotte in schiavitù.

Uccise e torturate. Ma vi sono anche romanzi del riscatto, di crescita, di liberazione e di speranze, di nuovi stili poetici e di parole.

La lettura di questo libro, se presa sul serio, rende i grandi capolavori maschili degli ultimi centocinquanta anni molto più limitati, e più sbiaditi. Le opere di queste donne che trattano dell’Italia, dell’Europa, del mondo, parlano di se stesse a colori, senza sconti, nella bellezza e nell’abiezione, negando l’astrattezza dei protagonisti.

Tutti, sia i capolavori sia gli scritti d’appendice, mostrano la bugia del tragico che svilisce la donna, e principalmente la figura materna, quella che svela il limite e l’ipocrisia del potente e dei meccanismi di oppressione.

I maschi che leggeranno cercando di porsi in modo diretto come le autrici, immaginando di essere veramente loro stessi i protagonisti di questi romanzi, biografie, novelle, ricostruzioni storiche, proveranno un senso di ripulsa e di negazione all’inizio. Se, però, si compie il tuffo verso noi stessi, considerando che il primo urto causerà disappunto, vergogna, ipocrisia, la spogliazione del proprio io, conferirà la possibilità di parlare con il proprio passato, con il proprio femminile e con tutte le donne non viste e non considerate. Si acquisiranno nuove proprietà linguistiche, di scrittura e di immaginazione, abbracciando il dolore e la gioia di vivere di questo oceano di donne.