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CONSIGLI DI LETTURA: Tutti i romanzi di Beppe Fenoglio

Tutti i romanzi (Einaudi tascabili. Biblioteca Vol. 62) di Beppe Fenoglio (Autore), G. Pedullà (a cura di), Torino, 2012

Signore e signori lui va letto integralmente.

Beppe Fenoglio fu considerato uno scrittore controverso per le sue sperimentazioni linguistiche, per la sua visione dei processi storici appena terminati in seguito alla fine della seconda guerra mondiale, per gli avvenimenti politico e sociali che apparvero in Italia fino all’anno della sua morte, nel 1963.

Fu criticato da editori e da letterati aderenti alle ideologie di sinistra e da quelle comuniste filosovietiche. Essendo stato un partigiano, fu radicalmente avverso al mondo fascista e alle destre a cui esse nel dopoguerra si richiamavano. Disincantato rispetto all’assetto statuale risorgimentale monarchico, guardò con distacco l’evoluzione delle interazioni sociali e civili della Repubblica Italiana.

Negli anni successivi alla morte e in corrispondenza delle dispute letterarie che tenevano conto di quelle ideologiche investite dalle posizioni di campo della guerra fredda, fu considerato un novelliere non tanto eccelso e un mediocre romanziere. Fu reputato un goffo sperimentatore linguistico nel tentativo di miscelare il linguaggio formale letterario con quello dialettale delle comunità codificate nelle nuove estetiche del neorealismo degli anni cinquanta. Impietosamente appellato come un dilettante nell’introduzione di neologismi stranieri nel suo stile di scrittura, nel tentativo di dispiegare nuovi orizzonti narrativi in cui inserire le vicende dei personaggi bassi, devianti e normali, grigi nelle loro vite assenti di un climax tragico.

Rimproverato nella sua indifferenza all’uso delle tradizioni narrative italiche, variando topi stilistici nel porli come meri strumenti sussidiari nel linguaggio parlato, sincopato nel ritmo, scarno nelle descrizioni dei luoghi, se non nella caratterizzazione degli eventi. Le trame dei suoi romanzi, anche incompiuti, vertono su un evento da assolvere, da ricevere, da subire, in cui innestare una linea narrativa concentrica in cui il passato e il presente entrano in gioco per suggerire il destino del protagonista e il giogo che sembra già assegnato. Una visione arcaica per alcuni, senza che ci si potesse raccapezzare nella totale mancanza di enfasi tra la dialettica dell’eroe e dell’antagonista, la quale non si chiude mai, se non per l’evanescente finale dell’attore delle gesta, in cui il presente rimane sospeso.

Avversato, quindi dagli scrittori ortodossi, da quelli antisistema, e dagli sperimentatori delle nuove possibilità linguistiche che provenivano dall’estero.

Eppure, nonostante l’alluvione di perplessità che investì in vita e dopo, questo scrittore schivo e radicato nel suo Piemonte, le istituzioni, le parti politiche, i mondi intellettuali, e il pubblico che man mano si faceva più letterato, lo posero come un riferimento rispetto ai temi letterari, sociali e politici dei decenni successivi.

E se ciò già negli ultimi anni della sua vita, fu richiamato nei dibattiti per usarlo come un esempio negativo, il fatto è che indirettamente e inconsciamente fu considerato un interlocutore. Le critiche che si sono susseguite in realtà, agli occhi nostri, ora, mostrano invece i limiti e le esigenze dei loro punti di vista specifici. Nonostante tutto Beppe Fenoglio sembra essere molto di più di come fu inteso e descritto dai luoghi di discussione politici, letterari e di costume dei vari decenni del novecento fino ad ora.

Insomma, chi fu Beppe Fenoglio?

Prima di tutto, ed è questa la sua specificità quasi originale nel ventennio fascista, fu un giovane innamorato della cultura albionica. Per sua spinta personale, con l’avvio di alcuni docenti che avversavano le politiche autarchiche fasciste nel piano linguistico, ideologico, e dottrinale, studiò ed acquisì le nozioni sulla lingua e sulla cultura inglese. Divorò intere raccolte di poesie e romanzi degli scrittori moderni e contemporanei del mondo anglosassone. Li visse nel suo immaginario.

Vi è un elemento, che forse non traspare immediatamente nelle descrizioni ultradecennali di questo giovane che si appassionò a tradurre autonomamente interi passi di drammi teatrali, di poesie, di racconti della letteratura inglese e poi statunitense: l’immedesimazione viva, concreta, presente verso i mondi letterari e le vicende trascritte in quelle opere.

Così schivo, già rispetto alla sua famiglia, dato che si chiudeva nella sua camera, a studiare e a scrivere, divenne, nel parlare e nel pensare i termini e i luoghi tradotti, una parte viva di essi, in cui la sua città, il suo paese, il quartiere, il negozio, si fusero con le campagne d’Irlanda, d’Inghilterra, con i castelli e le magioni dei nobili, con le baracche dei contadini e le fortificazioni dei guerrieri e degli eserciti.

In mondo italico meno che provinciale, lì tra i paesi e le campagne del Piemonte, questo ragazzo pensava e parlava del mondo e dei secoli oltre le Alpi e gli Oceani.

Lo strumento narrativo principale per riannodare eventi così scollegati, fu quello dell’analogia e della ripetizione in cui la metafora e l’allegoria furono spianate in una narrazione ciclica, e quindi mitica. Ma anche qui in un’ottica moderna, da romanzo d’appendice, aperto a tutti, con un linguaggio piano e parlato, con idiomi locali dei luoghi descritti.

E proprio perché Fenoglio vuole vivere ciò che scrive, lo ripete come se si svegliasse ogni mattina, perché poi dalle traduzioni e dalle uscite serali in osteria, dai giochi a carte, dal lavoro di impiegato quotidiano, la notte ricomponeva l’ideazione estetica nella traduzione operativa nella scrittura. Ed ecco, quasi inconscio, l’uso degli stessi protagonisti con l’identico nome per romanzi diversi, in cui le storie prendono percorsi alternativi, come se fosse un racconto orale, con continue variazioni a tema.

E proprio perché fu un partigiano, ritorna a parlare di quello scarto di storia italica, in cui il regno non ci fu più, dal giorno dell’otto settembre 1943 fino all’inverno del 1944. Non arriva neanche alla fine della seconda guerra mondiale, in quasi tutti i romanzi che scrisse.  

Perché? Certamente noi non possiamo entrare nella testa dello scrittore, ma abbiamo indirizzi manifesti che permangono quasi un secolo dopo. Noi non abbiamo fatto i conti con il nostro passato fascista. Abbiamo, in più, dichiarato guerra a tutto il mondo. Siamo stati alleati con l’orrore. Abbiamo chiuso gli occhi, coprendoci di disonore, esibendo la vigliacca mediocrità. E non affrontiamo quella guerra civile che iniziò già con gli scontri del 1919 che portò il partito fascista al potere, fino al 1943, in cui il regime dichiarò guerra contro il suo stesso popolo per mano della Repubblica Sociale Italiana. Non vogliamo pensare di essere stati salvati da quelli che oggi guardiamo con ironia, e che ci hanno dato la mano più volte anche economicamente e che ci hanno protetto da eventuali conflitti fino ad oggi.

E se la parte progressista guardò a un altro regime terribile come quello staliniano, la parte laica e liberale mostrò un’anemica e viscida visione del mondo.

Beppe Fenoglio volle parlare anche del nostro disonore, e di come gli stessi partigiani, dopo la guerra fossero usati in modo mitico e settario, per gli scontri politici e sociali della seconda metà del novecento. Non erano tutti uguali, non erano tutti eroi, non erano tutti dalla stessa parte e si sono avversati ed odiati. E in più Fenoglio parlò dell’altra parte: lo scandalo più orrendo del nostro passato: la Repubblica Sociale Italiana. La caratteristica che diede fastidio ai contemporanei (perché parlava di loro) e di noi ancora oggi, fu quella di rappresentarli come persone normali, che non avevano una idea complessiva degli attori politici, dei leader, dei processi mondiali in corso. Gente analfabeta che a malapena uscì a poche decine di chilometri dal proprio paese.

Narrò gli scontri e le vicende delle varie parti in gioco, in modo volutamente non artefatto, con persone aventi difetti, meschinità, paure, speranze, di trovarsi addirittura quasi per caso e in modo irriflesso da una parte o dall’altra. Ma, attenzione, lui fu un partigiano ed aveva ben chiara la condanna morale dei repubblichini, che condannò moralmente ancor di più dei tedeschi. Non a caso fece dire ai suoi protagonisti partigiani, che loro arrivavano fino alla fine per uccidere un repubblichino e viceversa, perché a differenza dei tedeschi che agivano in modo tattico e logistico, tra di loro ci si voleva “bene”, e quindi si cercava di uccidersi anche in modo strategicamente suicida.

Beppe Fenoglio narrò di sé. I protagonisti sono quei partigiani maschi istruiti, quasi sempre solitari, distaccati, con uno sguardo critico, conoscitori della lingua inglese. Lui non inventa tutto. Parte proprio in modo traslato dalla sua famiglia. Dai rapporti con il padre e con la madre, con i parenti, con i vicini, con il paese natio, con il territorio atavico, con i partigiani badogliani e rossi, con i fascisti, con i repubblichini, con i traditori e i collaborazionisti.

Fu causa di dispute, perché la matrice da cui partiva era vera, in carne ed ossa, ed era di testimonianza diretta, anche se fu edulcorata, ampliata e sublimata nell’opera letteraria. Ecco perché i suoi scritti non potevano essere intesi come opinioni, o visioni settarie dilaganti negli anni cinquanta della guerra fredda.

Si scrisse che non fu però a livello meramente estetico, preciso e coerente nelle sue sperimentazioni linguistiche. Può essere, ma queste sono istanze che furono definite negli anni sessanta, quando appunto le nuove correnti letterarie di retorica, di filosofia del linguaggio, delle nuove tecnologie di scrittura, fornirono interi sistemi di strutture semiotiche e narrative.

Beppe Fenoglio le usava in modo strumentale rispetto alle sue specifiche esigenze narrative. Il modo in cui intervalla i termini gergali inglesi, con quelli dialettali piemontesi, con il parlato urbano e dei villici illetterati, era funzionale a caratterizzare il suo percorso narrativo, innestato nella visione della persona comune, come quella del contadino. Delle donne e degli uomini dei monti, che vivevano in modo aspro, al limite della sopravvivenza.

La visione organica e ben delineata a livello storico era tale nei nuovi canoni degli anni sessanta e settanta, dove entrano le nozioni delle ricerche sociologiche e psicologico sociali. Beppe Fenoglio parla di quel mondo tra il 1943 e il 1944 in uno stato di sospensione dentro un inferno, dove i politici, i miti, le religioni, erano visti senza mediazioni dalle persone illetterate, dal popolo. Dagli italiani, ovvero da come eravamo. Toglie l’eroismo, se non nell’atto individuale.

In questi romanzi si percepiscono gli odori, i sudori, le paure, le speranze, le angosce, le prove di sopravvivenza. Fenoglio ci prende con le mani i fianchi e l’intestino.

È fonte di irritazione, perché parla di noi. Un popolo più vecchio di quel periodo. Un popolo che continua a far voler dimenticare, negando il passato, sperando di seguire l’illusione di vivere in un’isola autarchica fuori dal mondo.

Va letto e goduto, perché nella letteratura, appare il godimento estetico, in cui riconosciamo parti sopite di noi stessi: un tesoro da spolverare a mani nude. È una pratica che forse all’inizio irrita la pelle, ma promette una possibilità per ritornare a guardar ciò che fummo e siamo.

CONSIGLI DI LETTURA: L’INVENZIONE DELLA SOLITUDINE

“L’invenzione della solitudine (The Invention of Solitude) 1982, Ed. Italiano 1997, Einaudi, Torino, di Paul Auster (Autore), Massimo Bocchiola (Traduttore)

Cosa si potrebbe dire di Paul Auster? Il ritmo della narrazione è intimamente correlato con l’evento, tradotto nel fatto narrato. Lo stile è parte integrante del messaggio, e, nello scorrere del testo si apre come una gondola che culla il lettore navigando nelle acque della scrittura.

Sembra così naturale il modo in cui narra. Rievoca riflettendo nell’uso di stili diversi e cambiando con una eccellente appropriatezza il timbro degli aggettivi, li aggroviglia con partitivi aggettivali e predicativi in una spirale senza fine. Eppure ciò si integra in una cadenza piana, traslata in una esposizione lineare delle linee del racconto che, in modo armonico, espone lo sviluppo della trama.

La soffice e leggera scansione degli eventi, nasconde il pensiero a più dimensioni parallele di Paul Auster, mentre scrive. Non è dato sapere se avesse già in mente una disposizione così complessa e ben integrata. Il punto è che o se all’inizio, o durante la scrittura, o nelle successive revisioni, alla fine, emerge questo fiume lento di parole che è in realtà una individuazione di diversi piani tematici, innestati su una varietà impressionante di stili di scrittura. Il monologo apre una doppia finzione di un dialogo tra lo scrittore e i personaggi assenti. Dai tempi passati, a quelli rievocati, che giocano con l’interpretazione della loro relazione in un participio passato che allontana lo scrittore nel momento in cui rievoca.

I verbi e i modi sembrano orbite di un sistema solare, dove la stella pulsa una ciclica riflessione a una domanda.

Il libro è composto in due racconti. Si parte dell’esperienza luttuosa della morte del padre, con la quale si inizia un percorso inverso di memoria per riportarlo in vita rispetto al figlio, che già lo vedeva assente da anni. La seconda parte è dedicata a suo figlio, e qui vi sono giochi di specchi rispetto alla precedente sezione.

Il protagonista è lo stesso scrittore che declina in una serie di rimandi a più opere che viaggiano parallele a un tratto, incidenti in un altro, coincidenti fino ad essere completamente divergenti, mantenendo ognuna la gamma degli espedienti letterari classici di narrazione.

Quest’opera forse può essere anche intesa come un diario di memorie che fabbrica un romanzo per creare una vita di relazione tra il padre e il figlio, mai accaduta, e una riformulazione di domande fondamentali che rappresentano il vivere stesso dell’autore, attraverso la sua individuazione di scrittore.

Questo romanzo rende di più nella lettura in lingua, in particolare dell’anglo americano del nord est, che si immerge in una variazione armonica da un tono alto, elegiaco, a quello colloquiale, aneddotico e popolare. Il tono umoristico nella lingua italiana è più attenuato nei mottetti di spirito, nei giochi di parole, nei riferimenti alle ricette culinarie, ai personaggi televisivi, e più in generale alla cultura pop rievocata in lampi di frasi. Questi ultimi, però, nella cultura profonda degli USA, hanno significati che rimandano a luoghi retorici e a stereotipi sui caratteri delle persone, sui modi di dire, sulle frasi fatte, sul patrimonio di senso comune.

33-34 “[…] Quando ho iniziato credevo che tutto sarebbe sgorgato spontaneamente, come l’effetto di una trance. Tanta era l’urgenza di scrivere che pensavo che la storia si sarebbe fatta da sé. Ma fin qui le parole sono uscite cosí lentamente: anche nelle giornate piú produttive non sono mai riuscito a scrivere piú di una pagina o due. Come fossi malato, inchiodato da un’incapacità della mente a concentrarsi su quello che sto facendo. Piú volte ho visto i miei pensieri volare via dal lavoro che ho di fronte. Non fa in tempo a venirmi un’idea che questa ne evoca un’altra, e poi un’altra, finché i dettagli non si accumulano cosí fitti che mi sento soffocare. Mai prima d’ora avevo percepito tanto chiaramente lo spazio che divide pensiero e scrittura. Negli ultimi giorni, in realtà, ho avuto la sensazione che la storia che sto tentando di scrivere sia come incompatibile con il linguaggio, e che il suo grado di resistenza a esso dia la misura esatta di come sono vicino a dire qualcosa di importante. Poi, quando arriverà il momento di dire l’unica cosa importante (sempre ammesso che esista), non ci riuscirò. C’è stata una ferita, e scopro adesso quanto fosse profonda. Invece di guarirmi come pensavo, l’atto di scrivere l’ha tenuta aperta. Ne ho sentito anche il dolore, concentrato nella mia mano destra, al punto che ogni volta che prendevo la penna e la premevo sul foglio la sentivo straziata, dilaniata. Invece di compiere la sepoltura di mio padre queste parole l’hanno tenuto in vita, forse adesso piú che mai. Non solo lo vedo com’era, ma com’è ancora, come sarà, e tutti i giorni è qui a invadere i miei pensieri penetrandovi furtivo, senza preavviso; disteso nella bara sotto terra, col corpo ancora intatto, le unghie e i capelli che continuano a crescere. Ho l’impressione che, se voglio capire qualcosa, dovrò entrare in quell’icona di tenebra, penetrando l’oscurità assoluta della terra. […]”

7-12 “[…] Ancor prima di fare i bagagli e partire per le tre ore d’auto che ci separavano dal New Jersey, sapevo che avrei dovuto scrivere di lui. Non avevo un progetto, né una precisa idea di che cosa questo volesse dire. Non ricordo nemmeno di averlo stabilito. Semplicemente era lí, come una certezza, un comandamento che cominciò a imporre la sua legge nel momento in cui appresi la notizia. Pensai: mio padre non c’è piú. Se non faccio in fretta, tutta la sua vita scomparirà con lui. Riflettendoci adesso, anche da una distanza breve come tre settimane, quella reazione mi pare molto strana. Da sempre ero convinto che la morte mi avrebbe stordito, paralizzato di dolore; ma adesso che era accaduto, non versai una lacrima, non mi sentii come se il mondo attorno a me fosse crollato. Chissà come, mi scoprii preparato ad accettare la sua morte, per inaspettata che fosse. A turbarmi era un altro pensiero, staccato dalla morte di mio padre e dalla reazione che mi suscitava: il constatare che non aveva lasciato tracce. Non aveva moglie, né una famiglia che dipendesse da lui, nessuna vita sarebbe stata modificata dalla sua assenza. Forse per un attimo avrebbe spaventato un gruppetto di amici, scossi non meno dall’idea dei capricci della morte che dalla perdita subita; ma sarebbe stato solo un breve cordoglio, poi piú nulla. Come se non fosse mai vissuto. Era assente già prima di morire, e le persone piú vicine a lui avevano imparato da un pezzo ad accettarne l’assenza, considerandola il tratto piú essenziale del suo essere. Adesso che se n’era andato, non sarebbe stato difficile per il mondo assimilarne la scomparsa definitiva: la natura della sua vita – una specie di morte anticipata – aveva preparato il mondo circostante alla sua morte, e se e quando lo avessero ricordato, sarebbe stato una memoria vaga, niente piú che vaga. Digiuno di passioni per le cose, le persone o le idee, incapace o avverso a svelarsi in qualsiasi circostanza, era riuscito a mantenersi staccato dalla vita evitando di tuffarsi nel vivo delle cose. Mangiava, andava al lavoro, aveva amici, giocava a tennis, eppure non era presente. Era un uomo invisibile nel senso piú profondo e piú concreto: invisibile agli altri, e molto probabilmente anche a se stesso. Se da vivo continuavo a sondarlo cercando in lui il padre che non c’era, sento ancora il bisogno di cercarlo da morto. La sua morte non ha cambiato nulla. L’unica differenza è che mi manca il tempo. È vissuto da solo quindici anni. Caparbio, opaco, come immune dal mondo. Piú che un uomo che occupa uno spazio, sembrava un blocco di spazio impenetrabile in forma di uomo. Il mondo lo colpiva di rimbalzo, gli sbatteva contro, a volte aderiva a lui, ma non lo attraversava mai […]”

53-55 “[…]  Per tutta la vita sogno di diventare milionario, di essere l’uomo piú ricco del mondo. Non desiderava tanto il denaro in sé, ma ciò che esso rappresentava: non solo il successo agli occhi del mondo, ma uno strumento per rendersi intoccabile. Possedere denaro non significa soltanto la possibilità di comprare le cose, ma anche la certezza che il bisogno universale non ti toccherà mai. Denaro come protezione, dunque, non come voluttà. La povertà sofferta da bambino, e la conseguente vulnerabilità ai capricci del mondo, gli resero la ricchezza sinonimo di immunità dal male, dalle sofferenze, dall’essere vittima. Non cercava tanto di comprarsi la felicità quanto l’assenza di infelicità, e i soldi divennero la panacea, l’oggettivazione dei suoi desideri piú profondi e inesprimibili. Non ambiva a spenderli, ma a possederli, alla certezza di poter contare su di loro. Insomma, il denaro non era un elisir, ma un antidoto: la bottiglietta che ti porti in tasca avventurandoti nella giungla… nel caso ti mordesse un serpente velenoso […]”

Dal secondo racconto lui, lo scrittore che è padre anch’esso appena separato dalla moglie, cerca però un contatto con suo figlio e lo richiama nella sua biografia adolescenziale.Rimane affascinato dalla scoperta che Anne Frank è nata lo stesso giorno di suo figlio. Il dodici giugno. Sotto il segno dei Gemelli. Un’immagine gemellare: un mondo dove tutto è duplice, e ogni cosa si ripete sempre due volte. La memoria: lo spazio in cui le cose accadono per la seconda volta.

E da qui si esplicita la solitudine come spinta a utilizzare il potere della memoria e il suo ruolo nel plasmare la nostra identità.

Il secondo racconto è suddiviso in paragrafi numerati ove ogni volta si ricomincia a porre lo schema del richiamo del ricordo. Talvolta è autobiografico, altrove è inventato, ed entrambi gli inizi sono riproposti in modo ciclico con persone e tempi diversi. La memoria è lo sfondo di un oceano che, in base alle nostre attuali presenze, lascia riaffiorare frammenti temporali.

L’uso di analogie e assonanze tra nomi di figli, luoghi e personaggi serve a creare un’atmosfera onirica e a sottolineare la fluidità della memoria. I confini tra la realtà e l’immaginazione si sfumano, e il lettore è invitato a immergersi nel flusso di coscienza del narratore.

L’archeologia della memoria ha anche la funzione di connettersi con le persone amate e con quelle fissate in rapporti interrotti.

Vi è un paragrafo in cui Auster sempre nel secondo racconto, analizza dal francese “x, persona, me stesso, vuole dire”. Questa locuzione composta non è banale. Egli scrive che sotto sotto “intende dire”. Cioè questa è la sua intenzione di dire, dove questo dire ancora deve uscire fuori, ovvero entrare nel linguaggio che si manifesta nel dire orale, nella scrittura, nella rilettura. Questo “dire” non è una semplice asserzione, un sasso gettato lì, intero, intonso, immutato. È una selezione di altri detti, di memorie, di situazioni, di tutti i se stessi del passato, dimenticati e di poco ora riaffiorati. Sono tracce indirette che hanno costruito le prime esperienze del bimbo con il padre. Le esperienze primigenie sono a noi oscure, perché sono servite a creare le strutture del ricordo. Ciò implica che noi siamo individuazioni limitati nel “dire”.

Non è un caso che alla fine del racconto si propone la lettera di Nadežda Jakovlevna Mandel’štam che scrive al suo amato Osip Ėmil’evič Mandel’štam imprigionato nel gulag sovietico, non sapendo se sia vivo o no. Da un ricordo rievocato Ella immagina che Osip stia pensando a Lei e che stiano insieme in questa memoria del futuro inventata. La meraviglia fu che Osip scrisse veramente una lettera analoga dal gulag prima di morire.  

Il linguaggio è uno strumento potente, ma non è in grado di esprimere tutto. Ci sono cose che non possiamo dire perché non le conosciamo o perché non abbiamo le parole per farlo. Il “dire” che non può essere detto rimane nell’ombra, come una parte di noi stessi che non può essere completamente espressa. La consapevolezza della nostra finitezza ci spinge a vivere con maggiore intensità, rendendo giustizia al tempo che abbiamo a disposizione. La lettera su indicata è un esempio di come la memoria possa creare un ponte tra il passato, il presente e il futuro.

La “solitudine” è posta come una condizione necessariamente legata alla creazione artistica, e in particolar modo all’atto della scrittura, che non è intesa univocamente nell’isolamento, ma in una meditazione che tenta di ricongiungere ciò che è separato, all’interno di una nuova prospettiva che tenta di allargare la vita, un attimo prima della fine, attraverso la produzione e la fruizione artistica. Il centro della narrazione, infatti, non è un evento accaduto e raccontato, ma l’atto stesso del racconto e della parola. In questa oscillazione vi è uno spostamento continuo della voce narrativa, che si tramuta in quella del racconto stesso che visita i personaggi.

Qui si mostra anche il paradosso insito nella condizione della solitudine dello scrittore che, sebbene sia fisicamente solo in una stanza, è accompagnato dai fantasmi della letteratura e della scrittura degli altri. La “solitudine si mette a parlare”, ed è attraversata da citazioni esplicitate o semplicemente incorporate nel testo, che rimandano alla tradizione della letteratura e della cultura universale, da Pinocchio alle Mille e una notte, dalle riflessioni sulla mnemotecnica ai Pensieri di Pascal, dalle poesie di Holderlin fino alle riflessioni di Freud sul perturbante.

La scrittura si ripiega e parla di se stessa, del suo infinito cominciare a dire l’evento che non può più tornare ad essere, ma è continuamente. Non resta che dire questa impossibilità, e l’unico modo in cui ciò è possibile, è quello della scomparsa di un io narrante che si fonde con la pluralità e l’instabilità di una voce neutra, quella della voce narrativa. Così, tra la scomparsa e la solitudine si viene a creare una risonanza fondamentale che riguarda il modo di creazione dell’opera. La scomparsa non è causa della solitudine e la solitudine non è uno stato di abbandono.

E di ciò il lettore ne è testimone.

CONSIGLI DI LETTURA: LA RAGAZZA DELLA PALUDE

LA RAGAZZA DELLA PALUDE, di Delia Owens (Autore), Lucia Fochi (Traduttore), Solferino Editore (2022), Rizzoli, Milano, ed. originale in lingua inglese, 2018

Non è un caso che appena uscito, fu un successo per tutto il mondo anglosassone e poi europeo, e da cui fu tratto un film, famosissimo. Il romanzo, però, al di là delle stesse intenzioni dell’autrice, ed è questo il bello delle opere mirabili, è ben più articolato e denso del film e della pubblicistica. Qui siamo innanzi all’evento di questa ragazza che oltrepassa il suo luogo d’ideazione e diviene veramente la “La Ragazza della Palude”.

Gli anni vanno e vengono nella narrazione come onde, flutti e riflussi sulle coste. Ritornano lì nel pantano, e tutto ritorna accolto nella palude. La mappa fornisce i luoghi topici e mitici. La città è una escrescenza tra l’oceano, la pozzanghera, l’umido e il fiume, conservata per poco dal sale, e poi corrosa. Tra schiume del tempo e brezza del ricordo.

In quel luogo vi è la ragazza della palude che ognuno abbandona nella solitudine. Però, lì, quasi tutti ritornano. Nel pantano le onde e i rami schiumano, interrompendo il loro flusso ben coordinato e veloce rispetto allo scandire del tempo. Ciò che sembra lineare, nel pantano sembra arrestarsi. Acqua, fango, uova di uccelli, molluschi, insetti, rami, radici, foglie morte, ognun si tampona con l’altro. Il grande cumulo, dove anche i secondi restano intrappolati nella sabbia che, accogliendoli e disgregandosi, inclina lo spazio, e lo proietta in una immagine statica, senza che vi sia movimento: in modo carsico. L’acqua pian piano fluisce e lega ogni oggetto in un groviglio, vivo o decomposto, in un grande grumo, che continuamente si dispiega, in una metamorfosi di insetti, di larve, di fusti d’acquitrino, di alghe, di pesci che lì stazionano e nascono. È una danza da fermi che roteando genera strutture ben più corpose, come le aree costruite dagli uccelli migratori e da quelli stanziali, i quali, come provetti carpentieri, impastano l’acqua nell’edificare le spiagge, i nidi, gli isolotti e le dighe.

Prede e predatori lì convergono, attirati da tutti i loro secondi impigliati.

Delia Owens, prima di scrivere il suo romanzo d’esordio, e anche dopo, è stata una valente etologa e ornitologa, e lo si nota dalla descrizione minuziosa degli animali, dei pesci, degli insetti, i quali agiscono, entro e con la palude, assieme ai personaggi canonici.

L’ecologia, intesa come un nido d’infanzia, la casa di cura e di nascita, segue un filo narrativo parallelo con le azioni dei singoli, oscillando su intervalli temporali che, come il giorno e la notte della nebbia e della rugiada della palude, vanno avanti negli anni e ritornano indietro. Gli eventi iniziano in modo invertito, collegandosi con situazioni accadute mesi e decenni prima, e viceversa. Il perno di questo vortice temporale che conferisce la stabilità alla narrazione è LEI: la ragazza della palude. La fragile bimba vessata ed abbandonata, disprezzata, osteggiata, isolata, che, però, trae da sé stessa le forze e le capacità per sopravvivere e crescere e venire in relazione con ciò che è al di fuori della palude, nel tempo della società. Quella particolare comunità che però ondeggia tra il fiume e l’oceano. Due canne d’acqua in balia delle onde del tempo, delle quali, la palude, è ancor di più, a pelo d’aria e d’acqua, sospesa tra il reale e il fantastico, che risponde nel mito, nel ricordo e nel racconto.

Quando la ragazza della palude è estremamente debole ed indigente, fortunatamente riceve l’aiuto di alcuni, che però, guarda caso, sono anch’essi quasi reietti dal mondo del tempo lineare. E quando acquisisce l’autonomia, altri ancora, però, tentano di sopraffarla e acquisirle la vitalità, l’eccitazione e la propria affermazione. La palude e la ragazza sono i luoghi in cui l’inconscio di ogni personaggio emerge nei lati non visti e non espressi magari, volutamente celati, oppure strenuamente perseguiti.

All’inizio il romanzo assume uno stile quasi dell’ottocento, nel raffigurare una famiglia disgraziata, con l’abbandono di questa figlia. Dopodiché assume il tono di un thriller, fino a quello del mistero, passando per l’avventura della sopravvivenza, ma poi declina in una descrizione etologica di tutti gli esseri viventi, non fredda, ma partecipata e quasi compassionevole. Il lettore si ritrova a convivere con famigliarità in questo ambiente di più dimensioni temporali dove i mutamenti non si disperdono, ma si raccolgono in quella memora ciclica di nascita, crescita, mutamento che è la palude, con il suo ingresso che è il pantano: il luogo che risponde alle proprie inclinazioni. Dure, crudeli, di riparo, edificanti, in base agli angoli nascosti dei protagonisti.

È anche una storia indiretta del sud degli Stati Uniti, visti però da lontano, dove gli avvenimenti giungono sfocati, lenti, in punta di piedi e questi subiscono l’erosione dell’ambiente salino, salmastro, sornione della palude. La riposante umidità che ipnotizza, impigrisce, richiama, affonda, e fa naufragare le parole a una sola dimensione. Si riesce a muoversi e a vivere, solo se si ha la capacità di osservare la realtà e di comprendersi in più livelli interpretativi. I ruoli si moltiplicano nello stesso personaggio, connettendosi, però, attraverso contorni laschi e sfumati.

Violenza, delitto, amore, passione, fuga, tristezza, dolore, speranza, eroismo, generosità, tutto vi è un questo quadro che prende vita ogni volta che il lettore ha la spinta a percorrerlo. E lì quell’incrocio tra il fiume e l’oceano ad esprimere questa comunità piccola e modesta, ma universale tra l’angoscia della caduta, il timore dell’attacco, la speranza del guado, come è appunto la vita di una libellula d’acqua, cioè la ragazza della palude.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL VIAGGIO DELLA ST. JEMIS

Il viaggio della St. Jemis di Isolde Fulke
(Autore), Salvatore Mulliri (Illustratore),
2021, Forevera Books

Questo viaggio è un’occasione per riformulare le concezioni di possibilità del proprio futuro interiore e di quello che si è concepito in gioventù, in rapporto al lettore adulto, e al divenire di quello che è inteso dai lettori più imberbi. È un’opportunità di confronto per intendere emotivamente il mutamento estetico scaturito dal sentire di come si è cresciuti. Giovani e adulti, assieme, nel comprendere le proprie relazioni all’interno di un orizzonte temporale più ampio e meno conosciuto.

Per il lettore giovane, se ha fretta nello scorrere le pagine, il libro offre l’opportunità di immaginarsi all’interno del gruppo dei pari, nel misurarsi relativamente alle abilità, alle capacità, alla reciprocità di eventuali sentimenti più profondi, alla possibilità di aggregazione, alla ridefinizione di nuove identità sociali, e al riconoscimento di una crescita di sé in vista di un’ottica di miglioramento.

Niente di nuovo: i miti e le storie da sempre collocano un prima e un dopo che si deve ripetere, affinché entrino sempre nuovi coorti generazionali, in modo che le precedenti passino nello stadio più adulto, fino alla trascendenza.

È un libro urticante per gli adulti e per chi ha già avuto esperienze di lettura fantascientifiche in gioventù e in età successive, perché potrebbe essere ritenuto una ennesima rivisitazione di schemi narrativi già incontrati e lontani ora dal proprio senso estetico, tale da inibire una immedesimazione verso i protagonisti.

Se ci si fermasse in una valutazione immediata, il lettore incorrerebbe in formule pigre nel ritenere che le vicende siano semplici nei rapporti di causa ed effetto e quasi prevedibili nell’intendere i comportamenti futuri degli attori in gioco. Il rigetto superficiale dell’opera rischia di occultare, qualcosa di inedito che, se compiutamente inteso, offre una dimensione inedita per interrogarsi su di sé.

È irritante nelle prime pagine perché nella chiarezza degli intenti, induce a cadere nell’amaca riposante dei luoghi comuni verso il sempiterno funerale dei romanzi di fantascienza, il suo cadere verso il fantasy, l’appiattimento stilistico e narrativo in una prosa sincopata tipica (sempre tipica nei decenni! E Decenni e secoli) dei “giovani”. Oltre all’uso di termini gergali, misti a quelli scientifici, nella funzione di simboli di appartenenza.

Eppure il fastidio continua, e costringe a rimuginare quasi offesi. Arrivando al picco delle proprie ubbie, ecco che se si presta ascolto al senso malmostoso, il cruccio in verità è anche dovuto al giovane del passato, dietro alle nostre spalle che continuamente ci interroga e ci domanda su ciò che siamo ora nell’aver adempiuto o meno alle promesse e alle aspirazioni che si sono formulate nella propria intimità.  

Esistono sì le forme paterne e materne nel romanzo, ma sono definite in quanto mancanti dai ragazzi, perché gli adulti con difficoltà riescono ad assumere tali oneri. Eppure, ed è qui il dilemma, forse sono proprio i piccoli e gli adolescenti che sollecitano gli adulti a divenire tali in modo più pieno.

Lo stile grafico è minimale, diretto, veloce, e immediatamente consultabile.

Talvolta accade, comunque, che un romanzo si inoltri in esiti forse non previsti dagli stessi autori, con attribuzioni di senso estranee agli scopi della stessa scrittura.

L’invito è accattivante, con l’autrice ( o forse autore, o più autori ) che si firma con uno pseudonimo da telefilm che induce a proprie inclinazioni e atteggiamenti verso il mondo, più che per il proprio vissuto pubblico, quindi in una postura ammiccante verso l’adolescente che non ha ancora una gamma di ruoli definiti.

Lo stile di scrittura ricalca quello delle parlate dirette e semplificate negli aggettivi e nei modi temporali declinati verso la comunicazione giovanile. E questo è in realtà oggi già un tranello, perché anche gli adulti parlano così. Forse il punto debole di questo romanzo è nell’intercalare dell’autore quando nelle premesse degli eventi topici, utilizza un linguaggio con vistosi errori di coniugazione verbale e partitiva, e con una ridotta ed elementare della varietà verbali. Talvolta sembra che sia stato scritto a più mani e sottoposto, in seguito, a poche e frettolose procedure di revisione.

E anche qui se si crede che sia un limite specifico, si incorre in una valutazione indebita. Si potrebbe obiettare che i processi di revisione siano oggi alquanto indulgenti e sbrigativi per molte delle opere pubblicate. I testi, poi, masticati magari anche da motori inferenziali per la produzione di periodi preconfezionati, se non copiati con piccole modifiche da strutture tipiche di narrazione, lasciano un senso di insipida assenza di memoria. 

Eppure questo specifico romanzo esprime qualcosa di inedito che sta emergendo, oggi, qui, in questa Italia di lettori divisa in adulti che hanno un’esperienza robusta per quanto riguarda l’approccio vivo alla lettura, e per quell’altra fascia di fanciulli, ragazze, adolescenti che legge tipicamente romanzi seriali di fantasy, di avventura, d’amore.

Vi sono molte imprecisioni chimiche, meccaniche e fisiche nelle descrizioni tecnologiche delle astronavi e delle stazioni spaziali, ma questa pecca è comune alla stragrande maggioranza dei romanzi di fantascienza passati, anche in relazione alle conoscenze e alle tecnologie dell’epoca. Solo quella quota minoritaria della fantascienza “hard” ne è di poco immune. Però, è qui la ricchezza della letteratura fantascientifica, perché, in un dato periodo storico, ci informa di ciò che è tipicamente tenuto come assodato, e di ciò che è immaginato e reputato per verosimile, in forma mitica e valoriale.

Le epoche storiche sono contraddistinte anche dalla quota del conoscibile e dell’autorevole con riferimento al mondo, allo spazio, all’impiego dei mezzi per disporre della materia, dell’energia e alla fine del potere. Ciò induce anche a comprendere il senso estetico dei lettori del tempo in ordine alle loro preferenze e suggestioni riguardo a ciò che di artistico è apprezzato in rapporto al conosciuto e ai mondi e alle tecnologie concepite. Sì, la fantascienza attinge comunque alle logiche del mito, che è antico quanto la genesi delle comunità umana, e anche al senso del praticabile nel presente, all’obiettivo del possibile per definire il futuro, e alla costruzione dei valori per ciò che è da venire.

Il fascino risiede appunto nella creativa produzione di nuove possibilità di esistenza, che induceva alla lettura ieri come oggi.

Il romanzo non insiste molto nei particolari meccanici dei manufatti, ma propone in un modo colloquiale ed efficace, l’insieme delle nozioni astronomiche relative alle orbite, come quelle di Lagrange, agli orizzonti dei buchi neri, alla deformazione della materia per opera delle forze di gravità. Vi sono richiami e scene in cui vigono disposizioni vettoriali diverse per opera delle inversioni delle forze di gravità, delle orbite eccentriche ed ellittiche. Vi è la descrizione della spinta gravitazionale che permette alle astronavi di cambiare le rotte. Vi sono indicate le nuove strategie per viaggiare nello spazio, come le vele solari, già in uso oggi per alcuni satelliti. La legge di Stokes per i fluidi. Apparenti paradossi tra la grandezza fisica della gravità e le curvature della materia.

Sono tutti argomenti ben sperimentabili. E non è un caso che le astronavi e le stazioni spaziali orbitanti siano descritte tenendo conto delle nozioni suddette. Le stesse navicelle richiamano i progetti odierni in fase di sperimentazione e di sviluppo dei nuovi vettori di lancio.

La caratteristica commendevole risalta nel modo quasi colloquiale ed accogliente di tali nozioni. Dovrebbe essere tenuto a mente di chi professa il mestiere di docente di fisica e di matematica. Ciò non è utile solo per i giovani, ma anche per gli adulti, perché, sì, ed è qui l’irritazione, i più ignoranti sono i lettori antichi.

È resa disponibile un’occasione per riaggiornare le lenti con cui si sperimenta il mondo, per ampliare l’orizzonte linguistico che è dei giovani e anche il nostro. Anche gli adulti leggono poco, anche i maturi prendono testi scritti e intermediali e li spostano tra diversi supporti tecnologici. Ben pochi hanno il lusso del tempo e la disciplina di interpretare i testi intermediali e gestirli in modo approfondito e ripetuto avendo a memoria le versioni e le proprie esperienze anche estetiche ottenute.

Si è tutti nella stessa condizione. La lettura di questo romanzo costituisce un viaggio in modo che ognuno possa essere presente nel proprio tempo e renderlo disponibile ai compagni di viaggio.

I protagonisti permangono: anche il cattivo deve trasformarsi. È l’etica del bimbo delle favole, perché tali caratteri ritornano per una nuova avventura.

Malignamente, si potrebbe sospettare che sia il solito espediente per generare una serie di libri a tema, per futuri introiti. Su tale fenomeno per il quale la fantascienza sembra schiacciata nello stile Fantasy che è trasformato in livelli sempre crescenti di videogiochi è una possibilità. Non è detto che sia uno scadimento.

Quello che occorre capire e se ciò sia valevole per un arricchimento alla lettura, utile per ampliare l’immaginazione, promettente nel formulare nuove risposte rispetto alle promesse che i giovani dichiarano al proprio animo e a quei giovani che gli adulti sono stati.

Questo romanzo è una sfida per tutti.

§CONSIGLI DI LETTURA: LA PORTA

La porta di Magda Szabò (Autore), Bruno Ventavoli (Traduttore), 2014, Einaudi, Torino, ( Prima ed: Az ajtó, 1987)

È una crepa nel presente che cresce come un vortice, attirando moti d’aria e d’attenzione, perché non si può smettere di leggere. I personaggi sono introdotti con indizi che a mo’ di esca, attraggono e seducono, evocando una irresistibile curiosità.

Gli eventi e i luoghi sono sorgenti di misteri che veicolano la narrazione. Anche rimanendo tali, li sentiamo scandire il ritmo delle vicende.

La descrizione dei personaggi si accompagna ai loro atti e alla osservazione partecipante dell’autrice che è una dei partecipanti. Si è nel dubbio se la scrittrice stia rievocando la sua biografia, o se sia una inventata. In ogni caso, le protagoniste si sdoppiano nell’offrire un diario degli eventi. I quali a loro volta viaggiano in un binario esterno cronologico e uno interiore che curva e si torce nelle storie di vita accadute di ognuno.

Nonostante i rimandi e le spirali, non si hanno sensazioni di pesantezza nel voler definire un ordine logiche di cause che scateneranno nuovi sommovimenti. Anzi, il lettore è invitato a supporli amplificando una ricca offerta di climax nella narrativa.

È una magnifica prova di scrittura per Magda Szabò, non a caso ritenuta una delle scrittrici ungheresi più autorevoli del ‘900. Dovette subire decennali e multiple forme di censure, resistendo comunque, attraverso un’incessante opera di libera divulgazione, tesa a scandagliare i processi più profondi dell’animo umano, correlati a precise e tragiche vicende storiche.

La storia delle protagoniste è anche uno specchio della storia del popolo ungherese, con rimandi continui tra gli anni e i secoli. L’inconscio di una bimba è quella di un popolo, e ogni ciclo famigliare costituisce una individuazione del corso di crescita dell’Ungheria.

4-6  “[…]. I miei sogni sono assolutamente uguali, tessuti di visioni ricorrenti. Sogno sempre la stessa cosa, sono in piedi, in fondo alle nostre scale, nell’androne, mi trovo sul lato interno del portone con il telaio d’acciaio, il vetro infrangibile rinforzato di tessuto metallico, e cerco di aprirlo. Fuori, in strada, si è fermata un’ambulanza, attraverso il vetro intravedo le silhouette iridescenti degli infermieri, hanno volti gonfi, innaturalmente grandi, contornati da un alone come la luna. La chiave gira nella serratura, ma i miei sforzi sono vani, non riesco ad aprire il portone, eppure so che devo far entrare gli infermieri altrimenti arriveranno troppo tardi dal mio malato. La serratura è bloccata, la porta non si muove, come se fosse saldata al telaio d’acciaio. Grido, invoco aiuto, ma nessuno degli inquilini che abitano sui tre piani della casa mi ascolta, non possono farlo perché – me ne rendo conto – boccheggio a vuoto come un pesce, e quando capisco che non solo non riesco ad aprire il portone ai soccorritori, ma sono anche diventata muta, il terrore del sogno raggiunge il culmine. A questo punto vengo risvegliata dalle mie stesse urla, accendo la luce, provo a dominare il senso di soffocamento che mi assale sempre dopo il sogno, intorno ci sono i mobili conosciuti della nostra stanza da letto, sopra il letto l’iconostasi di famiglia, i miei avi parricidi che indossano i dolman con gli alamari secondo la moda del barocco ungherese o del biedermeier, vedono tutto, capiscono tutto, sono gli unici testimoni delle mie notti, sanno quante volte sono corsa ad aprire la porta agli infermieri, all’ambulanza, quante volte ho provato a immaginare, mentre udivo filtrare dal portone aperto il passo felpato di un gatto, o lo stormire delle fronde, invece dei noti rumori diurni delle strade ora ammutolite, che cosa succederebbe se un giorno lottassi invano e la chiave non girasse nella serratura. I ritratti sanno tutto, in special modo ciò che mi sforzo di dimenticare, che ormai non è più sogno […]”

Una governante e la padrona in perenne conflitto che ricercano comunque attraverso gli anni un universo coerente circa gli eventi subiti e immaginati, perché questi non cadono mai nel participio passato. Rimangono lì, modificando lo spazio, indirizzando i comportamenti, coltivando le superfici perennemente seminate di nuovi simboli.

L’ossessiva descrizione degli ambienti e delle persone fin nei minimi particolari, potrebbe instillare un pigro e sonnolento giudizio circa la dilatazione temporale delle storie. Quasi uno stato di indugio autocompiaciuto. In realtà ogni offerta degli scenari provoca uno slittamento semantico che ricompone un nuovo quadro di significato. S’aprono ulteriori direzioni che avvertono nuovi accadimenti in relazione con quelli accaduti.

La doppia riflessione su una narrazione che è già una strada di analisi, trasla ciò che è compiuto accostandolo a ciò che in quel momento è considerato l’attimo presente. Il passato si espande nel presente, ma non dilegua, perché lascia aperta una porta al lettore, illudendolo che sia il censore che finalmente risolve il dissidio, ma che in realtà diviene il vettore di una nuova strada possibile: cioè il futuro.

Gli oggetti, i luoghi apparentemente banali e i dialoghi di raccordo, d’improvviso evocano le guerre mondiali, quelle dell’ottocento, le dominazioni subite e inflitte ai confinanti. Le prime forme statuali emergono d’improvviso, come mattoni nello spazio in cui i protagonisti si muovono. Ogni famiglia è una comunità, e questa è un popolo. La città è la nazione ungherese e questa è parte dei popoli che in essa la attraversarono e che ancora lì sono presenti, tra i cimiteri, le nascite, le guerre, e le stagioni.

La governante è la padrona instaurano un dialogo ininterrotto, scambiandosi a volte il ruolo della coscienza che disvela, e quello dell’errante cieco, sordo e muto. Eroiche e malate entrambe. Ignare comunque di portare l’eredità di questa storia personale e collettiva, anzi di esserne loro stesse un simbolo che via via si accosta a tutti gli altri di questo percorso accidentato tra le porte, le serrature, e i muri: ostacoli prima, illusioni dopo, ed enigmi sempre.

33-34  “[…] Al momento del mio risveglio non la vidi in casa, né in strada quando partii per l’ospedale, ma il marciapiede scopato e sgombro di neve davanti al portone rivelava la presenza del suo lavoro. «Evidentemente Emerenc sta facendo il giro delle altre case», spiegai a me stessa mentre il taxi mi portava a destinazione; non ero piú angosciata, avevo il cuore leggero, sentivo che in ospedale mi aspettavano solo buone notizie, ed effettivamente fu cosí. Rimasi fuori fino all’ora di pranzo, rincasai affamata, sicura che lei fosse là seduta nell’appartamento e aspettasse il mio ritorno, ma mi sbagliavo. Mi trovai nella situazione, cui non ci si riesce mai ad abituare, di chi torna a casa e non trova nessuno curioso di sapere che notizie porta, liete o funeste che siano – l’uomo di Neandertal probabilmente imparò a piangere quando capí per la prima volta di essere completamente solo accanto al corpo del bisonte trascinato nella caverna, di non aver nessuno con cui condividere le avventure della caccia, nessuno cui mostrare il trofeo o le ferite subite. L’appartamento mi aspettava vuoto, la cercai dappertutto, chiamai il suo nome ad alta voce, semplicemente non volevo […]”

133  “[…] Emerenc, se mai credeva in qualcosa, credeva nel tempo: il Tempo, nella sua personale mitologia, era un mugnaio che macinava senza sosta nel suo mulino eterno e dosava la tramoggia degli eventi a seconda del sacco che le persone gli posavano davanti. Nella fede di Emerenc nessuno restava a mani vuote, nemmeno i morti, non capiva come, ma era convinta che il mugnaio macinasse anche il loro grano e riempisse i loro sacchi, solo che alla fine erano altri a caricarsi la farina in spalla e a portarla via per cucinare il pane […]”

Il tempo, la scrittura, il ritmo, e la porta: il grande ostacolo che in realtà è tale in base alle domande che il singolo si pone. Una sfida stimolante per il lettore, perché in questo romanzo è direttamente chiamato in causa, assieme alla sua intera biografia itinerante.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL POPOLO DELL’AUTUNNO

Il popolo dell’autunno di Ray Bradbury (Autore), Remo Alessi (Traduttore), Oscar Mondadori, Milano, 2013 (Prima edizione: Something Wicked This Way Comes, 1962)

Si piange e si ride, si immagina e si ricorda in questo scritto, perché la sua firma è la meraviglia del mondo e del cuore d’ognuno.

Questo romanzo, è l’ideale prosecuzione del precedente “L’estate incantata” del 1957 (per un’analisi premere QUI). Vi è la stessa città, e questa ruota attorno ai punti di vista di ragazzi quasi adolescenti. Ray Bradbury ha una capacità superlativa di rendere vivi i processi fisici ordinari, e i grandi agglomerati antropici e naturali. Non in un senso allegorico o metaforico, ma in modo diretto. Non è un caso che a tratti la prosa assume toni lirici, quasi di versi in prosa, quando descrive gli ordinari processi metereologici ad esempio. Le albe, e i raggi del Sole, che oltre a illuminare sono dotati di una fisicità tale da dipingere le foglie, sostenere i minuti e smuovere le ombre e i toni che si adagiano, corrono, si inabissano e riemergono dalla terra.

Una formica non è solo un insetto che si muove, cieca del suo destino. No: è un corpo senziente che vive in uno spazio vivo, mutante, dotato di fini nascosti ed obiettivi determinati. Gli insetti, come le foglie, i sassi, le anse dei fiumi, i grovigli dei rovi, i rami degli alberi, parlano tra loro, si muovono e si modificano. Pensano, dormono, riflettono, cantano: usano il vento come mezzo di comunicazione, e usano l’aria e il suono come frecce e faretre.

La narrazione è continuamente tesa a svelare che ogni ente classificabile come “oggetto inanimato” sia in realtà un soggetto dotato di nume, che respira aria, luce, suono, e comunica in piani che oltrepassano i sistemi di riferimento umani instillati nei cinque sensi.

Il linguaggio è mitico. Di prima impressione potrebbe rivestire uno stile favolistico, nello svolgersi degli eventi, il lettore quasi sedotto dal tono fantastico e immaginifico, che lo tranquillizza riportando in luce il suo passato ancestrale di sogno e incanto. Da una lettura più profonda, però, si ricava che il romanzo è tutto il contrario di una favola. Il luogo, il tempo, la coerenza disposta tra le gesta dei protagonisti sono intesi realmente. In modo verosimile.

Il mito qui, non è quello nostro che, in negativo, dilegua rispetto a una descrizione razionale e veritiera degli accadimenti, attraverso la suddivisione tra i principi, le cause, i momenti topici. La poetica ha la pretesa di offrire uno sguardo prospettico e multidimensionale del mondo, e in assonanza con l’universo interiore, che è personale per quanto riguarda le responsabilità delle proprie azioni e della legittimità dei propri scopi, ma che è comune a tutti gli esseri viventi.

Le stagioni scandiscono il ritmo degli avvenimenti, e offrono una idea di un prima e un dopo, ma queste sono destinate a ritornare, e quindi a permettere una partecipazione all’unisono dei giovani e degli adulti, dei figli e dei padri, delle madri e di chi nascerà, dei vecchi e della loro compagna finale: la sorella nera. Ognun di loro cresce, passa da uno stadio all’altro e insieme rispetto al momento di crisi, che vi è sempre, perché ogni stagione ha un limite del prima e del dopo, caratterizza il proprio vivere.

È un autunno che è destino di ogni vivente: dall’uomo, agli animali, alle piante, alle rocce, si interroga, si dispera, ha il timore della propria finitezza e la speranza di comprendere il proprio stare nel tempo che scorre e in ciò che permane mutando.

E quindi ritornano, e son presenti, gli intenti volti a un vivere pieno, e quindi al desiderio d’amare e di gloria, assieme ai corrispettivi volti della decadenza, della malattia, fino alla vecchiaia e alla morte. All’interno della dialettica tra il bene e il male, tra il voler cedere all’arroganza e all’ignoranza, vi è il rischio di voler ignorare i propri limiti e di confondere la propria volontà con ciò che si presume siano gli scopi e gli obiettivi del vivere di ognuno.

Ray Bradbury è abile a definire un equilibrio quasi trasparente tra un approccio arcaico e rituale, a quello di un romanzo di formazione, con un trattato di etica che ha il contrappasso nella pena, e nella personale e conseguente redenzione. Le vicende hanno uno stile d’avventura, ben delineato da uno stile di avventura, che assume caratteristiche quasi etologiche.

Vi sono luoghi retorici che invitano il lettore a colorare gli ambienti con i propri ricordi. Ci si sente pittori nel comporre la narrazione mitica del testo, con la singola vita irripetibile di noi che scorriamo gli eventi di questi due ragazzi, dei loro genitori, dell’intera città, e di ciò che sta ai confini e che entrando, muta gli equilibri ed evoca le paure e gli orrori e ciò che è voluto tenere nascosto dagli stessi cittadini.

Il libro richiama le atmosfere degli scritti dell’ottocento e del primo novecento degli Stati Uniti: il circo è il luogo della scoperta, della magia, e della tentazione. Ne sappiamo qualcosa con il nostro Pinocchio. Vi è un senso della colpa puritana, e una voglia di avventura che dai picari spagnoli, ai guasconi francesi, ai nuovi adolescenti di inizio novecento, che offrono una sedia dove noi, accasandoci, ritroviamo gli stadi precedenti del nostro vivere.

Vi è un tentativo di riavvicinamento tra un padre e un figlio, e una voglia irresistibile di dire sì alla vita, e quindi di riconoscere i propri limiti, per determinare le possibilità di migliorare la propria esistenza. Si ride delle proprie sconfitte, incapacità, e fallimenti. La risata che salva, quella che fa riconoscere il cuore di chi sta vicino. L’autocritica salace previene l’assalto della menzogna e della terra di autunno che disperde i colori dell’estate, e che non vuole mutare per i nuovi impegni dell’inverno che sono faticosi e freddi, ma necessari per custodire un nuovo universo ancora da venire.

Non ho voluto dire nulla sulla trama: è un libro di avventura che va letto senza sapere nulla in anticipo. Si gusta ogni avvenimento, perché chiede il coinvolgimento di tutti noi. E ci fa pensare, commuovere e ridere. Già la sapete: è la storia del v(n)ostro vivere.

§CONSIGLI DI LETTURA: MARIA ZEF

2019,  Barbara Di fiore Editore (2019),
Milano, Prima Edizione 1936

La dura asperità dei monti che si rifrange sui corpi e sui volti, ricorda che la sopravvivenza ha qualche possibilità di riuscita per brevi istanti, se si mangia freddo e letame. Queste donne sono incatenate nel giogo della povertà, giù nel fondo della fame e della miseria, nel disprezzo e nella sventura. Eppure dalla melma nera riescono a generare stille di vita.

La vita del Friuli e del Veneto. Il libro urla la miseria dei senza diritti tra langhe, pioggia, fango, risaie, grano, vitigni e nel gelo dei monti. Ognuno è alla mercede del clima, tra le annate di fame e di abbondanza. Eppure qualche radura di solidarietà fiorisce.

Nei ciclici anni della carestia gli uomini emigrano. Rimangono le donne a lavorare e a reggere i piccoli e le piccole.

Mariutine la grande bambina che deve pensare a tutto. La bimba quasi adolescente dalle mille qualità, consapevole dei suoi limiti che tenta di superare, perché nell’umiltà estrae una irresistibile volontà di miglioramento.

Lo stile è scarno, diretto e carnale. Il lettore avverte le sensazioni fisiche dei protagonisti nel vento freddo e secco, che scolpisce la fatica. Le malattie sono la carta d’identità delle proprie storie: dalle rughe ai corpi deformati.

Vi sono i poveri e quelli ancora più in basso. Mariutine e Rosute stanno lì, nel fondo. Assieme alla madre quasi cadavere che cerca di proteggerle camminando nei paesi e nel fango, per vendere piccoli strumenti di casa, da loro stesse fabbricati.

Mariutine sa di essere ignorante e analfabeta su gran parte del mondo: conosce la montagna e il gelo. Nonostante tutto coltiva qualche abilità come il canto che allieta i clienti e i villici durante il loro vagare alla ricerca di soldi per le provviste da accumulare nell’isolamento invernale, lassù nella fragile modesta baita.

È una storia dura e tragica, purtroppo normale, narrata con una precisione chirurgica secondo una scansione di cronaca di giornale. “Povera e donna”: il luogo dove ogni miserabile trova il fondo per lui inarrivabile. E se questa donna è anche una bambina quasi dodicenne, ogni rapporto con chiunque è un pericolo.

Eppure Le due bimbe sono forti e tentano di sopravvivere dentro l’inferno del loro vivere.

La consapevolezza dell’inganno e delle violenze subite che stanno portando le due bimbe all’annichilimento, però, non riesce a inibire la volontà di sopravvivere, accompagnata dalla generosità estrema di Mariutine che vuole proteggere la sorellina più piccola, oltre sé stessa.

Ella rimane umana compiendo gli atti più tragici, anche non avendo le parole per dirlo: vivere e donare speranza di vita.

La trama non andrebbe letta: è un libro che va vissuto. Dalla funzione di scandalo e di denuncia del periodo in cui pubblicato, il romanzo oggi ha la funzione di tener presente che tutto ciò vi è ancora, ma con vestiti più alla moda: l’inferno freddo è ancora qui.

§CONSIGLI DI LETTURA: IN DUE SARA’ PIU’ FACILE RESTARE SVEGLI

Giorgia Surina. In due sarà più facile restare
svegli. Giunti Editore, Firenze, 2022

Le due amiche si recano all’ospedale per sottoporsi ad una procreazione medicalmente assistita. Non sono sposate. Non si conosce il donatore. Trattate come numeri. Quasi nude se non per i camici da salumeria con il laccetto, inquadrate. Senza privacy. Sgridate per non aver eseguito correttamente il protocollo. Senza un aiuto emotivo non tanto per la speranza, quanto per quel momento irripetibile per la donna, perché non si tratta di una semplice ingestione di una medicina. Tutto è messo alla prova. Tutto loro stesse. Da sole, se non nella loro alleanza.

E anche se ci fosse un uomo, sarebbero ugualmente sole per quanto riguarda la ricerca di una piena comprensione: un uomo non potrà mai accedere al terremoto devastante per ogni fibra della pelle, del cervello e del corpo che ha ogni secondo, quella donna che vorrebbe generare vita. Il dolore e la stanchezza comuni causate dal tentare più volte il trattamento dopo settimane di medicine di preparazione, di eventuali diete, di lastre, di controlli per la fertilità, saranno sempre quelle di lui e non di lei. È possibile anche la presenza di un rancore nascosto, nel non riuscire a divenire un padre. E se Lui è fertile, vi sarà sempre un angolo di frustrazione contro di Lei. Perché per lui di base una prestazione, che scaturisce nella socialità di un’esibizione, mentre per lei, probabile madre, è una totale Apocalisse.

Tutto ciò potrebbe accadere anche prima, per il rifiuto di lui ad accogliere l’evento atteso. L’imbarazzo e l’umiliazione per esser trattate entrambe come un pacco di magazzino sono infinitamente più lancinanti, perché vogliono concepire da sole, senza un compagno e vivere sostenendosi sempre come due amiche. Dopo esperienze sentimentali fallite, cercano la sorellanza nel divenire madri, nonostante lo sguardo perplesso della comunità, per la loro scelta poco ortodossa. Nude e alla merce del sistema sanitario e delle leggi.

Lo stile del romanzo è colloquiale, quasi diaristico. Parlato in prima persona, con locuzione gergali che accentuano alcune debolezze di stesura sintattica. Ribadiscono a se stesse la loro scelta, e quindi vi è una sovrabbondanza di un colloquio interiore con ridondanze di pronomi relativi e dei verbi declinati al futuro. La ripresa dei temi, spesso, è appesantita dalla ipertrofia d’uso di tempi imperfetti, poi schiacciati nel participio passato. Si avverte che l’autrice del romanzo è una nota e capace conduttrice radiofonica: sa veicolare le informazioni con una scrittura tesa a catturare l’attenzione di un ipotetico pubblico all’ascolto.

Bea e Gaia, le due protagoniste, attraverso i dubbi, tentano di sviluppare una morale coerente che sostenga la loro scelta. Si confidano con le madri, non lo dicono subito ai fratelli ai padri: la decisione e l’eventuale dolore della sconfitta implica la decisione di vivere il momento topico in modo intimo.

Riflettendo a proposito del suo ultimo mancato amore, Bea propone a Gaia di procreare comunque senza bisogno di un compagno: “Non si ha bisogno di un amore per vivere!”

Per divenire compiutamente se stesse, senza l’approvazione di alcunché.

Il romanzo, come una gestante, concepisce una biografia duale, che vorrebbe esser tipica di un modo di vivere la maternità. La scrittrice stessa si fa madre, attestando un percorso di vita che anticipa nuove possibilità dell’esistenza. Giorgia Surina negli specchi di se stessa, moltiplica l’atto di generazione per qualsiasi altra lettrice.

I capitoli si svolgono alternati tra le due protagoniste, in un contrappunto di un battito del cuore, come quello di una vita che nasce.

§CONSIGLI DI LETTURA: GLI INVISIBILI

Gli invisibili (De Usynlige – 2013) -di Roy Jacobsen, Traduttore: Maria Valeria D’Avino, Iperborea, 2022, Milano

89-90 A un tratto non si sentono più le grida degli uccelli. Nessun fruscio tra l’erba, nessun ronzio d’insetti. Il mare è piatto, il gorgoglio dell’acqua tra i ciottoli del bagnasciuga si è fermato, non c’è un solo rumore tra tutti gli orizzonti, sono al chiuso. Un silenzio così è molto raro. Ancora più strano è sentirlo su un’isola, dove fa più effetto di un silenzio che cali all’improvviso in un bosco. Che un bosco sia silenzioso capita spesso. Su un’isola il silenzio è così insolito che la gente smette di colpo di fare quel che faceva e si guarda intorno per capire cosa succede. Il silenzio li stupisce. È misterioso, quasi un brivido di attesa, un forestiero senza volto che percorre l’isola a passi felpati, avvolto in un mantello nero. La sua durata dipende dalle stagioni, il silenzio può essere molto lungo nel gelo dell’inverno, come quando il mare si era ghiacciato, mentre d’estate è sempre una brevissima pausa tra un vento e l’altro, tra l’alta e la bassa marea, o il miracolo di quel momento in cui si finisce di inspirare e si comincia a espirare.

 –

Poi di colpo un gabbiano ricomincia a gridare, una ventata arriva dal nulla, e il neonato cicciottello si sveglia urlando sulla sua pelle di pecora. Possono riprendere in mano gli attrezzi e continuare il lavoro come se nulla fosse accaduto. Perché è precisamente questo che è accaduto: nulla. Si parla di quiete prima della tempesta, si dice che il silenzio può essere un segnale, come quando si carica un’arma; può avere un senso di cui si capirà la portata solo dopo aver sfogliato a lungo una Bibbia. Ma il silenzio su un’isola è niente. Nessuno ne parla, nessuno lo ricorda né gli dà un nome, per quanto sia profonda l’impressione che suscita in loro. Un brevissimo spiraglio di morte mentre sono ancora in vita.

È un silenzio pieno. Si parla con il mare. Gli oggetti, che il mare fornisce danno le storie, le parole, che vanno e vengono. L’isola le pesca e loro come marinai raccolgono tempo nelle ceste della loro biografia. Gli elementi sono quelli norvegesi e la traduzione in italiano, nel normalizzare gli aggettivi, potrebbe dare l’impressione che il clima, il vento, il freddo, l’inverno, l’estate, il giorno, la notte, la luce e il giorno siano analoghi a quelli del Mediterraneo. No. Qui è tutto al superlativo. E il teatro è il paesaggio, non quello borghese e collinare nostro, ma quello lungo, ampio, e frastagliato dell’Oceano Atlantico che oscilla insieme alle correnti artiche. Vento e mare sono solidi e liquidi. Il vento li unisce e li trasporta nell’isola. Un’isola muta come quelle lì, tante e quasi invisibili dalla costa. Piena di questo popolo isolato ognun con l’altro nei giorni, se non in rade ore dell’anno, o per viaggi nel buio delle pesche artiche che durano mesi con il rischio di esser loro la preda delle tempeste. E quindi mai più di ritorno.

Il lavoro scandisce l’attività del vivere. Ogni oggetto è utile, ogni oggetto è strumento e materia, e serve per sé, per gli animali, per i pesci, e per le attività di sussistenza. Parlano tra nonni e figli. Inframmezzati dal freddo e dalla vecchiaia che trasporta tutti loro nelle correnti dei simboli e delle storie. Il loro tesoro. Dei dimenticati, del silenzio, dove terra e mare uguali sono: spazi altri, con cui si è in relazione, ma disgiunti. L’isolano ha la mente che spazia nel tentare di sopravvivere, ma sa che la direzione delle sue radici e nel tempo, è ancorato nell’isola. Le barche sono solo vele incastonate nella nave maestra, che è l’isola stessa, in viaggio tra le stagioni, gli elementi, la vita e -la morte.

Vi è un silenzio, che però è pieno e un oblio, che però non annulla, ma conserva e deposita, tra secoli di alghe, e volumi di vento. E tutto è lì. Pieno, denso, pronto a rivelarsi nell’orecchio di chi è pronto a viaggiare, lì, tra gli interstizi delle civiltà che fluiscono tra l’estrema luce e il fondo freddo.

UNO STRUGGIMENTO che porta nostalgia a chi non è mai vissuto in quelle zone d’assenza, ma che suggerisce una chiave dello scorrere di senso tra l’abisso e la memoria.

Il vivere e il morire trasportano il proprio ciclo attorno all’isola, e questa non lo abbandona. Resiste, lo accoglie nell’approdo. Ella sta: lì, piccola e tenace tra gli abissi.

La nostalgia irresistibile dello straniero che mai lì è vissuto, ma a cui tende nel suo tempo interiore.

§CONSIGLI DI LETTURA: MUSICA ROCK DA VITTULA

Musica Rock Da Vittula di Mikael Niemi,
(Populärmusik från Vittula, 2000),
K. De Marco (Traduttore),
2010, Iperborea, Milano

È un romanzo di formazione semi autobiografico, dove le vicende del passato si miscelano con le riflessioni nel presente che l’autore fa di se stesso di quel periodo con i suoi compagni, considerando l’evoluzione e i contrasti di quella zona della Finlandia dove convivono i Lapponi, comunità svedesi con diverse forme di interpretazione del luteranesimo.

L’interiorità del protagonista costituisce il sistema di riferimento per inquadrare lo spazio e il tempo narrativo. La visione animistica del cosmo e della natura offre uno stile narrativo che facilita la commistione tra il passato e il presente.

12-13 “[…] Nel gergo popolare il nostro quartiere veniva chiamato Vittulajänkkä, che tradotto vorrebbe dire la Palude della Passera. L’origine del nome non era chiara, ma doveva avere a che fare con il gran numero di bambini che ci nascevano. In molte case si arrivava a cinque, se non di più, e il nome rendeva una specie di crudo omaggio alla fertilità femminile […]”

16-17 “[…] Smisi di spingere e lasciai che l’altalena perdesse a poco a poco velocità. Alla fine saltai sul prato, feci una capriola e rimasi sdraiato a terra. Guardai il cielo. Le nuvole rotolavano bianche sopra il fiume. Sembravano grosse pecore lanose che dormivano nel vento. Se chiudevo gli occhi vedevo degli animaletti muoversi sotto le palpebre. Dei puntini neri che strisciavano su una membrana rossa. Se li stringevo ancora più forte riuscivo a vedere degli omini viola nella mia pancia. Si arrampicavano gli uni sugli altri e formavano delle figure. Anche lì dentro c’erano degli animali, anche lì c’era un mondo da scoprire. Mi prendeva un senso di vertigine, capivo che il mondo era una serie infinita di sacchetti infilati uno nell’altro […]”

I titoli dei paragrafi spiegano le gesta, in modo analogo a un racconto a quelle d’arme e d’amore di un tempo. Il mito del passato intesse una narrativa lirica. La memoria costituisce una storia che snoda il romanzo di formazione in una sequenza di Odissee per le quali il lettore possa partecipare emotivamente, attraverso una descrizione del mondo visiva, odorifera e tattile. Le immagini risultano concrete, olografiche, come quelle di un bimbo, contraddistinte da olografie antropomorfe. Gli oggetti rappresentano significati spirituali ed etici (buono, giusto, repellente) o caratteriali (eroico, pavido, fermo).

71 “[…] Quel pomeriggio stesso cominciò la lite per l’eredità. Si attese che finissero i riti funebri e che vicini e predicatori se ne fossero andati. Poi le porte della fattoria si chiusero agli estranei. I vari rami, escrescenze e innesti della famiglia si riunirono nella grande cucina. I documenti furono disposti sul tavolo. Gli occhiali furono estratti dalle borsette e messi in equilibrio su nasi lucidi di sudore. Si schiarirono le voci. Si inumidirono le labbra con lingue affilate. Poi scoppiò il finimondo […]”

178 Durante la gara di bevute clandestina dei ragazzi, il narratore interpretando se stesso da bambino, riveste le vicende con uno stile fiabesco, ma nella sostanza coerente nel descriverle in modo estremamente razionale per analizzare i fenomeni della natura, le leggi morali e il loro impiego. Per il contrasto comico sapientemente dosato, mostra l’assurdità e il ridicolo delle imprese dei suoi coetanei e di quelli di poco più grandi nell’imitare i comportamenti degli adulti. Ridicoli perché goffi e impotenti non avendo la cognizione, l’esperienza e il fisico per le imprese, e assurdi perché riuscivano benissimo a imitare i miserevoli comportamenti degli adulti. Mentre in alcuni romanzi di formazione i ragazzi e le ragazze (Tom Sawyer o Pippi Calzelunghe) mostrano l’ipocrisia e la violenza degli adulti attraverso il loro comportamento conflittuale e di sfida, contravvenendo sistematicamente alle regole, qui i giovani disubbidiscono alle prescrizioni, ma per uniformarsi allo stile di vita dei più grandi.

Le comiche e malriuscite imprese dei ragazzi, costituiscono una accusa indiretta all’ipocrisia dominante. Nonostante tutto, vi è da parte del protagonista, e quindi dell’autore, un moto di compassione e di affetto per tutti. Se i ragazzi intraprendono imprese impossibili destinate al fallimento, gli adulti raccontano e si magnificano del loro passato in modo così iperbolico, da risultare esilarante.

Il romanzo offre l’occasione per studiare la storia e il modo di vivere dei finlandesi di confine con la Lapponia, la Russia, i rapporti di inimicizia e di ammirazione nascosta per gli svedesi, il conflitto tra la città e la campagna, il campanilismo tutto particolare tra i quartieri e le zone rurali più isolate di questa comunità che parla una lingua semi finlandese, mischiata a quella lappone. È estremamente interessante osservare il rapporto quotidiano con le prescrizioni della religione luterana, dei riti pagani ancestrali, e dagli influssi della visione ortodossa russa. Il utto immerso in una visione magica della natura.

Vi è anche la cronaca della trasformazione sociale di questa comunità che subì la guerra più volte e le invasioni di Svedesi, Prussiani, Russi prima e poi ancora Svedesi, Tedeschi e Sovietici dopo. Bellissime e toccanti sono le descrizioni della natura e dei moti delle stagioni e qui i lettori italiani dovrebbero porre maggiore attenzione a comprendere gli aggettivi riferiti alla notte, al buio, al freddo, alla tempesta, al ghiaccio, all’afa. Quello che nel testo è scritto in modo normale, per noi popoli del clima mediterraneo l’intensità di tutto ciò sarebbe superlativa: dalla distesa delle foreste, dei laghi, dal vento che taglia e ghiaccia, dalla notte artica del nord che è buio completo, dal freddo che significa meno di dieci gradi in giù.

È una narrazione autobiografica introspettiva che rivolge un atto di accusa e un atto di amore per il proprio passato, per i famigliari, per una terra che mantiene una memoria sotterranea, condita da un umorismo che tende a esprimere fanfaronate, ma in un modo così discreto che rende disponibile il lettore ad avvicinarsi con affetto.

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245 “[…] Tutti abbassarono i bicchieri e si sedettero. La festa aveva ormai raggiunto lo stadio della malinconia, e la musica arrivava a puntino. Cantavo guardando il nonno, che abbassò timidamente lo sguardo. “Oi Emma Emma, oi Emma Emma, kun lupasit olla mun omani…” Proseguimmo con Matalan torpan balladi. L’atmosfera divenne così triste che si appannarono i vetri alle finestre. E per finire attaccammo Canzone d’amore di Erkheikki, un valzer lento in minore con un assolo lamentoso di Holgeri che avrebbe commosso una pietra. Poi gli uomini vollero brindare con noi. Come si usa nel Tornedal, nessuno disse una parola di commento sulla nostra prestazione, perché gli elogi inutili alla lunga non portano ad altro che a progetti smodati e al fallimento. Ma si vedeva dai loro occhi cosa sentivano […]”

247-248 “[…] Com’è bella l’estate, così perfetta, così eterna! Il sole di mezzanotte sul limitare del bosco, nuvole rosse che risplendono nella notte. Calma di vento assoluta. L’acqua ferma liscia come uno specchio, senza un’increspatura. E poi all’improvviso un cerchio che si allarga lentamente su quella calma sublime. E lì, in mezzo al silenzio, si posa una farfalla notturna. Resta impigliata sulla superficie dell’acqua con la polvere delle ali. Scivola giù nelle rapide, vortica tra le pietre e la schiuma. Sopra le cime dei pini le zanzare sciamano leggere come piume nel caldo sempre più intenso. Ecco cosa si vede quando ci si trova in quel sottile interstizio che è una notte d’estate, fluttuando sulla fragile membrana tra due mondi […]”