Il meridiano di sangue è una traccia scritta dagli eventi per opera dei protagonisti. La mappa del mondo è raffigurata con i radianti delle ossa e gli angoli delle armi. Il corpo umano è quello degli Stati Uniti in formazione. Le configurazioni statuali figliano involucri di pus e di sangue disseminati tra la terra e l’acqua che viaggiano tra est ed ovest, crollando uno dopo l’altro, fornendo un linguaggio e un senso dei confini, attraverso la consunzione e la decomposizione.
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Il ritmo della narrazione è scandito dal timbro della violenza. Ogni trama è descritta dall’offesa della natura contro gli esseri viventi. Le vite sono pollini sparsi dall’Atlantico verso l’Oceano Pacifico, con pochi che germogliano, e la massa che invece crepita nel baratro, collassando tra la crudeltà, il sadismo, e la vacua razzia, aggrappandosi a scheletri di trofei macilenti e velenosi.
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Vi sono richiami storici ben precisi, e per noi europei quasi oscuri, circa la storia dell’America del Nord, riguardo la guerra civile degli Stati Uniti d’America (detta da noi impropriamente guerra di secessione), le lotte decennali tra l’ex impero spagnolo e francese, gli agglomerati statuali transitori e in perenne conflitto tra quelle nebulose chiamate Louisiana, Messico, Texas e gli stati centrali e dell’ovest dell’Unione di recente formazione, fino alla California.
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Ricordando comunque che già dapprima vi erano guerre senza fine tra i creoli, gli ispanici, le varianti che noi facilmente e in modo superficiale denominiamo Apache o Sioux, i Comanche identificandoli semplicemente come indiani, attraverso i film Western del secolo scorso. No, i complessi gruppi ed etnie stanziali prima dell’avvento degli spagnoli, dei francesi e degli inglesi, e poi di tutta quella sterminata immigrazione senza patria dell’ottocento, erano già agglomerati in conflitto ed ibrida mutazione.
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Lo stile di scrittura è piano e lineare e paradossalmente con pochi superlativi. Di prima impressione sembra sia costellato da ritmi giornalistici, di cronaca addirittura, per planare su resoconti storici indiretti con nomi nascosti di generali, di personalità del periodo, che per il lettore veloce e superficiale sembreranno gettati così senza un criterio. Si passa dalla cronaca di eventi bellici, fino alle narrazioni dell’uomo settecentesco che affronta una natura ostile alla Robinson Crusoe.
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Questa capacità istrionica è sublimata in una forma di romanzo, che è incorniciata dalle descrizioni ambientali delle Montagne Rocciose, e relativi dirupi, con un’alluvione di termini geologici, botanici, nonché zoologici. Vi è una capillare descrizione etnologica dei gruppi etnici, e delle bande, oltre degli eserciti che lottano tra loro. Emerge una visione antropologica dei modi di vivere degli agglomerati, posti, indipendentemente dalle loro dimensioni, tra il deserto, i boschi, il freddo, la siccità, in un oceano di ostilità, dove l’orizzonte è un continuo generatore di pericoli, di nemici: un bardo del dolore e della morte.
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I protagonisti sono coraggiosi e capaci, che agiscono senza enfasi. Quasi in un richiamo ipnotico si avverte l’impressione di leggere stanche descrizioni di marinai anziani seduti davanti al caminetto raccontando dei tempi che furono, gli argomenti trattati e gli eventi sono lo spasimo. Almeno all’inizio, perché poi, appena si entra in questo mondo, non vi è un attimo di tregua. Il ritmo varia in un crescendo di azione violenta, su scenari di orrore e di morte.
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La crudeltà è il pendolo che oscilla tra un vortice di sadismo e di una assurda tranquillità, nella quale i protagonisti quasi morenti e in sofferenza estrema, riflettono sulla loro condizione, sull’etica, sul senso del proprio agire. Il dolore e l’angoscia della propria scomparsa, aprono la possibilità di un tono lirico, e veramente letterario tra il tragico, il poetico, il drammatico.
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Non si salva nessuno: ognuno di loro uccide, imbrattato di sangue e di repellenza. Appare pulito e accettabile nel raffigurarlo esteticamente, il personaggio che non subisce la morale e la compassione, e che cerca di rimanere integro alle pallottole, alle coltellate, alle frecce, alle ferite invalidanti, tra la bile e il vomito.
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Anche chi riesce a razziare, a portare gli scalpi e vendere le orecchie e le teste essiccate, sperpera il ricavato in veleni d’alcool e d’azzardo che portano alla rissa, all’omicidio, alla prigione, alla morte subita quasi senza senso dal compagno dell’ora prima, che uccide totalmente ubriaco, in una abiezione sessuale che comunque porta all’infezione.
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Non vi è una giustificazione: l’avidità e la ricerca del piacere perverso non sono nobilitati, e non sono descritti come ciò che ottunde la ragione, salvando quindi la razionalità, bella e buona. No. Questo è un romanzo che affronta di petto la cattiveria, l’altra parte del cuore nero che tutti abbiamo e che cerchiamo di delimitarlo con questa linea di sangue. Sì, perché questo meridiano è disegnato nel cuore di ogni essere umano.
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Oltre la violenza fisica e immediata, vi è uno scontro sotterraneo tra una visione data da un protagonista che descrive il senso della storia, del vivere e del mondo in un piano amorale, e chi invece cerca di aggrapparsi ancora con un dito nell’altra parte del confine, essendo però, assassino e spietato come il suo interlocutore.
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Non è una dialettica dove vi è la sintesi tra il protagonista e l’antagonista. Più che la sublimazione, si dissolvono e lasciano al lettore di immedesimarsi, con il tranello che alla fine si sta parlando proprio di lui. Ed è ovvio che quasi nessuno potrà definire compiutamente queste posizioni, perché l’oggetto del contendere siamo io e te. Il mio e il tuo cuore.
Lo scritto innesta uno studio etico in una opera letteraria, finemente cesellata nei termini americani, spagnoli, amerindi. Nessuno è innocente.
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Vi sono riferimenti non tanto nascosti relativi alle interpretazioni metodiste e battiste degli Usa, oltre al mix cattolico inca azteco dei popoli del Messico, innestato nelle correnti animiste dell’universo degli indiani. Il tutto cozza contro riferimenti espliciti alle metafore del “Così parlò Zarathustra”, di “Ecce Homo”, e della “Genealogia della morale” di Friedrich Nietzsche, come anche nelle pagine finali, circa il richiamo alla danza della “Gaia Scienza”.
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In prima e anche in una seconda lettura, risulta quasi immediata la considerazione che il romanzo voglia svelare la nudità dei rapporti sociali e della propria posizione rispetto alla natura, in un’escrescenza etica labile, usata per il più come tattica di sopraffazione.
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Eppure i momenti più lirici e di consapevolezza, avvengono nei momenti in cui si ha bisogno degli altri per le cure, per un sorso di acqua, per un riparo dalle asperità climatica. L’aiuto è fornito indipendentemente da una transazione di scambio di valore monetario, perché in quelle condizioni alcunché ha un valore, se non la soddisfazione immediata delle esigenze della sopravvivenza.
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Sembra che alla fine vincano quelli che sono “Al di là del bene e del male” e che dicano “sì” al vivere che è insensatezza,
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MA
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agendo in modo tragico nell’accettare il caos, che è crudele perché gli si vuole dare un senso, ricercano un contrappunto nella propria morale. Non è un caso, infatti, che dichiarando di non avere il cuore, e offrendo solo questo meridiano, tutto rimane svuotato, ciò loro stessi, e la loro capacità di rispondere. Chi è giudice, diventa il giudicato, e chi vuol essere libero, non ha più parole per dire se le proprie mani siano o no incatenate.
E qui il dilemma è consegnato al nostro meridiano personale, attraverso questo capolavoro di romanzo che non offre sconti.
“Nel paese delle ultime cose (In the Country of Last Things) 1987, Ed. Italiano 2018, Einaudi, Torino, di Paul Auster (Autore), Monica Sperandini (Traduttore)
Con Paul Auster si respira alta lettura con un’aria di montagna che non lascia spazio a pigre sensazioni. Si arriva subito in una posizione panoramica che invita ad una lettura che segnerà il proprio senso estetico.
Soltanto per la sapiente commistione di stili, questo romanzo è un capolavoro. A prima vista sembra una lunga lettera che però assume, nel corso della lettura, la struttura di un lungo diario. Nelle prime pagine è narrato nel tempo presente, ma è intervallato nei salti temporali e nelle spiegazioni circa gli eventi generali che oltrepassano le gesta dei momentanei protagonisti in una narrativa di memoria.
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È un diario di bordo, perché la narratrice man mano che prosegue nella descrizione delle sue avventure, colloca i luoghi e le vicende in una spirale, in cui ella ne diviene parte. Il punto di vista dell’esterno e lo spazio di confine, nel flusso delle parole, sono risucchiati all’interno del luogo circoscritto: il paese delle ultime cose.
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Paul Auster descrive con una eccellente capacità i personaggi attraverso una tecnica che rimanda alla descrizione dei tratti somatici e dalle loro posture in linea con la tradizione dei romanzi psicologici dell’inizio del 1900. Però non si ferma solo in questa linea di presentazione: ed è qui che mostra di essere uno scrittore di altissimo livello. La narratrice descrivendo i personaggi, nel contempo, attribuisce qualità morali e caratteriali che non hanno soltanto lo scopo di inquadrare ed eventualmente collocare la figura in un quadro che delinea l’eroe, l’antieroe, il buono, il meschino, perché le loro inclinazioni ed attitudini variano di scopo e di valore. Il mutamento è in relazione ai continui climax di sopravvivenze cui sono sottoposti.
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Vi è una tecnica sopraffina nel ritmo della scrittura che offre dapprima un quadro morale sicuro in cui collocare i tipi e indurre le loro eventuali azioni, il quale, in modo sotterraneo con i richiami del loro passato, è trasformato in un complesso di cause efficienti per gli avvenimenti che da lì a poco appariranno. Le figure topiche che via via scorrono, lasciano emergere nuovi luoghi di narrazione che proiettano il diario di memoria, e quindi al passato, in un fiume del presente. Il lettore è accompagnato in questa navigazione, senza che perda il pathos e il godimento estetico derivato dalla fruizione del testo, per soffermarsi a ricollegare le situazioni e le condizioni che hanno generato i singoli eventi.
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Paul Auster dispiega una palestra dotata di infinite risorse conoscitive e di strumenti per chiunque voglia esprimere il suo mondo interiore nella forma della scrittura. In primo luogo, in forza diaristica, quindi personale, e per avventurarsi nell’acquisizione e nella produzione autonoma di propri stili espressivi.
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Gli ambienti acquisiscono una vita propria che è dipinta dalle metamorfiche caratteristiche fisiche e morali dei personaggi. La narratrice entra ed esce dagli avvenimenti, perché in un primo momento configura un timbro complessivo di questa cascata sovrabbondante di stimoli che in modo alternato fa scorrere i dialoghi nei momenti topici. In seguito trasla gli scenari in un participio passato per riassumere il vortice di caduta di questo paese in un capolinea: la linea sicura cui il lettore possa appoggiarsi nel mantenere un filo temporale compiuto.
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Il lettore ha in dotazione la possibilità di poter modificare la vista del paesaggio in negativo, a colori, in bianco e nero, di vederlo muovere o di collocarlo in un fermo immagine, e tutto ciò accade nello spazio di uno o due pagine. La bellezza di questo romanzo, è che nella lettura, se ci si lascia appassionare, non vi è bisogno di soffermarcisi, o di accorgersi di questa giravolta stroboscopica dei punti di vista.
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La protagonista, ama, odia, dispera, reagisce, avanza in modo tenace anche nel dolore e nello scoramento. Gli avvenimenti accadono sull’orlo di un baratro, in una tensione per la quale si possa perdere tutto: cose, persone, ricordi, criteri di ordine delle relazioni sociali. Vi è una spasmodica ricerca di ordine e di senso, per definire una prospettiva verso il futuro, all’interno di uno stato carcerario di continua sopravvivenza, ove sembra impossibile uscirne.
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Il fiume non si ferma, sicché si cerca di galleggiare tra i flutti delle onde su una zattera che affonda. Si afferra un suo relitto, che successivamente è travolto da una nuova tempesta. Si cerca, allora, un appiglio a ridosso di scogli taglienti, ma anche qui ricomincia l’instabilità.
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Vi è il tempo che divora. Questo paese si vuol mostrare come un luogo in cui i bimbi decidono di non nascere e i vecchi di non trapassare. I secondi sono cannibali, cloni di Crono, e i primi olive avvizzite cadute dal ramo, prima della trasformazione in olio.
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La trama del romanzo è definita da una metafora della scrittura che oscilla nell’invenzione del mondo, e nel tentativo di descrivere quello che è presunto reale, cadendo quindi nella onnipresente contraddizione di scrivere del fantastico, e di definire in modo infondato ciò che non lo è, partendo proprio dall’invenzione. È una prigione dalla quale è impossibile uscirne.
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Ciò spiega allora il modo indiretto in cui sono sovrapposti gli stili. È impossibile dichiararli compiutamente in un elenco esplicito, perché diverrebbero un polo dei due di questa insanabile contraddizione che appare in un regresso all’infinito.
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Ed è qui che il tempo della narrazione, nel suo complesso, si svolge in questo vortice senza fine di distruzione di senso, se non in quello della contraddizione, che è l’ultima stazione degli eventi cui è impossibile ripartire.
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Vi sono situazioni che richiamano le tragiche e mondiali vicende accadute nella prima metà del novecento, e quelle attuali tra gli anni settanta e ottanta, coeve alla generazione dello scritto. Si parla di ieri e di oggi, perché appunto qui sono entrambi fermi in questo “fine” capolinea.
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È un romanzo che suscita forti emozioni e impegna il lettore a sostenere questa integrale tensione fisica che però dona la possibilità di sublimare la sensazione di greve precarietà che avvolge ognuno di noi. Siamo tutti sorelle e fratelli in questa grama condizione che lascia trasparire qualche fiore nelle paludi delle lacrime. La bellezza che strugge.
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È sentitamente consigliato avventurarsi in questa tremenda consapevolezza, avendo comunque accanto la narratrice che ci protegge e ci accompagna durante la lettura.
Mondi senza fine, 2023, Urania, Mondadori, Milano, di Clifford D. Simak (Autore), Davide De Boni (Traduttore)
Il volume contiene 4 romanzi di Clifford Donald Simak: “Oltre l’invisibile”; “City”; “Way Sation” e “L’Ospite Del Senatore Horton”. Sono contraddistinti da una narrativa immaginifica con un senso della meraviglia, che invita il lettore a espandere il suo orizzonte visivo nel cosmo, mentre ci si immerge nel profondo dell’animo umano.
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Il cuore del singolo e l’infinito del cosmo che convergono in una domanda: “Perché io Esisto?” e “Cosa è l’umanità?”
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Domande terribili, che, però, sono dispiegate in una narrazione fantascientifica, evocativa, pudica e discreta, con una poetica magica, che effonde una pacifica suggestione di rilassatezza e di buona disposizione a pensare l’incertezza.
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È impossibile leggere questi romanzi in modo distaccato, perché l’autore esige la collaborazione e la compassione del lettore rivolta a tutte le creature viventi e a quella particolare manifestazione del cosmo che è l’uomo, anche nelle sue gesta violente e distruttive.
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Vi sono domande radicali, cui il lettore non può evitare di interrogarsi. Nel romanzo “Oltre L’invisibile” è posto principalmente il tema della presunta superiorità e del diritto dell’essere umano di disporre di ogni essere vivente dell’universo.
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59-60 “ […] «Per farla breve,» proseguì Stevens «siamo portavoce dell’idea che agli androidi dovrebbe essere garantita l’uguaglianza con il genere umano. Di fatto, sono umani sotto ogni aspetto tranne uno.» «Non possono avere figli»
[…]
«Migliaia di anni fa è stato cancellato ogni legame di schiavitù tra esseri umani biologici. Ma oggi esiste un altro tipo di schiavitù, che lega l’umano fabbricato a quello biologico. Perché gli androidi sono una proprietà. Non vivono come padroni del proprio destino, ma al servizio di una forma di vita identica alla loro… identica sotto ogni aspetto, tranne per il fatto che una è biologicamente fertile, mentre l’altra è sterile» […]”
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203-204 Tutta la vita possiede un destino, non soltanto quella umana. Esiste una creatura del destino per ogni altro essere vivente. Per ogni essere vivente e anche di più. Aspettano che la vita accada, e ogni volta che si manifesta una di loro è lì, e ci rimane fino alla conclusione di quella specifica vita. Non so come, né perché. Non so se il vero Johnny sia alloggiato nella mia mente e nel mio essere o se rimanga semplicemente in contatto con me da 61 Cygni. Ma so che è con me. So che resterà.
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“City. Anni senza fine” si compone di una sapiente architettura di racconti mitici circa l’esistenza della presunta “razza umana”. E qui si arriva alla definizione del ciclo della nascita e della morte di ogni età del mondo, e delle specie viventi in essa coeve. Il timore della memoria e della ricerca di senso di ciò che si è stati e dello scopo di ogni senziente è mostrato, in una riflessione dolorosa, sperduta, alla ricerca di almeno una rispondenza temporale della veridicità del proprio esser stati in vita.
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622-624 “”[…] «Ci sono altri mondi là fuori,» stava dicendo Andrew «e in alcuni di essi c’è vita. E persino una qualche forma di intelligenza. C’è del lavoro da fare.» Non poteva trasferirsi nel mondo delle ombre in cui si erano stabiliti i Cani. Molto tempo prima, quando tutto era iniziato, i Webster se n’erano andati per far sì che i Cani fossero liberi di sviluppare la propria civiltà senza interferenze da parte degli umani. E lui non poteva essere da meno rispetto ai Webster, perché anche lui, dopotutto, era un Webster. Non poteva intromettersi nelle loro vite; non poteva interferire. Aveva tentato la strada dell’oblio, provando a ignorare il tempo, ma non aveva funzionato, perché nessun robot poteva dimenticare. Si era convinto che le formiche non avrebbero mai avuto importanza. Si era risentito per la loro presenza, certe volte le aveva persino odiate, perché se non fosse stato per loro, i Cani sarebbero stati ancora lì. Ma adesso si rendeva conto che tutta la vita aveva importanza. C’erano ancora i topi, ma quelli stavano meglio da soli. Erano gli ultimi mammiferi rimasti sulla Terra, e non dovevano esserci interferenze. Loro non ne volevano e non ne avevano bisogno, se la sarebbero cavata bene. Avrebbero forgiato da soli il proprio destino, e se il loro destino non fosse stato altro che rimanere semplici topi, non ci sarebbe stato niente di male in questo.
[…]
Col tempo non ci sarebbe stata più nessuna casa, ma solo un tumulo d’argilla a contrassegnare il punto in cui in passato ne sorgeva una. Tutto derivava dal fatto di aver vissuto troppo a lungo, meditò Jenkins – aver vissuto troppo a lungo e non essere in grado di dimenticare. Quella sarebbe stata la parte più difficile: lui non avrebbe mai dimenticato. Si voltò e riattraversò la porta e il patio. Andrew lo stava aspettando ai piedi della scala che portava a bordo dell’astronave. Jenkins tentò di dire addio, ma non ne fu capace. Se solo avesse potuto piangere, pensò… ma i robot non potevano piangere […]”
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“Way Station. La casa delle finestre nere” accoglie tutti noi in una sensazione di struggimento, nostalgia di amore, di una civiltà, del tempo, il passato e il presente, che si confronta con l’eternità, per venirne a patti. Il dilemma scaturito dalla consapevolezza che la mortalità ha le idee, i pensieri, la memoria, le aspirazioni, la fantasia.
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Se diventassimo immortali, d’altro canto e se fosse impossibile cambiare il proprio sé rispetto ai tempi più lunghi imposti al proprio io e alla propria mente, ciò colliderebbe con la nostra specifica individualità: la nozione dell’<Io>. Simak suggerisce che il sottoscritto, voi, e ogni mortale che ancora deve nascere, ha dei limiti nella sua evoluzione.
Il dubbio che l’evoluzione trascenda la mia intelligenza: informa che io sono destinato a diventare un passato, ovvero una parte di ciò che avverrà, o semplicemente di comporsi in un magma che sprofonda nell’oblio.
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La volontà di sopravvivere, mantenendo la memoria e la biografia del proprio animo, nella sua tensione di espandersi verso il tutto, ha la sua evoluzione in una sublimazione in un futuro che ingloba il passato.
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Il mortale, quindi, ha come suo elemento costitutivo la perenne oscillazione di senso tra l’oblio e la negazione della realtà come altra da sé. Si rimane quindi imprigionati in questo dilemma, avendo la tentazione della scappatoia verso la morte. Con il terribile timore che l’eternità possa soltanto promettere l’angoscia del fallimento.
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Certamente Simak non pensava nel modo in cui il sottoscritto sta radicalizzando i suoi intenti e la sua poetica, ma egli è un grande scrittore che supera il genere della fantascienza, perché i suoi romanzi sfuggono dalle sue stesse premesse e intenti. Diventano dei classici. Acquisiscono una vita propria e si nutrono del fascino e delle sensibilità del pubblico che sopravviene nel tempo e nei luoghi ulteriori a quelli di riferimento all’atto della pubblicazione dello stesso autore.
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I suoi romanzi hanno un lirismo poetico, una struttura mitica, una passione commovente nel cercare un abbraccio di consapevolezza circa i propri dilemmi, verso qualunque essere umano, anzi oltre esso: qualsiasi forma del vivere.
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Sono il protagonista del mondo? Certamente i valori, i criteri della verità sono tali, coerenti e adeguati entro la mia specie, che si vede unica e il resto dell’universo un residuo. Mi concedo, quindi, il lusso di guerreggiare e distruggere. Ma l’intelligenza e l’idea dell’anima, questo mio “io” e “destino” correlato, sono i punti insondabili di ciò che è la rappresentazione del mondo. Oppure ne sono un epifenomeno tra i tanti? E quindi ancora la nozione del vivere e la rappresentazione di esso, nei modelli di vita, non potrebbero essere di più e diversi da noi?
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L’insignificanza, ancora prima dell’oblio, comporta in questi romanzi, dalla paura della supremazia del primo romanzo, a quella della estinzione del secondo, al terrore della propria insignificanza nel terzo, la percezione dell’abisso e nel contempo la visione di una prospettiva più ampia dell’universo. Fino alla irresistibile richiesta di un perché della realtà nel quarto romanzo “L’ospite del senatore Horton”.
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E qui che vi è il poetico e lo struggimento, perché Simak utilizza la vastità delle galassie per mostrare la periferia infima del nostro settore dell’universo e noi in esso, ma offrendo, con questa amara consapevolezza, un arricchimento del proprio vivere, qui ed ora.
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È impossibile che noi non ci si possa porre le domande sul nostro senso dell’essere, del luogo, e dell’anima, nonostante che l’insensatezza sembra essere l’unica conclusione.
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Eppure nei romanzi si mantiene un filo di speranza nel mantenere la memoria e una costanza di comprensione, ove il luogo è una semplice, pudica, ma universale compassione, forse anche al di là della volontà dell’autore. Tra i monologhi interiori, le domande retoriche, i picchi drammatici, le scene d’azione, sublimano in un lirismo in cui il proprio dolore di una nostalgia di ciò che non è mai accaduto e di ciò che da sempre fu impossibile sperare, rivela la capacità infinità di subire la sconfitta della morte, mantenendo l’attitudine a cantare e a poetare della propria condizione, tra il ritmo della caduta ultima, al verso stilistico dell’insignificanza.
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L’accoglienza del dolore invita alla lettura, al richiamo, all’acclamazione di un segno di speranza all’infinito, in uno spiraglio di insensatezza eterno, tra gli spazi e i millenni.
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I romanzi sono contraddistinti da una iniziale descrizione dell’eroe che, in primo luogo, esce fuori dalla comunità. È il deviante. Chi per il tempo, chi perché deve compiere una impresa per conto di potenti organizzazioni, ovvero quelle che costituiscono la trasfigurazione del “grande padre”. L’eroe intuisce il mistero, e in quell’istante diventa il pericoloso deviante.
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L’uomo che viaggia nel tempo. Il mutante con i tre corpi. L’uomo immortale. Protagonisti solitari al limite del crimine e della follia. Ogni loro individuazione è aiutata dalla donna “Beatrice” che assume il ruolo di una guida, che offre un luogo, una risorsa, una parte umana di sé che riaffiora. Ella è sempre la figlia di un padre che è l’autorità, che dipende da quella organizzazione dove il protagonista ha avuto lo scopo e la missione. Ma che ritorna contravvenendo agli scopi iniziali.
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Il deviante consegna un messaggio che rende insensato lo scopo iniziale e quindi la stessa organizzazione, ovvero la specie umana. La nazione che si crede la più potente. La razza umana che si crede di dominare le altre. Di essere unica. La razza umana che pretende la galassia. Ognuna di queste trame della follia, diventa arcaica, una facezia, un soffio d’aria dileguante.
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Simak si interroga sul messaggio religioso del mistero. Non è un caso che gran parte dei nomi dei personaggi hanno riferimenti a caratteristiche di virtù, di inclinazioni, di debolezze, di luoghi che hanno avuto significati storici e religiosi. Tali assonanze sono poste in corrispondenza con le capacità, le attitudini, le capacità fisiche, e l’aspetto. Attraverso i termini scientifici, usa i miti medioevali, traslati in altri tempi, in altri mondi. Il mostro, il lupo, la minaccia del pericolo, e del male, che è proiettato fuori e che forse è dentro di sé. L’eroe difende i più deboli, e quindi cerca la parte più debole di sé.
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È la canzone dell’eroe che cerca il Graal, tuffandosi nella realtà. Il protagonista sopravvive se la sua visione del mondo volge nel pietismo, nella compassione, e nell’accettazione dei limiti. È il messaggio morale nascosto di Simak forse a lui stesso non esplicito, ma che si trova nei decenni traslato in sempre nuovi romanzi.
“Starplex” è un crocevia di luoghi classici della fantascienza in ordine ai temi dei viaggi interstellari, alla natura delle leggi della relatività generale, e al destino degli esseri viventi e dell’intero universo, all’interno di un processo di acquisizione di conoscenze, attraverso gli stimoli e le domande che vengono calibrate dagli impieghi tecnologici.
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È anche una riproposizione dei grandi afflati di democrazia, di apertura, di approccio con lo straniero e le culture “altre”, tipici degli anni sessanta, individuati da saghe come “Star Trek” e non è un caso il rimando indiretto del titolo del libro.
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Le produzioni di fantascienza proiettano le storie e i conflitti individuali e sociali tra singoli e interi agglomerati statuali al di fuori del pianeta Terra, in luoghi in cui risiedono umanoidi o forme di vita radicalmente diverse che hanno però, comunque un nostro tratto tipico di comportamento e di valori, che induce a una relazione conflittuale e/o di collaborazione. Le vicende che avvengono tra le entità senzienti sono poi tradotte in avventure con un climax tale da indurre inconsciamente, e non, al lettore una valutazione morale ed etica delle questioni che riguardano direttamente il nostro vivere.
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Se il modo di vedere l’esterno è quello di un confine di guerra, allora ogni forma d’intelligenza è un nemico, e quindi estendiamo la nozione di pericolo all’intero cosmo. La ricerca di cibo, di energia, di ambienti adeguati atti alla prosecuzione della nostra specie, si allarga a quella di ambienti interplanetari per arrivare a quelli ultra galattici.
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Dalle tensioni derivate dalla volontà di acquisire il potere, di soddisfare i bisogni primari e quelli più evoluti, si esprime una dinamica di scontro e di dialogo tra le diverse razze e forme di vita al limite dei nostri parametri di loro riconoscimento.
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“Starplex” però offre un passo ulteriore di approfondimento che dalla iniziale antica domanda sul “chi siamo noi” umani su questa Terra e su questo Cosmo, e quindi nelle due divaricazioni tra l’origine e lo scopo, la si estende a porre tale questione a forme senzienti tremendamente più antiche e potenti, fino poi a porre in questione il destino dell’intero universo.
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Il tema è sviluppato nel corso della prosecuzione degli avvenimenti. E pone, quindi, dilemmi morali che riguardano noi terrestri, oggi, qui, sul pianeta Terra. Robert J. Sawyer è un canadese come gli altri suoi colleghi coevi sente il bisogno di indagare il tema del riconoscimento delle minoranze, delle culture altre, e di una convivenza aperta e reciprocamente fruttuosa. Ciò deriva dalle condizioni storiche, politiche e statuali della loro nazione di residenza. È opportuno precisare che l’autore non propone facili soluzioni che esortino a un vivere dove tutti si vogliano bene, in un mondo incantato costituito dalla collaborazione e convivenza stretta senza porsi in discussione ed affrontare il sistema dei valori e delle conoscenze in cui si è inseriti. Tale necessità non deriva da una adesione semplicemente volontaria e di abnegazione ma di una riflessione razionale per la quale, l’assenza di una volontà di condividere le risorse e le conoscenze, porterebbe comunque alla estinzione di ogni presunto contendente.
L’autore ha studiato in modo approfondito di astronomia, di meccanica aerospaziale di teoria della relatività. Il romanzo descrive scenari verosimili, pur all’interno di alcune ipotesi fantascientifiche. Tutto però è descritto in modo coerente, con azzardi ben congegnati e adeguatamente descritti. La lettura è anche un’occasione per comprendere le nostre nozioni riguardo la velocità della luce, la materia oscura, i modelli di descrizione dell’espansione o meno indefinita dell’universo, la struttura delle galassie, e infine l’uso della variabile temporale in un’ottica in cui il limite costante della velocità della luce sia posto in discussione.
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È veramente immaginifico e nutre la creatività del lettore spingendolo ad immaginare scenari in cui si possa veramente trovare nelle situazioni dei protagonisti.
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Il perno fantascientifico è relativo ai salti interstellari causati da una rete di scorciatoie artificiali che costella la Via Lattea e non solo. Ed è qui un punto focale che abbisogna di chiarire, perché gli stratagemmi del salto, del passaggio, del tubo magico, della singolarità che sono usati in innumerevoli racconti di fantascienza si basano tutti sull’idea di poter aggirare il limite della velocità della luce e quindi di uscire fuori dalla concavità del cono spazio temporale, e quindi considerare lo spazio come un punto e il tempo anche con una misura negativa, che comporta la possibilità, quindi viaggiare nel tempo.
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Parliamoci chiaro: non è solo una questione di impossibilità tecnologica o di una mancanza di una teoria scientifica attualmente oscura. All’interno del paradigma relativistico in cui pensiamo, per viaggiare alla velocità della luce, o addirittura superarla, ci vorrebbe una quantità tale di energia che ammonterebbe a quella di tutto l’universo.
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In un’ottica ipercritica si potrebbe considerare tale ipotesi abusata, pigra, di maniera, ma non se ne può fare una critica eccessivamente spinta all’autore, anche perché non sarebbe più un libro di fantascienza. A suo merito però si pone l’intenzione di discutere di tale natura di salto e di porre una spiegazione plausibile non tanto verso le relazioni dello spazio-tempo, quanto invece, sull’analisi della continua dilatazione dell’universo stesso in rapporto alla materia oscura. Ecco qui l’autore descrive ipotesi interessanti, pregevoli, coerenti rispetto alle ipotesi immaginifiche iniziali, ma coerenti rispetto al nostro bagaglio teorico effettivo.
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Non descrivo in modo compiuto la trama e alcune vicende, perché il romanzo è denso di sorprese, e toglierei il piacere della lettura al pubblico. Posso soltanto suggerire alcune questioni di fondo che pone il libro, per chi volesse rifletterne in modo più approfondito:
Poiché l’universo ha più di 14 miliardi di anni, siamo così sicuri che la sua evoluzione è volta ad adempiere a uno scopo predefinito quali la creazione degli esseri viventi che hanno di base il carbonio e quindi giungere alla razza umana? Siamo davvero noi il picco della piramide evolutiva?
È proprio necessario reagire in modo automatico al sopruso, all’attacco violento, o a una azione di ostilità interstatuale? Non si può lasciar correre? Non accettare lo schema di azione e di reazione? Non è meglio invece rispondere in modo asimmetrico cercando invece la collaborazione, anche tenendo ferme le proprie possibilità di difesa? In altri termini, è proprio necessario che gli inevitabili conflitti che intercorrono tra forme aggregate debbano sfociare poi in azioni che abbiano sempre le etichette dell’odio e della rabbia
È un romanzo che fa respirare l’aria di montagna: fresca, tonda, e vivificante. Un’avventura verso noi stessi e le domande sul nostro destino.
È un libro che fa piangere e che fa infuriare. Non lascia uno stato di indifferenza.
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In epoche arcaiche il disertore fu riferito a colui che guasta un ampio tratto di terra. Colui che devasta, che vuota l’area di abitatori. Ciò che riduce tutto in un deserto. La spogliazione.
In epoche riferite alla storia moderna il disertore è colui che lascia la bandiera, lo stendardo, l’insegna. Dal latino Desertare intensivo di Deserere abbandonare, composto della partic. DE che suppone il senso contrario a Serere, interesse, legare insieme, annodare, quasi dica, disunire, staccare.
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Colui che scioglie la relazione sociale, il patto che rendeva un collettivo all’interno di unità di intenti, all’interno di valori comuni.
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In un primo livello di analisi la diserzione, oggi, è riferita in modo irriflesso, quasi automatico, al singolo che, per deficienza morale, fisica e caratteriale rompe il patto e indirettamente indebolisce il gruppo a cui era in quel momento in piena interazione sociale.
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È disertore quel colpevole che rende il deserto di un collettivo che combatte un nemico, qualcosa di altro da sé che si presenta in modo oppositivo. O loro o noi. La colpa è in primo luogo quella morale: è la vigliaccheria che induce alla ritrosia di affrontare la contesa. È la debolezza congenita e alimentata che nega il proprio ruolo per celarlo a fronte da quel contesto collettivo. Nel caso ritenuto più pericoloso è il traditore, colui che passa dall’altra parte della linea: il limes di guerra. Colui che non solo diserba le energie e le risorse che alimentano il collettivo, ma che addirittura sottraendole, e quindi anche contribuendo con le personali, indossa il ruolo del nemico. Della nemesi, quella che inverte il mio corso di vita e di significato che attribuisco al mondo: ciò che contraddice le mie azioni tendenti a uno scopo, e le mie convinzioni che rendono un ordine verso il mondo.
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In questa visione il disertore è il male, colui che determina la possibilità del fallimento. Il disertore è la causa dell’indebolimento. Dalla sua persona parte il disfacimento, l’errore, la disfatta, cioè l’essicazione delle energie e delle qualità di questo fare: il fare che non riesce a legare il grano raccolto: appunto un disfare. Ciò che fa evaporare la mia irrigazione del buon terreno che offre vita e frutti: il diserbare, il disertare, che si compone nel rendere deserto, senza memoria e con conseguenze non volute la mia opera: l’azione con scopo, che si traduce nel perseguimento di obiettivi.
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Certamente ciò è accaduto. Ma il disertore è solo questo? È solo questo vigliacco, traditore, di una morale viscida e sporca che innesta il processo di abbandono e di sconfitta, se parliamo di scontro di guerra diretto?
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Non vi è forse da riflettere che anche il piano istituzionale, direttivo e statuale tradisca il collettivo che combatte e difende la comunità di riferimento? Che cambia quindi il significato della stessa bandiera con la quale si riconosce?
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Non è possibile invece che il collettivo rimanendo immutato, improvvisamente si ritrova appellato come disertore perché la sua comunità di riferimento è presa da altri rappresentanti, oppure si frammenta in una serie di organismi antagonisti e che, quindi, agli occhi della nuova situazione è oggettivamente già un corpo estraneo?
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Non si può concepire l’idea che i condottieri e coloro che forniscono gli obiettivi e gli scopi della composizione e della natura del collettivo che combatte, siano loro stessi a disertare? Ad esempio un Re guerriero che abbandona il proprio esercito, con i propri generali e lo stato maggiore (gli angeli che vegliano sulla morale), rende il collettivo senza la parola, l’acqua, il cibo, lo scopo, la direzione, la sostenibilità?
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E ancora che questi nuovi organismi, invece di combattere l’originario orizzonte che sta oltre il Limes, per crescere, come masse tumorali, invece, aggrediscono il loro corpo di origine?
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Sì: è possibile ed è accaduto: Il regno italico nella sua veste di dittatura fascista durante la seconda guerra mondiale.
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Questo libro parla dei singoli disertori degli eserciti italici, e mostra indirettamente come furono perseguitati dai disertori primari del valor di patria secondo le loro stesse retoriche e come questi disertori originari si avventarono contro la propria popolazione di riferimento, dopo aver dichiarato la guerra a mezzo mondo.
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Le vicende commoventi, strazianti, terribili di questi giovani e delle lor famiglie, mostra proprio da documenti dei primi disertori, di come questi ultimi con le loro condanne, fucilazioni, persecuzioni, ottusità, siano stati i primi a rendere un deserto di diritto, di vita, questo territorio italico, e di aver piantato malanimo, odio, vendetta, complesso di colpa, divisioni che durano ancora oggi riconfigurandosi come un’erba cattiva in nuove, sporche e viscide sterpaglie. Questi agricoltori del disonore con a capo un Re, la sua famiglia e corte, e i quadri di quel regime fascista, riprodotto poi in quell’orrore putrido che fu la Repubblica Sociale Italia: la serva sciocca dei nazisti che si concentrò a uccidere gli italiani stessi.
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Vi sono state diverse forme di diserzione lungo la linea temporale degli avvenimenti e in concomitanza di eventi ben precisi che scandirono l’andamento apicale e poi di riflusso negli scontri armati.
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Vi furono coloro che si rifiutarono di partire per il fronte nella Seconda guerra mondiale, non rientrarono da una licenza, fuggirono dalle lande gelate durante la Campagna di Russia, non vollero accettare la Repubblica sociale dopo l’8 settembre: migliaia di ragazzi – giovanissimi, anche se molti già padri di famiglia, spesso gli unici a portare a casa uno stipendio – finirono davanti ai Tribunali di guerra.
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Mimmo Franzinelli rivisita questo complesso periodo storico per delineare la tipologia e le motivazioni dei disertori, analizzando le dinamiche repressive (Codice penale di guerra, Tribunali militari, modalità delle esecuzioni capitali) e ricostruendo le storie di tanti soldati, nei più disparati scenari, le cui drammatiche vicende sono sottratte all’oblio non solo grazie ai diari inediti ma anche al ricordo ancora attuale dei loro parenti.
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“ […] Dalla «non belligeranza» (settembre 1939 – giugno 1940), quando due distinti flussi di soldati fuggono in Francia e Iugoslavia, alla prima fase dell’intervento italiano, quando disertori sono soprattutto i contadini e gli artigiani, poco disposti a morire in una guerra in cui non credono, sino all’estate 1943, quando, con lo sbarco in Sicilia, molti considerano persa la guerra, si battono di malavoglia e il fenomeno della diserzione aumenta a dismisura, acuendo la durezza della repressione, con «fucilazioni pedagogiche» dinanzi alle reclute. Con l’armistizio e la divisione dell’Italia in due governi (e sotto contrapposte occupazioni militari), la diserzione diventa il tarlo che rode l’impalcatura della Repubblica sociale e del Regno del Sud: i Tribunali militari lavorano a pieno ritmo e a Salò le fucilazioni si estendono anche a chi aiuta i «traditori», donne incluse. […]”
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Questa storia, peraltro, non si conclude nel 1945: per oltre un ventennio la magistratura militare perseguirà gli ex disertori, inquisiti o imprigionati (e persino rinchiusi in manicomio) per essersi rifiutati di continuare a combattere.
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103-104 “[…] Eppure, settori della popolazione diffidano del demiurgo e vedono come un incubo la prospettiva di indossare la divisa e marciare all’unisono. Tre mesi più tardi, un rapporto di polizia sullo stato d’animo dei romani è decisamente allarmistico: «La paura dello scoppio della guerra è ormai estesa e generale». In quei giorni, il capo della polizia, Arturo Bocchini, confida al ministro Ciano che «in caso di sommossa a carattere neutralista, carabinieri e agenti di polizia farebbero causa comune col popolo». In questo clima c’è chi, silenziosamente e dopo angosciate riflessioni, prepara l’espatrio clandestino, sentendosi straniero in patria. Nel momento in cui il Paese viene mobilitato per la prevedibile guerra, la diserzione costituisce il più clamoroso segnale di dissenso da parte dei giovani chiamati alle armi. Mussolini sa bene come la storia italiana sia segnata da diserzioni di massa: lo ricorda l’11 aprile 1940 a Ciano, indicando la guerra quale banco di prova del valore delle nazioni: «Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento, magari anche a calci in culo. Così farò io! Non dimentico che nel 1918 in Italia c’erano 540.000 disertori». In precedenza si era lamentato con il ministro degli Esteri a proposito dei legionari inviati in Spagna: «I casi di indisciplina sono più frequenti e cominciano, per la prima volta, le diserzioni». Il Tribunale militare del Corpo truppe volontarie italiane celebrò nel 1937-38 ben 260 processi per diserzione, 190 per disobbedienza e insubordinazione. Fughe dai reparti sono sempre in agguato, rileva il dittatore a metà settembre 1939, commentando con Claretta Petacci le difficoltà belliche anglo-francesi: «Sono già convinti di perdere… e intanto immagina che spirito alto… In Francia, poi, è un pianto. Pensa che non sanno più come arginare i disertori: decine di migliaia di disertori fuggono, non vogliono fare la guerra, capisci?».6 Mussolini, aggiornato sulla situazione interna inglese, ironizza sulle leggi «democratiche» che non infliggono la pena di morte ai disertori e consentono l’obiezione di coscienza […]”
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I Tribunali militari di guerra puniscono la diserzione con la morte, per dissuadere i potenziali disertori, mettendoli davanti alle conseguenze della fuga dall’esercito. Dall’entrata in guerra sino all’armistizio, vengono condannati a morte circa 130 militari e circa 550 civili (41 in contumacia), in grande maggioranza nei Balcani.
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Dati assai parziali, in quanto le statistiche non includono – se non saltuariamente – i procedimenti sommari da parte dei tribunali straordinari e ignorano le fucilazioni di partigiani catturati in combattimento e uccisi a freddo. I criteri di giudizio seguiti dai magistrati sono influenzati dalle contingenze belliche: blandi nel primo anno di combattimenti, s’inaspriscono nel 1942 e toccano nel 1943 picchi rivelatori del malessere aleggiante tra i soldati e dell’insicurezza dei comandanti.
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Contro le sentenze, non è ammessa impugnazione; se pronunciate in territorio nazionale sono eseguite dopo ventiquattro ore; all’estero divengono immediatamente esecutive. I Tribunali di guerra più propensi a infliggere la pena capitale operano in Africa settentrionale e nei territori dell’ex Iugoslavia. Il pugno di ferro riguarda anzitutto i nativi accusati di «ribellione» e – dopo di loro – i disertori. Laddove si avvertono segnali di indisciplina e disgregazione, si usa il pugno di ferro. Il periodo di maggiore spietatezza coincide con l’addensarsi dell’odio popolare su Mussolini, dal dicembre 1942 al luglio 1943, quando la polizia politica non riesce più a contenere le proteste contro il dittatore: vi sono centinaia di arresti per il reato di «offese al Capo del Governo»; il duce è infatti definito affamatore del popolo (sono censiti 138 casi), responsabile della guerra (113), traditore della Patria (103), carnefice e brigante sanguinario (69), vigliacco e vile (63), colpevole di lutti e sofferenze (59).
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Vi fu l’impunità di Stato dopo la fine della guerra, anche per l’amnistia che fu concessa a chi commise crimini di guerra, come i generali e alti ufficiali comminarono fucilazioni senza la parvenza di rispettare il proprio “aberrante” ordinamento giuridico militare. Il caso del generale Chatrian fu emblematico, perché si attivò per uccidere quanti più possibile, proprio nei giorni intorno all’8 settembre 1943, anche per soldati che compirono ritardi di uno o due giorni.
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Questi personaggi aderirono alla Repubblica Italiana partecipando come parlamentari e in qualità di alti funzionari delle istituzioni. E questo generale come molti altri poi, furono i primi ad arrendersi al nemico. Loro che scrivevano ad ogni riga appesantendo anche la condanna con l’invettiva, per la quale: non si scappa di fronte al nemico, o si vince o si muore!
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Loro che fecero uccidere giovani contadini che ritardarono di alcuni giorni il rientro dalla convalescenza perché feriti, o dalla licenza, per coltivare la terra della famiglia, perché la madre vedova con i figli piccoli non aveva di che sostentarsi, e a quei tempi senza il raccolto si crepava di fame e di malattie.
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Lui, il grande Duce, che fu un disertore della prima guerra mondiale. Lui che fu il primo a cambiare idea su tutto: da anarchico, poi socialista. Poi repubblicano, poi pacifista, poi interventista, poi anticomunista, reazionario, baciapile, e alla fine scrivano dei nazisti.
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E come dimenticare l’altro Lui in piccolo, il nostro disonore permanente: il maresciallo Graziani. Lui che fece stragi in Africa, terribili, che noi italiani continuiamo a dimenticare da decenni. Lui che fece scuola ai nazisti per l’efferatezza, divenendo poi subito lamentoso e spaventato quando le cose si posero al peggio e naturalmente si consegnò, in qualità di capo delle forze armate della Repubblica Sociale Italiana, agli alleati, mica ai sovietici: chissà perché.
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Non solo loro però, giovani italiani allo sbando, senza scarpe, munizioni, da mangiare, senza vestiti, arruolati a forza e poi fucilati e seviziati anche dalle camicie nere, magari gli ex vicini di casa. Ci deve far riflettere. Troppo comodo prendersela con quella fogna morale che furono le alte sfere, purtroppo per noi, e non lo vogliamo vedere che anche a livello popolare commettemmo atrocità.
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La figura degli italiani “brava gente” di buon cuore, è successiva alla fine della guerra, e fu anche agevolata dagli Usa che per motivi strategici chiusero un occhio su di noi.
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3538 – 3595 “[…] La nemesi della diserzione Soldato di leva della classe 1883 del Distretto di Forlì, il 27 marzo 1904 Benito Mussolini non si presenta al servizio militare e il successivo 30 aprile viene «dichiarato disertore per non aver risposto alla chiamata alle armi della sua classe». Denunciato al Tribunale militare di Bologna, il 2 agosto è condannato a un anno per diserzione semplice. La Svizzera rifiuta di estradarlo e gli concede asilo. In quel periodo il ventunenne rivoluzionario romagnolo raccomanda un mezzo infallibile per abbattere l’infame coartazione militarista: disertare! Egli, tuttavia, è un disertore dimezzato: a fine novembre cede alle insistenze materne e rimpatria, regolarizzando la sua posizione. Assegnato al 10° reggimento bersaglieri, in una caserma di punizione di Verona, beneficia dell’amnistia per la nascita del principe Umberto. Smobilitato nel settembre 1906, non ha mutato le proprie idee. Nell’ottobre 1911, con il repubblicano Pietro Nenni, capeggia violente manifestazioni contro la guerra di Libia, per bloccare le tradotte dei soldati: i due agitatori sono arrestati e condannati. Mussolini, liberato nell’aprile 1912 e divenuto direttore dell’«Avanti!», sino all’estate 1914 inneggia alla diserzione, «mezzo infallibile per annientare l’infame militarismo», arma micidiale contro la guerra voluta dalla borghesia internazionale. Di lì a poco salta la barricata e diviene interventista. Per i corsi e i ricorsi della storia, trent’anni più tardi combatterà i disertori, sabotatori della «sua» guerra. […]”
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I bandi di arruolamento del maresciallo Rodolfo Graziani (ministro delle Forze armate) spingono i giovani sulle montagne, per istintiva autodifesa più che per valutazioni politiche, possedute da ben pochi. Ragazzi disorientati e confusi affluiscono ai distretti militari, per poi eclissarsi appena possibile. La renitenza, dilagante tra fine 1943 e inizio 1944, nell’incalzare degli eventi diviene resistenza. Nell’estate 1944 il rimpatrio delle quattro divisioni addestrate in Germania prelude alla diserzione di migliaia di militari, che se ne vanno alla spicciolata o incolonnati in lunghe file. Le bande dei patrioti ne traggono notevole beneficio, anche per l’armamento.
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Dal 10 giugno 1940 al luglio 1943 il ministero della Guerra annota meticolosamente i reati militari e la loro repressione. Le vicende dell’armistizio disperderanno quel materiale statistico, di cui rimangono schemi settimanali lacunosi e il solo registro annuale del 1941, dal quale risultano per l’esercito circa 11.000 condannati, 3746 assolti e 45.000 processi ancora in corso, in aggiunta ai 3000 condannati dei rimanenti comparti militari.
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Il 46,52 per cento dei reati riguarda la diserzione, che esplode nel corso del 1942 e dilaga nel 1943. Il dossier commissionato da Mussolini sui «processi definiti dall’11 giugno 1940 al 9 maggio 1943» con condanne superiori ai dieci anni, annovera per l’esercito 71.307 condanne e 95.082 assoluzioni. Si devono poi considerare le decine di migliaia di condanne sotto i dieci anni e le 11.000 assoluzioni. Dati comunque inferiori alla realtà, utili soprattutto a livello orientativo. Da notare che in quei 2 anni e 11 mesi le diserzioni crescono e gli altri reati diminuiscono.
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I numeri, pur impressionanti, sono inferiori a quelli della Grande guerra, quando i tribunali militari aprirono oltre un milione di processi, infliggendo 40.028 condanne a morte, 746 delle quali eseguite, in aggiunta a 141 esecuzioni sommarie. Nel 98 per cento dei casi, le pene capitali riguardavano la diserzione.
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Il fenomeno dei disertori ricomparve in Europa nell’autunno 1991 – sotto forma di obiezione di coscienza, renitenza e «assenze arbitrarie» dai reparti armati –, quando il governo della Serbia mobilitò i suoi cittadini nella prospettiva della guerra civile, etnica e religiosa che avrebbe presto dilaniato le regioni della ex Iugoslavia. Oggi le diserzioni si sviluppano sottotraccia in Siria, Ucraina, Libia, laddove i vari contendenti impongono arruolamenti coatti nelle zone da essi controllate. E la strage continua.
È più di una biografia. È una narrazione che gli italiani ancora oggi risentono circa la loro autorappresentazione, ereditata dai primi sessanta anni del secolo scorso. Adriano Olivetti è stato il figlio di Camillo, altro grande imprenditore a cavallo del ‘900. Uno studente di meccanica e di legge, pervaso da una vorace aspirazione a coniugare lo sviluppo tecnologico all’interno dell’imprenditoria in vista in un’etica tesa al miglioramento morale e materiale del popolo.
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Contribuì a definire quei tratti tipici con i quali noi inconsciamente talvolta, con fastidio frequentemente e con orgoglio timidamente ci contraddistinguiamo: una versatile capacità camaleontica di aderire alle ideologie, di inventare storie di sé e di riformulare il passato come se dovessimo cambiarci i vestiti, sia per una volontà tesa a un perenne rinnovamento salvifico e sia per una furbizia stracciona e impotente, quasi disperata. Lasciando poi trasparire in modo quasi inspiegabile tratti di eroica genialità e di sacrificio.
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4-5 “[…] Inaugurando nel 1955 la fabbrica di Pozzuoli, Olivetti presenta così gli obiettivi della sua impresa: “La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto” […]”
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Non fu uno studente particolarmente brillante e neanche dotato di uno spirito pratico e agile, secondo le indicazioni del padre. Fu goffo, solitario, taciturno, non particolarmente atletico, ma dotato di uno sguardo sognante oltre il presente, contraddistinto da una inesauribile capacità immaginativa.
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Aiutò Turati a fuggire durante la presa del potere del fascismo. Fu poi organico al regime e, in posizione di monopolista, trattò per rendere sempre più efficace la sua posizione aziendale in vista di una espansione produttiva e di sviluppo tecnologico privilegiato, venendo a patti con i potenti, fino a chiedere di interloquire con lo stesso Mussolini. Fu socialista segnalato dagli stessi prefetti fascisti, per poi rivendicare e anzi proporre uno stato etico ancora più pervasivo nei meccanismi dei processi economici, finanziari e produttivi.
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Ciò fu ed è motivo di dibattito, perché potrebbe indurre una facile omologazione dell’uomo all’ideologia nefasta che fu, tale da risultare quasi il nemico più acerrimo della libera impresa, nonostante che mantenne, nel secondo ventennio, con grande riprovazione dei gerarchi, uno sguardo attento e positivo agli sviluppi tecnologici e imprenditoriali degli Stati Uniti. Insomma delle liberal democrazie.
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Fu quasi uno dei più fedeli al regime e nello stesso tempo osteggiò in modo radicale le leggi razziali, anzi salvò tantissimi italiani di fede ebraica, sia assumendoli con altro nome nelle loro aziende, anche in modo posticcio, e organizzando poi, con la resistenza la fuga di molti, e tentando poi nel 1943 di scardinare la Repubblica di Salò con l’appoggio degli Usa e dell’Inghilterra per creare un regime democratico. Appoggiò quel nucleo di resistenti che formò il Partito D’Azione. Fu vicino agli ambienti del partito Repubblicano. Fondò il Movimento di comunità e partecipò alle elezioni nazionali, dopo qualche timido successo a livello locale, nei pressi di Ivrea, subendo una sconfitta nel 1959 che contribuì a fiaccarlo ulteriormente pochi mesi prima della sua morte nel 1960.
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Ci si potrebbe chiedere se negli anni avesse avuto un filo conduttore di pensiero e di scopo. Non possiamo dirlo con certezza, ma questo libro, frutto di dieci lunghi anni di studio tra gli archivi di tutta Italia e non solo, oltre alla comparazione delle dichiarazioni di chi gli fu vicino, ricostruisce alcune linee di continuità a livello retrospettivo di tendenza storica, e non propriamente psicologica, per una persona piena di dubbi, pragmatica, e risoluta, razionale a volte, avventata in altre. Cinica e determinata nel perseguire gli scopi d’azienda, suicida e donchisciottesca nel perseguire suoi personali modelli di nuove relazioni sociali. Duro talvolta, ed estremamente generoso in altre.
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Certamente subì l’influsso dell’idea dello stato che si fa padre, istitutore, controllore, gestore delle interazioni sociali e della moralità individuale, conduttore verso uno sviluppo delle comunità e delle genti italiche. Anzi elaborò e cercò di tradurre la visione risorgimentale di lungo periodo, nazionale dei primi anni colonialisti, fascista poi, di una sottomissione del singolo per il bene della collettività e poi della nazione. Posizione che invertì subito dopo l’8 settembre 1943, con una ulteriore conversione interiore, per definire una forma di personalismo cristiano che cercasse di coniugare la libertà con l’uguaglianza, la disparità sociale con la solidarietà e la redistribuzione che partisse dalle politiche e dai movimenti dal basso, prima di tutto culturali.
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Se si cercasse di delineare una linea coerente secondo gli schemi attuali, si avrebbero le vertigini per queste giravolte tortuose. Il punto però è che indirettamente, consapevolmente a tratti, emerse sempre di più nei decenni un minimo comun denominatore: l’azienda e i lavoratori. Da essi e per essi elaborò una nuova forma di aggregazione comunitaria e quindi di interazione sociale.
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Nell’impresa tutto deve ricadere. Il mondo del lavoro, a partire dalla fabbrica, determina ed espande le mense, le biblioteche, i musei e i centri culturali, gli asili nido per tutelare la maternità, la sanità complementare per i lavoratori, per i loro parenti e come una macchia d’olio via via per tutti. E quindi anche l’edilizia che deve essere redistribuita per i quadri, gli amministrativi, gli operai. Tutti, nessuno escluso, avrebbero dovuto godere esteticamente delle offerte culturali, di apprendimento e di una socializzazione aperta, libera e progressiva.
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Insomma non è lo stato, il nuovo diritto, il partito fascista, il sindacato, le idee socialiste, le azioni di resistenza, gli approcci liberali che devono configurare i sudditi, i cittadini, i poveri, i ricchi, gli operai e gli intellettuali, passando anche nella rideterminazione dei luoghi di lavoro. No, ed è questo il fulcro, almeno io ritengo lo sia, della visione sotterranea di Adriano Olivetti: è l’azienda, il luogo della fabbrica, la comunità dei lavoratori, che assorbe tutto il resto. La società emana dai luoghi di lavoro. In essi si realizza la morale nell’attività di lavoro e culturale per una etica in cui la persona sia il perno.
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Adriano Olivetti agisce in modo spregiudicato attraverso le ideologie, le forme di diritto, le nuove forme statuali che si susseguono prima e dopo la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, perché le ritiene onde e scosse telluriche intorno agli arcipelaghi che sono appunto le reti di impresa, collocate tra la città e la campagna.
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86-88 “[…] Le tre radici, dunque: la cultura liberal-risorgimentale, il progetto marxiano e l’appartenenza all’ebraismo. Nelle storie individuali e nelle vicende delle comunità e dei gruppi politici e culturali italiani, spesso la prima e la seconda radice si avviluppano con la terza, l’appartenenza all’ebraismo. E non importa se quest’ultima si manifesta in una intensa e palese identità religiosa o se si esprime in una mimetizzazione e in una diluizione della sua tradizione nella secolarizzata società italiana ed europea. È questo il contesto storico articolato e multiforme in cui il demone della politica appunto abita – inizia ad abitare – in Adriano. Il quale vive le contraddizioni degli uomini e si trova a operare nelle pieghe della Storia, che ora lo fanno stare come su un panno rosso e ora lo stringono al collo come una corda di canapa, ora ne fanno un protagonista ammutolito dall’eccitazione delle cose e ora lo trasformano in un ingranaggio reso silenzioso e grigio dal procedere della quotidianità
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120-122 “[…] L’economia pubblica e la pubblica amministrazione, il governo e i ministeri. Il partito unico. Tutti questi elementi compongono la realtà. Il rapporto con loro diventa essenziale e vitale, necessario e naturale. La normalità è fatta di legami organici e non episodici con i corpi dello Stato e con il Partito nazionale fascista. Adriano è un imprenditore. La Olivetti è una società italiana. Opera su un mercato a bassa concorrenzialità e a elevato controllo da parte della politica e della pubblica amministrazione. Sono poche le altre imprese che producono macchine per scrivere e macchine da calcolo. La Olivetti, per svilupparsi e per prosperare, deve misurarsi con i regolatori e i controllori di una realtà economica e sociale che, negli anni Trenta, si trovano nelle stanze della politica, negli uffici della pubblica amministrazione e nelle sezioni del Partito nazionale fascista. Il 27 ottobre 1933 (con una lettera in cui alla data è aggiunto il numero romano XI, undicesimo anno dell’era fascista) Adriano scrive una lettera al ministero delle Corporazioni. La richiesta è quella di inserire il settore delle macchine per scrivere fra i comparti per i quali è necessaria l’autorizzazione del governo, forma grossolana e potente di controllo dell’attività industriale privata: «Con riferimento al R. Decreto 15 maggio 1933, n. 590, il quale assoggetta all’autorizzazione governativa i nuovi impianti e l’ampliamento di quelli esistenti per un determinato gruppo di industrie, esponiamo i motivi per i quali riteniamo necessario che l’industria delle macchine per scrivere venga compresa nell’elenco»10. Adriano gioca duro. Ha interesse a limitare sia la concorrenza interna sia quella estera. Sulla concorrenza interna, dice con una ambiguità abbastanza esplicita sulla presunta irrazionalità e, in ogni caso, sul presunto non interesse nazionale che nuovi investitori italiani entrino in un mercato in crisi: «Qualunque quota del risparmio nazionale indirizzata nell’industria delle macchine per scrivere non potrebbe che risolversi in uno spreco del capitale nuovo ovvero nell’indebolimento o nell’annientamento delle vecchie industrie del ramo che da sole hanno sopportato tutti i pericoli e gli oneri dell’inizio e dell’affermarsi di un’industria nuova per il nostro paese»11. C’è, poi, il rischio che altri gruppi stranieri entrino in Italia: «Ci risulta che importanti fabbriche nord-americane impressionate dalla quasi totale perdita del mercato italiano, dovuta alla nostra affermazione, stanno studiando la possibilità di costruire fabbriche di montaggio e costruzione parziale in Italia»12. Adriano, nel rivolgere la sua richiesta di inserimento del settore fra quelli a maggiore controllo autorizzativo pubblico, scopre la carta più pesante: «Nella nostra organizzazione lavorano oltre 1100 fra operai e impiegati. Se la minaccia di una nuova concorrenza interna alimentata anche da capitale e appoggio di nostri concorrenti interni avesse un inizio di esecuzione, noi dovremmo immediatamente e drasticamente ridurre non solo le ore di lavoro, ma anche il numero dei nostri dipendenti»13. Che sia una minaccia reale o solo tattica, l’Adriano portatore dell’insegnamento paterno, secondo cui la disoccupazione involontaria sarebbe stata la peggiore condizione umana per la classe operaia, in questo caso sonnecchia. E, al di là di questo, la Olivetti che ormai opera in condizione di semimonopolio si rapporta con il governo da monopolista. La Olivetti godrebbe di una posizione di forza da una misura che restringesse la possibilità per tutti di fare nuovi investimenti. Ne avrebbe un vantaggio strutturale. E Adriano ottiene questa misura. […]”
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“[…] 152-155 Adriano ha un atteggiamento di adesione neutrale o di consenso passivo alla dimensione politica del fascismo. È un imprenditore. Fa gli interessi della sua azienda. Gioca su più tavoli con la pubblica amministrazione. Opera in un’economia in cui il protezionismo è la vera ragione prima di ogni estremizzazione autarchica e in cui la concorrenza è ridotta al minimo dall’influenza della politica e dai corpi dello Stato, da cui Adriano, per la sua azienda, riesce a ottenere molto […]”
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209-210 “[…] Dopo l’apertura, nel 1937, dell’asilo per i figli dei dipendenti con meno di cinque anni, nel 1940 è stata costruita la nuova struttura riservata ai bimbi con meno di tre anni. Alla Olivetti si può essere una mamma che lavora. Nel giugno del 1941, quando viene ampliato l’asilo nido progettato da Figini e Pollini in stile razionalista e con citazioni di Le Corbusier, viene riorganizzato tutto il servizio per l’infanzia e per la maternità offerto dall’impresa. In Italia il trattamento previsto dalla Cassa mutua e dall’Istituto nazionale di previdenza è minimo: stai a casa ricevendo l’equivalente del salario di due mesi, uno prima del parto e uno dopo. Al trentunesimo giorno di vita di tuo figlio, devi tornare in fabbrica o in ufficio. Alla Olivetti, nel 1941, viene emanato un regolamento – l’ALO, Assistenza lavoratrici Olivetti – secondo il quale le lavoratrici sono esonerate dal lavoro da 75 giorni prima del parto fino al settimo mese compiuto dal loro piccolo o dalla loro piccola e continuano a ricevere, grazie a un sussidio aziendale, il medesimo ammontare del salario: un trattamento così favorevole alla lavoratrice è un’eccezione nell’economia e nella società internazionali, non soltanto del Novecento. Peraltro, tutto questo accade sempre e comunque: non importa che tu sia sposata o che tu sia ragazza madre. È così. La membrana che separa la Olivetti dal mondo è fatta anche di quella particolare materia che è l’accudimento dei bambini da parte delle loro mamme. Intorno alla mamma e al bambino si crea un mondo. Si stabiliscono premi di natalità aziendali così da «alleggerire l’onere della famiglia in un momento particolarmente delicato»79. Sono previsti contributi straordinari, in caso di famiglie con particolari difficoltà economiche o con particolari condizioni di salute. A sette mesi, quando la mamma torna nello stabilimento o in ufficio, il piccolo viene accolto nell’asilo nido. All’asilo nido si trova una camera per l’allattamento, così la mamma può allontanarsi per il tempo necessario dall’ufficio o dalla linea produttiva e dare il suo latte al piccolino o alla piccolina che ne abbia ancora bisogno. A tre anni, i bimbi vengono accolti all’asilo e, poi, a quattro anni – e fino ai sei – alla scuola materna aziendale. Al compimento dei sei anni – fin dal 1938 – possono andare alla colonia montana di Champoluc, che rimarrà attiva per decenni, e al mare a Loano, servizio che invece smetterà di funzionare nel 1941. A differenza delle altre imprese italiane, i dipendenti che lo desiderino possono accompagnare i figli in colonia. La membrana che separa la Olivetti di Adriano dal resto del mondo definendone l’anomalia è formata da un ultimo, prezioso, strato: nell’asilo nido aziendale, che ha un numero limitato di posti, fra il figlio dell’operaio e il figlio dell’impiegato viene data la precedenza al figlio dell’operaio […]”
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È incerto, fra tante sponde. Deve andare a Milano, aprire le sedi a Barcellona, in Francia, Inghilterra, Svizzera, ma il fulcro è però quasi paesano: Ivrea. Tende a dimenticare e rimuovere il passato socialista del padre, il fascismo, le sue discussioni con gli alti gerarchi e con lo stesso Benito Mussolini sul corporativismo e sulla concezione di una nuova azienda. Propose confusamente il modello di una nuova economia ai servizi segreti inglesi e USA, a causa del quale fu messo da parte come agente principale di un eventuale colpo di stato ai tempi dell’8 settembre 1943. Sembra comportarsi come un reggitore di una Signoria dei secoli andati.
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262-63 “[…] La crisi della democrazia liberale, il Biennio rosso, l’ascesa violenta del fascismo, la ribellione delle minoranze, il consenso di massa, l’adesione, la via fascista alla modernità, la partecipazione agli organismi dei corpi intermedi, il lavoro intellettuale sul corporativismo, i rapporti con la ristretta cerchia di Mussolini, la crescita della Olivetti in un regime di oligopolio, i legami con la pubblica amministrazione e la politica fasciste. Tutto cancellato, dimenticato, rimosso, destinato all’oblio. A poche settimane dal rientro a Ivrea, nel suo primo discorso ai dipendenti – in una occasione, dunque, fondante – Adriano costruisce il suo nocciolo duro di riflessione per la contemporaneità e per il futuro su una crisi che è di civiltà, sociale e politica: «Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo? Cosa è la fabbrica nel mondo di domani? Come possiamo contribuire con il nostro sforzo e con il nostro lavoro a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti, affinché giorni così tristi né i nostri figli né i figli dei nostri figli e molte generazioni ancora non potranno dimenticare né potranno, una seconda volta, affrontare?» […]”
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E si arriva alla fine del suo percorso.
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486 […] Le cose, dunque, non vanno bene. Adriano, dopo il fallimento alle elezioni politiche nazionali del 1958, si trova a operare in una condizione di negoziato continuo con gli altri famigliari e gli altri soci. Conosce il legame fra finanza d’impresa (al servizio, appunto, dell’impresa) e finanza straordinaria (al servizio, anche, degli azionisti). In questa nota si legge che questi 8 miliardi corrispondono «a più di due volte le emissioni di nuove azioni di tre miliardi», un fattore di persistente tensione con gli azionisti della Olivetti, abituati da dieci anni a portare fuori capitali sotto forma di dividendi e ad autoassegnarsi aumenti di capitale non a pagamento, vedendo crescere la loro ricchezza individuale senza pagare alcun dazio. In un contesto simile la questione della Fondazione, che di necessità interromperebbe l’assorbimento di dividendi da parte degli Olivetti dalla Olivetti, diventa astratta e irrealistica e il tema del Consiglio di gestione appare significativo, ma minimo. L’intero edificio non regge più. Non funziona il meccanismo nel rapporto fra impresa e azionisti, che sono abituati ad avere tanti, tanti dividendi. Non funziona il rapporto fra Adriano e gli altri famigliari. Non funziona, paradossalmente, nemmeno il rapporto fra Adriano imprenditore e Adriano politico perché, come in una dissociazione, il secondo è stato «spogliato» delle sue finanze personali dal primo […]”
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E appena pochi mesi dopo la sua morte:
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509-512 “[…] Il 10 febbraio 1961, il Comitato centrale del Movimento di Comunità si scioglierà. Tutto questo succede sei anni dopo il discorso di Adriano ai lavoratori di Pozzuoli: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». Ma è tutto il mondo di Adriano a perdere consistenza, a sfibrarsi e a sfilacciarsi nella realtà e, allo stesso tempo, a impiantarsi, a crescere e ad assumere vita nell’immaginazione degli altri. Con la scomparsa di Adriano, è come se all’improvviso le radici nascoste dell’albero della crisi prendessero vita e si manifestassero nella Storia ed è come se, simultaneamente, una nuova dimensione civile e affettiva venisse costruita prima di tutto sulla sua assenza. La stessa Olivetti, segnata dai conflitti famigliari e dalla mancanza di un leader carismatico seppur discusso come Adriano, sarà scossa da uno sbandamento strategico e si ritroverà in una fragilità finanziaria di cui c’erano già segni evidenti fra il 1958 e il 1960. Pochi anni dopo rischierà di diventare di proprietà delle banche svizzere, che avranno in pegno le azioni degli indebitatissimi Olivetti: per evitarlo, il ripianamento dei debiti personali di questi ultimi e la ricapitalizzazione della società verranno realizzati dal gruppo di intervento coordinato da Mediobanca e composto da Fiat, IMI, Pirelli e La Centrale. La Olivetti, però, perderà la sua autonomia, diventando un’impresa industriale senza un imprenditore. La riduzione dell’autonomia sarà duplice: la Olivetti, diventata acefala, dovrà rinunciare alla grande elettronica, ceduta alla General Electric, e si troverà in una sorta di camera iperbarica finanziaria, con una specializzazione produttiva concentrata sulla meccanica e sulla piccola elettronica e una dipendenza completa dal sistema bancario italiano. Succederà tutto questo, nel 1964, esattamente cinquant’anni dopo la prima volta di Adriano in uno stabilimento: «Nel lontano agosto 1914, avevo allora tredici anni, mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina. Per molti anni non rimisi piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso all’industria paterna»56. Succederà tutto questo pochi anni dopo che Adriano ha vissuto il suo ultimo giorno. Un ultimo giorno in cui ha mangiato cacciagione e ha bevuto champagne, ha festeggiato la quotazione in Borsa della Olivetti con i suoi famigliari e i suoi dirigenti industriali, si è occupato di libri e di editoria, ha aumentato lo stipendio ai redattori di una rivista, è salito su un treno diretto in Svizzera per discutere con i banchieri e per andare ad amare […]”
La Spina che ci mette in gioco: il pungolo del dubbio che corrode l’equilibrio precario tra ciò che siamo negli ambienti antropici ed antropizzati. Il mutamento di prospettiva del nostro vivere, e dei suoi significati allegati, ferisce appunto quando si è troppo sicuri di afferrare il senso di tutto, bello e buono, come una rosa, dimenticando poi che il suo sostegno graffia e ferisce.
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Talvolta però il disagio momentaneo può essere un farmaco che ci avverte di pericoli meno ambigui, ma tremendamente minacciosi.
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Franci Conforti ha deciso di scrivere romanzi dopo decenni in cui inventava storie soltanto per sé. È una biologa, accademica e giornalista. Non è un caso che abbia avuto negli ultimi anni ripetuti riconoscimenti nell’ambito della fantascienza “hard”, cioè quella tecnologicamente verosimile ed accurata.
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L’essere umano è definito anche dalla tecnologia e riformula la sua posizione in base alle scoperte scientifiche. Le spine ci avvertono istintivamente del fastidio e del dolore. Comportano il segnale che l’ambiente circostante non è una semplice propagazione di noi stessi. La spina respinge oppure si conficca. È un limite rispetto al nostro spazio di azione ritenuto neutro, quindi vitale, perché minaccia l’equilibrio in cui il nostro volume d’esistenza è ritenuto integro.
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La spina è anche una increspatura rispetto a una regolarità estetica di modelli che intendono descrivere il mondo o determinarne lo sviluppo nel tempo. È un sovrappiù estraneo rispetto ai nostri scopi: un cruccio che sgretola la (in)certe convinzioni.
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Oppure ancora, le spine sono avamposti di organismi tentacolari che mirano a disporre del nostro organismo. A un livello più istituzionale, sono associazioni o clan che, in forma parassitaria, perseguono l’obiettivo di detenere la corteccia della società, per assorbirne la linfa vitale. Ed è il caso di questo romanzo che, però, non esclude, ma ingloba le definizioni fin ora scritte.
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La storia è ambientata tra il pianeta Marte, la Terra e vari satelliti. Vi è una descrizione accurata degli ambienti astrali. Il valore aggiunto emerge dalla creazione di ecosistemi in cui convivono flore e faune che hanno avuto una lieve traslazione intorno alla propria specie. Infatti, emerge un potenziamento delle possibilità riproduttive e di adattamento con una notevole variazione intraspecifica per lo sviluppo delle applicazioni delle scoperte della genetica.
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Il libro è fecondo di applicazioni quasi vicine alle possibilità di impiego odierne. È un libro di avventura. Le relazioni tra i protagonisti sono ben disposte in azioni che permettono la presa di conoscenza e di acquisizione di nuove abilità. I picchi dei climax sono ben distribuiti tra confronti intellettuali e violenti.
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Vi è una strabordante e immaginifica offerta di nuovi equilibri ecologici. Gli alberi diventano loro stessi città viventi. I conflitti sociali comunque vi sono sempre, ma ecco che le disparità economiche, cognitive e giuridiche, sono accompagnate da nuove stratificazioni di popolazioni geniche.
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Vi è la volontà di potenziare le facoltà che riteniamo proprie dell’essere umano, e di gestire la gamma delle emozioni e dei sentimenti. Tutto ciò è impiegato anche verso le altre specie viventi, con le quali interagiamo in modo inedito.
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Vi sono dibattiti evocati in modo trasposto in ordine ai diritti che oggi riteniamo urgenti per tutte le specie viventi, che perseguono il riconoscimento di nuove forme di soggettività. Umani, mammiferi, uccelli, rettili, alberi, fino alle alghe, hanno voce in campo per rivendicare una possibilità di esistenza più libera e concreta. Si afferma il compito di ridefinire una nuova forma di cooperazione e quindi anche di conflitto, con la speranza di ottenere un’ulteriore consapevolezza, rispetto alle domande che ogni senziente si pone rispetto al mondo, al futuro e al senso dell’esistenza.
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77-78 “[…] Lady Tuarna Fortemare era docente di storia evolutiva comparata. «Quale lezione?» «Ah, qui sulla Terra ancora si crede alla fola che gli animar li abbiamo importati dalle colonie spaziali quando, invece, i protoesemplari sono terrestri. Diciamo tra il 2040 e il 2050. Fino a quel momento i nativi selezionavano gli animali in base alla razza, non all’intelligenza. Eppure l’elemento che penalizzava maggiormente la convivenza erano, non ridere eh, le deiezioni. Tenevano in casa solo cani e gatti perché erano capaci di controllare queste funzioni. Cassette con la sabbia e guinzagli per portarli a fare i bisogni in strada, bisogni che venivano raccolti dai padroni e messi in appositi cestini legati ai pali della luce. Te lo immagini?» Mi fermai a guardarla. «Non ci credo…» Mi prendeva in giro? «Credici. Senza tener conto che in quegli anni scoppiarono alcune epidemie che costrinsero la gente in casa. Il numero degli animali di affezione prima crebbe, poi crollò e bastonò l’intera filiera produttiva. Così le grandi aziende si misero di buzzo buono a selezionare tenendo come parametro l’intelligenza. Migliorarono le aree logico-verbali, fecero qualche ritocchino usando tecniche prebiomiche, come la CRISPR. Fu una corsa all’oro. Gli animar cominciarono così e poi furono usati nello spazio: come cavie, come produttori di cibo, come bassa manovalanza in ambienti ostili. E nello spazio si sperimentò senza troppi vincoli etici fino a ottenere gli animar attuali. E ora si buttano, perché si è trovato di meglio: i friendz. Non mangiano, non sporcano, li aggiusti solo se ti va e li accendi quando ti pare…» […]”
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78-79 “[…] Arrivammo all’IZA. Muro di mattoni rossi e scritta in avorio bianco che brillava la sole. PRIMUS INTER PARES, e subito sotto spiccava una frase del fondatore: ERA PREVISTO CHE GLI ANIMALI DIVENTASSERO INTELLIGENTI. L’EVOLUZIONE HA USATO L’UOMO COME SCORCIATOIA. KLK «Già» disse Tuarna, «Era previsto, Ken Lonel Kon lo scriveva nelle prefazioni di ogni suo saggio. Quello che non era previsto era il tradimento. Che proprio noi evoluti cominciassimo a considerare gli animar come strumenti superati o una tappa pseudoevolutiva che si poteva lasciare indietro. Cancellare. E poi? Chi ci si toglie dai piedi? I nativi? E per cosa? Perché edificare un mondo tutto bellino e precisino? Suvvia, non diciamo eresie! Venite, qui animar e nativi sono i benvenuti.» […]”
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Lo stile è contraddistinto da fasi di spiegazioni scientifiche chiare e ogni tanto da un intercalare da parte di alcuni protagonisti che richiamano dialetti fiorentini, assieme ad alcuni idiomi del nord Italia. Ciò è spiazzante e divertente. Le vicende non sono piatte, ma vive. Le emozioni sono forti, contraddistinte da odori e colori intensi.
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Si presti attenzione comunque a ritenere che il romanzo sia una sorta di manifesto ecologista per il quale l’uomo è cattivo e brutto, perché vìola il paradiso dei biomi della Terra e degli altri pianeti. No, no. Gli ecosistemi, tutti, sono umani. La natura, invece, è infinitamente eccedente a ciò che è l’orizzonte di significato. Nelle sue manifestazioni indirette non è un luogo univocamente benevole, dolce e delicato. I viventi che richiedono una loro dignità non sono angeli.
Questo romanzo è un’ottima occasione per riflettere riguardo a concetti che pigramente diamo per scontati nel loro significato: “evoluzione” e “selezione naturale”.
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211-13 “[…] Cominciai a dare rifugio a chi ne aveva bisogno, a denunciare i soprusi, a prendere posizione a favore della sessualità, anche tra generi diversi. Argomento piuttosto difficile, credimi, in una società in cui i rapporti carnali vengono visti come la radice di ogni male.» «Da noi nello spazio sono tollerati solo per i nativi come me.» «In genere anche qui. Il controllo sessuale e riproduttivo sono forme di potere» continuò lei battagliera, «le nascite carnali sono sempre più rare. Siamo tutti figli di alberi-madre e buone selezioni. Io e Paulito abbiamo provato a fare un figlio alla vecchia maniera
[…]
Tra una boccata e l’altra, Eridiana riempì il mio silenzio. «… Quindi, capisci, non c’è da prendersela nemmeno con gli evoluti, ma con chi, tra gli evoluti, mette in atto queste pratiche di controllo. Quello che si fa agli animali, agli animar o ai nativi, poi lo facciamo a noi stessi. Sempre. Siamo tutti delle vittime […]”
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I protagonisti, anche nelle loro caratteristiche repellenti e meschine, non possono non sortire qualche sentimento di benevolenza da parte nostra, perché la natura è ben più strutturata degli schemi morali che usiamo nel quotidiano. Non possiamo odiarli, perché è possibile ritrovarsi in quelle figure.
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275-77 Le emozioni non sono altro che proto-pensieri, generati dallo stesso asse funzionale, in organi diversi. Ciò significa che la semplificazione emotiva indotta negli animar e l’ascesi delle emozioni a puro pensiero degli evoluti, sono delle… menomazioni.» Aveva fatto fatica a pronunciare quella parola, ma continuò. «Menomazioni molto utili in fatto di efficienza che però possono esporci a una cecità pericolosa e a un rigore logico spietato.
[…]
Gli animatzu conducono a un bivio che determinerà il nostro futuro. Senza animatzu proseguiremo a edificare una società ordinata, controllata, pacificata, semplificata e omologata, ovviamente retta da noi evoluti. Nativi e animar sopravviveranno solo relegati in riserve atte a conservare il pool culturale e genetico. Con l’introduzione degli animatzu, invece, la società tornerà a essere complessa, diversificata e conflittuale. Nativi e animar diventeranno componenti forti e attive del tessuto sociale, con tutti i problemi che ne nasceranno.» «Guerre?» «No, non credo, la diversità tende a generare microconflitti, mai guerre. Però dovremo immaginare una nuova struttura sociale per vivere bene insieme. La mia famiglia è terrorizzata da questa prospettiva di… decadenza. La vive come un declino della civiltà, un ritorno alle barbarie.» […]”
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È un romanzo divertente che stimola a riflettere sui nostri lati oscuri. Offre un’occasione per ragionare sul viaggio comune che noi e questo pianeta stiamo percorrendo verso i sentieri delle domande inevase.
È una crepa nel presente che cresce come un vortice, attirando moti d’aria e d’attenzione, perché non si può smettere di leggere. I personaggi sono introdotti con indizi che a mo’ di esca, attraggono e seducono, evocando una irresistibile curiosità.
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Gli eventi e i luoghi sono sorgenti di misteri che veicolano la narrazione. Anche rimanendo tali, li sentiamo scandire il ritmo delle vicende.
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La descrizione dei personaggi si accompagna ai loro atti e alla osservazione partecipante dell’autrice che è una dei partecipanti. Si è nel dubbio se la scrittrice stia rievocando la sua biografia, o se sia una inventata. In ogni caso, le protagoniste si sdoppiano nell’offrire un diario degli eventi. I quali a loro volta viaggiano in un binario esterno cronologico e uno interiore che curva e si torce nelle storie di vita accadute di ognuno.
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Nonostante i rimandi e le spirali, non si hanno sensazioni di pesantezza nel voler definire un ordine logiche di cause che scateneranno nuovi sommovimenti. Anzi, il lettore è invitato a supporli amplificando una ricca offerta di climax nella narrativa.
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È una magnifica prova di scrittura per Magda Szabò, non a caso ritenuta una delle scrittrici ungheresi più autorevoli del ‘900. Dovette subire decennali e multiple forme di censure, resistendo comunque, attraverso un’incessante opera di libera divulgazione, tesa a scandagliare i processi più profondi dell’animo umano, correlati a precise e tragiche vicende storiche.
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La storia delle protagoniste è anche uno specchio della storia del popolo ungherese, con rimandi continui tra gli anni e i secoli. L’inconscio di una bimba è quella di un popolo, e ogni ciclo famigliare costituisce una individuazione del corso di crescita dell’Ungheria.
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4-6 “[…]. I miei sogni sono assolutamente uguali, tessuti di visioni ricorrenti. Sogno sempre la stessa cosa, sono in piedi, in fondo alle nostre scale, nell’androne, mi trovo sul lato interno del portone con il telaio d’acciaio, il vetro infrangibile rinforzato di tessuto metallico, e cerco di aprirlo. Fuori, in strada, si è fermata un’ambulanza, attraverso il vetro intravedo le silhouette iridescenti degli infermieri, hanno volti gonfi, innaturalmente grandi, contornati da un alone come la luna. La chiave gira nella serratura, ma i miei sforzi sono vani, non riesco ad aprire il portone, eppure so che devo far entrare gli infermieri altrimenti arriveranno troppo tardi dal mio malato. La serratura è bloccata, la porta non si muove, come se fosse saldata al telaio d’acciaio. Grido, invoco aiuto, ma nessuno degli inquilini che abitano sui tre piani della casa mi ascolta, non possono farlo perché – me ne rendo conto – boccheggio a vuoto come un pesce, e quando capisco che non solo non riesco ad aprire il portone ai soccorritori, ma sono anche diventata muta, il terrore del sogno raggiunge il culmine. A questo punto vengo risvegliata dalle mie stesse urla, accendo la luce, provo a dominare il senso di soffocamento che mi assale sempre dopo il sogno, intorno ci sono i mobili conosciuti della nostra stanza da letto, sopra il letto l’iconostasi di famiglia, i miei avi parricidi che indossano i dolman con gli alamari secondo la moda del barocco ungherese o del biedermeier, vedono tutto, capiscono tutto, sono gli unici testimoni delle mie notti, sanno quante volte sono corsa ad aprire la porta agli infermieri, all’ambulanza, quante volte ho provato a immaginare, mentre udivo filtrare dal portone aperto il passo felpato di un gatto, o lo stormire delle fronde, invece dei noti rumori diurni delle strade ora ammutolite, che cosa succederebbe se un giorno lottassi invano e la chiave non girasse nella serratura. I ritratti sanno tutto, in special modo ciò che mi sforzo di dimenticare, che ormai non è più sogno […]”
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Una governante e la padrona in perenne conflitto che ricercano comunque attraverso gli anni un universo coerente circa gli eventi subiti e immaginati, perché questi non cadono mai nel participio passato. Rimangono lì, modificando lo spazio, indirizzando i comportamenti, coltivando le superfici perennemente seminate di nuovi simboli.
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L’ossessiva descrizione degli ambienti e delle persone fin nei minimi particolari, potrebbe instillare un pigro e sonnolento giudizio circa la dilatazione temporale delle storie. Quasi uno stato di indugio autocompiaciuto. In realtà ogni offerta degli scenari provoca uno slittamento semantico che ricompone un nuovo quadro di significato. S’aprono ulteriori direzioni che avvertono nuovi accadimenti in relazione con quelli accaduti.
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La doppia riflessione su una narrazione che è già una strada di analisi, trasla ciò che è compiuto accostandolo a ciò che in quel momento è considerato l’attimo presente. Il passato si espande nel presente, ma non dilegua, perché lascia aperta una porta al lettore, illudendolo che sia il censore che finalmente risolve il dissidio, ma che in realtà diviene il vettore di una nuova strada possibile: cioè il futuro.
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Gli oggetti, i luoghi apparentemente banali e i dialoghi di raccordo, d’improvviso evocano le guerre mondiali, quelle dell’ottocento, le dominazioni subite e inflitte ai confinanti. Le prime forme statuali emergono d’improvviso, come mattoni nello spazio in cui i protagonisti si muovono. Ogni famiglia è una comunità, e questa è un popolo. La città è la nazione ungherese e questa è parte dei popoli che in essa la attraversarono e che ancora lì sono presenti, tra i cimiteri, le nascite, le guerre, e le stagioni.
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La governante è la padrona instaurano un dialogo ininterrotto, scambiandosi a volte il ruolo della coscienza che disvela, e quello dell’errante cieco, sordo e muto. Eroiche e malate entrambe. Ignare comunque di portare l’eredità di questa storia personale e collettiva, anzi di esserne loro stesse un simbolo che via via si accosta a tutti gli altri di questo percorso accidentato tra le porte, le serrature, e i muri: ostacoli prima, illusioni dopo, ed enigmi sempre.
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33-34 “[…] Al momento del mio risveglio non la vidi in casa, né in strada quando partii per l’ospedale, ma il marciapiede scopato e sgombro di neve davanti al portone rivelava la presenza del suo lavoro. «Evidentemente Emerenc sta facendo il giro delle altre case», spiegai a me stessa mentre il taxi mi portava a destinazione; non ero piú angosciata, avevo il cuore leggero, sentivo che in ospedale mi aspettavano solo buone notizie, ed effettivamente fu cosí. Rimasi fuori fino all’ora di pranzo, rincasai affamata, sicura che lei fosse là seduta nell’appartamento e aspettasse il mio ritorno, ma mi sbagliavo. Mi trovai nella situazione, cui non ci si riesce mai ad abituare, di chi torna a casa e non trova nessuno curioso di sapere che notizie porta, liete o funeste che siano – l’uomo di Neandertal probabilmente imparò a piangere quando capí per la prima volta di essere completamente solo accanto al corpo del bisonte trascinato nella caverna, di non aver nessuno con cui condividere le avventure della caccia, nessuno cui mostrare il trofeo o le ferite subite. L’appartamento mi aspettava vuoto, la cercai dappertutto, chiamai il suo nome ad alta voce, semplicemente non volevo […]”
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133 “[…] Emerenc, se mai credeva in qualcosa, credeva nel tempo: il Tempo, nella sua personale mitologia, era un mugnaio che macinava senza sosta nel suo mulino eterno e dosava la tramoggia degli eventi a seconda del sacco che le persone gli posavano davanti. Nella fede di Emerenc nessuno restava a mani vuote, nemmeno i morti, non capiva come, ma era convinta che il mugnaio macinasse anche il loro grano e riempisse i loro sacchi, solo che alla fine erano altri a caricarsi la farina in spalla e a portarla via per cucinare il pane […]”
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Il tempo, la scrittura, il ritmo, e la porta: il grande ostacolo che in realtà è tale in base alle domande che il singolo si pone. Una sfida stimolante per il lettore, perché in questo romanzo è direttamente chiamato in causa, assieme alla sua intera biografia itinerante.
È un libro denso per opera di un eminente studioso del diritto, ancora in attività. Come intendiamo il diritto e la sua applicazione? Che relazioni vi sono oggi tra il diritto, i valori, le norme? Come valutiamo l’incidenza delle pratiche giuridiche in coerenza con gli schemi formali del diritto in rapporto alla Costituzione e allo Stato, ove questi subiscono una riduzione di applicazione in conformità verso enti privati transnazionali e istituzioni sovranazionali?
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È percorso un dibattito a tema che cerca di ridefinire qui in Italia le nozioni di giusnaturalismo, giuspositivismo, tra originalismo ed ermeneutica.
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Vi sono temi antichi che si ripropongono assieme a dilemmi, controversie e ai limiti delle interpretazioni, delle pratiche e delle giustificazioni di fondazione del diritto e delle giurisprudenze correlate.
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Il dibattito storicamente ha attinto anche agli strumenti propri della filosofia del linguaggio, della logica, della retorica, e della storia giuridica relativa alla nozione della definizione dei principi e delle tecniche di giustificazione.
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Se è concesso esprimere qualche perplessità, che non inficia l’inarrivabile autorità e preparazione dell’autore, rispetto al sottoscritto, per chi conosce i dibattiti della filosofia teoretica e delle questioni di sociologia, sembra che vi sia una ripetizione di ciò che già decenni fa, fu considerato già sorpassato.
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D’altra parte per chi ne è a digiuno, tale approccio, invece è un ottimo viatico per offrire la possibilità di porsi nuove domande indefinitamente più articolate.
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Per quanto riguarda lo stile, a tratti sembra vi siano toni di arringa innanzi a un tribunale, ma questa inclinazione verso una scrittura che richiama una dizione orale, rende più colorita e partecipe una narrazione altrimenti astratta per i neofiti.
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A mio parere non bisognerebbe subito cadere nel giudizio che il diritto sia in crisi relativamente alla nozione di universalità, con la coerenza e la validità della sua applicazione. La questione è relativa a quell’articolo determinativo “il”. Il diritto è antecedente all’apparizione della forma statuale di nazione, ovvero attraverso una Carta di Identità di un testo Costituzionale.
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È un libro ricchissimo che offre al lettore di rivedere parole che usa ogni giorno in un’ottica più ampia, rilevando come la collettività, la nostra Repubblica, e tutti i soggetti correlati a livello interno e internazionale, provengono da lontano, essendo in continua mutazione.
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Mi si perdoni questo egocentrismo, ma sto prendendo alla lettera l’insieme delle indicazioni evocate dal testo, perché il diritto non è astratto, infatti si realizza nei casi e nel fatto concreto. A mio parere, dunque, EMERGE UNA SPINTA ETICA: ESSERE PRESENTI NEL PROPRIO TEMPO, nel comprendere la propria relazione rispetto agli altri e alle istituzioni, all’interno di valori indisponibili in una concezione universale degli ambiti di definizione e di giudizio.
Ovvero rendere grazie a coloro che ci hanno offerto un mondo ben più amichevole e materno rispetto al passato, per adempiere alla responsabilità di conservarlo, al fine di renderlo disponibile per le generazioni future.
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Dal Codice Pandettistico si passa alla necessità di un ritorno a logiche plurali del diritto in cui la relazione diretta, fatto, caso, norma non sia l’unica matrice dove si inscrive la prescrizione, la regola, la coattività, la tutela, il titolo.
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È un libro urticante. Ci fa riflettere. Prende una posizione, inducendo il lettore ad oscillare nell’essere a favore o contro rispetto agli argomenti trattati
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È uno stimolo comunque per essere presenti nel nostro tempo, in modo di non subire l’effetto inconsapevole dei processi storici e sociali in atto.
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Il diritto penale del nostro tempo è composto da un corpo di leggi, spesso promulgate in funzione pedagogica, più che sanzionatoria rispetto a determinati comportamenti sociali: con una conseguente tendenza ad un aumento dei reati e ad un inasprimento delle pene, non più caratterizzate da certezza e dal principio di proporzionalità. La proliferazione incontrollata, la cattiva qualità e l’ambiguità di una legislazione frutto di compromessi, minano dall’interno il principio di legalità ed accentuano notevolmente lo spazio di discrezionalità dei giudici, privando nei fatti il cittadino di quelle garanzie di libertà dagli abusi del potere punitivo dello Stato e di ragionevole prevedibilità delle conseguenze dei propri comportamenti – come precondizione di libertà nelle proprie scelte – che sulla carta dovrebbero essergli riconosciute.
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Nel mondo globale il diritto perde il suo rapporto esclusivo con un determinato territorio e tramonta il monopolio degli Stati nel produrre diritto. Regimi giuridici di diversa origine convivono e si moltiplicano in una pluralità di istanze che interagiscono e spesso si pongono in reciproca competizione. Nuovi soggetti, ufficiali e non ufficiali, non solo statali né solo pubblici, producono una serie di prassi non più riconducibili a logiche unitarie.
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Ampie zone del mondo giuridico vengono privatizzate, preferendo la scelta del foro più conveniente agli interessi che si intendono perseguire. Contestualmente, per risolvere controversie e conflitti, accanto ai giudici nazionali, si diffondono organismi giudiziari e para giudiziari che espandono i diritti individuali, introducendo garanzie e rispetto delle forme contro le violazioni dei diritti.
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Al pluralismo sociale si affianca un pluralismo giuridico con fonti pubbliche e private, tra loro non più disposte in un rigido rapporto gerarchico. Al diritto «scritto» (basato esclusivamente sulla legge) si affianca il diritto di fonte giurisprudenziale. Si ingigantisce il ruolo degli interpreti, soprattutto degli interpreti giudici in qualità di protagonisti per risolvere le difficoltà o le carenze prodotte dalla cattiva qualità o dall’assenza degli interventi legislativi.
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Il rimprovero alla pervasività dell’intervento giudiziale è frequentemente mosso da quella stessa politica che lo rende inevitabile con la propria mancanza di scelte nette. I pilastri del moderno Stato di diritto, il principio di legalità e di separazione dei poteri, trasformati in luoghi comuni e dogmi intangibili, denotano una maggiore difficoltà, rispetto al recente passato, nel tenere il passo circa l’imprevedibilità di casi concreti in cui ciascuno pretende una giustizia personalizzata.
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L’attuale mutazione del diritto, non più imperniata sulla legge ma sui due poli della Costituzione da un lato e delle corti dall’altro, ridimensiona fortemente, in questa forma parzialmente destatalizzata del diritto, il modello continentale moderno con le sue istanze di potere statale e di preminenza del legislativo.
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Si consuma la rottura del monopolio e del rigido controllo statuale sul diritto. Si tratta in ogni caso di processi di adattamento e di cambiamento che indubbiamente mettono in discussione antichi confini e storici assetti, ma che non possiedono ancora sufficienti elementi di univocità e di chiarezza.
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L’uso smodato del ricorso alla sanzione penale (secondo recenti ricerche 7.000 norme penali in Italia, tra codici e leggi complementari) alimenta infatti disposizioni ben lontane dalla chiarezza e dalla precisione.
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La conseguenza è quella di un tasso rilevante di ideologicità e di genericità in molte disposizioni di legge, tutte piegate al perseguimento di obiettivi contingenti di immediata utilità politica, e non di rado contenenti espressioni con funzione emotiva più che normativa. Tutto ciò inevitabilmente implica proprio la rinuncia alla funzione di orientamento dei comportamenti che sarebbe propria di una norma penale precisa e circoscritta.
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L’idea che tramite il diritto penale si possa rimediare ad ogni ingiustizia e ad ogni male sociale e che di conseguenza si debba ricorrere più intensivamente alla punizione ed alla repressione, origina un diritto penale non volutamente frammentario, ma duramente sanzionatorio.
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Insomma, si fatica ancora nel mondo penalistico a riconoscere che l’ipertrofia legislativa, soprattutto quella dettata da emotività più che da razionalità, non è una deprecabile deviazione dalla retta via, ma una condizione strutturale della legislazione contemporanea.
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Lo stesso processo rischia così di legittimare provvedimenti di natura amministrativa ed ispirati all’opportunità politica. Esorbitando nel suo potere, il giudice rischia di divenire così non colui che colma delle lacune, ma il giudice moralizzatore e giustiziere, il vero protagonista di una politica criminale soltanto declamata in modi strumentali dal legislatore ma in realtà propria e dotata di una forte funzione di prevenzione generale.
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Il dilemma ritorna alla relazione tra i principi entro i quali il diritto si forma e i contesti della giustificazione nei quali le pratiche della giurisprudenza devono tener conto.
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La dimensione giustificativa, relativa tanto alla giustificazione delle regole quanto a quella dei fatti, implica il fatto di parlare di casi concreti, di applicazione normativa nella prassi giuridica e di giustificare le ragioni addotte a sostegno della correttezza della soluzione individuata. Il giudice deve fornire le ragioni che hanno orientato il modo con cui la sua decisione compone gli interessi in gioco ed i valori in competizione.
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Il ragionamento giuridico presenta caratteristiche specifiche, che lo differenziano da altri tipi di ragionamento. Vale a contraddistinguerlo, anzitutto, la sua funzione pratico-normativa, il fatto che muovendo da premesse normative esso ricavi conclusioni normative. In secondo luogo, sarebbe auspicabile un suo uso all’interno di un contesto istituzionale da soggetti pubblici tenuti a giustificare le loro decisioni.
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La teoria del ragionamento giuridico indaga le condizioni alle quali la conclusione di un ragionamento giuridico possa dirsi giustificata, e dunque razionalmente accettabile. Occorre ancor di più una funzione di controllo e di garanzia circa il rispetto di principi fondamentali dello Stato costituzionale di diritto, dal principio di legalità a quello di uguaglianza di fronte alla legge, per non dire di quello di separazione dei poteri.
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Vi è nelle scelte del giudice un aspetto di discrezionalità ineliminabile, rispetto al quale la necessità di argomentare e di fornire ragioni rappresenta un antidoto ed un elemento di verifica. Molto meglio – anche ai fini di controllo dei modi di esercizio di tale discrezionalità – è che tali scelte non restino occultate all’interno delle pieghe del ragionamento e vengano anzi esplicitate, evidenziandone i presupposti e dando ragione delle regole di inferenza impiegate. Il controllo è momento essenziale del procedimento interpretativo e ad esso funzionalmente connesso.
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In una tendenza storica che prevede un diritto crescentemente incerto, il giudice non deve essere lasciato solo. La decisione ed il relativo consenso rappresentano entrambi aspetti fondamentali della giustizia.
37 “C’è un detto cinese che recita: ‘Quand’è il momento migliore per piantare un albero? Vent’anni fa.’” L’ingegnere cinese sorride. “Davvero niente male.” “‘Quand’è il prossimo momento migliore? Adesso.’” “Ah! Okay!” Il sorriso diventa reale. Fino a quel giorno, lui non ha mai piantato nulla. Ma l’Adesso, quel prossimo momento migliore, è lungo, e riscrive tutto.
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La struttura di fondo della narrazione ècircolare, disposta in cerchi concentrici come quelli della sezione di un tronco di un albero. Il tempo non dilegua scorrendo su una linea, ma è conservato come gli anelli di ogni fusto sulla Terra, i quali connettendosi poi con quelli esterni, mutano conservandosi.
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41-42 “[…] Ma questi uomini?” Schioccò la lingua e alzò il pollice, come se questi piccoli Buddha fossero gli unici su cui puntare, nel corso del tempo. A quello schiocco, una Mimi adolescente si alzò dalle sue spalle di bambina di nove anni per contemplare gli arhat dall’alto e da anni di distanza. Dall’adolescente estasiata uscì un’altra donna, persino più grande. Il tempo non era una corda che si srotolava di fronte a lei. Era una colonna di cerchi concentrici con lei al centro e il presente che fluttuava verso l’esterno lungo l’orlo più lontano. Future Mimi si affollavano sopra e dietro di lei, ritornando in quella stanza per lanciare un’altra occhiata al pugno di uomini che avevano risolto la vita. “Guarda il colore,” disse Winston, e tutte le sue identità successive crollarono davanti a Mimi[…”
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Vista e orecchio sono necessari per la lettura di questo romanzo, dato che le vicende vivono di scrittura e di potenziali sonori evocati. Il lettore è accanto agli alberi e scorre le righe con il ritmo di vita degli alberi. Ondeggiamo nella immedesimazione nei rami della sintassi, che detengono le foglie dei significati, lasciandoli e ricevendoli con quelli emanati dal bosco infinito dei segni e sei simboli. Ognuno è disallineato, stando assieme agli altri.
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Ed è qui il sublime, perché sentiamo il nostro e il loro limite. I sentieri lunghi cosparsi da foglie cui aspiriamo linfa di lettere e gocce di parole, riverberano sulle carezze dei venti. I fruscii conservano il nostro passato, perché raccolgono e rimandano le nostre parole e le correlative azioni, picchettando tracce di coloro che furono.
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I sorrisi lacrimano, accomunando i volti di ogni individuo della Terra, nell’assorbire la memoria delle radici.
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Rivivere la nascita e il senso del perire di sé e delle appendici a noi originarie, effonde lo struggimento nella speranza della gloria. E ci si ritrova aggrappandoci nel dire “Sì” al vivere che è la meraviglia e il dolore. Questo paradosso è la matrice del limite che impone il senso della finitudine, che radica l’indeterminatezza, seme delle infinite possibilità di esistenza.
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Gli alberi aggrovigliano le nostre correnti temporali. Sono il nostro appiglio, perché con loro ci confrontiamo, essendo il baluardo dell’ignoto e i generatori delle spore, ovvero le anticipazioni del futuro. Dialogano con vettori e frequenze inaspettate dell’altro mondo che bussa tra le radici e il sotto suolo, ove l’acqua parla con i Sali e il carbonio. La pioggia carsica della terra che va verso il cielo, emana l’arcobaleno delle sostanze nella trasmutazione dei colori dall’inorganico all’organico, ricevendo per converso gocce di luce, che si depositano nel cuore della Terra. E noi come loro, prima ancora dei giudizi, ne siamo un timbro che risuona.
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È un gigantesco coro di un pianeta solitario, così sottile di vita, che spedisce alberi in cammino tra gli spazi in espansione coltivando semenze di tempo.
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124 “Sappiamo così poco di come crescano gli alberi. Quasi nulla di come fioriscano e ramifichino e si diffondano e si curino. Abbiamo imparato qualche cosa di alcuni di essi, presi isolatamente. Ma non c’è nulla di meno isolato o di più socievole di un albero.”
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I protagonisti si avvicinano, genitori e figli, agli alberi. Tra gli stadi dell’esistenza si uniscono a quell’unico grande albero che è la foresta. Le loro storie si diramano e convergono con rami, altri rami, foglie, polline e spore, asessuate e sessuate. Da un mondo all’altro, assieme e grazie ai funghi e ai batteri, i loro piedi e le loro mani.
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228-229 “[…]Rimuovere il tronco significa uccidere il picchio che tiene sotto controllo i punteruoli che ucciderebbero gli altri alberi. Descrive le drupe e i racemi, le pannocchie e gli involucri cui una persona potrebbe passare accanto senza mai accorgersene. Racconta di come da un ontano dalle pigne legnose si raccolga oro. Di come un noce americano alto due centimetri e mezzo possa avere una radice profonda quasi due metri. Di come la corteccia interna delle betulle possa nutrire gli affamati. Di come un amento del carpino bianco abbia diversi milioni di grani di polline. Di come i pescatori indigeni usino foglie di noce frantumate per stordire e catturare i pesci. Di come i salici ripuliscano il terreno dalle diossine, dai PCB e dai metalli pesanti. Illustra come le ife fungine – infiniti chilometri di filamenti ripiegati in ogni cucchiaio di terreno – riescano a far aprire le radici degli alberi e ad attingere a esse. Come i funghi collegati alimentino i minerali degli alberi. Come l’albero contraccambi queste sostanze nutrienti con gli zuccheri, che i funghi non riescono a produrre.
[…]
Sta succedendo qualcosa di meraviglioso sotto terra, qualcosa che stiamo solo imparando a vedere. Tappetini di associazioni micorriziche collegano gli alberi in enormi e intelligenti comunità sparpagliate lungo centinaia di acri. Insieme, formano vaste reti di scambio di prodotti, servizi e informazioni… Non ci sono individui in una foresta, né eventi separabili. L’uccello e l’albero su cui è posato sono una cosa sola. Un terzo o più del cibo che un grosso albero produce può sfamare altri organismi. Persino tipi diversi di alberi formano delle società. Tagliate una betulla, e un abete di Douglas nei paraggi può soffrirne… Nelle grandi foreste dell’est, le querce e i noci americani sincronizzano la produzione dei loro frutti per confondere gli animali che si cibano di essi. Si sparge la voce, e gli alberi di una data specie – che siano al sole o all’ombra, bagnati o asciutti – producono molti frutti o affatto, insieme, da comunità quale sono… Le foreste si risanano e si modellano attraverso sinapsi sotterranee. E, nel farlo, modellano anche le decine di migliaia di altre creature collegate che le formano dall’interno. Magari è utile pensare alle foreste come a enormi ed eccezionali alberi che si allargano e ramificano sotto terra […]”
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Lei, lui, le coppie si formano come spore e pistilli. Si distaccano dalle reti e dalle radici dei rami sociali. Evocano il sottosuolo, assumendo atteggiamenti devianti. Profeti, visionari, alchemici, scienziati, produttori, maghi, programmatori. Sono parti di questo grande albero che continua ad esistere.
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387 Si è trasferito nel mondo parallelo insieme a centinaia di milioni di altre persone, ognuna nel proprio videogioco preferito. Non riesce a ricordarsi l’epoca precedente alla comparsa del Web. È proprio questo il compito della coscienza, trasformare l’Adesso nel Sempre, confondere ciò che è con ciò che doveva essere. Certi giorni, è come se lui e il resto della Valle della Gioia del Cuore non abbiano inventato la vita online, ma si siano limitati a incidere una radura in essa. Evoluzione nella fase tre.
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514 I greci avevano una parola, xenia – accoglienza dello straniero – un obbligo di occuparsi dei forestieri in viaggio, di aprire la porta a chiunque si trovi là fuori, perché chiunque passi di lì, lontano da casa, potrebbe essere Dio. Ovidio racconta la storia di due immortali che arrivarono sulla Terra travestiti da viaggiatori per guarire il mondo malato. Nessuno li lasciò entrare tranne una vecchia coppia, Filemone e Bauci. E come ricompensa per aver aperto la porta a dei forestieri offrirono loro una vita eterna trasformandoli in due alberi – una quercia e un tiglio – enormi e benevoli e attorcigliati. Finiremo per assomigliare a ciò di cui ci prendiamo cura. E quello a cui assomigliamo ci sosterrà, quando non saremo più noi stessi…
le.
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515 I segnali dicono: Vale la pena reinventare una buona risposta da zero, in continuazione. Dicono: L’aria è un miscuglio che dobbiamo continuare a creare. Dicono: C’è tanto sotto terra quanto sopra la superficie. Le dicono: Non sperare o disperare o predire o esser colta di sorpresa. Non arrenderti mai, ma dividiti, moltiplicati, trasformati, congiungiti, crea, e resisti perché hai a disposizione tutta la lunga giornata della vita. Ci sono dei semi che hanno bisogno del fuoco. Semi che hanno bisogno del gelo. Semi che hanno bisogno di essere inghiottiti, corrosi dall’acido digestivo, espulsi come rifiuti. Semi che devono essere sventrati prima di germogliare. Una cosa può spostarsi ovunque, stando semplicemente ferma.
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Attenzione: nell’ultimo quarto del libro, se si continua a leggere pensando che si è passati il climax della storia, per giungere alla fine in cui le scene si ricompongono per il finale che determina la chiusura alla stregua di un bilancio aziendale, si avrà la sensazione di ricevere qualche mattone negli occhi. I protagonisti riprendono i temi principali, per continuare sì lo sviluppo degli eventi, ma non per liquidarli, quanto per riaggregarli nella grande foresta del mondo, tra i boschi della poetica. Le vicende dei protagonisti che vengono mosse in modo parallelo sempre più vorticoso, sebbene agiscano secondo i rami delle storie del passato, creano qualcosa di nuovo: partoriscono il futuro. Ecco perché si ha difficoltà e quasi l’impazienza di terminare la lettura.
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Si crea un nuovo cerchio nel nostro albero personale: l’animo mio e tuo.
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Altro non dico: la sorpresa sarà irripetibile per ognuno che rivedrà davanti il suo passato, per orientarsi in un nuovo e ulteriore accadimento.
Le mie sono solo risposte a un tuo continuo richiamo…