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Il signore delle mosche, di William Golding (Autore), Filippo Donini (Traduttore), Mondadori, Milano, 2024 – (Ed. Originale: Lord of the Flies, 1954)
Il signore delle mosche è l’altra faccia del battito del nostro cuore, ovvero la risonanza che non è voluta sentire. Ciò che è di più intimo di noi nella veste dell’animo, o della psiche o del carattere, considerato come il tesoro del fiore più intimo, ha anche il petalo più orrendo e crudele, secondo William Golding.
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In base alle esperienze che visse durante la seconda guerra mondiale e alla sua professione di docente, in particolare rivolta ai bimbi, ebbe quotidiani elementi di riflessione partecipata circa le inclinazioni e i modi spontanei di aggregazione e di determinazione dei ruoli, tra i gruppi informali e le comunità, come quelle scolastiche o più semplicemente tra un gruppo di amici.
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Il romanzo ha per matrice originaria quella di una lezione didascalica di fatti narrati in modo incrementale che offrono una conoscenza progressiva del tema posto. Non è un caso infatti che, nonostante le opere successive, i ruoli di docente universitario, di scrittore e di intellettuale, fu sempre considerato un insegnante. Più volte citò gli aneddoti di come i lettori, scrivendo lettere di plauso e di chiarimento, lo considerassero il maestro che rispiega la lezione per far comprendere appieno elementi non del tutto chiari.
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Certamente l’opera non è solo una esposizione, perché, se così fosse, risulterebbe alquanto piatta e noiosa in conformità alle aspettative rivolte alla fruizione estetica della lettura di un romanzo. Vi sono gli elementi salienti che pongono tensioni estreme, oscillando tra la sopravvivenza, il gesto eroico e generoso, in contrappunto alla sopraffazione, alle lotte per il potere, alla razzia, e alla violenza più cruda.
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La descrizione quasi anatomica dei caratteri fisici e morali è sapientemente connessa al ritmo della narrazione e alla dinamica avvincente degli eventi. Vi è una scrittura giornalistica che muta in una scansione telegrafica degli elementi di conflitto, affinché il lettore senta dentro di sé la tensione della fatica, e il peso del dolore.
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Nei momenti di relativa calma, l’apparente stasi, invece, è avvolta dall’angoscia più cupa che si trasforma nel timore, quando i pericoli evocati, compaiono nella loro intera crudezza.
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Ebbe un enorme successo questa prima opera, sia per lo stile amichevole e confidenziale per il lettore degli anni cinquanta che si formava nei pocket tascabili sia per la complessità delle stratificazioni di pathos crescenti, determinando una tensione da evento sportivo.
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I soggetti sono i bambini, che, dispersi su un’isola cercano di sopravvivere, tentando nel contempo di farsi avvistare da qualche aereo o nave. Dopo l’inizio quasi idilliaco di un paradiso che sembra tutto offrire in un clima confortevole, la consapevolezza della limitazione delle risorse e delle preoccupazioni per il futuro, facilita l’emersione di loro inclinazioni tese a compiere atti sempre più tragici e crudeli.
William Golding ha una visione pessimistica dell’animo umano. Volutamente e con metodo non ha voluto porre un piano di una differenza di religioni, o di visioni ideologico-politiche, o di individui fuori della norma, devianti massimi per una sorta di malattia mentale, o di perversione morale.
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Non ha voluto neanche porre l’aggregato, la comunità, la società come enti metafisici che determinano primariamente le gesta e i conflitti tra gli umani. No, perché le considera un derivato delle interazioni sociali che avvengono in primo luogo tra gli individui. Non vi sono adulti, per analizzare quasi da etologo, come gli stessi bimbi in determinate circostanze ambientali, e quindi non storiche, crescendo, diventano adulti nel macchiarsi del crimine. La colpa non è solo scaturita dal singolo atto, ma anche dalla consapevolezza di aver dentro il proprio cuore l’inclinazione all’orrore e alla crudeltà. Anzi, l’adulto è tale, perché rivela a sé stesso che l’incanto dell’innocenza degli imberbi è una bugia.
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L’autore, però, nel porre i suoi argomenti, rivela alcune criticità di questa visione innata, che diventa a sua volta quasi presupposta, e non ben determinata. È consigliata la lettura della post-fazione, scritta anni dopo, contraddistinta da riflessioni più ponderate e meno apodittiche.
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Fanno paura questi bimbi, in particolare nell’elemento più cupo e sotterraneo nel dubbio che siano specchi dei pensieri che abbiamo avuto nell’infanzia e che determinarono alcuni tratti di ciò che siamo ora.
Un libro da leggere tutto di un fiato, senza conoscere in dettaglio la trama, perché è una doccia fredda che si spera sia salutare.
Il sangue delle madri (Urania Jumbo) di Francesca Cavallero, 2022, Mondadori, Milano
Perdonatemi tutti, se almeno per questo consiglio di lettura entra la mia personale senile vanità, perché ho ritrovato molto dello spirito e dei modi con i quali io scrissi il mio romanzo “Dentro l’Apocalisse”. Con questo non voglio assolutamente paragonarmi o accodarmi allo stile e alla caratura del romanzo di Francesca Cavallero, ma, a differenza di molti romanzi contemporanei, qui mi sono scaturite assonanze profonde: lo stile che talvolta straborda nelle espressioni poetiche. Vi sono aggettivazioni, predicati oggettivanti, allitterazioni, sinestesie che si innestano in modo fluido nella prosa.
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Lo stile è composito e varia in diversi ritmi e climax che si incrociano. La trama è a più livelli e coinvolge la biologia, la terra, il corpo, la relazione sociale, e l’inconscio in modo integrato e non separato, cui la sintesi rimanda a ciò che non è totalmente esprimibile dal linguaggio. Ciò crea il mistero e quindi lo sviluppo degli avvenimenti, la cui proiezione è avvertita in modo lirico e individuale, come se, appunto, il lettore fosse invitato ad abbracciare una visione estetica complessiva nel dolore, nella speranza e nello struggimento.
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I personaggi non sono banali. E come anche nel mio libro vi sono digressioni nelle descrizioni politiche ed economiche dello scenario offerto. Sì, Francesca Cavallero non ha scritto un romanzo usa e getta ripetibile, facile da indossare e scartare un secondo dopo la fruizione veloce per un altro manufatto quasi simile.
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Non è una lettura facile per chi legge con altre fonti di distrazioni, o per facilitare il sonno. È una lettura che richiede la tua entrata nella scena, con tutto il tuo corpo, e il pulsare delle vene, oltre al godimento intellettuale di seguire percorsi a più dimensioni interpretative e con domande non banali circa le questioni fondamentali della nostra esistenza caduca nel proprio e ciclo di vita.
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Vi è infatti un notevole stile lirico e poetico con una sovrabbondanza di descrizioni dei fenomeni atmosferici, delle situazioni, degli ambienti, dei manufatti con le allegorie, le metafore, le sinestesie.
Si ha un’ottima conoscenza di più registri linguistici. Vi è una cura particolare della scelta degli aggettivi, delle attribuzioni.
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Le predicazioni poi slittano in referenti testuali che partono anche dalla impressione che fanno sui protagonisti, i quali le ricevono dando l’illusione di conservarle così integre, fornendo l’occasione al lettore di goderne appieno.
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Una finzione che è anche propria del poeta che usa i correlati oggettivi, per lasciarli presentare direttamente al lettore.
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Le caratteristiche qualitative dei manufatti, e quelle morali degli individui, si concretizzano in stati della realtà e indicatori di senso degli avvenimenti: sono un crocevia dei timbri che scandiscono la trama del racconto. Si vuole stimolare continuamente a creare analogie e simboli nell’interpretare gli eventi.
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Vi è una sovrabbondanza di significati in ogni scena che è incastonata in modo certosino. Una descrizione così barocca da fornire l’illusione di porre una realtà concreta, carnale, emotiva diretta.
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Le protagoniste, tre donne, hanno avuto madri biologiche morte, o lontane, o madri putative morte ma che sono putative e nume per indirizzare gli eventi. Occorre vedere se anche loro diventeranno madri e creeranno il futuro e la speranza, ed è qui che convergeranno in un destino comune di rinnovamento, nella crescita, nella nascita e nella morte.
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Sya, Nebra, Nadja.
Qui le donne sono viste a tutto tondo, non vi è neanche bisogno di distinzioni di genere. Sono individui, persone: ognuna ha una soggettività integra. Le protagoniste coprono la vasta gamma delle tipologie dei comportamenti sociali, delle situazioni emotive, degli odi, degli amori, delle meschinità e delle speranze.
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Gli innesti tecnologici ampliano le possibilità di diversificare le prestazioni. In questo le donne e gli uomini sono alla pari. Anzi non vi è bisogno di un criterio di mediazione, perché la distinzione e la relativa metrica non hanno più senso. I personaggi sono robusti, poliedrici, complessi, e compongono le mille sfaccettature del cuore umano: dalla possibilità di compiere atti di generosità commovente e nel contempo di attrezzarsi ad agire nel modo più orrendo e crudele.
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La sopravvivenza, l’accesso alle risorse, a un luogo stabile, a difendersi dalle comunità ostili, in perenne conflitto per il vincolo delle fonti di sussistenza, costituiscono i luoghi universali in cui le comunità evolvono in gruppi sociali, alleanze, strutture statuali più complesse, concertando i diritti, le norme, e gli stili di comunicazione.
Senza declamare, ma semplicemente narrando le loro avventure, di per sé nella trama, traspare la ricchezza e la centralità della donna come il perno della sopravvivenza del genere umano e come la fonte primaria di energia, che, sì può confliggere come quella dei maschi, ma che, parallelamente, costruisce e stabilisce l’ambiente in cui possano definirsi agglomerati sociali robusti e duraturi.
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255-256 “[…] Il calore del terreno gonfio e il freddo che striscia via dalla notte si contendono il suo corpo in un caos termico che, è certa, pagherà caro. Da tempo cammina nel grigio/verde di un mattino flaccido, senza ore né minuti, arrancando fra gli acquitrini e le prime distese di tundra rigonfie di gas caldi: rottami adunchi e cavi di veicoli aerospaziali emergono dai liquami come ossa di antichi cetacei. Su alcuni Nebra registra, senza vederle, ottuse successioni di numeri, scoloriti stemmi di una o l’altra città-Stato e acronimi che per lei non hanno alcun senso. Trascina i piedi, pesanti della melma che le colma gli scarponi, attraverso la gelatina di vegetali in macerazione, sperando che i crampi bastino a tenerla cosciente. Lentamente la vegetazione cambia, si raggruma in macchie, si abbassa e infoltisce: la temperatura del terreno aumenta man mano che Nebra si avvicina alle Rowdy Mountains […]”
323-324 […] Penso che potrebbero essere trascorsi eoni dall’incidente: il tempo non ha significato mentre lo sento sgretolarsi intorno a me. Le grida sono cessate, l’intera miniera ogni livello ogni nicchia, pozzo, cunicolo sepolti nella montagna risuona di frequenze liquide. Un battito. Una consonanza. Un cuore. Nel tempo ogni suono si acquieta, riflettendosi e assorbendosi mille e mille volte fra le pareti della miniera, animandone il corpo. Nascono e crescono lussureggianti banchi floreali di profondità, che s’impadroniscono dei macchinari abbandonati e li riempiono di bisbigli. La loro è… un’acusintesi che si spiega solo ascoltando la voce dei morti, e gronda di misteri che si schiudono per me. La terra fiorisce nell’oscurità, ogni radice è fatta di suono, sangue e respiri. Sprofondano, lentamente, fino a raggiungere le cavità interne di antichi e colossali ammonoidi fossili, sepolti in sterminate colonie di madreperla. Non mi occorre vedere, ne ascolto la forma. Do loro un nome perché vivono attraverso me. I miei sensi ne ricostruiscono lo spettro dai suoni raccolti, una sinfonia discontinua che risale lungo labirinti giganti, formati dai corpi asciutti di organismi bentonici che milioni di anni hanno animato con un canto di creazione e morte
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Qui, nella risacca antica di un oceano preistorico che si è fatto roccia, echeggia il pianto delle Madri.
Racconti di Isaac Bashevis Singer, Editore Corbaccio, Milano, 2013, traduttori: Bruno Oddera, Maria Vasta Dazzi, Mario Biondi
Il corpo di questi racconti che hanno attraversato il vivere di Isaac Bashevis Singer mostrano le sue eccellenti doti nel creare storie brevi e concise, tali da esprimere un climax coerente nello svolgimento delle scene. Il lettore si sente a suo agio nell’introdursi nei mondi evocati dalle singole narrazioni. Non vi sono ambiguità nel delineare i personaggi, perché sono descritti fisicamente con un involucro di segni distintivi dei loro caratteri e con le rispettive morali e biografie.
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La presenza di ogni personaggio dispiega immediatamente il suo mondo, le origini dei suoi modi e delle sue inclinazioni nei rapporti verso gli altri, la divinità e il tempo.
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Nella brevità delle composizioni vi sono, però, più piani concomitanti di lettura, perché si rileva la descrizione di un mondo intero, che parte da una stanza, una via, un villaggio, una città, un paese, un popolo, una nazione, un intero continente. Non è solo una descrizione fotografica, perché ogni uso e consuetudine ha una sua storia, un tratto distintivo di regole morali e di rapporti con le autorità mondane e con le dimensioni religiose.
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I protagonisti esprimono il carico di un popolo nell’interrogarsi sull’umanità di ognuno e degli altri individui appartenenti a religioni e paesi diversi e lontani.
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Il nucleo narrativo è innestato nelle comunità degli ebrei aschenaziti: il gruppo religioso ebraico originario dell’Europa centrale e orientale, tradizionalmente di lingua e cultura yiddish. I racconti sono ambientati nei periodi che intercorrono tra la seconda metà dell’ottocento e nella prima metà del novecento, per intersecarsi, infine, con la biografia dell’autore, passando dalla giovinezza, fino ai racconti della vecchiezza.
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I protagonisti sono tutti appartenenti alle comunità aschenazite si fondono con le vicende verosimili accadute in Prussia, Germania, Svezia, Russia, Ucraina, Lituania, Olanda, Francia, Israele, fino agli Stati Uniti.
La struttura narrativa esprime una tensione costante tra i precetti religiosi yiddish, densi di regole, consigli, dibattiti, interpretazione del divino e di ogni aspetto pubblico e privato delle proprie interazioni sociali ed amicali.
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I demoni intervengono come attori in gioco, mostrando anch’essi le debolezze, i dubbi e i crucci sul proprio operato. Dibattono con i protagonisti, nel tentativo di dominarli e di soggiogarli in una tensione continua tra la fede, l’aderenza ai precetti religiosi, e l’esigenza di esprimere le proprie convinzioni.
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Si ammirano le multiformi culture yiddish, nelle loro inclinazioni a dibattere circa la bontà dell’operato di ognuno dalle azioni e dalle scelte capitali fino alle pratiche quotidiane nell’osservanza dei precetti delle feste e delle preghiere. Vi è una esorbitante pervasività della religione che è correlata, però, alla sua messa in discussione perenne. Sono godibili, e in certi casi comici, i dissidi, e i conflitti tra chi agisce, chi giudica, chi si oppone, chi cerca di comporre una giustificazione del proprio operato, fino all’intera biografia personale. Si dibatte e si litiga anche da morti. L’ultramondano è un elemento essenziale del senso e dello scopo che si dà al tempo e allo spazio del mondo.
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Ognuno si sente un estraneo nel suo tempo e in ogni luogo, ma ogni ambiente è famigliare, perché è passibile ad accogliere le comunità aschenazite, in perenne bisogno di un luogo stanziale, che è però accompagnato dalla consapevolezza di poter risiedere ovunque. Ogni sito è la propria casa, seppure litigiosa, instabile, sotto i colpi delle violenze altrui, dei pogrom, del razzismo, dell’odio e dell’ostilità preconcetta.
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Si sopravvive, nonostante tutto, alle avversità esogene, e alle proprie debolezze e peccati. Nella pena subita, e nella disperazione, vi è comunque una speranza inconscia di poter rimediare e di avere una seconda possibilità, anche di fronte alla divinità giudicante.
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Vi è una infinita, inestinguibile e incrollabile ricerca di senso. I messaggi e i tempi sottostanti travalicano questo popolo, per interpretare l’esigenza di ogni individuo: narrare il proprio vivere in una coerenza tale da permettere un giudizio su di sé e quindi uno scopo per il futuro e per l’eterno. La condizione universale della speranza.
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Una ironica compassione è distesa nei ruoli e nei caratteri degli agenti sociali. L’amaro disincanto che trasuda nel ritmo dei dialoghi e degli eventi, però, non è mai sarcastico, perché l’autore parla di sé, assimilando le inclinazioni dei protagonisti.
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Questi racconti gravitano presso una domanda che Isaac Singer rivolge a se stesso: sono stato degno? Di quanto il mio vivere è stato coerente con i precetti che mi sono imposto e a cui credo e mi identifico? E se ho, come sicuramente lo è per me, e per il mio popolo, oltre che per il genere umano, la possibilità di rimediare e di migliorare?
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Che speranze abbiamo nonostante i limiti, i pregiudizi e la superficiale ignoranza che ci contraddistingue?
La lettura dei racconti è già una risposta ai quesiti dell’autore, perché si è invitati a contribuire con la propria fruizione e i propri giudizi in questo percorso infinito della fruizione estetica, tale da renderci più aperti a sentire il mondo e ad immaginare uno scopo commendevole.
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Emerge la speranza di un uomo, di un popolo, del genere umano, di noi stessi che leggiamo: acconsentire al proprio vivere, testimoniare il proprio vissuto, pregare di poter ancora vivere, se non altro per rimediare alle parti più oscure che appesantiscono il cuore e l’anima.
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La lingua yiddish ride di se stessa, svelando la sua limitatezza e dichiarando quindi la volontà di apprendere, quindi di affermare la volontà di vivere, nonostante tutto.
Trilogia dei mendicanti di Nancy Kress, Traduzione di Antonella Pieretti, 2022, Urania Millemondi, Mondadori, Milano (Ed. Originali dei tre romanzi: 1993, 1994, 1996 )
Il Ciclo di questi romanzi fu scritto tra il 1993 e il 1996. Narra di vicende che partono dai primi anni del 2000. In un certo senso è un romanzo distopico connotato da una verosimiglianza per l’espediente letterario che pone un principio scientifico per noi condivisibile che innesta l’avvio della narrazione. Il fattore fantascientifico è rivolto alle tecnologie afferenti agli studi del campo della genetica, e nell’introduzione del diritto privato e del diritto commerciale nel poter predeterminare attivamente alcune caratteristiche morfologiche e cognitive dei propri figli.
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Nancy Kress è una scrittrice prolifica e immaginifica che riesce a coniugare il ritmo della narrazione con un coerente sviluppo degli eventi collocati in ambienti tecnologici avanzati all’interno di una cornice fantascientifica. Dopo più di trenta anni dalla pubblicazione, noi, oggi, non siamo dotati, come allora, di manipolare in modo puntuale e attendibile le caratteristiche specifiche delle generazioni a venire.
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Nonostante tutto, le tecnologie di comunicazione e gli ambienti virtuali risentono delle conoscenze e delle applicazioni degli anni novanta. Decisamente ora siamo avanti in un ambiente telematico molto più virtuale di quello descritto nel libro. Tale limitazione è comunque un indice di un libro di eccellente qualità che ha un impianto solido e robusto nel disporre gli eventi. E questo apre il discorso sul desiderio di conferire un potenziamento intellettivo predeterminato spinge alla riflessione riguardo temi più che mai attuali.
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Dalla nozione di invidia verso chi ha più capacità, a quella del rancore sociale verso chi è più ricco. Vi è il senso del tempo e del decadimento delle generazioni che si susseguono. Attraverso l’ausilio di nuove tecnologie vi è il tentativo di concepire nuove opportunità tese all’acquisizione di nuove conoscenze e all’ottenimento di nuove ricchezze. In concomitanza emerge la visione di strati sociali che intendono bloccare e inibire le prospettive di miglioramento.
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Sono posizioni odierne che ritroviamo nel conflitto di chi lavora e ha privilegi, verso coloro che cercano di accedere a un vivere più pieno di interazioni sociali e di guadagno. Si va dal singolo lavoratore che ha paura di perdere il posto del lavoro, se non la stessa nozione delle sue mansioni, agli stati che di fronte allo sviluppo economico e commerciale di altri limitrofi, si chiudono come un riccio, assumendo atteggiamenti nazionalistici.
Nel primo tomo vi è la fase della crescita e dell’adolescenza degli “insonni” e dei “dormienti” e i loro contrasti, che in età adulta si riverberano verso le interazioni sociali e formali.
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Gli insonni, essendo una minoranza della popolazione, vengono bersagliati da improperi, minacce, insulti e aggressioni fisiche, i quali si difendono espandendo le reti commerciali e patrimoniali, anche per finanziare l’edificazione i luoghi ben precisi dove risiedere e difendersi in una posizione di separazione rispetto a tutti gli altri.
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Si rilevano analogie con il processo di formazione di uno Stato che in origine è un luogo di rifugiati come è inteso dai più.
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Vi è anche il rapporto tra i genitori e i figli. Gli amori dedicati e quelli negati. Le reazioni dei figli o di quelli che aderiscono ad un identico stile di vita dei genitori. Vi sono temi universali posti in termini oppositivi nell’ambito dell’etica, come la simmetria tra la solidarietà e l’individualità, la cooperazione e la competizione.
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Un ruolo fondamentale che fa da contrappeso narrativo alle singole vicende, è interpretato dal ruolo della comunicazione e dello spettacolo anche nei tribunali. È sottile la capacità dell’autrice di narrare i dibattiti processuali, mostrando i temi giuridici, morali ed etici su questioni che anche oggi sono di pubblico dibattito. Indirettamente e con lentezza emerge il problema dell’idea della giustizia e della libertà, come quello di poter praticare la ricerca scientifica.
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Nel secondo tomo sono narrati i mutamenti sociali derivati da una maggiore disponibilità a concepire la prole, secondo indicazioni prescrittive.
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Vi è il presupposto per il quale dal punto di vista legislativo e culturale, è accettata la possibilità di manipolare il patrimonio genetico del feto, in modo da indurre una filogenesi di tratti somatici, corporei, e cognitivi, prestabiliti dai futuri genitori. Tale pratica innesta una coincidenza tra caste sociali e differenziazione biologica di specie. Vi sono i muli, ovvero le persone più prestanti, che producono, detengono il potere, comprano le elezioni. Sono quelli che si danno da fare, studiano, sperimentano, ma esigono il potere da gestire in modo esclusivo. Vi sono i mendicanti, coloro che vivono di elargizioni e si collocano in modo marginale rispetto al vivere sociale. I vivi, coloro che consumano, e che perciò completano il ciclo economico. Di modesta intelligenza e cultura, vivono come cicale, sebbene la loro condizione di vita sia quasi prestabilita dai muli, che li considerano una zavorra necessaria, anche dal punto di vista istituzionale. Il loro valore è il voto e il consenso da influenzare, e veicolare secondo canali prestabiliti.
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Gli sviluppi tecnologici vanno avanti, ed emergono gli insonni che, con una costituzione sempre più robusta, vivono quasi più di due secoli in buona salute e in una forma di giovinezza apparente. Diventano ricchissimi e cercano di usurpare il potere dei muli. Da qui in poi, fino al terzo tomo, vi è la storia degli scontri di questi corpi sociali e di specie, che si intensifica ancor di più con la comparsa dei figli modificati degli insonni: i super insonni i quali sono ancora più dotati e hanno l’idea come i loro padri di modificare la società, e il destino di tutti secondo i loro criteri di valutazione.
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Entrano in gioco tanti attori, per una trama avvincente, costellata di climax che via via emergono. Le tre caste hanno alterne vicende di successo, in un viatico dove tutti subiscono modifiche sia in rapporto all’igiene, al modo di mangiare, alla ricerca continua di energia. Non dico altro: è una lettura che va goduta fino alla fine.
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Però alcune considerazioni si possono dispiegare come la concezione iniziale della scrittrice che richiama una critica ad una idea del capitalismo alquanto semplificato di un motore che determina una dialettica binaria tra gli sfruttati e gli sfruttatori, dove i primi per la loro condizione di minorità, hanno un’etica superiore. La dialettica economica e il demone della figura mitologica del “capitalismo, sebbene siano figure suggestive e facilmente comprensibili, invitano a ulteriori chiavi interpretative che oltrepassano quelle esclusivamente economiche.
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Ogni protagonista mostra lati oscuri, anche in virtù delle buone intenzioni dichiarate. Nancy Cress scrivendo questi tre romanzi e approfondendo sempre più i temi esposti, affina l’analisi circa le logiche del potere, del carisma, della ricerca del leader -semidio, all’affidamento da parte del singolo per la sua razionalità limitata, a risposte semplici e dirette, che si mostrano poi crudeli e fallimentari. E arriva, forse inconsapevolmente, a delineare un tema di sottofondo: la nozione di persona, come unità di corpo, di soggetto, di cognizione, di animo, si spande e si rifrange nelle nuove relazioni sociali che emergono in virtù anche alle incredibili e nuove disponibilità tecnologiche in uso. L’integrità del corpo diventa un incrocio di forme da assumere.
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Ciò comporta, in particolare nel terzo tomo, a nuove inedite interazioni sociali. Ad differenza dei primi due tomi, si passa da una critica etica e psicologica, ad una analisi sociologica di questi nuovi e immaginifici corpi sociali, attraverso la volontà di diventare un corpo sociale autonomo e isolato rispetto agli altri. Emerge il conflitto che è scaturito dalla volontà di accaparrarsi le risorse a disposizione, arrivando a un paradosso di una guerra universale ordalica.
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Da tale contraddizione si sviluppano gli eventi del terzo tomo.
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Nancy Cress è veramente una autorità della “Fantascienza dura”: studia approfonditamente di biologia, genetica, medicina e di economia. Miscela tali nozioni in sviluppi coerenti, aventi come è tradizione una idea che è propriamente fantascientifica. Inoltre è una scrittrice immaginifica che è capace di grandi visioni di società alternative ben determinate.
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Il voler scrivere una saga, però, comporta la necessità di richiamare i protagonisti dei tomi precedenti per fissarli nei nuovi contesti. E ciò crea ridondanze e slabbrature circa la prosecuzione degli eventi.
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Ciò è compensato però dalla sua straordinaria capacità di cambiare i registri linguistici tra i protagonisti e di variare il ritmo della scansione degli eventi, in modo che il lettore sia stimolato ad andare avanti.
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È un’opera imponente che ha retto lo sviluppo tecnologico trentennale e che anzi, propone ancora oggi domande per noi inevase.
277-78 Quando aveva cominciato a trovare buffe cose come i piedi? Certamente non quando era giovane, a venti, trenta o cinquant’anni. Tutto era stato molto serio allora, di conseguenze tali da sconvolgere la terra. Non soltanto le cose che avrebbero potuto effettivamente scuotere la terra, ma tutto. Doveva essere stata davvero pesante. Forse i giovani non avevano alcuna possibilità di essere seri senza essere pesanti. Mancava loro l’importantissima dimensione della fisica: il momento torcente. Troppo tempo davanti, troppo poco alle spalle, come un uomo che tentasse di portare orizzontalmente una scala tenendola a un’estremità. Nemmeno un’onorevole passione poteva fornire un buon equilibrio. Mentre ci si muoveva faticosamente a scatti, solo per mantenere il proprio equilibrio, come si sarebbero potute trovare divertenti le cose?
280-282 «Nooo. Hanno scuole loro.» Guardò Leisha come se lei fosse stata tenuta a saperlo, e, ovviamente, lei lo sapeva. Gli Stati Uniti erano ormai una società a tre strati: i nullatenenti, che tramite il misterioso e edonistico narcotico della Filosofia del Vivere Vero erano divenuti i beneficiari del dono dell’ozio. I Vivi, l’ottanta per cento della popolazione, che si erano liberati dell’etica del lavoro per sostituirla con una godereccia versione popolare dell’antica etica aristocratica: i fortunati non devono lavorare. Sopra di loro, oppure sotto, c’erano i Muli, Dormienti migliorati geneticamente che gestivano la macchina politica ed economica, come dettato dai, e in cambio dei, voti signorili della nuova classe oziosa. I Muli tiravano avanti: i loro robot lavoravano. Alla fine c’erano gli Insonni, quasi tutti invisibili all’interno del Rifugio, che venivano trascurati dai Vivi, se non dai Muli. L’intera organizzazione a trifoglio, Es, Io e Super Io, come qualcuno l’aveva sardonicamente etichettata, veniva assicurata dall’economica, onnipresente energia-Y che alimentava le fabbriche automatizzate rendendo possibile l’esistenza di una prodiga assistenza sociale che barattava pane e giochi del circo con voti. »
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297-298 Non si poteva mai riposare. Il Corano e la storia degli Stati Uniti concordavano almeno su un punto: “E coloro che raggiungeranno il loro accordo solenne e sopporteranno con coraggio la sfortuna, le difficoltà e il pericolo… questi saranno i veri fedeli al loro credo”. E poi: “Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza”.
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353-354 Jennifer si sedette con grazia sulla sedia della scrivania di Tony. Le pieghe della sua nera abaya si adagiarono a terra accanto al corpo accucciato di Miri. «Per la prima parte della sua vita, sì. La produttività, però, è una cosa relativa. Un Dormiente può avere cinquant’anni di produttività, iniziando, diciamo, dai venti. Ma, a differenza di noi, verso i sessanta o i settant’anni i loro corpi si indeboliscono, sono preda di esaurimenti, si sfaldano. Possono vivere tuttavia per almeno altri trent’anni, un fardello per la comunità, una vergogna per se stessi perché è una vergogna non lavorare quando gli altri lo fanno. Anche se un Dormiente fosse industrioso, ammassasse denaro per la vecchiaia, acquistasse robot che si prendessero cura di lui, finirebbe per essere isolato, incapace di prendere parte alla vita quotidiana del Rifugio, degenerando. Morendo. Dei genitori che amano il proprio bambino lo condannerebbero a un simile destino? Una comunità potrebbe mantenere molte di queste persone senza assumersi un fardello spirituale? Pochi, sì: ma che sarebbe dei principi coinvolti? «Un Dormiente allevato fra noi non sarebbe soltanto un estraneo qui, inconscio e morto cerebralmente per otto ore al giorno, mentre la comunità va avanti senza di lui. Avrebbe anche il tremendo peso di sapere che un giorno o l’altro potrebbe avere una paralisi, un attacco di cuore, un cancro o una delle miriadi di malattie cui sono soggetti i mendicanti. Sapendo che lui stesso diventerà un peso. Come potrebbero un uomo o una donna di sani principi vivere in questo modo? Sai che cosa dovrebbero fare?» Miri capì. Ma non lo disse. «Dovrebbero suicidarsi. Una cosa tremenda a cui costringere il bimbo che ami!» Miri strisciò fuori da sotto la scrivania. «M-m-ma, n-nonna… t-t-tutti d-d-dovremo m-m-orire un giorno. Anche t-t-tu.» «Ovviamente» rispose con compostezza Jennifer. «Ma quando lo farò, sarà dopo una vita lunga e produttiva come membro completo della mia comunità: il Rifugio, il sangue del nostro cuore. Non vorrei niente di meno per i miei figli e per i miei nipoti. Non mi accontenterei di niente di meno. Nemmeno la madre di Joan.»
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678 Miri mi aveva detto una volta che esistevano solamente quattro domande importanti che si potevano porre su qualsiasi essere umano: come riempie il proprio tempo? Che sensazioni ha riguardo al modo in cui riempie il proprio tempo? Che cosa ama? Come reagisce rispetto a coloro che ritiene inferiori oppure superiori? «Se fai sentire le persone inferiori, anche non intenzionalmente» aveva detto con un intenso sguardo negli occhi scuri «loro si sentiranno a disagio in tua presenza. In questa situazione, alcune persone attaccheranno. Alcune cercheranno di ridicolizzarti per “ridurre la tua dimensione”. Alcune tuttavia ti ammireranno e impareranno da te. Se tu fai sentire le persone superiori, alcune reagiranno licenziandoti. Alcune eserciteranno il loro potere in modo maggiore o minore. Alcune, tuttavia, si sentiranno portate a proteggere e aiutare. Tutto questo si applica ad appartenenti a una piccola loggia così come a un gruppo di governi.»
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690-91 «Ha fatto centro, signor Arlen. I Vivi sono il vero popolo di questo paese, proprio come lo era l’esercito di Marion. Avevano la volontà di decidere per se stessi in quale tipo di paese volevano vivere e anche noi abbiamo la volontà di decidere per nostro conto. Abbiamo la volontà e abbiamo l’ideale di come dovrebbe essere questa gloriosa nazione, anche se adesso non lo è ancora. Noi I Vivi. E se non ci crede, caspiterina, guardi che casino hanno fatto i Muli di questo grande paese. Debiti nei confronti di nazioni straniere, alleanze capestro che ci risucchiano ogni risorsa, l’infrastruttura che ci si sgretola in faccia, la tecnologia mal utilizzata. Proprio come gli inglesi utilizzavano male i cannoni e i fucili ai loro tempi.»
Nota mia: (ricorda più di una recente campagna elettorale… )
704 «Oh, figliolo, ma non vi insegnano proprio niente in quelle vostre scuole alla moda? Non dovrebbe essere permesso, no, non dovrebbe proprio. Caspita, proprio qui nel Preambolo, c’è scritto chiaro come il sole che “Noi, il Popolo” stiamo scrivendo questa cosa “così da formare un’Unione più perfetta, amministrare la Giustizia, assicurare Tranquillità domestica, fornire la difesa comune” eccetera. Dove sta la perfetta unione se si lascia che i Muli controllino il genoma umano? Questo non fa altro che separare ancora di più le persone. Dove sta la Giustizia nel non permettere al bimbo di Abby e Joncey di partire dalla stessa base di un bambino Mulo? Come può creare tranquillità domestica? Che diavolo, crea invidia e risentimento ecco cosa crea. E che caspita può essere, sulla verde terra del buon Dio, la “difesa comune” se non la difesa della gente comune, i Vivi, in modo che possano avere dei figli che contano esattamente come un bimbo modificato geneticamente? Abby e Joncey stanno combattendo per loro stessi, proprio come i genitori naturali di ogni posto, e la Costituzione dà loro il diritto di farlo, proprio lì, in quel sacro paragrafo.»
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Il libro mostra il carisma, il settarismo, il credo religioso messianico che però si fonda sul nemico da creare, da perseguire e distruggere perché ad esso è attribuito il male. Tale attribuzione è conferita per la fede. Esclusivamente per la fede. Il complotto è il teatro che risolve tutto.
1178-1179 «Miranda, non conosco la parola giusta per descrivere come diventa la gente quando non si sente più ferita e sola. Però le accade qualcosa. Quando continua a prendere quel genere di neurofarmaci per non sentirsi “se stessa”, presto non riesce più a sentire nemmeno l’altra gente. Diventano tutti come gli amici di Cazie, e forse come la stessa Cazie, non so. Cazie è buona, in fondo, ma ha inalato tanta roba per coprire la propria sofferenza che non si è più accorta nemmeno della sofferenza di Jackson e, dopo, non si è più accorta nemmeno di Jackson. Lui è solo un altro mobile nella sua vita, un altro robot. «Le persone devono soffrire. Devono permettersi di sentire la sofferenza. Devono sopportarla e non cercare di eliminarla con l’Endorbacio, i neurofarmaci, il sesso, i soldi: è l’unico motivo per cui sappiamo che dovremmo fare qualcosa di diverso, che dovremmo continuare a cercare con più impegno dentro di noi e dentro gli altri. Non si può solo aggirare il dolore, bisogna passarci attraverso per arrivare dall’altra parte, dove l’anima è… Oh, non lo so! Non sono abbastanza intelligente per sapere! Nella mia modificazione genetica embrionale è andato storto qualcosa, non sono intelligente come Cazie o Jackson, ma so che dovresti darci altre siringhe del Cambiamento perché i bambini vivano abbastanza a lungo da sentire il proprio dolore e cominciare a imparare. Forse non avresti dovuto darci le siringhe. Però lo hai fatto e ora i Vivi non possono sopravvivere senza perché noi Muli li abbiamo lasciati in asso e controlliamo tutte le risorse. Ci devi dare altre siringhe del Cambiamento perché quei bambini possano vivere abbastanza da cercare quello che importa davvero.
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1241-42 Eden. Per quanto tempo ancora? C’erano siringhe nascoste, probabilmente, famiglia per famiglia, in tutte le enclavi, una o due qui, altre lì. I neonati sarebbero stati iniettati, segretamente, prima che gli outsider venissero a conoscenza dell’esistenza delle siringhe per poterle rubare. Quando le siringhe messe da parte fossero finite tutte, il tasso di natalità sarebbe crollato anche più di quanto già non avesse fatto, quando i genitori Cambiati avessero preso in considerazione i problemi relativi a malattie e al bisogno di cibo dei figli non-Cambiati. Alla fine la gente avrebbe ricominciato comunque ad avere bambini, perché succedeva sempre così. A quel punto la medicina si sarebbe ripresa dal febbricitante coma di ricerche nel campo delle droghe del piacere e i Muli se la sarebbero cavata bene, più o meno come avevano sempre fatto, dietro i loro scudi a energia-Y, sempre più impenetrabili, che si sarebbero estesi ogni anno a causa della necessità di destinare aree sempre maggiori all’agricoltura, alle industrie casearie e a quelle di sintesi della soia. Le enclavi si sarebbero adattate. Avevano tutta la tecnologia per riuscirci. Non ci sarebbe stata alcuna cacciata dall’Eden. E i Vivi? Non c’era bisogno di chiedersi cosa sarebbe accaduto loro. Accadeva già. Carestia, morte, malattia, guerra. Alla fine, avrebbero imparato nuovamente le tecniche per la sopravvivenza. Se invece il neurofarmaco che inibiva la tolleranza per le novità avesse continuato a diffondersi, non avrebbero imparato. Sarebbero rimasti attaccati alle vecchie mansioni adatte a corpi Cambiati che la nuova generazione non avrebbe posseduto. I Muli, inaspriti dalle Guerre del Cambiamento e consci che i Vivi non erano più necessari economicamente per almeno tre generazioni, non avrebbero fatto nulla. Genocidio tramite immobilismo universale. Il Signore non aiuta i cerebrochimicamente incapaci di aiutare se stessi, troppo terrorizzati dai cambiamenti per lasciare che qualcuno si avvicini loro e che hanno perso da poco i loro ultimi paladini extraterrestri.
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1253 PARTE TERZA MAGGIO 2121 È impossibile, per una creatura come l’uomo, restare completamente indifferente riguardo al benessere o al malessere dei suoi simili e non essere pronta, per proprio conto, a stabilire, nel caso in cui non abbia particolari impedimenti, che ciò che promuove la loro felicità è bene e ciò che porta alla loro afflizione è male. DAVID HUME, Ricerca sui principi della morale
Meridiano di sangue o Rosso di sera nel West, di Cormac McCarthy (Autore), Raul Montanari (Traduttore), Einaudi, Torino, 2014, ed. originale: Blood Meridian or The Evening Redness in the West, 1985
Il meridiano di sangue è una traccia scritta dagli eventi per opera dei protagonisti. La mappa del mondo è raffigurata con i radianti delle ossa e gli angoli delle armi. Il corpo umano è quello degli Stati Uniti in formazione. Le configurazioni statuali figliano involucri di pus e di sangue disseminati tra la terra e l’acqua che viaggiano tra est ed ovest, crollando uno dopo l’altro, fornendo un linguaggio e un senso dei confini, attraverso la consunzione e la decomposizione.
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Il ritmo della narrazione è scandito dal timbro della violenza. Ogni trama è descritta dall’offesa della natura contro gli esseri viventi. Le vite sono pollini sparsi dall’Atlantico verso l’Oceano Pacifico, con pochi che germogliano, e la massa che invece crepita nel baratro, collassando tra la crudeltà, il sadismo, e la vacua razzia, aggrappandosi a scheletri di trofei macilenti e velenosi.
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Vi sono richiami storici ben precisi, e per noi europei quasi oscuri, circa la storia dell’America del Nord, riguardo la guerra civile degli Stati Uniti d’America (detta da noi impropriamente guerra di secessione), le lotte decennali tra l’ex impero spagnolo e francese, gli agglomerati statuali transitori e in perenne conflitto tra quelle nebulose chiamate Louisiana, Messico, Texas e gli stati centrali e dell’ovest dell’Unione di recente formazione, fino alla California.
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Ricordando comunque che già dapprima vi erano guerre senza fine tra i creoli, gli ispanici, le varianti che noi facilmente e in modo superficiale denominiamo Apache o Sioux, i Comanche identificandoli semplicemente come indiani, attraverso i film Western del secolo scorso. No, i complessi gruppi ed etnie stanziali prima dell’avvento degli spagnoli, dei francesi e degli inglesi, e poi di tutta quella sterminata immigrazione senza patria dell’ottocento, erano già agglomerati in conflitto ed ibrida mutazione.
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Lo stile di scrittura è piano e lineare e paradossalmente con pochi superlativi. Di prima impressione sembra sia costellato da ritmi giornalistici, di cronaca addirittura, per planare su resoconti storici indiretti con nomi nascosti di generali, di personalità del periodo, che per il lettore veloce e superficiale sembreranno gettati così senza un criterio. Si passa dalla cronaca di eventi bellici, fino alle narrazioni dell’uomo settecentesco che affronta una natura ostile alla Robinson Crusoe.
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Questa capacità istrionica è sublimata in una forma di romanzo, che è incorniciata dalle descrizioni ambientali delle Montagne Rocciose, e relativi dirupi, con un’alluvione di termini geologici, botanici, nonché zoologici. Vi è una capillare descrizione etnologica dei gruppi etnici, e delle bande, oltre degli eserciti che lottano tra loro. Emerge una visione antropologica dei modi di vivere degli agglomerati, posti, indipendentemente dalle loro dimensioni, tra il deserto, i boschi, il freddo, la siccità, in un oceano di ostilità, dove l’orizzonte è un continuo generatore di pericoli, di nemici: un bardo del dolore e della morte.
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I protagonisti sono coraggiosi e capaci, che agiscono senza enfasi. Quasi in un richiamo ipnotico si avverte l’impressione di leggere stanche descrizioni di marinai anziani seduti davanti al caminetto raccontando dei tempi che furono, gli argomenti trattati e gli eventi sono lo spasimo. Almeno all’inizio, perché poi, appena si entra in questo mondo, non vi è un attimo di tregua. Il ritmo varia in un crescendo di azione violenta, su scenari di orrore e di morte.
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La crudeltà è il pendolo che oscilla tra un vortice di sadismo e di una assurda tranquillità, nella quale i protagonisti quasi morenti e in sofferenza estrema, riflettono sulla loro condizione, sull’etica, sul senso del proprio agire. Il dolore e l’angoscia della propria scomparsa, aprono la possibilità di un tono lirico, e veramente letterario tra il tragico, il poetico, il drammatico.
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Non si salva nessuno: ognuno di loro uccide, imbrattato di sangue e di repellenza. Appare pulito e accettabile nel raffigurarlo esteticamente, il personaggio che non subisce la morale e la compassione, e che cerca di rimanere integro alle pallottole, alle coltellate, alle frecce, alle ferite invalidanti, tra la bile e il vomito.
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Anche chi riesce a razziare, a portare gli scalpi e vendere le orecchie e le teste essiccate, sperpera il ricavato in veleni d’alcool e d’azzardo che portano alla rissa, all’omicidio, alla prigione, alla morte subita quasi senza senso dal compagno dell’ora prima, che uccide totalmente ubriaco, in una abiezione sessuale che comunque porta all’infezione.
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Non vi è una giustificazione: l’avidità e la ricerca del piacere perverso non sono nobilitati, e non sono descritti come ciò che ottunde la ragione, salvando quindi la razionalità, bella e buona. No. Questo è un romanzo che affronta di petto la cattiveria, l’altra parte del cuore nero che tutti abbiamo e che cerchiamo di delimitarlo con questa linea di sangue. Sì, perché questo meridiano è disegnato nel cuore di ogni essere umano.
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Oltre la violenza fisica e immediata, vi è uno scontro sotterraneo tra una visione data da un protagonista che descrive il senso della storia, del vivere e del mondo in un piano amorale, e chi invece cerca di aggrapparsi ancora con un dito nell’altra parte del confine, essendo però, assassino e spietato come il suo interlocutore.
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Non è una dialettica dove vi è la sintesi tra il protagonista e l’antagonista. Più che la sublimazione, si dissolvono e lasciano al lettore di immedesimarsi, con il tranello che alla fine si sta parlando proprio di lui. Ed è ovvio che quasi nessuno potrà definire compiutamente queste posizioni, perché l’oggetto del contendere siamo io e te. Il mio e il tuo cuore.
Lo scritto innesta uno studio etico in una opera letteraria, finemente cesellata nei termini americani, spagnoli, amerindi. Nessuno è innocente.
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Vi sono riferimenti non tanto nascosti relativi alle interpretazioni metodiste e battiste degli Usa, oltre al mix cattolico inca azteco dei popoli del Messico, innestato nelle correnti animiste dell’universo degli indiani. Il tutto cozza contro riferimenti espliciti alle metafore del “Così parlò Zarathustra”, di “Ecce Homo”, e della “Genealogia della morale” di Friedrich Nietzsche, come anche nelle pagine finali, circa il richiamo alla danza della “Gaia Scienza”.
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In prima e anche in una seconda lettura, risulta quasi immediata la considerazione che il romanzo voglia svelare la nudità dei rapporti sociali e della propria posizione rispetto alla natura, in un’escrescenza etica labile, usata per il più come tattica di sopraffazione.
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Eppure i momenti più lirici e di consapevolezza, avvengono nei momenti in cui si ha bisogno degli altri per le cure, per un sorso di acqua, per un riparo dalle asperità climatica. L’aiuto è fornito indipendentemente da una transazione di scambio di valore monetario, perché in quelle condizioni alcunché ha un valore, se non la soddisfazione immediata delle esigenze della sopravvivenza.
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Sembra che alla fine vincano quelli che sono “Al di là del bene e del male” e che dicano “sì” al vivere che è insensatezza,
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MA
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agendo in modo tragico nell’accettare il caos, che è crudele perché gli si vuole dare un senso, ricercano un contrappunto nella propria morale. Non è un caso, infatti, che dichiarando di non avere il cuore, e offrendo solo questo meridiano, tutto rimane svuotato, ciò loro stessi, e la loro capacità di rispondere. Chi è giudice, diventa il giudicato, e chi vuol essere libero, non ha più parole per dire se le proprie mani siano o no incatenate.
E qui il dilemma è consegnato al nostro meridiano personale, attraverso questo capolavoro di romanzo che non offre sconti.
“Nel paese delle ultime cose (In the Country of Last Things) 1987, Ed. Italiano 2018, Einaudi, Torino, di Paul Auster (Autore), Monica Sperandini (Traduttore)
Con Paul Auster si respira alta lettura con un’aria di montagna che non lascia spazio a pigre sensazioni. Si arriva subito in una posizione panoramica che invita ad una lettura che segnerà il proprio senso estetico.
Soltanto per la sapiente commistione di stili, questo romanzo è un capolavoro. A prima vista sembra una lunga lettera che però assume, nel corso della lettura, la struttura di un lungo diario. Nelle prime pagine è narrato nel tempo presente, ma è intervallato nei salti temporali e nelle spiegazioni circa gli eventi generali che oltrepassano le gesta dei momentanei protagonisti in una narrativa di memoria.
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È un diario di bordo, perché la narratrice man mano che prosegue nella descrizione delle sue avventure, colloca i luoghi e le vicende in una spirale, in cui ella ne diviene parte. Il punto di vista dell’esterno e lo spazio di confine, nel flusso delle parole, sono risucchiati all’interno del luogo circoscritto: il paese delle ultime cose.
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Paul Auster descrive con una eccellente capacità i personaggi attraverso una tecnica che rimanda alla descrizione dei tratti somatici e dalle loro posture in linea con la tradizione dei romanzi psicologici dell’inizio del 1900. Però non si ferma solo in questa linea di presentazione: ed è qui che mostra di essere uno scrittore di altissimo livello. La narratrice descrivendo i personaggi, nel contempo, attribuisce qualità morali e caratteriali che non hanno soltanto lo scopo di inquadrare ed eventualmente collocare la figura in un quadro che delinea l’eroe, l’antieroe, il buono, il meschino, perché le loro inclinazioni ed attitudini variano di scopo e di valore. Il mutamento è in relazione ai continui climax di sopravvivenze cui sono sottoposti.
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Vi è una tecnica sopraffina nel ritmo della scrittura che offre dapprima un quadro morale sicuro in cui collocare i tipi e indurre le loro eventuali azioni, il quale, in modo sotterraneo con i richiami del loro passato, è trasformato in un complesso di cause efficienti per gli avvenimenti che da lì a poco appariranno. Le figure topiche che via via scorrono, lasciano emergere nuovi luoghi di narrazione che proiettano il diario di memoria, e quindi al passato, in un fiume del presente. Il lettore è accompagnato in questa navigazione, senza che perda il pathos e il godimento estetico derivato dalla fruizione del testo, per soffermarsi a ricollegare le situazioni e le condizioni che hanno generato i singoli eventi.
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Paul Auster dispiega una palestra dotata di infinite risorse conoscitive e di strumenti per chiunque voglia esprimere il suo mondo interiore nella forma della scrittura. In primo luogo, in forza diaristica, quindi personale, e per avventurarsi nell’acquisizione e nella produzione autonoma di propri stili espressivi.
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Gli ambienti acquisiscono una vita propria che è dipinta dalle metamorfiche caratteristiche fisiche e morali dei personaggi. La narratrice entra ed esce dagli avvenimenti, perché in un primo momento configura un timbro complessivo di questa cascata sovrabbondante di stimoli che in modo alternato fa scorrere i dialoghi nei momenti topici. In seguito trasla gli scenari in un participio passato per riassumere il vortice di caduta di questo paese in un capolinea: la linea sicura cui il lettore possa appoggiarsi nel mantenere un filo temporale compiuto.
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Il lettore ha in dotazione la possibilità di poter modificare la vista del paesaggio in negativo, a colori, in bianco e nero, di vederlo muovere o di collocarlo in un fermo immagine, e tutto ciò accade nello spazio di uno o due pagine. La bellezza di questo romanzo, è che nella lettura, se ci si lascia appassionare, non vi è bisogno di soffermarcisi, o di accorgersi di questa giravolta stroboscopica dei punti di vista.
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La protagonista, ama, odia, dispera, reagisce, avanza in modo tenace anche nel dolore e nello scoramento. Gli avvenimenti accadono sull’orlo di un baratro, in una tensione per la quale si possa perdere tutto: cose, persone, ricordi, criteri di ordine delle relazioni sociali. Vi è una spasmodica ricerca di ordine e di senso, per definire una prospettiva verso il futuro, all’interno di uno stato carcerario di continua sopravvivenza, ove sembra impossibile uscirne.
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Il fiume non si ferma, sicché si cerca di galleggiare tra i flutti delle onde su una zattera che affonda. Si afferra un suo relitto, che successivamente è travolto da una nuova tempesta. Si cerca, allora, un appiglio a ridosso di scogli taglienti, ma anche qui ricomincia l’instabilità.
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Vi è il tempo che divora. Questo paese si vuol mostrare come un luogo in cui i bimbi decidono di non nascere e i vecchi di non trapassare. I secondi sono cannibali, cloni di Crono, e i primi olive avvizzite cadute dal ramo, prima della trasformazione in olio.
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La trama del romanzo è definita da una metafora della scrittura che oscilla nell’invenzione del mondo, e nel tentativo di descrivere quello che è presunto reale, cadendo quindi nella onnipresente contraddizione di scrivere del fantastico, e di definire in modo infondato ciò che non lo è, partendo proprio dall’invenzione. È una prigione dalla quale è impossibile uscirne.
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Ciò spiega allora il modo indiretto in cui sono sovrapposti gli stili. È impossibile dichiararli compiutamente in un elenco esplicito, perché diverrebbero un polo dei due di questa insanabile contraddizione che appare in un regresso all’infinito.
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Ed è qui che il tempo della narrazione, nel suo complesso, si svolge in questo vortice senza fine di distruzione di senso, se non in quello della contraddizione, che è l’ultima stazione degli eventi cui è impossibile ripartire.
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Vi sono situazioni che richiamano le tragiche e mondiali vicende accadute nella prima metà del novecento, e quelle attuali tra gli anni settanta e ottanta, coeve alla generazione dello scritto. Si parla di ieri e di oggi, perché appunto qui sono entrambi fermi in questo “fine” capolinea.
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È un romanzo che suscita forti emozioni e impegna il lettore a sostenere questa integrale tensione fisica che però dona la possibilità di sublimare la sensazione di greve precarietà che avvolge ognuno di noi. Siamo tutti sorelle e fratelli in questa grama condizione che lascia trasparire qualche fiore nelle paludi delle lacrime. La bellezza che strugge.
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È sentitamente consigliato avventurarsi in questa tremenda consapevolezza, avendo comunque accanto la narratrice che ci protegge e ci accompagna durante la lettura.
Adriano Olivetti, un italiano del Novecento, 2022, Di Paolo Bricco, Rizzoli, Milano
È più di una biografia. È una narrazione che gli italiani ancora oggi risentono circa la loro autorappresentazione, ereditata dai primi sessanta anni del secolo scorso. Adriano Olivetti è stato il figlio di Camillo, altro grande imprenditore a cavallo del ‘900. Uno studente di meccanica e di legge, pervaso da una vorace aspirazione a coniugare lo sviluppo tecnologico all’interno dell’imprenditoria in vista in un’etica tesa al miglioramento morale e materiale del popolo.
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Contribuì a definire quei tratti tipici con i quali noi inconsciamente talvolta, con fastidio frequentemente e con orgoglio timidamente ci contraddistinguiamo: una versatile capacità camaleontica di aderire alle ideologie, di inventare storie di sé e di riformulare il passato come se dovessimo cambiarci i vestiti, sia per una volontà tesa a un perenne rinnovamento salvifico e sia per una furbizia stracciona e impotente, quasi disperata. Lasciando poi trasparire in modo quasi inspiegabile tratti di eroica genialità e di sacrificio.
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4-5 “[…] Inaugurando nel 1955 la fabbrica di Pozzuoli, Olivetti presenta così gli obiettivi della sua impresa: “La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto” […]”
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Non fu uno studente particolarmente brillante e neanche dotato di uno spirito pratico e agile, secondo le indicazioni del padre. Fu goffo, solitario, taciturno, non particolarmente atletico, ma dotato di uno sguardo sognante oltre il presente, contraddistinto da una inesauribile capacità immaginativa.
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Aiutò Turati a fuggire durante la presa del potere del fascismo. Fu poi organico al regime e, in posizione di monopolista, trattò per rendere sempre più efficace la sua posizione aziendale in vista di una espansione produttiva e di sviluppo tecnologico privilegiato, venendo a patti con i potenti, fino a chiedere di interloquire con lo stesso Mussolini. Fu socialista segnalato dagli stessi prefetti fascisti, per poi rivendicare e anzi proporre uno stato etico ancora più pervasivo nei meccanismi dei processi economici, finanziari e produttivi.
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Ciò fu ed è motivo di dibattito, perché potrebbe indurre una facile omologazione dell’uomo all’ideologia nefasta che fu, tale da risultare quasi il nemico più acerrimo della libera impresa, nonostante che mantenne, nel secondo ventennio, con grande riprovazione dei gerarchi, uno sguardo attento e positivo agli sviluppi tecnologici e imprenditoriali degli Stati Uniti. Insomma delle liberal democrazie.
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Fu quasi uno dei più fedeli al regime e nello stesso tempo osteggiò in modo radicale le leggi razziali, anzi salvò tantissimi italiani di fede ebraica, sia assumendoli con altro nome nelle loro aziende, anche in modo posticcio, e organizzando poi, con la resistenza la fuga di molti, e tentando poi nel 1943 di scardinare la Repubblica di Salò con l’appoggio degli Usa e dell’Inghilterra per creare un regime democratico. Appoggiò quel nucleo di resistenti che formò il Partito D’Azione. Fu vicino agli ambienti del partito Repubblicano. Fondò il Movimento di comunità e partecipò alle elezioni nazionali, dopo qualche timido successo a livello locale, nei pressi di Ivrea, subendo una sconfitta nel 1959 che contribuì a fiaccarlo ulteriormente pochi mesi prima della sua morte nel 1960.
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Ci si potrebbe chiedere se negli anni avesse avuto un filo conduttore di pensiero e di scopo. Non possiamo dirlo con certezza, ma questo libro, frutto di dieci lunghi anni di studio tra gli archivi di tutta Italia e non solo, oltre alla comparazione delle dichiarazioni di chi gli fu vicino, ricostruisce alcune linee di continuità a livello retrospettivo di tendenza storica, e non propriamente psicologica, per una persona piena di dubbi, pragmatica, e risoluta, razionale a volte, avventata in altre. Cinica e determinata nel perseguire gli scopi d’azienda, suicida e donchisciottesca nel perseguire suoi personali modelli di nuove relazioni sociali. Duro talvolta, ed estremamente generoso in altre.
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Certamente subì l’influsso dell’idea dello stato che si fa padre, istitutore, controllore, gestore delle interazioni sociali e della moralità individuale, conduttore verso uno sviluppo delle comunità e delle genti italiche. Anzi elaborò e cercò di tradurre la visione risorgimentale di lungo periodo, nazionale dei primi anni colonialisti, fascista poi, di una sottomissione del singolo per il bene della collettività e poi della nazione. Posizione che invertì subito dopo l’8 settembre 1943, con una ulteriore conversione interiore, per definire una forma di personalismo cristiano che cercasse di coniugare la libertà con l’uguaglianza, la disparità sociale con la solidarietà e la redistribuzione che partisse dalle politiche e dai movimenti dal basso, prima di tutto culturali.
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Se si cercasse di delineare una linea coerente secondo gli schemi attuali, si avrebbero le vertigini per queste giravolte tortuose. Il punto però è che indirettamente, consapevolmente a tratti, emerse sempre di più nei decenni un minimo comun denominatore: l’azienda e i lavoratori. Da essi e per essi elaborò una nuova forma di aggregazione comunitaria e quindi di interazione sociale.
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Nell’impresa tutto deve ricadere. Il mondo del lavoro, a partire dalla fabbrica, determina ed espande le mense, le biblioteche, i musei e i centri culturali, gli asili nido per tutelare la maternità, la sanità complementare per i lavoratori, per i loro parenti e come una macchia d’olio via via per tutti. E quindi anche l’edilizia che deve essere redistribuita per i quadri, gli amministrativi, gli operai. Tutti, nessuno escluso, avrebbero dovuto godere esteticamente delle offerte culturali, di apprendimento e di una socializzazione aperta, libera e progressiva.
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Insomma non è lo stato, il nuovo diritto, il partito fascista, il sindacato, le idee socialiste, le azioni di resistenza, gli approcci liberali che devono configurare i sudditi, i cittadini, i poveri, i ricchi, gli operai e gli intellettuali, passando anche nella rideterminazione dei luoghi di lavoro. No, ed è questo il fulcro, almeno io ritengo lo sia, della visione sotterranea di Adriano Olivetti: è l’azienda, il luogo della fabbrica, la comunità dei lavoratori, che assorbe tutto il resto. La società emana dai luoghi di lavoro. In essi si realizza la morale nell’attività di lavoro e culturale per una etica in cui la persona sia il perno.
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Adriano Olivetti agisce in modo spregiudicato attraverso le ideologie, le forme di diritto, le nuove forme statuali che si susseguono prima e dopo la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, perché le ritiene onde e scosse telluriche intorno agli arcipelaghi che sono appunto le reti di impresa, collocate tra la città e la campagna.
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86-88 “[…] Le tre radici, dunque: la cultura liberal-risorgimentale, il progetto marxiano e l’appartenenza all’ebraismo. Nelle storie individuali e nelle vicende delle comunità e dei gruppi politici e culturali italiani, spesso la prima e la seconda radice si avviluppano con la terza, l’appartenenza all’ebraismo. E non importa se quest’ultima si manifesta in una intensa e palese identità religiosa o se si esprime in una mimetizzazione e in una diluizione della sua tradizione nella secolarizzata società italiana ed europea. È questo il contesto storico articolato e multiforme in cui il demone della politica appunto abita – inizia ad abitare – in Adriano. Il quale vive le contraddizioni degli uomini e si trova a operare nelle pieghe della Storia, che ora lo fanno stare come su un panno rosso e ora lo stringono al collo come una corda di canapa, ora ne fanno un protagonista ammutolito dall’eccitazione delle cose e ora lo trasformano in un ingranaggio reso silenzioso e grigio dal procedere della quotidianità
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120-122 “[…] L’economia pubblica e la pubblica amministrazione, il governo e i ministeri. Il partito unico. Tutti questi elementi compongono la realtà. Il rapporto con loro diventa essenziale e vitale, necessario e naturale. La normalità è fatta di legami organici e non episodici con i corpi dello Stato e con il Partito nazionale fascista. Adriano è un imprenditore. La Olivetti è una società italiana. Opera su un mercato a bassa concorrenzialità e a elevato controllo da parte della politica e della pubblica amministrazione. Sono poche le altre imprese che producono macchine per scrivere e macchine da calcolo. La Olivetti, per svilupparsi e per prosperare, deve misurarsi con i regolatori e i controllori di una realtà economica e sociale che, negli anni Trenta, si trovano nelle stanze della politica, negli uffici della pubblica amministrazione e nelle sezioni del Partito nazionale fascista. Il 27 ottobre 1933 (con una lettera in cui alla data è aggiunto il numero romano XI, undicesimo anno dell’era fascista) Adriano scrive una lettera al ministero delle Corporazioni. La richiesta è quella di inserire il settore delle macchine per scrivere fra i comparti per i quali è necessaria l’autorizzazione del governo, forma grossolana e potente di controllo dell’attività industriale privata: «Con riferimento al R. Decreto 15 maggio 1933, n. 590, il quale assoggetta all’autorizzazione governativa i nuovi impianti e l’ampliamento di quelli esistenti per un determinato gruppo di industrie, esponiamo i motivi per i quali riteniamo necessario che l’industria delle macchine per scrivere venga compresa nell’elenco»10. Adriano gioca duro. Ha interesse a limitare sia la concorrenza interna sia quella estera. Sulla concorrenza interna, dice con una ambiguità abbastanza esplicita sulla presunta irrazionalità e, in ogni caso, sul presunto non interesse nazionale che nuovi investitori italiani entrino in un mercato in crisi: «Qualunque quota del risparmio nazionale indirizzata nell’industria delle macchine per scrivere non potrebbe che risolversi in uno spreco del capitale nuovo ovvero nell’indebolimento o nell’annientamento delle vecchie industrie del ramo che da sole hanno sopportato tutti i pericoli e gli oneri dell’inizio e dell’affermarsi di un’industria nuova per il nostro paese»11. C’è, poi, il rischio che altri gruppi stranieri entrino in Italia: «Ci risulta che importanti fabbriche nord-americane impressionate dalla quasi totale perdita del mercato italiano, dovuta alla nostra affermazione, stanno studiando la possibilità di costruire fabbriche di montaggio e costruzione parziale in Italia»12. Adriano, nel rivolgere la sua richiesta di inserimento del settore fra quelli a maggiore controllo autorizzativo pubblico, scopre la carta più pesante: «Nella nostra organizzazione lavorano oltre 1100 fra operai e impiegati. Se la minaccia di una nuova concorrenza interna alimentata anche da capitale e appoggio di nostri concorrenti interni avesse un inizio di esecuzione, noi dovremmo immediatamente e drasticamente ridurre non solo le ore di lavoro, ma anche il numero dei nostri dipendenti»13. Che sia una minaccia reale o solo tattica, l’Adriano portatore dell’insegnamento paterno, secondo cui la disoccupazione involontaria sarebbe stata la peggiore condizione umana per la classe operaia, in questo caso sonnecchia. E, al di là di questo, la Olivetti che ormai opera in condizione di semimonopolio si rapporta con il governo da monopolista. La Olivetti godrebbe di una posizione di forza da una misura che restringesse la possibilità per tutti di fare nuovi investimenti. Ne avrebbe un vantaggio strutturale. E Adriano ottiene questa misura. […]”
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“[…] 152-155 Adriano ha un atteggiamento di adesione neutrale o di consenso passivo alla dimensione politica del fascismo. È un imprenditore. Fa gli interessi della sua azienda. Gioca su più tavoli con la pubblica amministrazione. Opera in un’economia in cui il protezionismo è la vera ragione prima di ogni estremizzazione autarchica e in cui la concorrenza è ridotta al minimo dall’influenza della politica e dai corpi dello Stato, da cui Adriano, per la sua azienda, riesce a ottenere molto […]”
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209-210 “[…] Dopo l’apertura, nel 1937, dell’asilo per i figli dei dipendenti con meno di cinque anni, nel 1940 è stata costruita la nuova struttura riservata ai bimbi con meno di tre anni. Alla Olivetti si può essere una mamma che lavora. Nel giugno del 1941, quando viene ampliato l’asilo nido progettato da Figini e Pollini in stile razionalista e con citazioni di Le Corbusier, viene riorganizzato tutto il servizio per l’infanzia e per la maternità offerto dall’impresa. In Italia il trattamento previsto dalla Cassa mutua e dall’Istituto nazionale di previdenza è minimo: stai a casa ricevendo l’equivalente del salario di due mesi, uno prima del parto e uno dopo. Al trentunesimo giorno di vita di tuo figlio, devi tornare in fabbrica o in ufficio. Alla Olivetti, nel 1941, viene emanato un regolamento – l’ALO, Assistenza lavoratrici Olivetti – secondo il quale le lavoratrici sono esonerate dal lavoro da 75 giorni prima del parto fino al settimo mese compiuto dal loro piccolo o dalla loro piccola e continuano a ricevere, grazie a un sussidio aziendale, il medesimo ammontare del salario: un trattamento così favorevole alla lavoratrice è un’eccezione nell’economia e nella società internazionali, non soltanto del Novecento. Peraltro, tutto questo accade sempre e comunque: non importa che tu sia sposata o che tu sia ragazza madre. È così. La membrana che separa la Olivetti dal mondo è fatta anche di quella particolare materia che è l’accudimento dei bambini da parte delle loro mamme. Intorno alla mamma e al bambino si crea un mondo. Si stabiliscono premi di natalità aziendali così da «alleggerire l’onere della famiglia in un momento particolarmente delicato»79. Sono previsti contributi straordinari, in caso di famiglie con particolari difficoltà economiche o con particolari condizioni di salute. A sette mesi, quando la mamma torna nello stabilimento o in ufficio, il piccolo viene accolto nell’asilo nido. All’asilo nido si trova una camera per l’allattamento, così la mamma può allontanarsi per il tempo necessario dall’ufficio o dalla linea produttiva e dare il suo latte al piccolino o alla piccolina che ne abbia ancora bisogno. A tre anni, i bimbi vengono accolti all’asilo e, poi, a quattro anni – e fino ai sei – alla scuola materna aziendale. Al compimento dei sei anni – fin dal 1938 – possono andare alla colonia montana di Champoluc, che rimarrà attiva per decenni, e al mare a Loano, servizio che invece smetterà di funzionare nel 1941. A differenza delle altre imprese italiane, i dipendenti che lo desiderino possono accompagnare i figli in colonia. La membrana che separa la Olivetti di Adriano dal resto del mondo definendone l’anomalia è formata da un ultimo, prezioso, strato: nell’asilo nido aziendale, che ha un numero limitato di posti, fra il figlio dell’operaio e il figlio dell’impiegato viene data la precedenza al figlio dell’operaio […]”
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È incerto, fra tante sponde. Deve andare a Milano, aprire le sedi a Barcellona, in Francia, Inghilterra, Svizzera, ma il fulcro è però quasi paesano: Ivrea. Tende a dimenticare e rimuovere il passato socialista del padre, il fascismo, le sue discussioni con gli alti gerarchi e con lo stesso Benito Mussolini sul corporativismo e sulla concezione di una nuova azienda. Propose confusamente il modello di una nuova economia ai servizi segreti inglesi e USA, a causa del quale fu messo da parte come agente principale di un eventuale colpo di stato ai tempi dell’8 settembre 1943. Sembra comportarsi come un reggitore di una Signoria dei secoli andati.
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262-63 “[…] La crisi della democrazia liberale, il Biennio rosso, l’ascesa violenta del fascismo, la ribellione delle minoranze, il consenso di massa, l’adesione, la via fascista alla modernità, la partecipazione agli organismi dei corpi intermedi, il lavoro intellettuale sul corporativismo, i rapporti con la ristretta cerchia di Mussolini, la crescita della Olivetti in un regime di oligopolio, i legami con la pubblica amministrazione e la politica fasciste. Tutto cancellato, dimenticato, rimosso, destinato all’oblio. A poche settimane dal rientro a Ivrea, nel suo primo discorso ai dipendenti – in una occasione, dunque, fondante – Adriano costruisce il suo nocciolo duro di riflessione per la contemporaneità e per il futuro su una crisi che è di civiltà, sociale e politica: «Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo? Cosa è la fabbrica nel mondo di domani? Come possiamo contribuire con il nostro sforzo e con il nostro lavoro a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti, affinché giorni così tristi né i nostri figli né i figli dei nostri figli e molte generazioni ancora non potranno dimenticare né potranno, una seconda volta, affrontare?» […]”
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E si arriva alla fine del suo percorso.
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486 […] Le cose, dunque, non vanno bene. Adriano, dopo il fallimento alle elezioni politiche nazionali del 1958, si trova a operare in una condizione di negoziato continuo con gli altri famigliari e gli altri soci. Conosce il legame fra finanza d’impresa (al servizio, appunto, dell’impresa) e finanza straordinaria (al servizio, anche, degli azionisti). In questa nota si legge che questi 8 miliardi corrispondono «a più di due volte le emissioni di nuove azioni di tre miliardi», un fattore di persistente tensione con gli azionisti della Olivetti, abituati da dieci anni a portare fuori capitali sotto forma di dividendi e ad autoassegnarsi aumenti di capitale non a pagamento, vedendo crescere la loro ricchezza individuale senza pagare alcun dazio. In un contesto simile la questione della Fondazione, che di necessità interromperebbe l’assorbimento di dividendi da parte degli Olivetti dalla Olivetti, diventa astratta e irrealistica e il tema del Consiglio di gestione appare significativo, ma minimo. L’intero edificio non regge più. Non funziona il meccanismo nel rapporto fra impresa e azionisti, che sono abituati ad avere tanti, tanti dividendi. Non funziona il rapporto fra Adriano e gli altri famigliari. Non funziona, paradossalmente, nemmeno il rapporto fra Adriano imprenditore e Adriano politico perché, come in una dissociazione, il secondo è stato «spogliato» delle sue finanze personali dal primo […]”
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E appena pochi mesi dopo la sua morte:
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509-512 “[…] Il 10 febbraio 1961, il Comitato centrale del Movimento di Comunità si scioglierà. Tutto questo succede sei anni dopo il discorso di Adriano ai lavoratori di Pozzuoli: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». Ma è tutto il mondo di Adriano a perdere consistenza, a sfibrarsi e a sfilacciarsi nella realtà e, allo stesso tempo, a impiantarsi, a crescere e ad assumere vita nell’immaginazione degli altri. Con la scomparsa di Adriano, è come se all’improvviso le radici nascoste dell’albero della crisi prendessero vita e si manifestassero nella Storia ed è come se, simultaneamente, una nuova dimensione civile e affettiva venisse costruita prima di tutto sulla sua assenza. La stessa Olivetti, segnata dai conflitti famigliari e dalla mancanza di un leader carismatico seppur discusso come Adriano, sarà scossa da uno sbandamento strategico e si ritroverà in una fragilità finanziaria di cui c’erano già segni evidenti fra il 1958 e il 1960. Pochi anni dopo rischierà di diventare di proprietà delle banche svizzere, che avranno in pegno le azioni degli indebitatissimi Olivetti: per evitarlo, il ripianamento dei debiti personali di questi ultimi e la ricapitalizzazione della società verranno realizzati dal gruppo di intervento coordinato da Mediobanca e composto da Fiat, IMI, Pirelli e La Centrale. La Olivetti, però, perderà la sua autonomia, diventando un’impresa industriale senza un imprenditore. La riduzione dell’autonomia sarà duplice: la Olivetti, diventata acefala, dovrà rinunciare alla grande elettronica, ceduta alla General Electric, e si troverà in una sorta di camera iperbarica finanziaria, con una specializzazione produttiva concentrata sulla meccanica e sulla piccola elettronica e una dipendenza completa dal sistema bancario italiano. Succederà tutto questo, nel 1964, esattamente cinquant’anni dopo la prima volta di Adriano in uno stabilimento: «Nel lontano agosto 1914, avevo allora tredici anni, mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina. Per molti anni non rimisi piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso all’industria paterna»56. Succederà tutto questo pochi anni dopo che Adriano ha vissuto il suo ultimo giorno. Un ultimo giorno in cui ha mangiato cacciagione e ha bevuto champagne, ha festeggiato la quotazione in Borsa della Olivetti con i suoi famigliari e i suoi dirigenti industriali, si è occupato di libri e di editoria, ha aumentato lo stipendio ai redattori di una rivista, è salito su un treno diretto in Svizzera per discutere con i banchieri e per andare ad amare […]”
Project Hail Mary di Andy Weir (Autore), Vanessa Valentinuzzi (Traduttore), Prima edizione 2021, Edizione Italiana 2023, Mondadori, Milano
Il romanzo di Andy Weir segue lo stile dei due precedenti come Martians (Premere qui per leggere un consiglio scritto di lettura) e (Premere qui per leggere un consiglio scritto di lettura) Artemis. Vi sono protagonisti, maschile nel primo, femminile nel secondo, che hanno un rapporto conflittuale con le autorità. Mostrano una distonia tra ciò che il potere e il diritto pretendono per il mantenimento dell’ordine sociale e per risolvere problemi scaturiti da pericoli incombenti, a fronte dei valori di libertà e democrazia che conferiscono a loro autorità.
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Le esigenze del collettivo, o delle élite, se sopravanzano le richieste e le aspirazioni del singolo, spingono il protagonista del romanzo a opporsi a seguire una accondiscendenza formale ed acritica, fino a incorrere in reati penali come in Artemis. Il protagonista, come qui, in Hail Mary, cioè Randy Grace è una reincarnazione del Cow Boy Usa che è si fedele ai valori della comunità tutta, ma che è capace di azioni di rivolta, di rinuncia, di conflitto. Intraprende una vera ribellione, non tanto per sovvertire l’ordine costituito, quando, secondo la sua ottica, di renderlo più aderente e non contraddittorio nell’esercizio del suo potere, rispetto a ciò che dichiara e a ciò cui si appella in ordine all’etica, alla morale e al diritto.
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A fronte di un pericolo mortale per l’intero pianeta Terra, Randy Grace accetta di collaborare mantenendo un atteggiamento da battitore libero sia nell’effettuare una ricerca di biologia e di ritrovarsi poi coinvolto in una missione spaziale, a dir poco suicida.
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Lo scrittore Andy Weir, qui, affina sempre più, come nei due romanzi precedenti, il suo stile ironico e avvincente, per coinvolgere il lettore come se stesse seguendo un serial in tv. Offre una rappresentazione scenica in cui si ha la sensazione di essere immersi accanto ai personaggi. Anche qui, in modo mirabile, segue il filone della Hard Fiction, ovvero la scrittura di fantascienza che ha sì una idea attualmente irrealizzabile, ma che, se presa per vera, tutto il contorno tecnologico e le nozioni di fisica, chimica e astronomia, sono vere e coerenti nella loro relazione. Vi è una attenzione maniacale dei moti dell’astronave. Si rileva che ha studiato molto di microbiologia, e delle relazioni tra la luce e lo scambio di energia negli organismi viventi.
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È uno scrittore superlativo, e non è un caso il suo successo, anche nella riproduzione filmica dei suoi romanzi, in merito a una narrazione attenta ai ritmi di comprensione di ciò che è esposto. Non è un caso che ci si senta portare per mano nel comprendere l’ambiente ipertecnologico che fa da contesto. Anche qui ha frasi “slang” che possono essere comprese in modo compiuto solo da chi vive negli USA, anche per i riferimenti a particolari modi di dire riferiti a luoghi e a persone specifiche. E questo è un limite delle traduzioni di tutta l’opera di Andy Weir: sarebbe il caso di corredare con note esplicative, quella massa di riferimenti quotidiani che è offerta. Si dovrebbe avere la capacità, la voglia, e il tempo, come solitamente il sottoscritto compie, di avviare ricerche laterali per quei termini e per quei rimandi oscuri, che in realtà però sono rivelatori di analogie e di riferimenti che offrono nuove chiavi interpretative circa lo sviluppo della narrazione.
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È un peccato che non siano esplicitate, perché queste rendono più concreti i personaggi, e in particolare il loro vissuto. Senza contare poi, che lo stile è comico, con battute e motti di spirito, che potrebbero essere più ficcanti, nell’inquadrare i contesti in modo meno approssimato.
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Nei romanzi di Weir, come in questo, il monologo del protagonista la fa da padrone: scandisce l’intervallo con i dialoghi con gli altri personaggi. In Martians il soliloquio mentale traccia il prima e il dopo con i dialoghi e spiega lo svolgersi dei momenti topici nell’atto del loro svolgersi. In Artemis si riprende tale stile, aggiungendo un doppio dialogo che la protagonista ha con gli eventi del passato, in modo che siano incasellati nelle scelte dell’azione presente. Anche in Hail Mary vi sono queste due caratteristiche, ma il ricordo qui, non è solo un elemento per coordinare il monologo interiore, quanto un vero e proprio antagonista. Randy Grace all’inizio del romanzo è smemorato, e i ricordi arrivano goccia a goccia, non soltanto come elementi inerti, ma come un groviglio di situazioni reali che si accostano nelle vicende del presente.
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Il passato viaggia in parallelo con il presente, e la riflessione, e la chiave dell’interpretazione viaggiano entrambe nel participio passato. Il futuro, invece, si ritrae continuamente. Tutto ciò rende dinamica la storia. Va vissuta fino all’ultimo senza farsi prendere dalla voglia di sapere immediatamente la fine. Una chiave dei successi di questi libri, risiede nell’abilità dell’autore di moltiplicare il personaggio principale in tanti se stessi sia nei dilemmi morali sia nel corso della narrazione, in modo che tutti siano presenti, offrendo quindi una riflessione autoironica, disincantata e briosa.
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È facile immedesimarsi con i protagonisti, perché, nonostante le avversità, i disastri, i propri limiti, hanno comunque uno spirito positivo. Cercano di capire l’oscura minaccia che si avvicina e affrontano il pericolo nel tentativo di elaborare tattiche e strategie di risoluzione. Si rimane stupiti di quante risorse emotive e cognitive i protagonisti tirino fuori dal cappello, ma Andy Weir è abile nel mostrarcele nei momenti di massima tensione, offrendo quindi l’immagine che anche noi, in condizioni di necessità, saremmo capaci di reagire in modo proficuo ed adeguato.
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Per questo stile che definirei fresco e corroborante, questo libro andrebbe vissuto e sperimentato nel chiedersi quali siano i propri limiti, e nel pensare le soluzioni più adeguate per risolverli o perlomeno ridurli.
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Dietro l’apparente comicità del romanzo, però sono trattati temi capitali, come l’ambiente, il senso della propria esistenza qui in questo pianeta, e l’anomalia stessa che è la Terra rispetto agli astri. Vi è un tributo alla volontà di vivere associata a una genuina sete di conoscenza.
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Come in ogni sua opera Andy Weir si documenta in modo minuzioso chiedendo la collaborazione di esperti e di scienziati circa gli argomenti e gli ambiti scientifici e tecnologici in cui la narrazione è intessuta. Vi sono descrizioni della biologia molecolare e quella dei batteri. Vi è anche una ideazione comparativa riguardo le diverse forme ucroniche di evoluzioni della vita in pianeti diversi. Vi è un’ottima applicazione dei modelli delle teorie dell’evoluzione. E alla base di tutto, vi è una descrizione precisa ed attendibile dei fenomeni astrofisici e delle leggi di rotazione e di spinta per i viaggi interstellari.
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La lettura di questo libro offre un’occasione per approfondire l’ostico concetto delle teorie della relatività, in particolare per le relazioni tra lo spazio e il tempo in funzione di velocità quasi prossime a quella della luce. L’esposizione, infatti, è accessibile, lineare, senza scorciatoie “gergali” o ad “effetto” che mascherano eventuali incongruenze fisiche e astronomiche.
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È uno scrittore onesto: parte da una idea che è fantascientifica, ma l’ambiente e lo sviluppo della narrazione è coerente con le nostre effettive conoscenze teoriche e con le possibilità tecnologiche di oggi.
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Per questo l’autore può essere considerato un rappresentante dei nostri giorni degli approcci dei grandi scrittori di fantascienza della “Età dell’oro” che oggi si definisce tra gli anni quaranta e metà anni sessanta del secolo scorso.
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Vi è un elemento ulteriore che è più strettamente estetico. All’interno della trama, vi sono due grandi proiezioni dei modelli dei cicli vitali qui nella Terra e delle diverse forme di un paradigma finalistico di ciò che è il futuro e delle responsabilità delle specie più evolute. Qui siamo in un campo in cui è lo scrittore che si confronta con l’etica e la speranza.
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È un’opera a tutto tondo che riempie i polmoni d’aria fresca e pulita e si sorride con piacere nell’adagiarsi a una lettura avvincente, onesta, e tutt’altro che superficiale.
Il giuoco delle perle di vetro di Hermann Hesse, 1990 (Prima pubblicazione: 1943), Mondadori, Segrate, Collana: I Meridiani, Traduttore: Ervino Pocar
“Il giuoco delle perle di vetro” è una sinestesia tra le scienze e le arti, da una frase di Confucio, si passa ad una fuga, che si tramuta, bicefala, in un dipinto e in una poesia.
Il protagonista, Knecht, all’inizio del suo interrogarsi su sé e sul mondo, compie l’errore di voler saggiare il METODO ESATTO di questa sinestesia universale che è il giuoco delle perle di vetro. Intende manifestare la struttura, lui, singolo dell’universale che è il tutto, compiendo una grave contraddizione.
Castalia e il giuoco delle perle di vetro. L’apparente inutilità che ricerca, nel gesto estetico, di collocarsi entro la propria limitatezza, nella cognizione che tale semplicità non possa escludere la grande manifestazione del sensibile e del corpo. Vi è una ripresa poetica della dualità tra le idee e il mondo neoplatonico, stilizzato dai tedeschi del 1700-800.
Castalia un ritorno all’adolescenza. Alle promesse inevase.
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Questo romanzo non è un compimento di un’opera e del lavoro correlato. È una individuazione provvisoria del percorso di crescita che Hermann Hesse tentò di praticare nel corso del suo vivere intellettuale e artistico.
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L’arte è anche pedagogia. Lo scrittore nel parlare del mondo, del vivere e del bello, quindi delle arti, può dichiarare la sua funzione nell’accompagnare il cammino del pubblico verso il godimento e la riflessione estetica, la quale, se veramente vissuta, comporterebbe una migliore consapevolezza etica di sé nel mondo.
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Non è un caso che nei romanzi giovanili, oltre a narrare dei turbamenti della nuova soggettività del secolo 900 che comparve con sua dignità autonoma, l’adolescenza dispiega le sue ricerche nelle arti come la pittura e la musica. La crescita dell’artista non è solo quella eroica e magica dell’illuminato, ma anche di quella dell’infante che si fa adulto. Il buon cammino estetico è parte necessaria e integrante dello sviluppo del giovane e dei popoli. La pedagogia è impossibile che non sia dotata dell’educazione e della pratica nel gusto e nella produzione artistica.
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La maggiore consapevolezza nel conoscere i turbamenti derivati dalla propria limitatezza rispetto al sapere, al destino e al vivere e al morire, è concomitante all’incapacità di sottrarsi a tale giogo, perché è il nucleo del senso di sé. E del tempo in cui si vive.
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Il romanzo di formazione dell’ottocento, nell’opera di Hesse si trasforma nella stenografia del vivere di ogni essere vivente. L’adulto è il risultato momentaneo e in divenire di questo libro che giunge a gradi infinitamente estesi nell’esprimere l’arte, il gioco e il pensiero. Tale cammino, pone se stessi come il problema da distendere nel tempo nel comunicare ciò che è oltre sé.
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E proprio perché Hermann Hesse visse prima, tra e dopo le due guerre mondiali, tentò di reagire a suo modo, contribuendo tenacemente, nonostante le depressioni, le limitazioni fisiche e l’inesorabile vecchiezza, ad esprimere una assonanza tra il giovane che rimane nel buio e non vuole riconoscere la menzogna che, tuttavia, preavverte, e gli stati e i capi che, nel percorrere esclusivamente un cammino teso ad acquisire sempre più potenza, entrambe le parti sembrano non comprendere che in realtà dilaniano se stesse. Tutti rimangono nella piatta visione della sopraffazione, senza fine, senza avanzamento in una stasi di morte, cecità, dolore. Permane l’impossibilità a mantener fede al proprio destino di proseguire un cammino nel mondo e nel tempo, fino al proprio ed inevitabile compimento.
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L’elemento più dilaniante per Hermann Hesse, fu che le stesse arti erano usate e generate per alimentare pratiche inedite dell’orrore. Il giuoco delle perle di vetro è un percorso di formazione che riprende lo spirito della pedagogia generato dai millenni, tramandato per analogia a partire dalle forme della filosofia greca, abbracciando le filosofie orientali, e innestandole nello spirito scientifico moderno, per creare un orizzonte più ampio rispetto alla visione della guerra contemporanea e quindi a quella artistica ad essa correlata.
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Il giuoco delle perle di vetro non è descritto in modo preciso, e non può che essere così, perché il titolo già racchiude gli indizi. È un libro aperto di formazione dei protagonisti, del lettore e della loro trasfigurazione, che, attraverso il rispettivo congedo, lascia nuovi spazi di possibilità di esistenza per gli altri che stanno sopraggiungendo. È un giuoco infinito, senza uno scopo e un premio accertato, perché ha l’orizzonte stesso di senso come regola, e di vetro, perché è consapevole della propria limitatezza e quindi della sua indefinita possibilità di manifestazione, per il singolo lettore, per il giocatore del presente e per tutti quelli che forse verranno. Perché il giuoco è questo mio e tuo vivere.
L’EFFETTO ANOMALIA Traduzioni telematiche a cura di Rosaria Biondi, Nadia Ponti, Giulio Cacciotti, Vincenzo Guagliardo (Casa di Reclusione – Opera) David Brin. L’EFFETTO ANOMALIA. Titolo originale: “The Practice Effect”. Traduzione di Claudia Verpelli. Copyright 1984 David Brin. Copyright 1992 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. URANIA
Brin David è uno scrittore di fantascienza e anche un astronomo. È dotato di una solida conoscenza tecnico-scientifica. Non è un caso che i suoi romanzi, al netto dell’idea di fondo che è fantastica, sono contraddistinti da una narrazione che tiene per conto le logiche e l’impiego coerente e attendibile delle conoscenze scientifiche, adeguate ai supporti tecnologici descritti. È un narratore di mondi immaginari intessuti di eventi coerenti e verosimili.
È considerato un esponente della fantascienza hard (dall’inglese hard science fiction), detta anche fantascienza tecnologica, che enfatizza accuratamente il dettaglio scientifico o tecnico.
L’<Effetto Anomalia> tratta le conseguenze derivate dalla scoperta di poter passare in un mondo ucronico e distopico. L’innesto è lo Zievatron: un macchinario che collega queste fessure iperdimensionali. È l’espediente che permette la genesi della trama. Il tema del “passare oltre” non è nuovo, perché risale già prima dei racconti mitici. I romanzi di fantascienza, infatti, anche quelli meno tecnici e scientifici, narrano le storie mitiche, rivestite con gli abiti del presente, traslando le gesta eroiche e i simboli nel presente.
I protagonisti (lo scienziato cavaliere – la figlia del re buono, il re antagonista cattivo, gli alleati sapienti e quelli ridicoli – l’antagonista del cavaliere scienziato che è suo collega nel mondo “nostro”) seguono tutti i canoni della letteratura tradizionale epica e di avventura, che spazia tra il picaresco, al guascone, fino a proto-stili che oggi vanno di più moda. Mi riferisco alle saghe, che possono essere scorporate in più libri, eventualmente in film, e nei videogiochi. I grandi capolavori di due secoli fa, così lunghi come quelli francesi e inglesi, erano stampati in capitoli in modo seriale e pubblicati nelle riviste periodiche. Una eccellente capacità impreditoriale.
David Brin descrive i problemi sociali ed economici degli anni novanta, durante la correlativa trasformazione tecnologica in atto, riflettendo sui nuovi assetti della società, traslando la riflessione in un pianeta a noi affine, ma con le leggi dell’entropia e della meccanica razionale diverse, rispetto ai vincoli della nostra realtà.
Ed è qui che emerge la maestria di questo scrittore: narra le vicende dei protagonisti in un modo coerente e perfettamente adeguato alle ipotesi di fondo. Il modo di creare qualsiasi manufatto, i criteri di attribuzione di valore e di ricchezza, le strategie di ricerca volte a perseguire nuove scoperte in ordine alla fisica e alla chimica.
Ha una intuizione geniale nel descrivere i tentativi di mantenimento dell’ordine nell’irreversibilità dei processi antropici, e quindi nella degradazione dell’energia e degli ambienti vitali.
Il romanzo offre ulteriori chiavi di lettura circa i modi con i quali noi ci affidiamo, esclusivamente per fede, cieca, e imposta alle leggi e alle consuetudini del nostro vivere, in rapporto ai conflitti politici, sociali, ed economici, a livello individuale e delle comunità.
È un libro che andrebbe riletto due volte: la prima per puro godimento di avventura, la seconda come una occasione per mirarci allo specchio, nella speranza di acquisire il lusso di guardare il nostro vivere in intervalli temporali più estesi rispetto il proprio vivere quotidiano.
Questa ANOMALIA ha tutte le caratteristiche per smuovere ciò che per noi è considerato ovvio. Se la lettura è praticata rigettando la pigra accettazione di ciò che è il nostro eterno presente, allora potrebbe offrire nuovi occhiali per ridefinire le domande su noi stessi.
La trama ha più livelli concomitanti di interpretazione. Lo stile è apparentemente colloquiale, perché è connotato da riferimenti storici reali, in particolare quelli relativi alle scoperte tecniche e ai loro inventori. È un’opera con intenti edificanti.
Postilla: Se si legge il romanzo in lingua originale, vi è la possibilità di apprezzare l’enorme quantità di giochi di parole e modi di dire profondi e coloriti, propri del modo di intercalare nel sud-ovest USA.
Le mie sono solo risposte a un tuo continuo richiamo…