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Tutti i racconti di Beppe Fenoglio

Tutti i racconti di Beppe Fenoglio, Luca Bufano
(Curatore), Einaudi, 2018, Torino

I racconti di Beppe Fenoglio raccolti in questo tomo, suddivisi nelle aree temporali cui sono ambientati e precisamente dagli inizi del 900, passando per la grande guerra fino alla prima metà circa del regno fascista, per poi, infine distribuirsi negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale.

È una mole impressionante di scritti che mostra un luogo preferito di composizione. Non sono solo cicli a tema, o raccolte sporadiche di episodi. I racconti sono un diario vivente che non è un resoconto di ciò è accaduto in una giornata o in un anno, ma una fucina sempre accesa che cola la materia del passato e del presente, individuata dal singolo esperire dell’autore.

Gli attori, i linguaggi, gli accadimenti, sono presenti e vicini alla sua vita lì, nelle langhe, e si rifanno a personaggi veri e alcuni a lui contemporanei. I luoghi sono quelli della sua origine, del suo lavoro, e delle faccende quotidiane. I racconti del novecento che sembrano rivestiti dal mito e sfumati dalle innumerevoli variazioni sul tema, per il passaparola intergenerazionale, rimangono comunque negli ambiti della cronaca, e dell’avventura, perché gli aedi che narrano le gesta, sono in carne ed ossa ed ascoltati da Beppe Fenoglio, per le vie della città e dei paesi, delle osterie, del suo luogo di lavoro, del cortile fuori della sua casa. In più questi hanno conosciuto in gioventù i protagonisti effettivi degli eventi passati.

Non sono neanche concepiti in modo seriale e rapsodico, perché si hanno rimandi a protagonisti di racconti ulteriori e di eventi già trascritti. Beppe Fenoglio non pensa episodicamente con la creatività dell’attimo, perché in mente ha già in mondo. Forse questa complessità del suo estro immaginifico, è una causa preminente che lo porta a preferire istintivamente il racconto breve. Distilla, infatti, in un flusso ordinato il ritmo degli accadimenti. Non è un caso, allora, che i suoi romanzi, sembrano quasi espansioni dei racconti lunghi, che attingono appunto a questo lavoro quasi quotidiano di scrittura, dato che un’opera chiusa e compatta in un mondo esclusivo, avrebbe ristretto la visione panoramica dell’autore.

Nei romanzi, e ancor di più nei racconti, quindi, si rilevano collegamenti e presenze di modi di dire, esperimenti linguistici e attori che compaiono in modo orizzontale nelle composizioni. Da qui emerge una caratteristica di Beppe Fenoglio: la scelta dei nomi e la variazione di alcuni finali per questi attori cui le caratteristiche fisiche, l’idioma, il soprannome, portano già una chiave del loro destino.

Il mito narrato da Beppe Fenoglio, allora non è una trama collegata dai fili del presente e così intessuta: sembra quasi la matrice che produce la cronaca del presente, conferendo ad esso un significato, attraverso un collegamento logico con il passato.

Egli visse in modo distaccato. Lucido rispetto alle battaglie ideologiche e politiche dei contemporanei e quindi da tutti criticato. Prudente ma disinvolto a sfruttare i nuovi stimoli di retorica e di stile moderno che ricevettero idee e modelli dalle letterature estere, come quella inglese. Era presente e attento a ciò che fermentava nel dopoguerra fino alla sua morte, ma non volle mai porsi come un rappresentante esplicito di nuovi corsi, nonostante che iniziasse a usare termini inglesi, e gli stili diretti dei romanzi di largo consumo che si stavano espandendo anche oltre oceano. Anzi, negli anni ‘50, importò anche il gergo giornalistico, sportivo, e di cronaca popolare. Cercò di porre in relazione gli idiomi natii con la lingua italiana nelle versioni formali ed autoritarie fasciste, per quelle auliche delle tradizioni letteraria, a quelle dell’italiano che si stava formando con la televisione.

Beppe Fenoglio reperiva e ad inventava le storie vivendo ogni giorno con i suoi concittadini. La difficoltà risiedeva nell’impegno a sublimarle nell’opera poetica, mantenendo però, la verosimiglianza, la coerenza compositiva, la creatività stilistica.

In questi racconti il lettore riceverà un tesoro di spunti negli approcci alla composizione e alla rifinitura quotidiana, senza sconti, con una disciplina ed una rara onestà intellettuale nel sottoporsi a severe auto analisi. Quest’opera in divenire è continuamente modellata da mani che impastano la creta delle idee con un’estrema e delicata precisione e che scolpiscono il marmo delle forme letterarie con il sudore e il dolore, al fine di ricavare un contrappunto per una tensione di ricerca estetica senza fine.

Un tesoro di fatica a noi donato.

CONSIGLI DI LETTURA: Tutti i romanzi di Beppe Fenoglio

Tutti i romanzi (Einaudi tascabili. Biblioteca Vol. 62) di Beppe Fenoglio (Autore), G. Pedullà (a cura di), Torino, 2012

Signore e signori lui va letto integralmente.

Beppe Fenoglio fu considerato uno scrittore controverso per le sue sperimentazioni linguistiche, per la sua visione dei processi storici appena terminati in seguito alla fine della seconda guerra mondiale, per gli avvenimenti politico e sociali che apparvero in Italia fino all’anno della sua morte, nel 1963.

Fu criticato da editori e da letterati aderenti alle ideologie di sinistra e da quelle comuniste filosovietiche. Essendo stato un partigiano, fu radicalmente avverso al mondo fascista e alle destre a cui esse nel dopoguerra si richiamavano. Disincantato rispetto all’assetto statuale risorgimentale monarchico, guardò con distacco l’evoluzione delle interazioni sociali e civili della Repubblica Italiana.

Negli anni successivi alla morte e in corrispondenza delle dispute letterarie che tenevano conto di quelle ideologiche investite dalle posizioni di campo della guerra fredda, fu considerato un novelliere non tanto eccelso e un mediocre romanziere. Fu reputato un goffo sperimentatore linguistico nel tentativo di miscelare il linguaggio formale letterario con quello dialettale delle comunità codificate nelle nuove estetiche del neorealismo degli anni cinquanta. Impietosamente appellato come un dilettante nell’introduzione di neologismi stranieri nel suo stile di scrittura, nel tentativo di dispiegare nuovi orizzonti narrativi in cui inserire le vicende dei personaggi bassi, devianti e normali, grigi nelle loro vite assenti di un climax tragico.

Rimproverato nella sua indifferenza all’uso delle tradizioni narrative italiche, variando topi stilistici nel porli come meri strumenti sussidiari nel linguaggio parlato, sincopato nel ritmo, scarno nelle descrizioni dei luoghi, se non nella caratterizzazione degli eventi. Le trame dei suoi romanzi, anche incompiuti, vertono su un evento da assolvere, da ricevere, da subire, in cui innestare una linea narrativa concentrica in cui il passato e il presente entrano in gioco per suggerire il destino del protagonista e il giogo che sembra già assegnato. Una visione arcaica per alcuni, senza che ci si potesse raccapezzare nella totale mancanza di enfasi tra la dialettica dell’eroe e dell’antagonista, la quale non si chiude mai, se non per l’evanescente finale dell’attore delle gesta, in cui il presente rimane sospeso.

Avversato, quindi dagli scrittori ortodossi, da quelli antisistema, e dagli sperimentatori delle nuove possibilità linguistiche che provenivano dall’estero.

Eppure, nonostante l’alluvione di perplessità che investì in vita e dopo, questo scrittore schivo e radicato nel suo Piemonte, le istituzioni, le parti politiche, i mondi intellettuali, e il pubblico che man mano si faceva più letterato, lo posero come un riferimento rispetto ai temi letterari, sociali e politici dei decenni successivi.

E se ciò già negli ultimi anni della sua vita, fu richiamato nei dibattiti per usarlo come un esempio negativo, il fatto è che indirettamente e inconsciamente fu considerato un interlocutore. Le critiche che si sono susseguite in realtà, agli occhi nostri, ora, mostrano invece i limiti e le esigenze dei loro punti di vista specifici. Nonostante tutto Beppe Fenoglio sembra essere molto di più di come fu inteso e descritto dai luoghi di discussione politici, letterari e di costume dei vari decenni del novecento fino ad ora.

Insomma, chi fu Beppe Fenoglio?

Prima di tutto, ed è questa la sua specificità quasi originale nel ventennio fascista, fu un giovane innamorato della cultura albionica. Per sua spinta personale, con l’avvio di alcuni docenti che avversavano le politiche autarchiche fasciste nel piano linguistico, ideologico, e dottrinale, studiò ed acquisì le nozioni sulla lingua e sulla cultura inglese. Divorò intere raccolte di poesie e romanzi degli scrittori moderni e contemporanei del mondo anglosassone. Li visse nel suo immaginario.

Vi è un elemento, che forse non traspare immediatamente nelle descrizioni ultradecennali di questo giovane che si appassionò a tradurre autonomamente interi passi di drammi teatrali, di poesie, di racconti della letteratura inglese e poi statunitense: l’immedesimazione viva, concreta, presente verso i mondi letterari e le vicende trascritte in quelle opere.

Così schivo, già rispetto alla sua famiglia, dato che si chiudeva nella sua camera, a studiare e a scrivere, divenne, nel parlare e nel pensare i termini e i luoghi tradotti, una parte viva di essi, in cui la sua città, il suo paese, il quartiere, il negozio, si fusero con le campagne d’Irlanda, d’Inghilterra, con i castelli e le magioni dei nobili, con le baracche dei contadini e le fortificazioni dei guerrieri e degli eserciti.

In mondo italico meno che provinciale, lì tra i paesi e le campagne del Piemonte, questo ragazzo pensava e parlava del mondo e dei secoli oltre le Alpi e gli Oceani.

Lo strumento narrativo principale per riannodare eventi così scollegati, fu quello dell’analogia e della ripetizione in cui la metafora e l’allegoria furono spianate in una narrazione ciclica, e quindi mitica. Ma anche qui in un’ottica moderna, da romanzo d’appendice, aperto a tutti, con un linguaggio piano e parlato, con idiomi locali dei luoghi descritti.

E proprio perché Fenoglio vuole vivere ciò che scrive, lo ripete come se si svegliasse ogni mattina, perché poi dalle traduzioni e dalle uscite serali in osteria, dai giochi a carte, dal lavoro di impiegato quotidiano, la notte ricomponeva l’ideazione estetica nella traduzione operativa nella scrittura. Ed ecco, quasi inconscio, l’uso degli stessi protagonisti con l’identico nome per romanzi diversi, in cui le storie prendono percorsi alternativi, come se fosse un racconto orale, con continue variazioni a tema.

E proprio perché fu un partigiano, ritorna a parlare di quello scarto di storia italica, in cui il regno non ci fu più, dal giorno dell’otto settembre 1943 fino all’inverno del 1944. Non arriva neanche alla fine della seconda guerra mondiale, in quasi tutti i romanzi che scrisse.  

Perché? Certamente noi non possiamo entrare nella testa dello scrittore, ma abbiamo indirizzi manifesti che permangono quasi un secolo dopo. Noi non abbiamo fatto i conti con il nostro passato fascista. Abbiamo, in più, dichiarato guerra a tutto il mondo. Siamo stati alleati con l’orrore. Abbiamo chiuso gli occhi, coprendoci di disonore, esibendo la vigliacca mediocrità. E non affrontiamo quella guerra civile che iniziò già con gli scontri del 1919 che portò il partito fascista al potere, fino al 1943, in cui il regime dichiarò guerra contro il suo stesso popolo per mano della Repubblica Sociale Italiana. Non vogliamo pensare di essere stati salvati da quelli che oggi guardiamo con ironia, e che ci hanno dato la mano più volte anche economicamente e che ci hanno protetto da eventuali conflitti fino ad oggi.

E se la parte progressista guardò a un altro regime terribile come quello staliniano, la parte laica e liberale mostrò un’anemica e viscida visione del mondo.

Beppe Fenoglio volle parlare anche del nostro disonore, e di come gli stessi partigiani, dopo la guerra fossero usati in modo mitico e settario, per gli scontri politici e sociali della seconda metà del novecento. Non erano tutti uguali, non erano tutti eroi, non erano tutti dalla stessa parte e si sono avversati ed odiati. E in più Fenoglio parlò dell’altra parte: lo scandalo più orrendo del nostro passato: la Repubblica Sociale Italiana. La caratteristica che diede fastidio ai contemporanei (perché parlava di loro) e di noi ancora oggi, fu quella di rappresentarli come persone normali, che non avevano una idea complessiva degli attori politici, dei leader, dei processi mondiali in corso. Gente analfabeta che a malapena uscì a poche decine di chilometri dal proprio paese.

Narrò gli scontri e le vicende delle varie parti in gioco, in modo volutamente non artefatto, con persone aventi difetti, meschinità, paure, speranze, di trovarsi addirittura quasi per caso e in modo irriflesso da una parte o dall’altra. Ma, attenzione, lui fu un partigiano ed aveva ben chiara la condanna morale dei repubblichini, che condannò moralmente ancor di più dei tedeschi. Non a caso fece dire ai suoi protagonisti partigiani, che loro arrivavano fino alla fine per uccidere un repubblichino e viceversa, perché a differenza dei tedeschi che agivano in modo tattico e logistico, tra di loro ci si voleva “bene”, e quindi si cercava di uccidersi anche in modo strategicamente suicida.

Beppe Fenoglio narrò di sé. I protagonisti sono quei partigiani maschi istruiti, quasi sempre solitari, distaccati, con uno sguardo critico, conoscitori della lingua inglese. Lui non inventa tutto. Parte proprio in modo traslato dalla sua famiglia. Dai rapporti con il padre e con la madre, con i parenti, con i vicini, con il paese natio, con il territorio atavico, con i partigiani badogliani e rossi, con i fascisti, con i repubblichini, con i traditori e i collaborazionisti.

Fu causa di dispute, perché la matrice da cui partiva era vera, in carne ed ossa, ed era di testimonianza diretta, anche se fu edulcorata, ampliata e sublimata nell’opera letteraria. Ecco perché i suoi scritti non potevano essere intesi come opinioni, o visioni settarie dilaganti negli anni cinquanta della guerra fredda.

Si scrisse che non fu però a livello meramente estetico, preciso e coerente nelle sue sperimentazioni linguistiche. Può essere, ma queste sono istanze che furono definite negli anni sessanta, quando appunto le nuove correnti letterarie di retorica, di filosofia del linguaggio, delle nuove tecnologie di scrittura, fornirono interi sistemi di strutture semiotiche e narrative.

Beppe Fenoglio le usava in modo strumentale rispetto alle sue specifiche esigenze narrative. Il modo in cui intervalla i termini gergali inglesi, con quelli dialettali piemontesi, con il parlato urbano e dei villici illetterati, era funzionale a caratterizzare il suo percorso narrativo, innestato nella visione della persona comune, come quella del contadino. Delle donne e degli uomini dei monti, che vivevano in modo aspro, al limite della sopravvivenza.

La visione organica e ben delineata a livello storico era tale nei nuovi canoni degli anni sessanta e settanta, dove entrano le nozioni delle ricerche sociologiche e psicologico sociali. Beppe Fenoglio parla di quel mondo tra il 1943 e il 1944 in uno stato di sospensione dentro un inferno, dove i politici, i miti, le religioni, erano visti senza mediazioni dalle persone illetterate, dal popolo. Dagli italiani, ovvero da come eravamo. Toglie l’eroismo, se non nell’atto individuale.

In questi romanzi si percepiscono gli odori, i sudori, le paure, le speranze, le angosce, le prove di sopravvivenza. Fenoglio ci prende con le mani i fianchi e l’intestino.

È fonte di irritazione, perché parla di noi. Un popolo più vecchio di quel periodo. Un popolo che continua a far voler dimenticare, negando il passato, sperando di seguire l’illusione di vivere in un’isola autarchica fuori dal mondo.

Va letto e goduto, perché nella letteratura, appare il godimento estetico, in cui riconosciamo parti sopite di noi stessi: un tesoro da spolverare a mani nude. È una pratica che forse all’inizio irrita la pelle, ma promette una possibilità per ritornare a guardar ciò che fummo e siamo.

§CONSIGLI DI LETTURA: DISERTORI: UNA STORIA MAI RACCONTATA DELLE SECONDA GUERRA MONDIALE

Disertori: Una storia mai raccontata
della seconda guerra mondiale
di Mimmo Franzinelli, 2016,
Mondadori, Milano

È un libro che fa piangere e che fa infuriare. Non lascia uno stato di indifferenza.

In epoche arcaiche il disertore fu riferito a colui che guasta un ampio tratto di terra. Colui che devasta, che vuota l’area di abitatori. Ciò che riduce tutto in un deserto. La spogliazione.

In epoche riferite alla storia moderna il disertore è colui che lascia la bandiera, lo stendardo, l’insegna. Dal latino Desertare intensivo di Deserere abbandonare, composto della partic. DE che suppone il senso contrario a Serere, interesse, legare insieme, annodare, quasi dica, disunire, staccare.

Colui che scioglie la relazione sociale, il patto che rendeva un collettivo all’interno di unità di intenti, all’interno di valori comuni.

In un primo livello di analisi la diserzione, oggi, è riferita in modo irriflesso, quasi automatico, al singolo che, per deficienza morale, fisica e caratteriale rompe il patto e indirettamente indebolisce il gruppo a cui era in quel momento in piena interazione sociale.

È disertore quel colpevole che rende il deserto di un collettivo che combatte un nemico, qualcosa di altro da sé che si presenta in modo oppositivo. O loro o noi. La colpa è in primo luogo quella morale: è la vigliaccheria che induce alla ritrosia di affrontare la contesa. È la debolezza congenita e alimentata che nega il proprio ruolo per celarlo a fronte da quel contesto collettivo. Nel caso ritenuto più pericoloso è il traditore, colui che passa dall’altra parte della linea: il limes di guerra. Colui che non solo diserba le energie e le risorse che alimentano il collettivo, ma che addirittura sottraendole, e quindi anche contribuendo con le personali, indossa il ruolo del nemico. Della nemesi, quella che inverte il mio corso di vita e di significato che attribuisco al mondo: ciò che contraddice le mie azioni tendenti a uno scopo, e le mie convinzioni che rendono un ordine verso il mondo.

In questa visione il disertore è il male, colui che determina la possibilità del fallimento. Il disertore è la causa dell’indebolimento. Dalla sua persona parte il disfacimento, l’errore, la disfatta, cioè l’essicazione delle energie e delle qualità di questo fare: il fare che non riesce a legare il grano raccolto: appunto un disfare. Ciò che fa evaporare la mia irrigazione del buon terreno che offre vita e frutti: il diserbare, il disertare, che si compone nel rendere deserto, senza memoria e con conseguenze non volute la mia opera: l’azione con scopo, che si traduce nel perseguimento di obiettivi.

Certamente ciò è accaduto. Ma il disertore è solo questo? È solo questo vigliacco, traditore, di una morale viscida e sporca che innesta il processo di abbandono e di sconfitta, se parliamo di scontro di guerra diretto?

Non vi è forse da riflettere che anche il piano istituzionale, direttivo e statuale tradisca il collettivo che combatte e difende la comunità di riferimento? Che cambia quindi il significato della stessa bandiera con la quale si riconosce?

Non è possibile invece che il collettivo rimanendo immutato, improvvisamente si ritrova appellato come disertore perché la sua comunità di riferimento è presa da altri rappresentanti, oppure si frammenta in una serie di organismi antagonisti e che, quindi, agli occhi della nuova situazione è oggettivamente già un corpo estraneo?

Non si può concepire l’idea che i condottieri e coloro che forniscono gli obiettivi e gli scopi della composizione e della natura del collettivo che combatte, siano loro stessi a disertare? Ad esempio un Re guerriero che abbandona il proprio esercito, con i propri generali e lo stato maggiore (gli angeli che vegliano sulla morale), rende il collettivo senza la parola, l’acqua, il cibo, lo scopo, la direzione, la sostenibilità?

E ancora che questi nuovi organismi, invece di combattere l’originario orizzonte che sta oltre il Limes, per crescere, come masse tumorali, invece, aggrediscono il loro corpo di origine?

Sì: è possibile ed è accaduto: Il regno italico nella sua veste di dittatura fascista durante la seconda guerra mondiale.

Questo libro parla dei singoli disertori degli eserciti italici, e mostra indirettamente come furono perseguitati dai disertori primari del valor di patria secondo le loro stesse retoriche e come questi disertori originari si avventarono contro la propria popolazione di riferimento, dopo aver dichiarato la guerra a mezzo mondo.

Le vicende commoventi, strazianti, terribili di questi giovani e delle lor famiglie, mostra proprio da documenti dei primi disertori, di come questi ultimi con le loro condanne, fucilazioni, persecuzioni, ottusità, siano stati i primi a rendere un deserto di diritto, di vita, questo territorio italico, e di aver piantato malanimo, odio, vendetta, complesso di colpa, divisioni che durano ancora oggi riconfigurandosi come un’erba cattiva in nuove, sporche e viscide sterpaglie. Questi agricoltori del disonore con a capo un Re, la sua famiglia e corte, e i quadri di quel regime fascista, riprodotto poi in quell’orrore putrido che fu la Repubblica Sociale Italia: la serva sciocca dei nazisti che si concentrò a uccidere gli italiani stessi.

Vi sono state diverse forme di diserzione lungo la linea temporale degli avvenimenti e in concomitanza di eventi ben precisi che scandirono l’andamento apicale e poi di riflusso negli scontri armati.

Vi furono coloro che si rifiutarono di partire per il fronte nella Seconda guerra mondiale, non rientrarono da una licenza, fuggirono dalle lande gelate durante la Campagna di Russia, non vollero accettare la Repubblica sociale dopo l’8 settembre: migliaia di ragazzi – giovanissimi, anche se molti già padri di famiglia, spesso gli unici a portare a casa uno stipendio – finirono davanti ai Tribunali di guerra.

Mimmo Franzinelli rivisita questo complesso periodo storico per delineare la tipologia e le motivazioni dei disertori, analizzando le dinamiche repressive (Codice penale di guerra, Tribunali militari, modalità delle esecuzioni capitali) e ricostruendo le storie di tanti soldati, nei più disparati scenari, le cui drammatiche vicende sono sottratte all’oblio non solo grazie ai diari inediti ma anche al ricordo ancora attuale dei loro parenti.

“ […] Dalla «non belligeranza» (settembre 1939 – giugno 1940), quando due distinti flussi di soldati fuggono in Francia e Iugoslavia, alla prima fase dell’intervento italiano, quando disertori sono soprattutto i contadini e gli artigiani, poco disposti a morire in una guerra in cui non credono, sino all’estate 1943, quando, con lo sbarco in Sicilia, molti considerano persa la guerra, si battono di malavoglia e il fenomeno della diserzione aumenta a dismisura, acuendo la durezza della repressione, con «fucilazioni pedagogiche» dinanzi alle reclute. Con l’armistizio e la divisione dell’Italia in due governi (e sotto contrapposte occupazioni militari), la diserzione diventa il tarlo che rode l’impalcatura della Repubblica sociale e del Regno del Sud: i Tribunali militari lavorano a pieno ritmo e a Salò le fucilazioni si estendono anche a chi aiuta i «traditori», donne incluse. […]”

Questa storia, peraltro, non si conclude nel 1945: per oltre un ventennio la magistratura militare perseguirà gli ex disertori, inquisiti o imprigionati (e persino rinchiusi in manicomio) per essersi rifiutati di continuare a combattere.

 103-104 “[…] Eppure, settori della popolazione diffidano del demiurgo e vedono come un incubo la prospettiva di indossare la divisa e marciare all’unisono. Tre mesi più tardi, un rapporto di polizia sullo stato d’animo dei romani è decisamente allarmistico: «La paura dello scoppio della guerra è ormai estesa e generale». In quei giorni, il capo della polizia, Arturo Bocchini, confida al ministro Ciano che «in caso di sommossa a carattere neutralista, carabinieri e agenti di polizia farebbero causa comune col popolo». In questo clima c’è chi, silenziosamente e dopo angosciate riflessioni, prepara l’espatrio clandestino, sentendosi straniero in patria. Nel momento in cui il Paese viene mobilitato per la prevedibile guerra, la diserzione costituisce il più clamoroso segnale di dissenso da parte dei giovani chiamati alle armi. Mussolini sa bene come la storia italiana sia segnata da diserzioni di massa: lo ricorda l’11 aprile 1940 a Ciano, indicando la guerra quale banco di prova del valore delle nazioni: «Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento, magari anche a calci in culo. Così farò io! Non dimentico che nel 1918 in Italia c’erano 540.000 disertori». In precedenza si era lamentato con il ministro degli Esteri a proposito dei legionari inviati in Spagna: «I casi di indisciplina sono più frequenti e cominciano, per la prima volta, le diserzioni». Il Tribunale militare del Corpo truppe volontarie italiane celebrò nel 1937-38 ben 260 processi per diserzione, 190 per disobbedienza e insubordinazione. Fughe dai reparti sono sempre in agguato, rileva il dittatore a metà settembre 1939, commentando con Claretta Petacci le difficoltà belliche anglo-francesi: «Sono già convinti di perdere… e intanto immagina che spirito alto… In Francia, poi, è un pianto. Pensa che non sanno più come arginare i disertori: decine di migliaia di disertori fuggono, non vogliono fare la guerra, capisci?».6 Mussolini, aggiornato sulla situazione interna inglese, ironizza sulle leggi «democratiche» che non infliggono la pena di morte ai disertori e consentono l’obiezione di coscienza […]”

I Tribunali militari di guerra puniscono la diserzione con la morte, per dissuadere i potenziali disertori, mettendoli davanti alle conseguenze della fuga dall’esercito. Dall’entrata in guerra sino all’armistizio, vengono condannati a morte circa 130 militari e circa 550 civili (41 in contumacia), in grande maggioranza nei Balcani.

Dati assai parziali, in quanto le statistiche non includono – se non saltuariamente – i procedimenti sommari da parte dei tribunali straordinari e ignorano le fucilazioni di partigiani catturati in combattimento e uccisi a freddo. I criteri di giudizio seguiti dai magistrati sono influenzati dalle contingenze belliche: blandi nel primo anno di combattimenti, s’inaspriscono nel 1942 e toccano nel 1943 picchi rivelatori del malessere aleggiante tra i soldati e dell’insicurezza dei comandanti.

Contro le sentenze, non è ammessa impugnazione; se pronunciate in territorio nazionale sono eseguite dopo ventiquattro ore; all’estero divengono immediatamente esecutive. I Tribunali di guerra più propensi a infliggere la pena capitale operano in Africa settentrionale e nei territori dell’ex Iugoslavia. Il pugno di ferro riguarda anzitutto i nativi accusati di «ribellione» e – dopo di loro – i disertori. Laddove si avvertono segnali di indisciplina e disgregazione, si usa il pugno di ferro. Il periodo di maggiore spietatezza coincide con l’addensarsi dell’odio popolare su Mussolini, dal dicembre 1942 al luglio 1943, quando la polizia politica non riesce più a contenere le proteste contro il dittatore: vi sono centinaia di arresti per il reato di «offese al Capo del Governo»; il duce è infatti definito affamatore del popolo (sono censiti 138 casi), responsabile della guerra (113), traditore della Patria (103), carnefice e brigante sanguinario (69), vigliacco e vile (63), colpevole di lutti e sofferenze (59).

Vi fu l’impunità di Stato dopo la fine della guerra, anche per l’amnistia che fu concessa a chi commise crimini di guerra, come i generali e alti ufficiali comminarono fucilazioni senza la parvenza di rispettare il proprio “aberrante” ordinamento giuridico militare. Il caso del generale Chatrian fu emblematico, perché si attivò per uccidere quanti più possibile, proprio nei giorni intorno all’8 settembre 1943, anche per soldati che compirono ritardi di uno o due giorni.

Questi personaggi aderirono alla Repubblica Italiana partecipando come parlamentari e in qualità di alti funzionari delle istituzioni. E questo generale come molti altri poi, furono i primi ad arrendersi al nemico. Loro che scrivevano ad ogni riga appesantendo anche la condanna con l’invettiva, per la quale: non si scappa di fronte al nemico, o si vince o si muore!

Loro che fecero uccidere giovani contadini che ritardarono di alcuni giorni il rientro dalla convalescenza perché feriti, o dalla licenza, per coltivare la terra della famiglia, perché la madre vedova con i figli piccoli non aveva di che sostentarsi, e a quei tempi senza il raccolto si crepava di fame e di malattie.

Lui, il grande Duce, che fu un disertore della prima guerra mondiale. Lui che fu il primo a cambiare idea su tutto: da anarchico, poi socialista. Poi repubblicano, poi pacifista, poi interventista, poi anticomunista, reazionario, baciapile, e alla fine scrivano dei nazisti.

E come dimenticare l’altro Lui in piccolo, il nostro disonore permanente: il maresciallo Graziani. Lui che fece stragi in Africa, terribili, che noi italiani continuiamo a dimenticare da decenni. Lui che fece scuola ai nazisti per l’efferatezza, divenendo poi subito lamentoso e spaventato quando le cose si posero al peggio e naturalmente si consegnò, in qualità di capo delle forze armate della Repubblica Sociale Italiana, agli alleati, mica ai sovietici: chissà perché.

Non solo loro però, giovani italiani allo sbando, senza scarpe, munizioni, da mangiare, senza vestiti, arruolati a forza e poi fucilati e seviziati anche dalle camicie nere, magari gli ex vicini di casa. Ci deve far riflettere. Troppo comodo prendersela con quella fogna morale che furono le alte sfere, purtroppo per noi, e non lo vogliamo vedere che anche a livello popolare commettemmo atrocità.

La figura degli italiani “brava gente” di buon cuore, è successiva alla fine della guerra, e fu anche agevolata dagli Usa che per motivi strategici chiusero un occhio su di noi. 

3538 – 3595 “[…] La nemesi della diserzione Soldato di leva della classe 1883 del Distretto di Forlì, il 27 marzo 1904 Benito Mussolini non si presenta al servizio militare e il successivo 30 aprile viene «dichiarato disertore per non aver risposto alla chiamata alle armi della sua classe». Denunciato al Tribunale militare di Bologna, il 2 agosto è condannato a un anno per diserzione semplice. La Svizzera rifiuta di estradarlo e gli concede asilo. In quel periodo il ventunenne rivoluzionario romagnolo raccomanda un mezzo infallibile per abbattere l’infame coartazione militarista: disertare! Egli, tuttavia, è un disertore dimezzato: a fine novembre cede alle insistenze materne e rimpatria, regolarizzando la sua posizione. Assegnato al 10° reggimento bersaglieri, in una caserma di punizione di Verona, beneficia dell’amnistia per la nascita del principe Umberto. Smobilitato nel settembre 1906, non ha mutato le proprie idee. Nell’ottobre 1911, con il repubblicano Pietro Nenni, capeggia violente manifestazioni contro la guerra di Libia, per bloccare le tradotte dei soldati: i due agitatori sono arrestati e condannati. Mussolini, liberato nell’aprile 1912 e divenuto direttore dell’«Avanti!», sino all’estate 1914 inneggia alla diserzione, «mezzo infallibile per annientare l’infame militarismo», arma micidiale contro la guerra voluta dalla borghesia internazionale. Di lì a poco salta la barricata e diviene interventista. Per i corsi e i ricorsi della storia, trent’anni più tardi combatterà i disertori, sabotatori della «sua» guerra. […]”

I bandi di arruolamento del maresciallo Rodolfo Graziani (ministro delle Forze armate) spingono i giovani sulle montagne, per istintiva autodifesa più che per valutazioni politiche, possedute da ben pochi. Ragazzi disorientati e confusi affluiscono ai distretti militari, per poi eclissarsi appena possibile. La renitenza, dilagante tra fine 1943 e inizio 1944, nell’incalzare degli eventi diviene resistenza. Nell’estate 1944 il rimpatrio delle quattro divisioni addestrate in Germania prelude alla diserzione di migliaia di militari, che se ne vanno alla spicciolata o incolonnati in lunghe file. Le bande dei patrioti ne traggono notevole beneficio, anche per l’armamento.

Dal 10 giugno 1940 al luglio 1943 il ministero della Guerra annota meticolosamente i reati militari e la loro repressione. Le vicende dell’armistizio disperderanno quel materiale statistico, di cui rimangono schemi settimanali lacunosi e il solo registro annuale del 1941, dal quale risultano per l’esercito circa 11.000 condannati, 3746 assolti e 45.000 processi ancora in corso, in aggiunta ai 3000 condannati dei rimanenti comparti militari.

 Il 46,52 per cento dei reati riguarda la diserzione, che esplode nel corso del 1942 e dilaga nel 1943. Il dossier commissionato da Mussolini sui «processi definiti dall’11 giugno 1940 al 9 maggio 1943» con condanne superiori ai dieci anni, annovera per l’esercito 71.307 condanne e 95.082 assoluzioni. Si devono poi considerare le decine di migliaia di condanne sotto i dieci anni e le 11.000 assoluzioni. Dati comunque inferiori alla realtà, utili soprattutto a livello orientativo. Da notare che in quei 2 anni e 11 mesi le diserzioni crescono e gli altri reati diminuiscono.

 I numeri, pur impressionanti, sono inferiori a quelli della Grande guerra, quando i tribunali militari aprirono oltre un milione di processi, infliggendo 40.028 condanne a morte, 746 delle quali eseguite, in aggiunta a 141 esecuzioni sommarie. Nel 98 per cento dei casi, le pene capitali riguardavano la diserzione.

Il fenomeno dei disertori ricomparve in Europa nell’autunno 1991 – sotto forma di obiezione di coscienza, renitenza e «assenze arbitrarie» dai reparti armati –, quando il governo della Serbia mobilitò i suoi cittadini nella prospettiva della guerra civile, etnica e religiosa che avrebbe presto dilaniato le regioni della ex Iugoslavia. Oggi le diserzioni si sviluppano sottotraccia in Siria, Ucraina, Libia, laddove i vari contendenti impongono arruolamenti coatti nelle zone da essi controllate. E la strage continua.

§CONSIGLI DI LETTURA: ADRIANO OLIVETTI. UN ITALIANO DEL NOVECENTO

Adriano Olivetti, un italiano del Novecento,
2022, Di Paolo Bricco, Rizzoli, Milano

È più di una biografia. È una narrazione che gli italiani ancora oggi risentono circa la loro autorappresentazione, ereditata dai primi sessanta anni del secolo scorso. Adriano Olivetti è stato il figlio di Camillo, altro grande imprenditore a cavallo del ‘900. Uno studente di meccanica e di legge, pervaso da una vorace aspirazione a coniugare lo sviluppo tecnologico all’interno dell’imprenditoria in vista in un’etica tesa al miglioramento morale e materiale del popolo.

Contribuì a definire quei tratti tipici con i quali noi inconsciamente talvolta, con fastidio frequentemente e con orgoglio timidamente ci contraddistinguiamo: una versatile capacità camaleontica di aderire alle ideologie, di inventare storie di sé e di riformulare il passato come se dovessimo cambiarci i vestiti, sia per una volontà tesa a un perenne rinnovamento salvifico e sia per una furbizia stracciona e impotente, quasi disperata. Lasciando poi trasparire in modo quasi inspiegabile tratti di eroica genialità e di sacrificio.

4-5 “[…] Inaugurando nel 1955 la fabbrica di Pozzuoli, Olivetti presenta così gli obiettivi della sua impresa: “La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto” […]”

Non fu uno studente particolarmente brillante e neanche dotato di uno spirito pratico e agile, secondo le indicazioni del padre. Fu goffo, solitario, taciturno, non particolarmente atletico, ma dotato di uno sguardo sognante oltre il presente, contraddistinto da una inesauribile capacità immaginativa.

Aiutò Turati a fuggire durante la presa del potere del fascismo. Fu poi organico al regime e, in posizione di monopolista, trattò per rendere sempre più efficace la sua posizione aziendale in vista di una espansione produttiva e di sviluppo tecnologico privilegiato, venendo a patti con i potenti, fino a chiedere di interloquire con lo stesso Mussolini. Fu socialista segnalato dagli stessi prefetti fascisti, per poi rivendicare e anzi proporre uno stato etico ancora più pervasivo nei meccanismi dei processi economici, finanziari e produttivi.

Ciò fu ed è motivo di dibattito, perché potrebbe indurre una facile omologazione dell’uomo all’ideologia nefasta che fu, tale da risultare quasi il nemico più acerrimo della libera impresa, nonostante che mantenne, nel secondo ventennio, con grande riprovazione dei gerarchi, uno sguardo attento e positivo agli sviluppi tecnologici e imprenditoriali degli Stati Uniti. Insomma delle liberal democrazie.

Fu quasi uno dei più fedeli al regime e nello stesso tempo osteggiò in modo radicale le leggi razziali, anzi salvò tantissimi italiani di fede ebraica, sia assumendoli con altro nome nelle loro aziende, anche in modo posticcio, e organizzando poi, con la resistenza la fuga di molti, e tentando poi nel 1943 di scardinare la Repubblica di Salò con l’appoggio degli Usa e dell’Inghilterra per creare un regime democratico. Appoggiò quel nucleo di resistenti che formò il Partito D’Azione. Fu vicino agli ambienti del partito Repubblicano. Fondò il Movimento di comunità e partecipò alle elezioni nazionali, dopo qualche timido successo a livello locale, nei pressi di Ivrea, subendo una sconfitta nel 1959 che contribuì a fiaccarlo ulteriormente pochi mesi prima della sua morte nel 1960.

Ci si potrebbe chiedere se negli anni avesse avuto un filo conduttore di pensiero e di scopo. Non possiamo dirlo con certezza, ma questo libro, frutto di dieci lunghi anni di studio tra gli archivi di tutta Italia e non solo, oltre alla comparazione delle dichiarazioni di chi gli fu vicino, ricostruisce alcune linee di continuità a livello retrospettivo di tendenza storica, e non propriamente psicologica, per una persona piena di dubbi, pragmatica, e risoluta, razionale a volte, avventata in altre. Cinica e determinata nel perseguire gli scopi d’azienda, suicida e donchisciottesca nel perseguire suoi personali modelli di nuove relazioni sociali. Duro talvolta, ed estremamente generoso in altre.

Certamente subì l’influsso dell’idea dello stato che si fa padre, istitutore, controllore, gestore delle interazioni sociali e della moralità individuale, conduttore verso uno sviluppo delle comunità e delle genti italiche. Anzi elaborò e cercò di tradurre la visione risorgimentale di lungo periodo, nazionale dei primi anni colonialisti, fascista poi, di una sottomissione del singolo per il bene della collettività e poi della nazione. Posizione che invertì subito dopo l’8 settembre 1943, con una ulteriore conversione interiore, per definire una forma di personalismo cristiano che cercasse di coniugare la libertà con l’uguaglianza, la disparità sociale con la solidarietà e la redistribuzione che partisse dalle politiche e dai movimenti dal basso, prima di tutto culturali.

Se si cercasse di delineare una linea coerente secondo gli schemi attuali, si avrebbero le vertigini per queste giravolte tortuose. Il punto però è che indirettamente, consapevolmente a tratti, emerse sempre di più nei decenni un minimo comun denominatore: l’azienda e i lavoratori. Da essi e per essi elaborò una nuova forma di aggregazione comunitaria e quindi di interazione sociale.

Nell’impresa tutto deve ricadere. Il mondo del lavoro, a partire dalla fabbrica, determina ed espande le mense, le biblioteche, i musei e i centri culturali, gli asili nido per tutelare la maternità, la sanità complementare per i lavoratori, per i loro parenti e come una macchia d’olio via via per tutti. E quindi anche l’edilizia che deve essere redistribuita per i quadri, gli amministrativi, gli operai. Tutti, nessuno escluso, avrebbero dovuto godere esteticamente delle offerte culturali, di apprendimento e di una socializzazione aperta, libera e progressiva.

Insomma non è lo stato, il nuovo diritto, il partito fascista, il sindacato, le idee socialiste, le azioni di resistenza, gli approcci liberali che devono configurare i sudditi, i cittadini, i poveri, i ricchi, gli operai e gli intellettuali, passando anche nella rideterminazione dei luoghi di lavoro. No, ed è questo il fulcro, almeno io ritengo lo sia, della visione sotterranea di Adriano Olivetti: è l’azienda, il luogo della fabbrica, la comunità dei lavoratori, che assorbe tutto il resto. La società emana dai luoghi di lavoro. In essi si realizza la morale nell’attività di lavoro e culturale per una etica in cui la persona sia il perno.

Adriano Olivetti agisce in modo spregiudicato attraverso le ideologie, le forme di diritto, le nuove forme statuali che si susseguono prima e dopo la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, perché le ritiene onde e scosse telluriche intorno agli arcipelaghi che sono appunto le reti di impresa, collocate tra la città e la campagna.

86-88 “[…] Le tre radici, dunque: la cultura liberal-risorgimentale, il progetto marxiano e l’appartenenza all’ebraismo. Nelle storie individuali e nelle vicende delle comunità e dei gruppi politici e culturali italiani, spesso la prima e la seconda radice si avviluppano con la terza, l’appartenenza all’ebraismo. E non importa se quest’ultima si manifesta in una intensa e palese identità religiosa o se si esprime in una mimetizzazione e in una diluizione della sua tradizione nella secolarizzata società italiana ed europea. È questo il contesto storico articolato e multiforme in cui il demone della politica appunto abita – inizia ad abitare – in Adriano. Il quale vive le contraddizioni degli uomini e si trova a operare nelle pieghe della Storia, che ora lo fanno stare come su un panno rosso e ora lo stringono al collo come una corda di canapa, ora ne fanno un protagonista ammutolito dall’eccitazione delle cose e ora lo trasformano in un ingranaggio reso silenzioso e grigio dal procedere della quotidianità

120-122 “[…] L’economia pubblica e la pubblica amministrazione, il governo e i ministeri. Il partito unico. Tutti questi elementi compongono la realtà. Il rapporto con loro diventa essenziale e vitale, necessario e naturale. La normalità è fatta di legami organici e non episodici con i corpi dello Stato e con il Partito nazionale fascista. Adriano è un imprenditore. La Olivetti è una società italiana. Opera su un mercato a bassa concorrenzialità e a elevato controllo da parte della politica e della pubblica amministrazione. Sono poche le altre imprese che producono macchine per scrivere e macchine da calcolo. La Olivetti, per svilupparsi e per prosperare, deve misurarsi con i regolatori e i controllori di una realtà economica e sociale che, negli anni Trenta, si trovano nelle stanze della politica, negli uffici della pubblica amministrazione e nelle sezioni del Partito nazionale fascista. Il 27 ottobre 1933 (con una lettera in cui alla data è aggiunto il numero romano XI, undicesimo anno dell’era fascista) Adriano scrive una lettera al ministero delle Corporazioni. La richiesta è quella di inserire il settore delle macchine per scrivere fra i comparti per i quali è necessaria l’autorizzazione del governo, forma grossolana e potente di controllo dell’attività industriale privata: «Con riferimento al R. Decreto 15 maggio 1933, n. 590, il quale assoggetta all’autorizzazione governativa i nuovi impianti e l’ampliamento di quelli esistenti per un determinato gruppo di industrie, esponiamo i motivi per i quali riteniamo necessario che l’industria delle macchine per scrivere venga compresa nell’elenco»10. Adriano gioca duro. Ha interesse a limitare sia la concorrenza interna sia quella estera. Sulla concorrenza interna, dice con una ambiguità abbastanza esplicita sulla presunta irrazionalità e, in ogni caso, sul presunto non interesse nazionale che nuovi investitori italiani entrino in un mercato in crisi: «Qualunque quota del risparmio nazionale indirizzata nell’industria delle macchine per scrivere non potrebbe che risolversi in uno spreco del capitale nuovo ovvero nell’indebolimento o nell’annientamento delle vecchie industrie del ramo che da sole hanno sopportato tutti i pericoli e gli oneri dell’inizio e dell’affermarsi di un’industria nuova per il nostro paese»11. C’è, poi, il rischio che altri gruppi stranieri entrino in Italia: «Ci risulta che importanti fabbriche nord-americane impressionate dalla quasi totale perdita del mercato italiano, dovuta alla nostra affermazione, stanno studiando la possibilità di costruire fabbriche di montaggio e costruzione parziale in Italia»12. Adriano, nel rivolgere la sua richiesta di inserimento del settore fra quelli a maggiore controllo autorizzativo pubblico, scopre la carta più pesante: «Nella nostra organizzazione lavorano oltre 1100 fra operai e impiegati. Se la minaccia di una nuova concorrenza interna alimentata anche da capitale e appoggio di nostri concorrenti interni avesse un inizio di esecuzione, noi dovremmo immediatamente e drasticamente ridurre non solo le ore di lavoro, ma anche il numero dei nostri dipendenti»13. Che sia una minaccia reale o solo tattica, l’Adriano portatore dell’insegnamento paterno, secondo cui la disoccupazione involontaria sarebbe stata la peggiore condizione umana per la classe operaia, in questo caso sonnecchia. E, al di là di questo, la Olivetti che ormai opera in condizione di semimonopolio si rapporta con il governo da monopolista. La Olivetti godrebbe di una posizione di forza da una misura che restringesse la possibilità per tutti di fare nuovi investimenti. Ne avrebbe un vantaggio strutturale. E Adriano ottiene questa misura. […]”

“[…] 152-155 Adriano ha un atteggiamento di adesione neutrale o di consenso passivo alla dimensione politica del fascismo. È un imprenditore. Fa gli interessi della sua azienda. Gioca su più tavoli con la pubblica amministrazione. Opera in un’economia in cui il protezionismo è la vera ragione prima di ogni estremizzazione autarchica e in cui la concorrenza è ridotta al minimo dall’influenza della politica e dai corpi dello Stato, da cui Adriano, per la sua azienda, riesce a ottenere molto […]”            

209-210  “[…] Dopo l’apertura, nel 1937, dell’asilo per i figli dei dipendenti con meno di cinque anni, nel 1940 è stata costruita la nuova struttura riservata ai bimbi con meno di tre anni. Alla Olivetti si può essere una mamma che lavora. Nel giugno del 1941, quando viene ampliato l’asilo nido progettato da Figini e Pollini in stile razionalista e con citazioni di Le Corbusier, viene riorganizzato tutto il servizio per l’infanzia e per la maternità offerto dall’impresa. In Italia il trattamento previsto dalla Cassa mutua e dall’Istituto nazionale di previdenza è minimo: stai a casa ricevendo l’equivalente del salario di due mesi, uno prima del parto e uno dopo. Al trentunesimo giorno di vita di tuo figlio, devi tornare in fabbrica o in ufficio. Alla Olivetti, nel 1941, viene emanato un regolamento – l’ALO, Assistenza lavoratrici Olivetti – secondo il quale le lavoratrici sono esonerate dal lavoro da 75 giorni prima del parto fino al settimo mese compiuto dal loro piccolo o dalla loro piccola e continuano a ricevere, grazie a un sussidio aziendale, il medesimo ammontare del salario: un trattamento così favorevole alla lavoratrice è un’eccezione nell’economia e nella società internazionali, non soltanto del Novecento. Peraltro, tutto questo accade sempre e comunque: non importa che tu sia sposata o che tu sia ragazza madre. È così. La membrana che separa la Olivetti dal mondo è fatta anche di quella particolare materia che è l’accudimento dei bambini da parte delle loro mamme. Intorno alla mamma e al bambino si crea un mondo. Si stabiliscono premi di natalità aziendali così da «alleggerire l’onere della famiglia in un momento particolarmente delicato»79. Sono previsti contributi straordinari, in caso di famiglie con particolari difficoltà economiche o con particolari condizioni di salute. A sette mesi, quando la mamma torna nello stabilimento o in ufficio, il piccolo viene accolto nell’asilo nido. All’asilo nido si trova una camera per l’allattamento, così la mamma può allontanarsi per il tempo necessario dall’ufficio o dalla linea produttiva e dare il suo latte al piccolino o alla piccolina che ne abbia ancora bisogno. A tre anni, i bimbi vengono accolti all’asilo e, poi, a quattro anni – e fino ai sei – alla scuola materna aziendale. Al compimento dei sei anni – fin dal 1938 – possono andare alla colonia montana di Champoluc, che rimarrà attiva per decenni, e al mare a Loano, servizio che invece smetterà di funzionare nel 1941. A differenza delle altre imprese italiane, i dipendenti che lo desiderino possono accompagnare i figli in colonia. La membrana che separa la Olivetti di Adriano dal resto del mondo definendone l’anomalia è formata da un ultimo, prezioso, strato: nell’asilo nido aziendale, che ha un numero limitato di posti, fra il figlio dell’operaio e il figlio dell’impiegato viene data la precedenza al figlio dell’operaio […]”

–   

È incerto, fra tante sponde. Deve andare a Milano, aprire le sedi a Barcellona, in Francia, Inghilterra, Svizzera, ma il fulcro è però quasi paesano: Ivrea. Tende a dimenticare e rimuovere il passato socialista del padre, il fascismo, le sue discussioni con gli alti gerarchi e con lo stesso Benito Mussolini sul corporativismo e sulla concezione di una nuova azienda. Propose confusamente il modello di una nuova economia ai servizi segreti inglesi e USA, a causa del quale fu messo da parte come agente principale di un eventuale colpo di stato ai tempi dell’8 settembre 1943. Sembra comportarsi come un reggitore di una Signoria dei secoli andati.  

262-63 “[…] La crisi della democrazia liberale, il Biennio rosso, l’ascesa violenta del fascismo, la ribellione delle minoranze, il consenso di massa, l’adesione, la via fascista alla modernità, la partecipazione agli organismi dei corpi intermedi, il lavoro intellettuale sul corporativismo, i rapporti con la ristretta cerchia di Mussolini, la crescita della Olivetti in un regime di oligopolio, i legami con la pubblica amministrazione e la politica fasciste. Tutto cancellato, dimenticato, rimosso, destinato all’oblio. A poche settimane dal rientro a Ivrea, nel suo primo discorso ai dipendenti – in una occasione, dunque, fondante – Adriano costruisce il suo nocciolo duro di riflessione per la contemporaneità e per il futuro su una crisi che è di civiltà, sociale e politica: «Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo? Cosa è la fabbrica nel mondo di domani? Come possiamo contribuire con il nostro sforzo e con il nostro lavoro a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti, affinché giorni così tristi né i nostri figli né i figli dei nostri figli e molte generazioni ancora non potranno dimenticare né potranno, una seconda volta, affrontare?» […]”

E si arriva alla fine del suo percorso.

486 […] Le cose, dunque, non vanno bene. Adriano, dopo il fallimento alle elezioni politiche nazionali del 1958, si trova a operare in una condizione di negoziato continuo con gli altri famigliari e gli altri soci. Conosce il legame fra finanza d’impresa (al servizio, appunto, dell’impresa) e finanza straordinaria (al servizio, anche, degli azionisti). In questa nota si legge che questi 8 miliardi corrispondono «a più di due volte le emissioni di nuove azioni di tre miliardi», un fattore di persistente tensione con gli azionisti della Olivetti, abituati da dieci anni a portare fuori capitali sotto forma di dividendi e ad autoassegnarsi aumenti di capitale non a pagamento, vedendo crescere la loro ricchezza individuale senza pagare alcun dazio. In un contesto simile la questione della Fondazione, che di necessità interromperebbe l’assorbimento di dividendi da parte degli Olivetti dalla Olivetti, diventa astratta e irrealistica e il tema del Consiglio di gestione appare significativo, ma minimo. L’intero edificio non regge più. Non funziona il meccanismo nel rapporto fra impresa e azionisti, che sono abituati ad avere tanti, tanti dividendi. Non funziona il rapporto fra Adriano e gli altri famigliari. Non funziona, paradossalmente, nemmeno il rapporto fra Adriano imprenditore e Adriano politico perché, come in una dissociazione, il secondo è stato «spogliato» delle sue finanze personali dal primo […]”

E appena pochi mesi dopo la sua morte:

509-512  “[…] Il 10 febbraio 1961, il Comitato centrale del Movimento di Comunità si scioglierà. Tutto questo succede sei anni dopo il discorso di Adriano ai lavoratori di Pozzuoli: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». Ma è tutto il mondo di Adriano a perdere consistenza, a sfibrarsi e a sfilacciarsi nella realtà e, allo stesso tempo, a impiantarsi, a crescere e ad assumere vita nell’immaginazione degli altri. Con la scomparsa di Adriano, è come se all’improvviso le radici nascoste dell’albero della crisi prendessero vita e si manifestassero nella Storia ed è come se, simultaneamente, una nuova dimensione civile e affettiva venisse costruita prima di tutto sulla sua assenza. La stessa Olivetti, segnata dai conflitti famigliari e dalla mancanza di un leader carismatico seppur discusso come Adriano, sarà scossa da uno sbandamento strategico e si ritroverà in una fragilità finanziaria di cui c’erano già segni evidenti fra il 1958 e il 1960. Pochi anni dopo rischierà di diventare di proprietà delle banche svizzere, che avranno in pegno le azioni degli indebitatissimi Olivetti: per evitarlo, il ripianamento dei debiti personali di questi ultimi e la ricapitalizzazione della società verranno realizzati dal gruppo di intervento coordinato da Mediobanca e composto da Fiat, IMI, Pirelli e La Centrale. La Olivetti, però, perderà la sua autonomia, diventando un’impresa industriale senza un imprenditore. La riduzione dell’autonomia sarà duplice: la Olivetti, diventata acefala, dovrà rinunciare alla grande elettronica, ceduta alla General Electric, e si troverà in una sorta di camera iperbarica finanziaria, con una specializzazione produttiva concentrata sulla meccanica e sulla piccola elettronica e una dipendenza completa dal sistema bancario italiano. Succederà tutto questo, nel 1964, esattamente cinquant’anni dopo la prima volta di Adriano in uno stabilimento: «Nel lontano agosto 1914, avevo allora tredici anni, mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina. Per molti anni non rimisi piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso all’industria paterna»56. Succederà tutto questo pochi anni dopo che Adriano ha vissuto il suo ultimo giorno. Un ultimo giorno in cui ha mangiato cacciagione e ha bevuto champagne, ha festeggiato la quotazione in Borsa della Olivetti con i suoi famigliari e i suoi dirigenti industriali, si è occupato di libri e di editoria, ha aumentato lo stipendio ai redattori di una rivista, è salito su un treno diretto in Svizzera per discutere con i banchieri e per andare ad amare […]”

§CONSIGLI DI LETTURA: I PICCOLI MAESTRI

I piccoli maestri di Luigi Meneghello, 2013,
prima ed. 1964, Rizzoli, Milano

Tanti lati nascosti ha quest’opera. Racconta i luoghi e gli eventi, immersi in un processo storico in cui l’incanto della natura antropizzata unisce l’antico e il mito. L’autore è anche il protagonista che incarna il mito di Ulisse, ma verso se stesso. Il suo “io” è Itaca. Tutto converge nel suo monologo.

I fantasmi, coloro che sono rimasero adolescenti a metà, li riporta in vita affinché il loro destino sia compiuto in un appuntamento della memoria. Ognun di loro inizia il viaggio per ricongiungersi nella voce di Luigi Meneghello.

L’autore rinnova quelle gesta, scrivendo da adulto, le parole e gli atti della gioventù. Si fa da parte, in modo che i morti riassumano un articolo determinativo. La cornice ha lo scheletro della resistenza dei partigiani tra l’armistizio del giorno 8 settembre 1943 e la fine della seconda guerra mondiale e la cornice dei racconti dei comunisti, dei cattolici, dei libertari, secondo gli inni degli anni cinquanta, degli anni sessanta, e negli anni di “piombo”.

Vi è l’intento di ricollocare la biografia e la cronaca in un quadro depurato dalle retoriche derivate dalla guerra fredda. Ed ecco, quindi, che il mito assume una posa lirica, in cui il protagonista, parla con le montagne e con le valli del Veneto, nella speranza di colloquiare con gli dei, con la natura e con il tempo dei cicli e dei riti. Tutti coloro che furono maestri a metà, perché morti, o fermati dal loro percorso originario di scopi e di speranze, verso di lui si approssimano e si abbeverano alla fonte del suo scritto.

La versione di quest’opera è degli anni settanta, dieci anni dopo la prima pubblicazione. E inizia nel momento in cui lui, ventiduenne, assieme ad altri amici universitari, lascia tutto e va nelle montagne per assumere il ruolo di partigiano.

È una formazione in itinere. Ognuno di loro aveva una razionalità limitata riguardo alla guerra, alle tecniche di resistenza, e alle modalità di organizzare azioni contro i tedeschi e contro i fascisti della Repubblica Sociale. Lo stile all’inizio è quasi simile, all’inizio, a un resoconto di cronaca. È preciso nei dettagli dei luoghi, nella descrizione puntuale dei paesaggi e dei personaggi, fino alla singola piega o strappo di un vestito. Eppure, ed è qui l’effetto caleidoscopico, è anche un romanzo di formazione, perché narra una crescita che parte da una istanza morale: darsi una dignità per sé e per le proprie comunità, dopo il disonore fascista, la vergogna della disfatta, la guerra civile, e l’abbraccio fraterno al sanguinario tedesco.

È delineato un approccio antitetico alle mitopoiesi partigiane e a quelle dei fascisti “buoni” che si scontrarono, si ritrovarono in quel periodo, tra i lutti, le vendette, gli orrori, e le lacerazioni presenti fino ad oggi. I libri e la retorica diaristica e politica negli anni cinquanta e sessanta ponevano sì uno scontro duro, e di rivendicazione, ma ammettendo, nonostante tutto, il valore di chi resisteva e anche di quei pochi, pochissimi che mantennero l’umanità stando dalla parte “sbagliata”, siano stati essi compagni confusi o fascisti.

Luigi Meneghello narra le sue vicende e di quelle dei partigiani di area comunista, liberale, cattolica, o semplicemente di comunità e locale, in una progressiva acquisizione di strategie e tecniche di guerra, di maggiore consapevolezza ideologica, e di un maggiore affinamento delle proprie valutazioni morali, MA non attraverso il mito dell’eroe partigiano, del grande guerriero, della gioventù gloriosa.

Gli eventi topici sono contraddistinti da dubbi, errori ed atteggiamenti goffi quasi comici, all’interno degli epiloghi tragici in cui i suoi compagni morivano così, quasi per sbaglio o incuria.

Tutte quelle persone furono piene di dubbi, di limiti, di pregiudizi, analfabete quasi, neanche tanto intelligenti, piagate dalle malattie, e con disabilità varie. Eppure resistettero nel rifugiarsi nelle montagne, negli attentati, nel sopportare la fame e il freddo, nel morire malamente e nell’attuare una lotta clandestina in pianura, dentro le città. Nel litigare tra comunisti, socialisti, comunisti antisovietici, liberali, repubblicani, realisti, cattolici proto ecumenici, e quelli ortodossi, e contro la grande maggioranza amorfa, suddivisa nelle preoccupazioni quotidiane e in un fascismo di convenienza, pronta ad aderire al potente di turno.

La narrazione assume toni comici, nonostante il racconto si snodi tra tragedie e toni lirici e commoventi, nel recepire il senso ancestrale delle comunità in rapporto al paesaggio natio. E qui vi è un nostro errore prospettico di lettori. Luigi Meneghello non voleva risultare comico mentre scriveva, perché siamo noi oggi, ad avvertire lo scarto delle retoriche del valore, degli eroi, e di come queste siano piccole, semplici, tronfie rispetto all’oceano degli eventi che accaddero. Un popolo debole, corrotto dalle proprie bugie, che si trova ad affrontare una realtà che consapevolmente contribuì ad evocare.

Eppure, nonostante le avventure maldestre e picaresche, Luigi Meneghello è indulgente verso il giovane che fu e verso tutti gli altri, gran parte uccisi e rimasti giovani lì, per sempre. È un padre che si avvicina e li abbraccia, perché, nonostante tutto, in modo irriflesso, inconscio, rozzo ebbero una caratura etica, tesa all’estremo sacrificio per di mantenere una postura dignitosa nella tensione verso la libertà con le mani aperte, callose, ma pulite.

§CONSIGLI DI LETTURA: LE GUERRE DI MUSSOLINI. DAL TRIONFO ALLA CADUTA

John Gooch Le guerre di Mussolini dal trionfo alla caduta Le imprese militari e le disfatte dell’Italia fascista, dall’invasione dell’Abissinia all’arresto del duce.

Titolo originale: Mussolini’s War. Fascist Italy from Triumph to Catastrophe, 1935-43 Original English language edition first published by Penguin Books Ltd, London Copyright © John Gooch, 2019 The author and illustrator have asserted their moral rights All rights reserved Traduzione dall’inglese di Marzio Petrolo, Micol Cerato, Cecilia Pirovano Prima edizione ebook: settembre 2020 © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

Il libro di John Gooch offre una ricca bibliografia riferita agli attori istituzionali implicati nelle vicende delle guerre d’Italia durante il periodo del fascismo. Un puntuale resoconto storico che snoda le fasi di preparazione, di inizio, di svolgimento e fine dei conflitti. Passa dal livello di diario, a quello di lettera, al riassunto di una riunione, al dispaccio, e alle riflessioni scaturite dalla lettura dei documenti storici che negli anni si rivelavano dopo la seconda guerra mondiale.

È utilissimo nell’approfondire il fascismo nella sua organizzazione militare ed istituzionale che pervadeva l’intera società italiana. Vi sono motivi storici per la rimozione di ciò che l’Italia e gli italiani furono in quegli anni nella messa in campo della politica coloniale, nelle repressioni interne, nella povertà, nel relativo miglioramento e progresso dovuto allo sviluppo tecnologico, e al lento ma continuo processo di alfabetizzazione, accompagnato da una limitazione ideologica e repressiva della libera ricerca e del libero pensiero. E ancora di più, nella nostra inclinazione ad abbandonare l’alleato di un’ora prima, per abbracciare il più forte che emerge nella contingenza.

Nel libro risultano tendenze di lungo periodo di noi italiani nella mancanza di organizzazione e della improvvisazione che si legano a una notevole creatività, associata però alla negazione della realtà dei fatti e dei propri limiti, per ottenere il consenso basato sulla suggestione, sulla bugia, sul plauso e sulla teatralità. Prevale in modo strutturale l’impreparazione, il clientelismo deleterio che premia figure analfabete, inadeguate, criminali e meschine. Sia chiaro: l’opera Benito Mussolini nell’accentrare il potere, inibire il coordinamento tra i vari corpi militari e nel disattendere i piani e i consigli preparati dai tecnici, dagli economisti, dai pochi generali valenti e onesti intellettualmente che lo criticavano nelle sue scelte portando argomenti chiari e coerenti, non è giustificata. No. Anzi: lui e l’apparato sono ancora più responsabili di aver portato a morire decine di migliaia di giovani consapevolmente e di averli lasciati allo sbaraglio senza armi, vettovaglie e indumenti.

La figura di Benito Mussolini risulta completamente inadeguata, limitata, folle nell’intendere la guerra, la tattica, la strategia. Considerando il contesto italiano deficitario di materie prime e di fattori di produzione siderurgici in una strutturale dipendenza dai capitali esteri, emerge l’ineludibile tendenza a finire nelle braccia della Germania durante il corso della guerra. Braccia velenose e crudeli.

Come in ogni guerra, in uno stesso esercito o battaglione vi sono atti di crudeltà e di orrore, assieme a quelli di eroismo, umanità e di fraterna compassione anche per i civili. Nel libro è descritta passo passo la nostra responsabilità, censurata nella memoria collettiva, della guerra di Spagna: fummo risoluti nella letalità e nella crudeltà, come nella guerra d’Etiopia. Nonostante tutto, però, a molti generali e alti funzionari delle istituzioni governative, fu chiaro che non eravamo in grado di sostenere una guerra contro le forze imperiali. Nel libro è trattata in parallelo l’invasione delle Jugoslavia, della Grecia e dell’Albania. E in ognuna di queste tragedie emerse rispettivamente l’orrore che compimmo, la valida resistenza dei greci e la nostra impreparazione che ci obbligò a richiedere l’aiuto della Germania. Fu l’inizio della fine che fu anche declinata nella ridicola invasione in Francia; ridotta a una serie di scaramucce nei confini, che causarono una seconda richiesta di aiuto alla Germania. Vi sono preziose pagine relative alla preparazione e alla conduzione della “gloriosa” campagna in URSS. Il disastro consapevolmente voluto.

I militari italiani al netto dell’impreparazione organizzativa e logistica di queste campagne di guerra, furono simbolicamente fucilati alle spalle dai generali; descritti uno per uno. Nonostante tutto, alcuni reparti delle forze armate italiane furono ammirati e rispettati sia dai tedeschi, come Rommel, sia dagli inglesi, in particolare gli alpini e i bersaglieri che combatterono con il nulla che avevano a disposizione.

Vi sono anche le descrizioni dettagliate degli scontri tra i croati e i serbi e tra questi, tra i cetnici, i repubblicani, i comunisti, i musulmani, gli albanesi, i kosovari e i montenegrini. Non furono   da meno anche loro nelle azioni crudeli. I fattori di quei conflitti sono utili a comprendere le instabilità politiche del presente in Europa.

È un libro veramente storico: una miniera per comprendere oggi e ieri, indirettamente anche prima del fascismo. L’autoritarismo. La formalità stucchevole e polverosa, quasi tenue che nasconde però il disprezzo totale per il popolo. Una nazione di mentalità signorile che tende ad accentrare il potere in pochi cooptati per la benevolenza da parte dei potenti, e che tiene il controllo verso i cittadini con un paternalismo a gocce da una parte e da una fredda autorità verso i sottoposti. Una mentalità signorile che fa la voce grossa con i più deboli, ma pronta a riverire chiunque gli si mostri di poco più forte. Compiacente verso il miglior offerente in modo sciatto, meschino, goffo e assurdamente controproducente.

Forse sono caratteristiche che si possono ritrovare ancor oggi.

È sorprendente come i pochi generali, nell’aderire al fascismo e alle sue caratteristiche più oscure, alla fine mostrando anche un amor proprio per sé e per la patria, opponendosi alla sciatteria guascona del regime e dello stesso Benito Mussolini, fossero rimossi immediatamente, inascoltati dai loro colleghi, i quali mostrarono un atteggiamento meschino e rivoltante nell’evitare le proprie responsabilità, accusando i propri sottoposti.

Leggendo questo lavoro imponente si prova vergogna per ciò che siamo stati, e compassione per le donne e gli uomini traditi e mandati allo sbaraglio. Un paese che uccide i propri figli e che nega una visione strategica per le generazioni future. E forse anche queste sono caratteristiche attuali.

Un libro di altissimo livello storico che, oltre a fornire un quadro a tutto campo delle relazioni sottostanti al fascismo durante la guerra, offre specchi caleidoscopici nel futuro, cioè nel nostro presente.