Questo sito utilizza cookies anche di terze parti per fornirvi la migliore esperienza. Questo sito è protetto da reCAPTCHA, si applicano la Privacy Policy e i Termini di Servizio di Google.
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these cookies, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may have an effect on your browsing experience.
Always Active
Necessary cookies are required to enable the basic features of this site, such as providing secure log-in or adjusting your consent preferences. These cookies do not store any personally identifiable data.
No cookies to display.
Functional cookies help perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collecting feedback, and other third-party features.
No cookies to display.
Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics such as the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.
No cookies to display.
Performance cookies are used to understand and analyse the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.
No cookies to display.
Advertisement cookies are used to provide visitors with customised advertisements based on the pages you visited previously and to analyse the effectiveness of the ad campaigns.
La trama del romanzo è ascendente, perché non vi pause. Sopraggiungono onde di pericoli: la morte a causa della mano amica che si tramuta in quella della morte. Il lettore avverte le sensazioni infantili relative al terrore di affogare, allo stimolo irato della fame, all’abbraccio gelido del buio, alla vertigine della caduta, all’oppressione della malattia. E quando sembra di aver percorso il girone infernale, si acquista la consapevolezza di aver compiuto il primo passo, perché l’altra gamba inciampa nel naufragio che porta allo scoramento della solitudine, liquefatto poi dalla tempesta, per arrestarsi infine nella voce che evapora dentro il gorgo della pestilenza. La nave incanutisce in una zattera, in cui vi è il cannibalismo. La crescita e lo scorrere del tempo è già la dichiarazione di osare per vivere, e questa è la porta che apre al pericolo. L’esperienza è il dolore e la conoscenza può richiedere il prezzo della propria vita.
–
Anche chi non ha letto il libro, in realtà lo ha già vissuto. I pericoli e le vicende le ritroviamo nei racconti antichi e nei libri a lui contemporanei, come il vascello fantasma e l’ammutinamento, cioè lo stravolgimento delle condizioni di fiducia. Il pericolo è intorno e dentro la barca, cioè la casa, che è la metafora del proprio vivere. Gli elementi della natura sono un pericolo. Ogni giorno nel ciclo del Sole e della Luna, scandisce il ritmo del morire.
–
È un romanzo di formazione, in cui si diventa adulti, attraverso gocce di sangue, tramutate in secondi. Non si può fare a meno di andare avanti ed osare, per evitare la stasi della morte, ma il cammino si alimenta del sangue e della sofferenza.
La paura è una delle conseguenze del pericolo, che introietta se stessi nella gabbia dell’orrore con le sbarre della solitudine e con il giaciglio dell’angoscia e il timore. La collaborazione con gli altri è un azzardo, perché è un salto nel buio, scaturito dalla fiducia che è sempre senza fondatezza.
–
Per Edgard Allan Poe la fiducia è una corda tesa sopra l’abisso che definisce ogni orientamento nel proprio vivere.
–
L’orrore e il dolore sono due piani che si intersecano nella linea sottile della sopravvivenza. È una concezione analoga alla “linea d’ombra” descritta da Joseph Conrad: l’orizzonte tra i due oceani dove naviga la propria biografia. La rotta si crede sia quella giusta, attraverso le vele della razionalità e che conducano ad un approdo sicuro.
–
La morale e il diritto sono generate dalla sublimazione della violenza e del sangue. L’esperienza acquisisce un senso compiuto, attraverso la scarnificazione delle proprie speranze e del proprio corpo. Questi sono gli effetti, forse in gran parte oscuri allo stesso Edgar Allan Poe che certamente aveva lo scopo di usare lo sgomento e il panico come strumenti narrativi per catturare l’attenzione e fornire dinamicità agli eventi. La vita è il fior di loto che emerge e galleggia precario sullo stagno del terrore che poggia su un fondale di morte.
–
L’intensità emotiva che regala questo romanzo, ci informa, nonostante tutto, di essere ancora vivi e di pulsare la volontà di sopravvivere. Il lettore non può fermarsi, perché deve proseguire la lettura.
La signora delle camelie è l’opera di Alexander Dumas figlio che fu più riprodotta nei decenni successivi alla pubblicazione nei teatri con testi progressivamente adattati al senso del tempo contingente. Lo Stesso Giuseppe Verdi usò la trama per comporre la sua “La Traviata”. Nel novecento fu riprodotta nel cinema in innumerevoli varianti.
–
Narra di una storia vera. Anzi di storie vere tra le quali vi sono quelle biografiche e dissimulate, da parte dello stesso autore. I personaggi e gli eventi, nonostante una regolarità che agli occhi dei contemporanei sembra classica e nota, è invece innovativa. La psicologia nascosta è analoga a quella maschile dei secoli vicini e passati a quelli di Alexander Dumas. In un ambiente sociale più laico, l’oggetto del peccato che è detto “donna” e che conferisce senso e moralità alla visione della divinità maschile che tutto ordina e dispone, conferendo senso e valore alle etiche, si trasferisce nella sublimazione dell’incanto e della passione.
–
Da fonte di conoscenza che porta il peccato, la donna diventa alternativamente nume, scoglio, abisso, via di elevazione. È ora uno strumento ed un oggetto verso il bello e il buon dire per opera dell’amante e dell’artista. Il prodotto letterario è buono e bello: bello perché buono: buono perché prodotto dall’estro e dal buon cuore dello scrittore.
–
La “donna” è un luogo di produzione letteraria che induce energia creativa per mezzo dell’autore. In questa accezione l’artista è colui che eleva la donna, trasfigurandola in figure floreali che emettono spore: la camelia. Il fiore che rappresenta l’unione perfetta, perché integro, non perde petali. Eppure si scrive di una prostituta che rimane perfetta più volte a pagamento.
–
Nel testo però, nonostante le intenzioni dell’autore che propone la millenaria visione della prostituta come il male, emerge quella che la intende come una vittima dei sistemi etici e come una schiava da parte degli uomini.
–
Lo stesso autore inconsciamente, lo avverte e vuole schermarsi, lasciando intendere che questa vittima, è per natura mutevole e bella, ma inevitabilmente infida e vampiresca, perché ha ceduto alla corruzione.
–
L’opera sfugge anche al lettore. In quegli anni (1848) vi fu un’espansione del pubblico ancillare che acquisì una valenza economica autonoma: quello femminile. Lo stesso Dumas figlio nel voler giustificare l’operato e gli errori e le meschinità dei presunti amanti, in realtà clienti che rimangono poi gabbati, valorizza e descrive le capacità intellettuali di questa donna. Marguerite Gautier diventa una figura esemplare, non perché sia una prostituta, ma in quanto agisce in modo senziente e autonomo, mostrando capacità cognitive e strategiche che prescindono dall’antagonista e dall’eroe maschio.
–
Nonostante tutto nelle rappresentazioni teatrali fino ai fotoromanzi vi è il tentativo inconscio di occultare la piena soggettività della protagonista. Nei fatti l’occultamento ottiene l’effetto opposto: Marguerite Gautier è una donna che è pari all’uomo in tutto, anche in ambito estetico letterario. Gli stili e le poetiche vorrebbero glorificare la vittima nella sublimazione dell’amore e dell’eroismo, attraverso l’acefala passione del sacrificio religioso, per fruire della “donna” come una figura letteraria menomata e pericolosa, perché si discosta dai valori e dalle visioni maschili.
–
La prostituta che è disprezzata dal senso estetico maschile, per contrappasso determina il successo dell’opera, perché contravviene agli intenti dell’autore, trasformandosi in un soggetto dotato di virtù e di capacità commendevoli.
–
Lo stile di Dumas figlio, come quello paterno risente della necessità di scrivere un romanzo a puntate che è letto nei quotidiani settimanali e mensili. Lo stile è veloce e immediato, inframmezzato da analisi psicologiche che in realtà sono giudizi morali da parte dell’autore, mascherati però dalle descrizioni di eventi e dalle impressioni sui luoghi, sui colori e sulle sensazioni.
–
Come può una camelia che è detto il fiore perfetto, associarsi al mutamento che è una caratteristica di questa donna? Come può il cliente, presunto amante, donatore di oggetti e non di stesso, giustificare la veridicità dei suoi intenti, se invece agisce in contrasto con quello che proclama? È un libro contraddittorio che percorre vie divergenti da quelle predisposte dall’autore.
–
La futilità della trama ridotta in pillole e rimasticata in tanti racconti fino ad oggi, è il luogo di partenza di uno dei tanti processi di riconfigurazione di un nuovo e radicale senso della femminilità che è in cammino ancora oggi.
Il giuoco delle perle di vetro di Hermann Hesse, 1990 (Prima pubblicazione: 1943), Mondadori, Segrate, Collana: I Meridiani, Traduttore: Ervino Pocar
“Il giuoco delle perle di vetro” è una sinestesia tra le scienze e le arti, da una frase di Confucio, si passa ad una fuga, che si tramuta, bicefala, in un dipinto e in una poesia.
Il protagonista, Knecht, all’inizio del suo interrogarsi su sé e sul mondo, compie l’errore di voler saggiare il METODO ESATTO di questa sinestesia universale che è il giuoco delle perle di vetro. Intende manifestare la struttura, lui, singolo dell’universale che è il tutto, compiendo una grave contraddizione.
Castalia e il giuoco delle perle di vetro. L’apparente inutilità che ricerca, nel gesto estetico, di collocarsi entro la propria limitatezza, nella cognizione che tale semplicità non possa escludere la grande manifestazione del sensibile e del corpo. Vi è una ripresa poetica della dualità tra le idee e il mondo neoplatonico, stilizzato dai tedeschi del 1700-800.
Castalia un ritorno all’adolescenza. Alle promesse inevase.
–
Questo romanzo non è un compimento di un’opera e del lavoro correlato. È una individuazione provvisoria del percorso di crescita che Hermann Hesse tentò di praticare nel corso del suo vivere intellettuale e artistico.
–
L’arte è anche pedagogia. Lo scrittore nel parlare del mondo, del vivere e del bello, quindi delle arti, può dichiarare la sua funzione nell’accompagnare il cammino del pubblico verso il godimento e la riflessione estetica, la quale, se veramente vissuta, comporterebbe una migliore consapevolezza etica di sé nel mondo.
–
Non è un caso che nei romanzi giovanili, oltre a narrare dei turbamenti della nuova soggettività del secolo 900 che comparve con sua dignità autonoma, l’adolescenza dispiega le sue ricerche nelle arti come la pittura e la musica. La crescita dell’artista non è solo quella eroica e magica dell’illuminato, ma anche di quella dell’infante che si fa adulto. Il buon cammino estetico è parte necessaria e integrante dello sviluppo del giovane e dei popoli. La pedagogia è impossibile che non sia dotata dell’educazione e della pratica nel gusto e nella produzione artistica.
–
La maggiore consapevolezza nel conoscere i turbamenti derivati dalla propria limitatezza rispetto al sapere, al destino e al vivere e al morire, è concomitante all’incapacità di sottrarsi a tale giogo, perché è il nucleo del senso di sé. E del tempo in cui si vive.
–
Il romanzo di formazione dell’ottocento, nell’opera di Hesse si trasforma nella stenografia del vivere di ogni essere vivente. L’adulto è il risultato momentaneo e in divenire di questo libro che giunge a gradi infinitamente estesi nell’esprimere l’arte, il gioco e il pensiero. Tale cammino, pone se stessi come il problema da distendere nel tempo nel comunicare ciò che è oltre sé.
–
E proprio perché Hermann Hesse visse prima, tra e dopo le due guerre mondiali, tentò di reagire a suo modo, contribuendo tenacemente, nonostante le depressioni, le limitazioni fisiche e l’inesorabile vecchiezza, ad esprimere una assonanza tra il giovane che rimane nel buio e non vuole riconoscere la menzogna che, tuttavia, preavverte, e gli stati e i capi che, nel percorrere esclusivamente un cammino teso ad acquisire sempre più potenza, entrambe le parti sembrano non comprendere che in realtà dilaniano se stesse. Tutti rimangono nella piatta visione della sopraffazione, senza fine, senza avanzamento in una stasi di morte, cecità, dolore. Permane l’impossibilità a mantener fede al proprio destino di proseguire un cammino nel mondo e nel tempo, fino al proprio ed inevitabile compimento.
–
L’elemento più dilaniante per Hermann Hesse, fu che le stesse arti erano usate e generate per alimentare pratiche inedite dell’orrore. Il giuoco delle perle di vetro è un percorso di formazione che riprende lo spirito della pedagogia generato dai millenni, tramandato per analogia a partire dalle forme della filosofia greca, abbracciando le filosofie orientali, e innestandole nello spirito scientifico moderno, per creare un orizzonte più ampio rispetto alla visione della guerra contemporanea e quindi a quella artistica ad essa correlata.
–
Il giuoco delle perle di vetro non è descritto in modo preciso, e non può che essere così, perché il titolo già racchiude gli indizi. È un libro aperto di formazione dei protagonisti, del lettore e della loro trasfigurazione, che, attraverso il rispettivo congedo, lascia nuovi spazi di possibilità di esistenza per gli altri che stanno sopraggiungendo. È un giuoco infinito, senza uno scopo e un premio accertato, perché ha l’orizzonte stesso di senso come regola, e di vetro, perché è consapevole della propria limitatezza e quindi della sua indefinita possibilità di manifestazione, per il singolo lettore, per il giocatore del presente e per tutti quelli che forse verranno. Perché il giuoco è questo mio e tuo vivere.
L’EFFETTO ANOMALIA Traduzioni telematiche a cura di Rosaria Biondi, Nadia Ponti, Giulio Cacciotti, Vincenzo Guagliardo (Casa di Reclusione – Opera) David Brin. L’EFFETTO ANOMALIA. Titolo originale: “The Practice Effect”. Traduzione di Claudia Verpelli. Copyright 1984 David Brin. Copyright 1992 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. URANIA
Brin David è uno scrittore di fantascienza e anche un astronomo. È dotato di una solida conoscenza tecnico-scientifica. Non è un caso che i suoi romanzi, al netto dell’idea di fondo che è fantastica, sono contraddistinti da una narrazione che tiene per conto le logiche e l’impiego coerente e attendibile delle conoscenze scientifiche, adeguate ai supporti tecnologici descritti. È un narratore di mondi immaginari intessuti di eventi coerenti e verosimili.
È considerato un esponente della fantascienza hard (dall’inglese hard science fiction), detta anche fantascienza tecnologica, che enfatizza accuratamente il dettaglio scientifico o tecnico.
L’<Effetto Anomalia> tratta le conseguenze derivate dalla scoperta di poter passare in un mondo ucronico e distopico. L’innesto è lo Zievatron: un macchinario che collega queste fessure iperdimensionali. È l’espediente che permette la genesi della trama. Il tema del “passare oltre” non è nuovo, perché risale già prima dei racconti mitici. I romanzi di fantascienza, infatti, anche quelli meno tecnici e scientifici, narrano le storie mitiche, rivestite con gli abiti del presente, traslando le gesta eroiche e i simboli nel presente.
I protagonisti (lo scienziato cavaliere – la figlia del re buono, il re antagonista cattivo, gli alleati sapienti e quelli ridicoli – l’antagonista del cavaliere scienziato che è suo collega nel mondo “nostro”) seguono tutti i canoni della letteratura tradizionale epica e di avventura, che spazia tra il picaresco, al guascone, fino a proto-stili che oggi vanno di più moda. Mi riferisco alle saghe, che possono essere scorporate in più libri, eventualmente in film, e nei videogiochi. I grandi capolavori di due secoli fa, così lunghi come quelli francesi e inglesi, erano stampati in capitoli in modo seriale e pubblicati nelle riviste periodiche. Una eccellente capacità impreditoriale.
David Brin descrive i problemi sociali ed economici degli anni novanta, durante la correlativa trasformazione tecnologica in atto, riflettendo sui nuovi assetti della società, traslando la riflessione in un pianeta a noi affine, ma con le leggi dell’entropia e della meccanica razionale diverse, rispetto ai vincoli della nostra realtà.
Ed è qui che emerge la maestria di questo scrittore: narra le vicende dei protagonisti in un modo coerente e perfettamente adeguato alle ipotesi di fondo. Il modo di creare qualsiasi manufatto, i criteri di attribuzione di valore e di ricchezza, le strategie di ricerca volte a perseguire nuove scoperte in ordine alla fisica e alla chimica.
Ha una intuizione geniale nel descrivere i tentativi di mantenimento dell’ordine nell’irreversibilità dei processi antropici, e quindi nella degradazione dell’energia e degli ambienti vitali.
Il romanzo offre ulteriori chiavi di lettura circa i modi con i quali noi ci affidiamo, esclusivamente per fede, cieca, e imposta alle leggi e alle consuetudini del nostro vivere, in rapporto ai conflitti politici, sociali, ed economici, a livello individuale e delle comunità.
È un libro che andrebbe riletto due volte: la prima per puro godimento di avventura, la seconda come una occasione per mirarci allo specchio, nella speranza di acquisire il lusso di guardare il nostro vivere in intervalli temporali più estesi rispetto il proprio vivere quotidiano.
Questa ANOMALIA ha tutte le caratteristiche per smuovere ciò che per noi è considerato ovvio. Se la lettura è praticata rigettando la pigra accettazione di ciò che è il nostro eterno presente, allora potrebbe offrire nuovi occhiali per ridefinire le domande su noi stessi.
La trama ha più livelli concomitanti di interpretazione. Lo stile è apparentemente colloquiale, perché è connotato da riferimenti storici reali, in particolare quelli relativi alle scoperte tecniche e ai loro inventori. È un’opera con intenti edificanti.
Postilla: Se si legge il romanzo in lingua originale, vi è la possibilità di apprezzare l’enorme quantità di giochi di parole e modi di dire profondi e coloriti, propri del modo di intercalare nel sud-ovest USA.
2019, Barbara Di fiore Editore (2019), Milano, Prima Edizione 1936
La dura asperità dei monti che si rifrange sui corpi e sui volti, ricorda che la sopravvivenza ha qualche possibilità di riuscita per brevi istanti, se si mangia freddo e letame. Queste donne sono incatenate nel giogo della povertà, giù nel fondo della fame e della miseria, nel disprezzo e nella sventura. Eppure dalla melma nera riescono a generare stille di vita.
La vita del Friuli e del Veneto. Il libro urla la miseria dei senza diritti tra langhe, pioggia, fango, risaie, grano, vitigni e nel gelo dei monti. Ognuno è alla mercede del clima, tra le annate di fame e di abbondanza. Eppure qualche radura di solidarietà fiorisce.
Nei ciclici anni della carestia gli uomini emigrano. Rimangono le donne a lavorare e a reggere i piccoli e le piccole.
Mariutine la grande bambina che deve pensare a tutto. La bimba quasi adolescente dalle mille qualità, consapevole dei suoi limiti che tenta di superare, perché nell’umiltà estrae una irresistibile volontà di miglioramento.
Lo stile è scarno, diretto e carnale. Il lettore avverte le sensazioni fisiche dei protagonisti nel vento freddo e secco, che scolpisce la fatica. Le malattie sono la carta d’identità delle proprie storie: dalle rughe ai corpi deformati.
Vi sono i poveri e quelli ancora più in basso. Mariutine e Rosute stanno lì, nel fondo. Assieme alla madre quasi cadavere che cerca di proteggerle camminando nei paesi e nel fango, per vendere piccoli strumenti di casa, da loro stesse fabbricati.
Mariutine sa di essere ignorante e analfabeta su gran parte del mondo: conosce la montagna e il gelo. Nonostante tutto coltiva qualche abilità come il canto che allieta i clienti e i villici durante il loro vagare alla ricerca di soldi per le provviste da accumulare nell’isolamento invernale, lassù nella fragile modesta baita.
È una storia dura e tragica, purtroppo normale, narrata con una precisione chirurgica secondo una scansione di cronaca di giornale. “Povera e donna”: il luogo dove ogni miserabile trova il fondo per lui inarrivabile. E se questa donna è anche una bambina quasi dodicenne, ogni rapporto con chiunque è un pericolo.
Eppure Le due bimbe sono forti e tentano di sopravvivere dentro l’inferno del loro vivere.
La consapevolezza dell’inganno e delle violenze subite che stanno portando le due bimbe all’annichilimento, però, non riesce a inibire la volontà di sopravvivere, accompagnata dalla generosità estrema di Mariutine che vuole proteggere la sorellina più piccola, oltre sé stessa.
Ella rimane umana compiendo gli atti più tragici, anche non avendo le parole per dirlo: vivere e donare speranza di vita.
La trama non andrebbe letta: è un libro che va vissuto. Dalla funzione di scandalo e di denuncia del periodo in cui pubblicato, il romanzo oggi ha la funzione di tener presente che tutto ciò vi è ancora, ma con vestiti più alla moda: l’inferno freddo è ancora qui.
Il romanzo si compone di tre parti che poggiano su due piani temporali. Sebbene non vi siano molti dialoghi, i racconti interiori che snodano gli eventi tra il passato e il presente, hanno uno stile fluido che riesce a rendere dinamico il ritmo.
Le protagoniste sono due donne: Eliane che subisce l’occupazione tedesca in Francia durante la seconda guerra mondiale e Abi, in fuga da Londra, che ripercorre quei luoghi tragici e riceve simbolicamente il messaggio di speranza nel 2017.
Sono due donne ferite nel cuore e Abi ancor di più a causa di suo marito violento e aguzzino. Consumate dalla debolezza e dalla paura per sé e per gli altri, intorno all’assenza di futuro, nel buio della disperazione, vedono dentro se stesse la piccola fiammella che le fa resistere.
Il romanzo è costruito come uno scrigno, rappresentato da un castello della campagna francese.
Nel 1940, sotto i tedeschi, Eliane e la comunità tentavano di sopravvivere e contrastare la guerra. Lei era la custode delle api, coloro che insieme, seguendo il Sole, trasformano la terra in miele e aromi.
Abi è sola con il ricordo della madre alcoolista di cui si era presa cura fin da bambina. Soffre d’ansia e d’insonnia e convive con la sua incapacità cronica a mandare avanti la propria vita. Eliane, con la sua bontà e dolcezza, sa che in guerra può succedere di perdere tutto, ma non i profumi e le speranze, custodite come una piccola arnia.
Eliane e i suoi cari, furono costretti a confrontarsi con la fuga e la resistenza, senza mai perdere la solidarietà. Abi combatteva per rompere le catene del passato.
“Io la conosco bene l’inerzia che si genera quando si vive in una perenne condizione di paura. È qualcosa che ti toglie le forze e risucchia ogni energia, finché non sei in trappola come una mosca nella tela del ragno. A quel punto più provi a ribellarti, più quei fili di seta ti si stringono addosso, e la fuga diventa impossibile.”
Il ritmo delle stagioni e lo scorrere impetuoso del fiume vicino al castello contrassegnano gli stati d’animo di ogni personaggio.
Due capitoli, due cuori, due donne. La Francia che collabora e la Francia che si ribella. Una donna che si innamora ed è malmenata dal suo presunto amato. Nell’amore che dona e seduce per annichilire, è quello cui si deve fuggire. Due donne che si raccontano in contrappunto tra la Francia e il battito di un cuore, tra i profumi che si schiudono e involano.
Il contrappunto di una grande madre nella veste della Francia aggredita dai nazisti e in quella di una donna dilaniata dal suo carceriere.
Il romanzo descrive la danza di due storie di resistenza impervie, dure, tra i ricatti, le sconfitte e le risalite.
259-260 Da dove veniva l’ondata di energia che mi attraversò il corpo? Ora so che il terrore e il dolore dovettero riversarmi nelle vene un fiotto di adrenalina, e che in realtà agii di riflesso. Ma credo che ci fosse anche altro. La rabbia per tutto ciò che mi aveva fatto, e la scintilla del Sé, a un tratto riaccesa; la resilienza dello spirito umano. Fu un atto di Resistenza. Poiché aveva schiacciato l’acceleratore a tavoletta, la cintura di sicurezza non mi impedì di girarmi e usare il braccio sinistro, ancora sano. Afferrai il volante e lo costrinsi a girare, mi opposi alla sua forza, ora che avevo finalmente trovato il mio vero potere. Sentii l’auto che si sollevava sull’erba, sfiorando il tronco grigio dell’albero di qualche millimetro appena, e poi si staccava da terra, un arco quasi aggraziato di metallo che volava in aria verso un camion in arrivo. Pronta all’impatto, sentii il ginocchio che si torceva con un dolore atroce che avvolse tutto in una sorta di foschia rossa e mi fece ribaltare lo stomaco. E poi non provai più nulla. Solo una calma strana e ultraterrena mentre l’auto implodeva intorno a noi due.
305 E poi, dopo un istante, alzo la testa e mi guardo intorno. Ripenso al giorno in cui sono arrivata qui. E mi rendo conto che non mi sono mai persa.
Giorgia Surina. In due sarà più facile restare svegli. Giunti Editore, Firenze, 2022
Le due amiche si recano all’ospedale per sottoporsi ad una procreazione medicalmente assistita. Non sono sposate. Non si conosce il donatore. Trattate come numeri. Quasi nude se non per i camici da salumeria con il laccetto, inquadrate. Senza privacy. Sgridate per non aver eseguito correttamente il protocollo. Senza un aiuto emotivo non tanto per la speranza, quanto per quel momento irripetibile per la donna, perché non si tratta di una semplice ingestione di una medicina. Tutto è messo alla prova. Tutto loro stesse. Da sole, se non nella loro alleanza.
–
E anche se ci fosse un uomo, sarebbero ugualmente sole per quanto riguarda la ricerca di una piena comprensione: un uomo non potrà mai accedere al terremoto devastante per ogni fibra della pelle, del cervello e del corpo che ha ogni secondo, quella donna che vorrebbe generare vita. Il dolore e la stanchezza comuni causate dal tentare più volte il trattamento dopo settimane di medicine di preparazione, di eventuali diete, di lastre, di controlli per la fertilità, saranno sempre quelle di lui e non di lei. È possibile anche la presenza di un rancore nascosto, nel non riuscire a divenire un padre. E se Lui è fertile, vi sarà sempre un angolo di frustrazione contro di Lei. Perché per lui di base una prestazione, che scaturisce nella socialità di un’esibizione, mentre per lei, probabile madre, è una totale Apocalisse.
–
Tutto ciò potrebbe accadere anche prima, per il rifiuto di lui ad accogliere l’evento atteso. L’imbarazzo e l’umiliazione per esser trattate entrambe come un pacco di magazzino sono infinitamente più lancinanti, perché vogliono concepire da sole, senza un compagno e vivere sostenendosi sempre come due amiche. Dopo esperienze sentimentali fallite, cercano la sorellanza nel divenire madri, nonostante lo sguardo perplesso della comunità, per la loro scelta poco ortodossa. Nude e alla merce del sistema sanitario e delle leggi.
–
Lo stile del romanzo è colloquiale, quasi diaristico. Parlato in prima persona, con locuzione gergali che accentuano alcune debolezze di stesura sintattica. Ribadiscono a se stesse la loro scelta, e quindi vi è una sovrabbondanza di un colloquio interiore con ridondanze di pronomi relativi e dei verbi declinati al futuro. La ripresa dei temi, spesso, è appesantita dalla ipertrofia d’uso di tempi imperfetti, poi schiacciati nel participio passato. Si avverte che l’autrice del romanzo è una nota e capace conduttrice radiofonica: sa veicolare le informazioni con una scrittura tesa a catturare l’attenzione di un ipotetico pubblico all’ascolto.
–
Bea e Gaia, le due protagoniste, attraverso i dubbi, tentano di sviluppare una morale coerente che sostenga la loro scelta. Si confidano con le madri, non lo dicono subito ai fratelli ai padri: la decisione e l’eventuale dolore della sconfitta implica la decisione di vivere il momento topico in modo intimo.
–
Riflettendo a proposito del suo ultimo mancato amore, Bea propone a Gaia di procreare comunque senza bisogno di un compagno: “Non si ha bisogno di un amore per vivere!”
Per divenire compiutamente se stesse, senza l’approvazione di alcunché.
–
Il romanzo, come una gestante, concepisce una biografia duale, che vorrebbe esser tipica di un modo di vivere la maternità. La scrittrice stessa si fa madre, attestando un percorso di vita che anticipa nuove possibilità dell’esistenza. Giorgia Surina negli specchi di se stessa, moltiplica l’atto di generazione per qualsiasi altra lettrice.
–
I capitoli si svolgono alternati tra le due protagoniste, in un contrappunto di un battito del cuore, come quello di una vita che nasce.
Artemis. La prima città sulla luna, 2017, di Andy Weir, Newton Compton Editori, Titolo originale Artemis, 2017 di Andy Weir, Crown Publishing Group, a division of Penguin Random House, LLC. Traduzione dall’inglese di Marta Lanfranco.
Le questioni relative al Diritto e alle interazioni sociali riguardano anche la convivenza in piccole comunità umane fuori del pianeta Terra. Già oggi esiste un diritto astro spaziale, e anche di proprietà, simile al diritto navale e internazionale. Gli organismi nazionali e internazionali, veramente e non nei libri di fantascienza, da decenni stanno stabilendo protocolli, intese, linee guida per stipulare codici e leggi adeguate, riferite ad agglomerati stabili in ambienti ostili, dove l’ossigeno è una risorsa scarsa, così come il cibo e il territorio. Il calore è un lusso, così anche un posto per dormire.
–
Esiste la possibilità che per gli sconvolgimenti ambientali e per la lotta di nuove risorse si avranno nuovi tipi di interazioni sociali insospettate che mutueranno nuove definizioni di “crimine”. Pensiamo solo al 2021 in riferimento alla nuova lotta geopolitica per l’appropriazione delle risorse energetiche e delle terre rare, che può causare disallineamenti tra l’offerta e la domanda, quindi l’inflazione, la recessione. La guerra. La fame.
–
Quando anche lo spazio è considerato integralmente un bene, i luoghi in cui si cammina (e si respira) divengono un oggetto di contesa. Già oggi emergono nuove domande circa la definizione di nuovi soggetti giuridici. Questo romanzo di fantascienza, seppure nella sua trama avvincente e di fantasia, indirettamente, e forse al di là delle intuizioni dell’autore, mostra che:
–
NON SAREMO NOI A CREARE LE CITTA’ LUNARI, MA è LA LUNA CHE VERRA’ DA NOI QUI SULLA TERRA. ED è già così NELLA CONTESA DELLO SPAZIO PER LE ROTTE DEI SATELLITI, per controllare il traffico dei dati, ovvero della ricchezza, della vita stessa, del controllo meteorologico, e di una nuova definizione della guerra e degli assetti (astro)geopolitici.
–
In Artemis sono riprodotte le differenze di ceto e di classe. Nella cupola “Armstrong” lavorano gli operai, i saldatori, gli inservienti. Nella cupola “Aldrin” vi sono i turisti con gli hotel e i mega negozi di lussocostosi. Nella Conrad, il tugurio, dormono gli operai e i poveri.
–
“[…] Facciamo del nostro meglio per evitare che la polvere lunare entri in città. Non ho saltato la decontaminazione nemmeno quando stavo per morire per la valvola rotta. Come mai tanta fatica? Perché la polvere lunare, se respirata, è estremamente nociva. È composta da minuscole particelle di roccia, che non sono mai state erose dalle intemperie, perché sulla Luna non esistono mutamenti climatici. Ogni pagliuzza è pronta a lacerare i polmoni come se fosse filo spinato. Credetemi, è meglio fumarsi un pacchetto di sigarette all’amianto che respirare quella roba. […]”
–
Nella Cupola Shepard vivono i ricchi con un arredamento Extralusso pieno di lampadari di vetro con legno. Il vetro costa poco ed è lavorato dai soffiatori di vetro, dato che la Luna è piena di Silicio.
–
L’aria della Terra è composta per il 20% di ossigeno. Per il resto è costituita da gas di cui i corpi umani non ne hanno bisogno, tipo l’azoto e l’argon. Invece l’aria di Artemis è ossigeno puro a bassa pressione (il 20% di quella terrestre), affinché gli organi interni del corpo umano non ne siano danneggiati. Non è una trovata recente, risale ai tempi delle spedizioni Apollo. Il problema è che, per via della bassa pressione, l’acqua ha un punto di ebollizione più basso. In pratica bolle a 61° Celsius, che è la temperatura massima che possono raggiungere un tè o un caffè.
–
Il discorso indiretto libero non è scritto in prima persona dall’autore, perché sono gli stessi protagonisti che spiegano l’ambiente rivolgendosi al lettore. Quando rimuginano su di sé, richiamano eventi del passato per svelare la propria personalità o quella degli interlocutori, mostrando la città e i suoi problemi di vivibilità, all’interno di una penuria dei materiali, stando permanentemente in condizioni diverse di gravità
–
I cibi sono freddi. I liquidi come il caffè non arrivano all’ebollizione: sono imbevibili per i terrestri. Si mangiano alghe: almeno i poveri e gli operai. Il contrabbando è la sopravvivenza e il motivo di rimanere lì, oltre al turismo. L’ossigeno è la materia più preziosa, e il nemico più infido, perché è un comburrente.
–
Chi parla in prima persona e dirige gli eventi è Jazz, la protagonista proveniente dall’Arabia Saudita, dall’età di sei anni. I bambini non possono essere partoririti sulla Luna, a meno di deformazioni e rischi di sopravvivenza. Si diventa madri sulla Terra.
–
La città di Artemis è retta dallo stato del Kenya. L’ora della Luna è sintonizzata all’ora terrestre di Nairobi (Kenia). La reggente è Fidelis Ngugi: la ex ministra delle Finanze in Kenya. Il Kenya offriva l’equatore. I razzi che partono da lì, costano di meno per la rotazione della Terra e perché secondo Ngugi, il Kenya era un paradiso fiscale. Gli altri paesi esigono tasse onerose alle agenzie spaziali. Il Kenya no.
–
La proposta: “<<Jazz, sono un uomo d’affari>>, disse. <<Il mio lavoro è valorizzare le risorse sottovalutate e tu decisamente lo sei>>.
–
Il concetto di spazio è relativo: un garage è considerato quasi una piazza di una città.
–
Jazz parla indietro nel tempo con Kelvin., il suo amico epistolare in Kenya e da qui si snoda una storia parallele con le vicende lunari. La narrazione bipartita in due serie temporali dove quella epistolare è antecedente, permette il climax, nel punto di incontro logico delle azioni.
–
Andy Weir scrive con un linguaggio molto meno diretto e volgare, rispetto all’altro suo famoso romanzo su Marte (Martians). Quest’ultimo aveva uno stile corredato di termini meccanici, astrofisici, Artemis invece è impregnato di chimica, fisica e metallurgia (è l’apoteosi dei saldatori).
–
L’autore è meticoloso nel rendere la trama verosimile. I protagonisti, infatti agiscono sfruttando le conoscenze fisiche e chimiche degli ambienti non terrestri.
–
Loretta è una antagonista donna e qui si vede che la moralità di tutti è sfumata.
–
4614-4619 «Non è solo colpa tua. Ci sono state molte mancanze ingegneristiche. Per esempio, perché i sensori nelle tubature dell’aria non sono stati tarati anche per individuare le tossine complesse? Perché la Sanchez teneva metano, ossigeno e cloro vicino a un forno incandescente? Perché nel Centro di Supporto non hanno dei serbatoi d’aria separati in modo che, in caso di problemi nel resto della città, possano rimanere svegli a risolverli? Perché il Centro di Supporto è centralizzato invece di avere una succursale in ciascuna bolla? Sono queste le domande che le persone si stanno ponendo».
–
4760-4767 «Ma lo fanno già sotto forma di affitto alla ksc. Introdurrò un modello basato sulla proprietà privata e le tasse, così il benessere della città sarà strettamente legato all’economia, ma non da subito». Si tolse gli occhiali. «Fa parte del ciclo vitale dell’economia. Prima viene il capitalismo senza regole, finché non blocca la crescita. A questo punto subentrano le leggi, la loro applicazione e le tasse. In seguito, benefici pubblici e diritti. Infine, eccessiva espansione e collasso». «Un momento. Collasso?» «Sì, collasso. L’economia è un essere vivente. Nasce piena di vitalità e muore rigida e spolpata. A quel punto, le persone formano dei gruppi economici più piccoli e il ciclo ricomincia daccapo, ma con più sistemi economici, con delle economie neonate come quella di Artemis». «Mmm…», mormorai. «Insomma, per far figli devi farti fottere». Scoppiò a ridere. «Tu e io c’intendiamo alla perfezione, Jasmine».
–
E da qui consiglio la lettura del libro, senza anticipare gli avvenimenti, perché il ritmo è avvincente con molti colpi di scena.
Una nota finale, Andy Weir alla fine del romanzo nella parte relativa ai ringraziamenti cita coloro che lo hanno aiutato a realizzare l’opera. Sono quasi tutte donne che lo hanno supportato per migliorare la scrittura, per conoscere l’Islam, e per scrivere fingendo di stare dentro un punto di vista femminile.
–
4820-4829 Persone che vorrei ringraziare: David Fugate, il mio agente, senza il quale starei ancora scrivendo sui blog di notte e nei fine settimana. Julian Pavia, il mio editor, per essere un rompiballe quando ce n’è bisogno. L’intera squadra della Crown e della Random House per il loro lavoro e supporto. Siete troppo numerosi e qui non posso citarvi individualmente, ma, per favore, sappiate che sono incredibilmente grato di avere così tante persone intelligenti che credono nel mio lavoro, tanto da diffonderlo nel mondo. Un ringraziamento speciale va al mio agente pubblicitario di lunga data Sarah Breivogel, i cui sforzi sono stati essenziali nel farmi rimanere lucido negli ultimi anni. Per i loro intelligenti commenti in varie aree, ma soprattutto per avermi aiutato a superare la sfida di scrivere “al femminile”: Molly Stern (editor), Angeline Rodriguez (l’assistente di Julian), Gillian Green (la mia editor inglese), Ashley (la mia compagna), Mahvash Siddiqui (un’amica, che mi ha dato una mano a rendere accurata l’immagine dell’Islam), e Janet Tuer (mia madre).
I Viceré / Federico De Roberto ; a cura di Sergio Campailla. – Ed. integrale. – Roma : Biblioteca economica Newton, 1995.
Tanto è stato scritto su questo capolavoro postumo del 1894 di Federico De Roberto che, per paradosso, ebbe una vita simile ad alcuni protagonisti del libro. In particolare per i suoi tristi e ultimi anni. È un romanzo che è parallelo alla letteratura siciliana del periodo, a partire da Giovanni Verga. Il ”verismo” e la “roba”. Riprende i temi della “Commedia Umana” di Honoré De Balzac, per la profonda analisi dei tratti caratteriali, qui però più complessi nella loro espressione verbale ed emotiva.
–
Ha una caratterizzazione fisica dei personaggi che è pari a quella di Alexander Dumas, ma molto più introspettiva, nonostante sia immediatamente posta innanzi al lettore, fornendo la sensazione di assistere ad una scena teatrale.
–
Le vicende storiche sono realmente accadute nel periodo che va dal 1848 fino al 1882, lì, in Sicilia, attorno alle vicende dei Viceré, ovvero gli antichi e blasonati nobili Uzeda.
–
I patimenti religiosi ed eroici sono svelato nei loro tratti più profondi: avidità, invidia, odio, ipocrisia. Tutto deve convergere per l’accrescimento e della potenza e dalla ricchezza.
–
Lo stile è avvincente, perché gli eventi si susseguono ad un ritmo sostenuto. Le relazioni tra i parenti scandiscono il tempo. Gli stati d’animo sono descritti sempre al limite, nel loro vorticare in dialoghi duri e serrati. I conflitti parentali richiamano le effettive lotte di potere che percorrevano l’Italia in fase di unificazione, e in particolare in Sicilia, tra la borghesia nascente e la nobiltà.
–
Nessuno si salva, neanche i poveri e gli ignoranti. Ognuno cerca di esibire una parte falsa di sé che è, per paradosso, quella normale, visibile al pubblico e in piazza. Non è la menzogna ad essere il falso collante della società, anzi questa è intessuta di una arcigna mancanza di compassione.
–
E se si parla degli Uzeda, lo stile non può che essere teatrale, d’una barocca esposizione del potere nella sua continua riconfigurazione, anche mentre si assiste al funerale della principessa Teresa, la madre e sorella dei protagonisti.
–
Pag. 14 “[…] Ma la chiesa era talmente gremita che potevano appena fare due passi ogni quarto d’ora; e tutt’intorno la gente che non riusciva ad andare né avanti né indietro né a veder altro fuorché la cima della piramide, ingannava l’impazienza dell’attesa chiacchierando, dicendo vita, morte e miracoli della principessa: «Adesso i suoi figli potranno respirare! Li ha tenuti in un pugno di ferro…» «I suoi figli: quali?…» «Costrinse don Lodovico, il secondogenito, a farsi monaco mentre gli toccava il titolo di duca; la primogenita fu chiusa alla badìa!… Se campava ancora ci avrebbe messo anche l’altra!… Maritò Chiara perché questa non voleva maritarsi!… Tutto per amor d’un solo, del contino Raimondo…» «Ma il padre?…» «Il padre, ai suoi tempi, non contava più del due di briscola; la principessa teneva in un pugno lui e il suocero!…»
Però tutti riconoscevano che, se non fosse stata lei, a quell’ora non avrebbero avuto più niente. Ignorante, sì; ma accorta, calcolatrice!
«È vero che non sapeva leggere né scrivere?»
«Sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni e in quello dei conti!» […]”
–
L’introspezione psicologica di alto livello mostra che l’odio e la rabbia sono gli strumenti per accedere al potere.
–
L’autore spiega i recessi emotivi dei protagonisti attraverso l’analisi delle loro scelte di vita, o costrizioni, lasciandoli parlare con un linguaggio interiore indiretto, inframmezzato da domande rivolte a se stessi. Attraverso l’analisi emotiva di questa introspezione recitata, l’autore vestendosi dei panni dei protagonisti, rende viva la loro tensione emotiva, e crea le condizioni di sviluppo degli eventi futuri.
–
Pag. 143 “[…] Don Blasco, da canto suo, non aveva messo piede neppure una sola volta dagli sposi; e Lucrezia, dichiarandosene contenta, diceva anche tutte le pazzie e le porcherie del monaco. Ella l’aveva anche con la sorella Chiara, senza che questa le avesse fatto nulla, e la derideva per l’eterna gravidanza che non veniva a fine, quantunque giunta al decimo mese. Se la prendeva insomma con tutti, e alla contessa Matilde che la veniva a trovare come prima:
«Dillo tu,» diceva, «che razza di gente! Quante te n’han fatto vedere, ah? Quel birbante di tuo marito? Tutti quegli altri che gli hanno tenuto il sacco, quando egli andava dietro a quella?…»
Impallidendo, poi arrossendo a quei discorsi, Matilde tentava nondimeno di metter buone parole; ma l’altra rincarava:
«E li difendi, anche? Lasciali andare!… Tutti di una pasta!… Chi sa quante ne vedrai ancora, povera disgraziata!… Per me, ringrazio Dio d’essere uscita da quella galera!… Credono che io mi debba rinchinare?… M’importa assai di loro e delle loro visite!…» […]”.
–
176-177 “[…] E più porco io che gli tenni mano!… Mi manda via perché non ha più da spogliare nessuno?…»
Con le mani in capo, Baldassarre scongiurava: «Don Marco!… Signor Marco!… per carità!… possono udirvi!…» ma l’altro, fuori della grazia di Dio, tremando dall’ira, buttava fuori quel che aveva in corpo contro il padrone e tutta la sua razza:
«Dieci anni! Dieci anni di studio per rubare i suoi parenti! quegli altri pazzi e furbi, scemi e birbanti!… E non mangiava, non beveva, non dormiva, studiando il modo di accalappiarli, facendo il moralista, fingendo l’affezione, il rispetto alle volontà di sua madre; pezzo di Gesuita più di quell’altro Sant’Ignazio del Priore, pezzo di porco più di quell’altro maiale di don Blasco! Ah, crede che la gente non sappia quant’è porco, con la ganza in casa, adesso che non ha più nessuno da rubare, con la ganza sotto gli occhi di sua moglie, sotto gli occhi di sua figlia, fino all’altr’ieri?…»
–
E questo è solo l’inizio in un crescendo di vicende, di complotti e di progetti a lungo termine sempre più vorticosi, fino alle ultime pagine (che non svelo per non rovinare la lettura), in cui si mostrano processi di lungo periodo più che mai attuali nell’Italia di oggi. E, infine, nelle pagine finali, nel culmine di un crescendo quasi lirico che parte dall’inizio del romanzo, Federico De Roberto getta in faccia al lettore una terribile analisi di tutti e di tutto, lì e qui, tra la Sicilia e l’Italia.
–
È un libro denso, pieno di dialoghi scritti in un italiano che varia dal linguaggio formale, a quello colloquiale, con l’importazione di termini stranieri, eppure leggero, perché il lettore si immedesima nella carne viva che brucia gli occhi e taglia le mani che sfogliano le pagine.
È un romanzo avvincente dei primi anni del 1900. Ha un approccio simile a quello di Alexander Dumas per i romanzi come “Il Conte di Montecristo” e la “Sanfelice”. Attinge agli eventi storici realmente accaduti con alcuni personaggi veramente esistiti e in luoghi urbani e naturali ancora esistenti. Ha le caratteristiche di una saga, pubblicata a puntate nei periodici dell’epoca, nella quale diversi stili di scrittura convivono con una prosa scorrevole. Vi è una sintassi fluida con un’ottima caratterizzazione dei personaggi ed un’eccellente descrizione emotiva. I personaggi hanno un retro pensiero accompagnato da una doppia comunicazione verbale e fisica, quindi manifesta, e un’altra interrogante di sé e degli altri. I moti degli animi attraggono il lettore, come il vortice dell’angoscia nei tribunali segreti degli incappucciati. Non è un caso che Luigi Natoli fu veramente un massone.
–
È ambientato a Palermo tra il 1688 e il 1721.
–
Nello scorrere degli eventi che consiglio di leggere per mantenere la tensione emotiva, i protagonisti si confrontano con i propri errori, anche nel subire o nel togliere l’ingiustizia agli altri. Il romanzo è un’esposizione monumentale del conflitto che scaturisce tra la pretesa e l’esercizio della giustizia.
–
“[…] I Beati Paoli apparivano ed erano di fatto come una forza di reazione, moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: erano uno Stato dentro lo Stato, formidabile perché occulto, terribile perché giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecutori di giustizia. Essi parevano appartenere al mito più che alla realtà. Erano dappertutto, udivano tutto, sapevano tutto, e nessuno sapeva dove fossero, dove s’adunassero. L’esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di lettere, che capitavano misteriosamente. L’uomo al quale giungevano, sapeva di avere sospesa sul capo una condanna di morte. Come eran sorti?… Donde? Mistero. Avevano avuto degli antenati: quei terribili “vendicosi”, che ai tempi di Arrigo vi e di Federico ii erano diffusi per il regno e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro compito quello di vendicare le violenze patite dai deboli. […]”
–
La descrizione delle piazze, dei palazzi, degli interni ha una poetica barocca strabordante e meravigliosa. Luigi Natoli è a un tempo un fotografo e un esteta.
–
285 Non aveva alcuna meta prefissa: pure andava innanzi e oltrepassato il ponte dell’Ammiraglio, s’avviava verso i villaggi. Egli era così immerso nelle sue idee, che non s’accorgeva del cammino. Erano gli ultimi di marzo; un pomeriggio tiepido e roseo, come ce n’è soltanto in Sicilia, e tutte le campagne verdi e i mandorli bianchi; nell’aria un odore di cose ignote che infondeva nel sangue una mollezza, una specie di lassitudine piena di desideri, una malinconia dolce e sognatrice. Le anime che vivono nella solitudine sentono in queste giornate primaverili l’orrore del vuoto che le circonda, e sentono nel cuore una felicità a ricevere le impressioni e a schiudersi alla commozione e alla tenerezza.
–
I Beati Paoli traducono l’etica in un ordine giuridico parallelo.
–
pp. 313-14 […] «Non li affronterete… » . «Perché? » «Ve lo impediranno » . «Mi assassineranno? » «Vi puniranno… » . «È la stessa cosa » . «No; il boia punisce e non assassina… Essi sono esecutori di giustizia » . […]
–
La giustizia dei Beati Paoli è redistributiva in un modo proporzionale. Tu fai il male e ricevi il pegno.
–
Pag. 514 “[…] « Ah no!», interruppe vivamente il capo dei Beati Paoli; «vacilla soltanto la fede nella caporali; non paghiamo giudici; non cerchiamo nei codici gli arzigogoli per contestare l’ingiustizia. Apriamo l’orecchio e il cuore alle voci dei deboli, di coloro che non hanno la forza di rompere quella fitta rete di prepotenza, entro la quale invano si dibattono, di coloro che hanno sete di giustizia e la chiedono invano e soffrono. Chi riconosce la nostra autorità? Nessuno. Chi riconosce in noi il diritto di esercitare giustizia? Nessuno. Ebbene, noi dobbiamo imporre questa autorità
e diritto e non abbiamo che una arma, il terrore, e un mezzo per servircene, il mistero, l’ombra. Non ci nascondiamo per viltà, ma per necessità. L’ombra moltiplica il nostro esercito e desta la fiducia di coloro che invocano la nostra protezione. Chi non oserebbe ricorrere a un magistrato legale per difendere se, la sua casa, l’onore delle sue donne, perché il ricorso lo esporrebbe alle ire, alle rappresaglie, alle vendette del barone o dell’abate, confida volentieri nell’ombra il suo dolore e la violenza patita; un uomo che egli non vede, non conosce, raccoglie il suo lamento. Noi vediamo se egli ha ragione. Un avvertimento misterioso giunge al sopraffattore nel suo palazzo stesso, al magistrato complice nel suo scanno; l’ascoltano? Non cerchiamo di meglio: lo disprezzano e compiono la prepotenza, e continuano l’offesa? Puniamo, e vendichiamo l’offesa. Nessuno vede il braccio punitore, nessuno può dunque sottrarvisi… Questa è la nostra giustizia. Essa non ha punito mai un innocente, ed ha asciugato molte lagrime». […]”.
–
Il testo del romanzo è corredato da un vocabolario alto e pieno di riferimenti di luoghi e mestieri. Traspare una sapiente e superlativa conoscenza della lingua italiana. In più i non detti dei protagonisti mostrano la profonda, antica e complessa cultura siciliana, nelle interiezioni, nelle frasi ammiccate, nelle analogie, nelle metafore. Ogni frase e ogni smorfia ha significati multipli. Dalle movenze e dai toni, alla apparente impassibilità, emerge un mondo di sentimenti e intenti.
–
Pgg.722-23 “[…] «Sangue, sangue!… Le mie mani grondano sangue!… Toglietemi questo sangue; portate via questi morti!… Pietà!… pietà!… Mi opprimono. Mi squarciano il cuore… Ah!… quanto sangue! affogo!… affogo!… affogo!…». La sua voce andò spegnendosi tra i singhiozzi che gli squassavano il petto e nulla era più straziante che vedere quell’uomo lordo di sangue, con le mani distese come per allontanare qualche cosa di terribile, gemendo fra i singhiozzi che gli laceravano il petto, con gli occhi aridi, esterrefatti. Don Francesco gli si avvicinò di nuovo per rifargli la fasciatura, ma don Raimondo stridette e riprese a gridare: «Non mi toccate!… non mi toccate! Tutto sanguina!… Il sangue è dovunque… Un fiume!… E ce ne vuole ancora. Hanno i pugnali e ammazzano… Ammazzano!… Ammazzano!… Dov’è Blasco?… C’è anche lui!… Ecco l’hanno ammazzato!… Sangue!… c’è sangue!… sempre sangue!… sempre sangue!…». […]”.
Le mie sono solo risposte a un tuo continuo richiamo…