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CONSIGLI DI LETTURA: Tutti i romanzi di Beppe Fenoglio

Tutti i romanzi (Einaudi tascabili. Biblioteca Vol. 62) di Beppe Fenoglio (Autore), G. Pedullà (a cura di), Torino, 2012

Signore e signori lui va letto integralmente.

Beppe Fenoglio fu considerato uno scrittore controverso per le sue sperimentazioni linguistiche, per la sua visione dei processi storici appena terminati in seguito alla fine della seconda guerra mondiale, per gli avvenimenti politico e sociali che apparvero in Italia fino all’anno della sua morte, nel 1963.

Fu criticato da editori e da letterati aderenti alle ideologie di sinistra e da quelle comuniste filosovietiche. Essendo stato un partigiano, fu radicalmente avverso al mondo fascista e alle destre a cui esse nel dopoguerra si richiamavano. Disincantato rispetto all’assetto statuale risorgimentale monarchico, guardò con distacco l’evoluzione delle interazioni sociali e civili della Repubblica Italiana.

Negli anni successivi alla morte e in corrispondenza delle dispute letterarie che tenevano conto di quelle ideologiche investite dalle posizioni di campo della guerra fredda, fu considerato un novelliere non tanto eccelso e un mediocre romanziere. Fu reputato un goffo sperimentatore linguistico nel tentativo di miscelare il linguaggio formale letterario con quello dialettale delle comunità codificate nelle nuove estetiche del neorealismo degli anni cinquanta. Impietosamente appellato come un dilettante nell’introduzione di neologismi stranieri nel suo stile di scrittura, nel tentativo di dispiegare nuovi orizzonti narrativi in cui inserire le vicende dei personaggi bassi, devianti e normali, grigi nelle loro vite assenti di un climax tragico.

Rimproverato nella sua indifferenza all’uso delle tradizioni narrative italiche, variando topi stilistici nel porli come meri strumenti sussidiari nel linguaggio parlato, sincopato nel ritmo, scarno nelle descrizioni dei luoghi, se non nella caratterizzazione degli eventi. Le trame dei suoi romanzi, anche incompiuti, vertono su un evento da assolvere, da ricevere, da subire, in cui innestare una linea narrativa concentrica in cui il passato e il presente entrano in gioco per suggerire il destino del protagonista e il giogo che sembra già assegnato. Una visione arcaica per alcuni, senza che ci si potesse raccapezzare nella totale mancanza di enfasi tra la dialettica dell’eroe e dell’antagonista, la quale non si chiude mai, se non per l’evanescente finale dell’attore delle gesta, in cui il presente rimane sospeso.

Avversato, quindi dagli scrittori ortodossi, da quelli antisistema, e dagli sperimentatori delle nuove possibilità linguistiche che provenivano dall’estero.

Eppure, nonostante l’alluvione di perplessità che investì in vita e dopo, questo scrittore schivo e radicato nel suo Piemonte, le istituzioni, le parti politiche, i mondi intellettuali, e il pubblico che man mano si faceva più letterato, lo posero come un riferimento rispetto ai temi letterari, sociali e politici dei decenni successivi.

E se ciò già negli ultimi anni della sua vita, fu richiamato nei dibattiti per usarlo come un esempio negativo, il fatto è che indirettamente e inconsciamente fu considerato un interlocutore. Le critiche che si sono susseguite in realtà, agli occhi nostri, ora, mostrano invece i limiti e le esigenze dei loro punti di vista specifici. Nonostante tutto Beppe Fenoglio sembra essere molto di più di come fu inteso e descritto dai luoghi di discussione politici, letterari e di costume dei vari decenni del novecento fino ad ora.

Insomma, chi fu Beppe Fenoglio?

Prima di tutto, ed è questa la sua specificità quasi originale nel ventennio fascista, fu un giovane innamorato della cultura albionica. Per sua spinta personale, con l’avvio di alcuni docenti che avversavano le politiche autarchiche fasciste nel piano linguistico, ideologico, e dottrinale, studiò ed acquisì le nozioni sulla lingua e sulla cultura inglese. Divorò intere raccolte di poesie e romanzi degli scrittori moderni e contemporanei del mondo anglosassone. Li visse nel suo immaginario.

Vi è un elemento, che forse non traspare immediatamente nelle descrizioni ultradecennali di questo giovane che si appassionò a tradurre autonomamente interi passi di drammi teatrali, di poesie, di racconti della letteratura inglese e poi statunitense: l’immedesimazione viva, concreta, presente verso i mondi letterari e le vicende trascritte in quelle opere.

Così schivo, già rispetto alla sua famiglia, dato che si chiudeva nella sua camera, a studiare e a scrivere, divenne, nel parlare e nel pensare i termini e i luoghi tradotti, una parte viva di essi, in cui la sua città, il suo paese, il quartiere, il negozio, si fusero con le campagne d’Irlanda, d’Inghilterra, con i castelli e le magioni dei nobili, con le baracche dei contadini e le fortificazioni dei guerrieri e degli eserciti.

In mondo italico meno che provinciale, lì tra i paesi e le campagne del Piemonte, questo ragazzo pensava e parlava del mondo e dei secoli oltre le Alpi e gli Oceani.

Lo strumento narrativo principale per riannodare eventi così scollegati, fu quello dell’analogia e della ripetizione in cui la metafora e l’allegoria furono spianate in una narrazione ciclica, e quindi mitica. Ma anche qui in un’ottica moderna, da romanzo d’appendice, aperto a tutti, con un linguaggio piano e parlato, con idiomi locali dei luoghi descritti.

E proprio perché Fenoglio vuole vivere ciò che scrive, lo ripete come se si svegliasse ogni mattina, perché poi dalle traduzioni e dalle uscite serali in osteria, dai giochi a carte, dal lavoro di impiegato quotidiano, la notte ricomponeva l’ideazione estetica nella traduzione operativa nella scrittura. Ed ecco, quasi inconscio, l’uso degli stessi protagonisti con l’identico nome per romanzi diversi, in cui le storie prendono percorsi alternativi, come se fosse un racconto orale, con continue variazioni a tema.

E proprio perché fu un partigiano, ritorna a parlare di quello scarto di storia italica, in cui il regno non ci fu più, dal giorno dell’otto settembre 1943 fino all’inverno del 1944. Non arriva neanche alla fine della seconda guerra mondiale, in quasi tutti i romanzi che scrisse.  

Perché? Certamente noi non possiamo entrare nella testa dello scrittore, ma abbiamo indirizzi manifesti che permangono quasi un secolo dopo. Noi non abbiamo fatto i conti con il nostro passato fascista. Abbiamo, in più, dichiarato guerra a tutto il mondo. Siamo stati alleati con l’orrore. Abbiamo chiuso gli occhi, coprendoci di disonore, esibendo la vigliacca mediocrità. E non affrontiamo quella guerra civile che iniziò già con gli scontri del 1919 che portò il partito fascista al potere, fino al 1943, in cui il regime dichiarò guerra contro il suo stesso popolo per mano della Repubblica Sociale Italiana. Non vogliamo pensare di essere stati salvati da quelli che oggi guardiamo con ironia, e che ci hanno dato la mano più volte anche economicamente e che ci hanno protetto da eventuali conflitti fino ad oggi.

E se la parte progressista guardò a un altro regime terribile come quello staliniano, la parte laica e liberale mostrò un’anemica e viscida visione del mondo.

Beppe Fenoglio volle parlare anche del nostro disonore, e di come gli stessi partigiani, dopo la guerra fossero usati in modo mitico e settario, per gli scontri politici e sociali della seconda metà del novecento. Non erano tutti uguali, non erano tutti eroi, non erano tutti dalla stessa parte e si sono avversati ed odiati. E in più Fenoglio parlò dell’altra parte: lo scandalo più orrendo del nostro passato: la Repubblica Sociale Italiana. La caratteristica che diede fastidio ai contemporanei (perché parlava di loro) e di noi ancora oggi, fu quella di rappresentarli come persone normali, che non avevano una idea complessiva degli attori politici, dei leader, dei processi mondiali in corso. Gente analfabeta che a malapena uscì a poche decine di chilometri dal proprio paese.

Narrò gli scontri e le vicende delle varie parti in gioco, in modo volutamente non artefatto, con persone aventi difetti, meschinità, paure, speranze, di trovarsi addirittura quasi per caso e in modo irriflesso da una parte o dall’altra. Ma, attenzione, lui fu un partigiano ed aveva ben chiara la condanna morale dei repubblichini, che condannò moralmente ancor di più dei tedeschi. Non a caso fece dire ai suoi protagonisti partigiani, che loro arrivavano fino alla fine per uccidere un repubblichino e viceversa, perché a differenza dei tedeschi che agivano in modo tattico e logistico, tra di loro ci si voleva “bene”, e quindi si cercava di uccidersi anche in modo strategicamente suicida.

Beppe Fenoglio narrò di sé. I protagonisti sono quei partigiani maschi istruiti, quasi sempre solitari, distaccati, con uno sguardo critico, conoscitori della lingua inglese. Lui non inventa tutto. Parte proprio in modo traslato dalla sua famiglia. Dai rapporti con il padre e con la madre, con i parenti, con i vicini, con il paese natio, con il territorio atavico, con i partigiani badogliani e rossi, con i fascisti, con i repubblichini, con i traditori e i collaborazionisti.

Fu causa di dispute, perché la matrice da cui partiva era vera, in carne ed ossa, ed era di testimonianza diretta, anche se fu edulcorata, ampliata e sublimata nell’opera letteraria. Ecco perché i suoi scritti non potevano essere intesi come opinioni, o visioni settarie dilaganti negli anni cinquanta della guerra fredda.

Si scrisse che non fu però a livello meramente estetico, preciso e coerente nelle sue sperimentazioni linguistiche. Può essere, ma queste sono istanze che furono definite negli anni sessanta, quando appunto le nuove correnti letterarie di retorica, di filosofia del linguaggio, delle nuove tecnologie di scrittura, fornirono interi sistemi di strutture semiotiche e narrative.

Beppe Fenoglio le usava in modo strumentale rispetto alle sue specifiche esigenze narrative. Il modo in cui intervalla i termini gergali inglesi, con quelli dialettali piemontesi, con il parlato urbano e dei villici illetterati, era funzionale a caratterizzare il suo percorso narrativo, innestato nella visione della persona comune, come quella del contadino. Delle donne e degli uomini dei monti, che vivevano in modo aspro, al limite della sopravvivenza.

La visione organica e ben delineata a livello storico era tale nei nuovi canoni degli anni sessanta e settanta, dove entrano le nozioni delle ricerche sociologiche e psicologico sociali. Beppe Fenoglio parla di quel mondo tra il 1943 e il 1944 in uno stato di sospensione dentro un inferno, dove i politici, i miti, le religioni, erano visti senza mediazioni dalle persone illetterate, dal popolo. Dagli italiani, ovvero da come eravamo. Toglie l’eroismo, se non nell’atto individuale.

In questi romanzi si percepiscono gli odori, i sudori, le paure, le speranze, le angosce, le prove di sopravvivenza. Fenoglio ci prende con le mani i fianchi e l’intestino.

È fonte di irritazione, perché parla di noi. Un popolo più vecchio di quel periodo. Un popolo che continua a far voler dimenticare, negando il passato, sperando di seguire l’illusione di vivere in un’isola autarchica fuori dal mondo.

Va letto e goduto, perché nella letteratura, appare il godimento estetico, in cui riconosciamo parti sopite di noi stessi: un tesoro da spolverare a mani nude. È una pratica che forse all’inizio irrita la pelle, ma promette una possibilità per ritornare a guardar ciò che fummo e siamo.

§CONSIGLI DI LETTURA: ADRIANO OLIVETTI. UN ITALIANO DEL NOVECENTO

Adriano Olivetti, un italiano del Novecento,
2022, Di Paolo Bricco, Rizzoli, Milano

È più di una biografia. È una narrazione che gli italiani ancora oggi risentono circa la loro autorappresentazione, ereditata dai primi sessanta anni del secolo scorso. Adriano Olivetti è stato il figlio di Camillo, altro grande imprenditore a cavallo del ‘900. Uno studente di meccanica e di legge, pervaso da una vorace aspirazione a coniugare lo sviluppo tecnologico all’interno dell’imprenditoria in vista in un’etica tesa al miglioramento morale e materiale del popolo.

Contribuì a definire quei tratti tipici con i quali noi inconsciamente talvolta, con fastidio frequentemente e con orgoglio timidamente ci contraddistinguiamo: una versatile capacità camaleontica di aderire alle ideologie, di inventare storie di sé e di riformulare il passato come se dovessimo cambiarci i vestiti, sia per una volontà tesa a un perenne rinnovamento salvifico e sia per una furbizia stracciona e impotente, quasi disperata. Lasciando poi trasparire in modo quasi inspiegabile tratti di eroica genialità e di sacrificio.

4-5 “[…] Inaugurando nel 1955 la fabbrica di Pozzuoli, Olivetti presenta così gli obiettivi della sua impresa: “La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto” […]”

Non fu uno studente particolarmente brillante e neanche dotato di uno spirito pratico e agile, secondo le indicazioni del padre. Fu goffo, solitario, taciturno, non particolarmente atletico, ma dotato di uno sguardo sognante oltre il presente, contraddistinto da una inesauribile capacità immaginativa.

Aiutò Turati a fuggire durante la presa del potere del fascismo. Fu poi organico al regime e, in posizione di monopolista, trattò per rendere sempre più efficace la sua posizione aziendale in vista di una espansione produttiva e di sviluppo tecnologico privilegiato, venendo a patti con i potenti, fino a chiedere di interloquire con lo stesso Mussolini. Fu socialista segnalato dagli stessi prefetti fascisti, per poi rivendicare e anzi proporre uno stato etico ancora più pervasivo nei meccanismi dei processi economici, finanziari e produttivi.

Ciò fu ed è motivo di dibattito, perché potrebbe indurre una facile omologazione dell’uomo all’ideologia nefasta che fu, tale da risultare quasi il nemico più acerrimo della libera impresa, nonostante che mantenne, nel secondo ventennio, con grande riprovazione dei gerarchi, uno sguardo attento e positivo agli sviluppi tecnologici e imprenditoriali degli Stati Uniti. Insomma delle liberal democrazie.

Fu quasi uno dei più fedeli al regime e nello stesso tempo osteggiò in modo radicale le leggi razziali, anzi salvò tantissimi italiani di fede ebraica, sia assumendoli con altro nome nelle loro aziende, anche in modo posticcio, e organizzando poi, con la resistenza la fuga di molti, e tentando poi nel 1943 di scardinare la Repubblica di Salò con l’appoggio degli Usa e dell’Inghilterra per creare un regime democratico. Appoggiò quel nucleo di resistenti che formò il Partito D’Azione. Fu vicino agli ambienti del partito Repubblicano. Fondò il Movimento di comunità e partecipò alle elezioni nazionali, dopo qualche timido successo a livello locale, nei pressi di Ivrea, subendo una sconfitta nel 1959 che contribuì a fiaccarlo ulteriormente pochi mesi prima della sua morte nel 1960.

Ci si potrebbe chiedere se negli anni avesse avuto un filo conduttore di pensiero e di scopo. Non possiamo dirlo con certezza, ma questo libro, frutto di dieci lunghi anni di studio tra gli archivi di tutta Italia e non solo, oltre alla comparazione delle dichiarazioni di chi gli fu vicino, ricostruisce alcune linee di continuità a livello retrospettivo di tendenza storica, e non propriamente psicologica, per una persona piena di dubbi, pragmatica, e risoluta, razionale a volte, avventata in altre. Cinica e determinata nel perseguire gli scopi d’azienda, suicida e donchisciottesca nel perseguire suoi personali modelli di nuove relazioni sociali. Duro talvolta, ed estremamente generoso in altre.

Certamente subì l’influsso dell’idea dello stato che si fa padre, istitutore, controllore, gestore delle interazioni sociali e della moralità individuale, conduttore verso uno sviluppo delle comunità e delle genti italiche. Anzi elaborò e cercò di tradurre la visione risorgimentale di lungo periodo, nazionale dei primi anni colonialisti, fascista poi, di una sottomissione del singolo per il bene della collettività e poi della nazione. Posizione che invertì subito dopo l’8 settembre 1943, con una ulteriore conversione interiore, per definire una forma di personalismo cristiano che cercasse di coniugare la libertà con l’uguaglianza, la disparità sociale con la solidarietà e la redistribuzione che partisse dalle politiche e dai movimenti dal basso, prima di tutto culturali.

Se si cercasse di delineare una linea coerente secondo gli schemi attuali, si avrebbero le vertigini per queste giravolte tortuose. Il punto però è che indirettamente, consapevolmente a tratti, emerse sempre di più nei decenni un minimo comun denominatore: l’azienda e i lavoratori. Da essi e per essi elaborò una nuova forma di aggregazione comunitaria e quindi di interazione sociale.

Nell’impresa tutto deve ricadere. Il mondo del lavoro, a partire dalla fabbrica, determina ed espande le mense, le biblioteche, i musei e i centri culturali, gli asili nido per tutelare la maternità, la sanità complementare per i lavoratori, per i loro parenti e come una macchia d’olio via via per tutti. E quindi anche l’edilizia che deve essere redistribuita per i quadri, gli amministrativi, gli operai. Tutti, nessuno escluso, avrebbero dovuto godere esteticamente delle offerte culturali, di apprendimento e di una socializzazione aperta, libera e progressiva.

Insomma non è lo stato, il nuovo diritto, il partito fascista, il sindacato, le idee socialiste, le azioni di resistenza, gli approcci liberali che devono configurare i sudditi, i cittadini, i poveri, i ricchi, gli operai e gli intellettuali, passando anche nella rideterminazione dei luoghi di lavoro. No, ed è questo il fulcro, almeno io ritengo lo sia, della visione sotterranea di Adriano Olivetti: è l’azienda, il luogo della fabbrica, la comunità dei lavoratori, che assorbe tutto il resto. La società emana dai luoghi di lavoro. In essi si realizza la morale nell’attività di lavoro e culturale per una etica in cui la persona sia il perno.

Adriano Olivetti agisce in modo spregiudicato attraverso le ideologie, le forme di diritto, le nuove forme statuali che si susseguono prima e dopo la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, perché le ritiene onde e scosse telluriche intorno agli arcipelaghi che sono appunto le reti di impresa, collocate tra la città e la campagna.

86-88 “[…] Le tre radici, dunque: la cultura liberal-risorgimentale, il progetto marxiano e l’appartenenza all’ebraismo. Nelle storie individuali e nelle vicende delle comunità e dei gruppi politici e culturali italiani, spesso la prima e la seconda radice si avviluppano con la terza, l’appartenenza all’ebraismo. E non importa se quest’ultima si manifesta in una intensa e palese identità religiosa o se si esprime in una mimetizzazione e in una diluizione della sua tradizione nella secolarizzata società italiana ed europea. È questo il contesto storico articolato e multiforme in cui il demone della politica appunto abita – inizia ad abitare – in Adriano. Il quale vive le contraddizioni degli uomini e si trova a operare nelle pieghe della Storia, che ora lo fanno stare come su un panno rosso e ora lo stringono al collo come una corda di canapa, ora ne fanno un protagonista ammutolito dall’eccitazione delle cose e ora lo trasformano in un ingranaggio reso silenzioso e grigio dal procedere della quotidianità

120-122 “[…] L’economia pubblica e la pubblica amministrazione, il governo e i ministeri. Il partito unico. Tutti questi elementi compongono la realtà. Il rapporto con loro diventa essenziale e vitale, necessario e naturale. La normalità è fatta di legami organici e non episodici con i corpi dello Stato e con il Partito nazionale fascista. Adriano è un imprenditore. La Olivetti è una società italiana. Opera su un mercato a bassa concorrenzialità e a elevato controllo da parte della politica e della pubblica amministrazione. Sono poche le altre imprese che producono macchine per scrivere e macchine da calcolo. La Olivetti, per svilupparsi e per prosperare, deve misurarsi con i regolatori e i controllori di una realtà economica e sociale che, negli anni Trenta, si trovano nelle stanze della politica, negli uffici della pubblica amministrazione e nelle sezioni del Partito nazionale fascista. Il 27 ottobre 1933 (con una lettera in cui alla data è aggiunto il numero romano XI, undicesimo anno dell’era fascista) Adriano scrive una lettera al ministero delle Corporazioni. La richiesta è quella di inserire il settore delle macchine per scrivere fra i comparti per i quali è necessaria l’autorizzazione del governo, forma grossolana e potente di controllo dell’attività industriale privata: «Con riferimento al R. Decreto 15 maggio 1933, n. 590, il quale assoggetta all’autorizzazione governativa i nuovi impianti e l’ampliamento di quelli esistenti per un determinato gruppo di industrie, esponiamo i motivi per i quali riteniamo necessario che l’industria delle macchine per scrivere venga compresa nell’elenco»10. Adriano gioca duro. Ha interesse a limitare sia la concorrenza interna sia quella estera. Sulla concorrenza interna, dice con una ambiguità abbastanza esplicita sulla presunta irrazionalità e, in ogni caso, sul presunto non interesse nazionale che nuovi investitori italiani entrino in un mercato in crisi: «Qualunque quota del risparmio nazionale indirizzata nell’industria delle macchine per scrivere non potrebbe che risolversi in uno spreco del capitale nuovo ovvero nell’indebolimento o nell’annientamento delle vecchie industrie del ramo che da sole hanno sopportato tutti i pericoli e gli oneri dell’inizio e dell’affermarsi di un’industria nuova per il nostro paese»11. C’è, poi, il rischio che altri gruppi stranieri entrino in Italia: «Ci risulta che importanti fabbriche nord-americane impressionate dalla quasi totale perdita del mercato italiano, dovuta alla nostra affermazione, stanno studiando la possibilità di costruire fabbriche di montaggio e costruzione parziale in Italia»12. Adriano, nel rivolgere la sua richiesta di inserimento del settore fra quelli a maggiore controllo autorizzativo pubblico, scopre la carta più pesante: «Nella nostra organizzazione lavorano oltre 1100 fra operai e impiegati. Se la minaccia di una nuova concorrenza interna alimentata anche da capitale e appoggio di nostri concorrenti interni avesse un inizio di esecuzione, noi dovremmo immediatamente e drasticamente ridurre non solo le ore di lavoro, ma anche il numero dei nostri dipendenti»13. Che sia una minaccia reale o solo tattica, l’Adriano portatore dell’insegnamento paterno, secondo cui la disoccupazione involontaria sarebbe stata la peggiore condizione umana per la classe operaia, in questo caso sonnecchia. E, al di là di questo, la Olivetti che ormai opera in condizione di semimonopolio si rapporta con il governo da monopolista. La Olivetti godrebbe di una posizione di forza da una misura che restringesse la possibilità per tutti di fare nuovi investimenti. Ne avrebbe un vantaggio strutturale. E Adriano ottiene questa misura. […]”

“[…] 152-155 Adriano ha un atteggiamento di adesione neutrale o di consenso passivo alla dimensione politica del fascismo. È un imprenditore. Fa gli interessi della sua azienda. Gioca su più tavoli con la pubblica amministrazione. Opera in un’economia in cui il protezionismo è la vera ragione prima di ogni estremizzazione autarchica e in cui la concorrenza è ridotta al minimo dall’influenza della politica e dai corpi dello Stato, da cui Adriano, per la sua azienda, riesce a ottenere molto […]”            

209-210  “[…] Dopo l’apertura, nel 1937, dell’asilo per i figli dei dipendenti con meno di cinque anni, nel 1940 è stata costruita la nuova struttura riservata ai bimbi con meno di tre anni. Alla Olivetti si può essere una mamma che lavora. Nel giugno del 1941, quando viene ampliato l’asilo nido progettato da Figini e Pollini in stile razionalista e con citazioni di Le Corbusier, viene riorganizzato tutto il servizio per l’infanzia e per la maternità offerto dall’impresa. In Italia il trattamento previsto dalla Cassa mutua e dall’Istituto nazionale di previdenza è minimo: stai a casa ricevendo l’equivalente del salario di due mesi, uno prima del parto e uno dopo. Al trentunesimo giorno di vita di tuo figlio, devi tornare in fabbrica o in ufficio. Alla Olivetti, nel 1941, viene emanato un regolamento – l’ALO, Assistenza lavoratrici Olivetti – secondo il quale le lavoratrici sono esonerate dal lavoro da 75 giorni prima del parto fino al settimo mese compiuto dal loro piccolo o dalla loro piccola e continuano a ricevere, grazie a un sussidio aziendale, il medesimo ammontare del salario: un trattamento così favorevole alla lavoratrice è un’eccezione nell’economia e nella società internazionali, non soltanto del Novecento. Peraltro, tutto questo accade sempre e comunque: non importa che tu sia sposata o che tu sia ragazza madre. È così. La membrana che separa la Olivetti dal mondo è fatta anche di quella particolare materia che è l’accudimento dei bambini da parte delle loro mamme. Intorno alla mamma e al bambino si crea un mondo. Si stabiliscono premi di natalità aziendali così da «alleggerire l’onere della famiglia in un momento particolarmente delicato»79. Sono previsti contributi straordinari, in caso di famiglie con particolari difficoltà economiche o con particolari condizioni di salute. A sette mesi, quando la mamma torna nello stabilimento o in ufficio, il piccolo viene accolto nell’asilo nido. All’asilo nido si trova una camera per l’allattamento, così la mamma può allontanarsi per il tempo necessario dall’ufficio o dalla linea produttiva e dare il suo latte al piccolino o alla piccolina che ne abbia ancora bisogno. A tre anni, i bimbi vengono accolti all’asilo e, poi, a quattro anni – e fino ai sei – alla scuola materna aziendale. Al compimento dei sei anni – fin dal 1938 – possono andare alla colonia montana di Champoluc, che rimarrà attiva per decenni, e al mare a Loano, servizio che invece smetterà di funzionare nel 1941. A differenza delle altre imprese italiane, i dipendenti che lo desiderino possono accompagnare i figli in colonia. La membrana che separa la Olivetti di Adriano dal resto del mondo definendone l’anomalia è formata da un ultimo, prezioso, strato: nell’asilo nido aziendale, che ha un numero limitato di posti, fra il figlio dell’operaio e il figlio dell’impiegato viene data la precedenza al figlio dell’operaio […]”

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È incerto, fra tante sponde. Deve andare a Milano, aprire le sedi a Barcellona, in Francia, Inghilterra, Svizzera, ma il fulcro è però quasi paesano: Ivrea. Tende a dimenticare e rimuovere il passato socialista del padre, il fascismo, le sue discussioni con gli alti gerarchi e con lo stesso Benito Mussolini sul corporativismo e sulla concezione di una nuova azienda. Propose confusamente il modello di una nuova economia ai servizi segreti inglesi e USA, a causa del quale fu messo da parte come agente principale di un eventuale colpo di stato ai tempi dell’8 settembre 1943. Sembra comportarsi come un reggitore di una Signoria dei secoli andati.  

262-63 “[…] La crisi della democrazia liberale, il Biennio rosso, l’ascesa violenta del fascismo, la ribellione delle minoranze, il consenso di massa, l’adesione, la via fascista alla modernità, la partecipazione agli organismi dei corpi intermedi, il lavoro intellettuale sul corporativismo, i rapporti con la ristretta cerchia di Mussolini, la crescita della Olivetti in un regime di oligopolio, i legami con la pubblica amministrazione e la politica fasciste. Tutto cancellato, dimenticato, rimosso, destinato all’oblio. A poche settimane dal rientro a Ivrea, nel suo primo discorso ai dipendenti – in una occasione, dunque, fondante – Adriano costruisce il suo nocciolo duro di riflessione per la contemporaneità e per il futuro su una crisi che è di civiltà, sociale e politica: «Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo? Cosa è la fabbrica nel mondo di domani? Come possiamo contribuire con il nostro sforzo e con il nostro lavoro a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti, affinché giorni così tristi né i nostri figli né i figli dei nostri figli e molte generazioni ancora non potranno dimenticare né potranno, una seconda volta, affrontare?» […]”

E si arriva alla fine del suo percorso.

486 […] Le cose, dunque, non vanno bene. Adriano, dopo il fallimento alle elezioni politiche nazionali del 1958, si trova a operare in una condizione di negoziato continuo con gli altri famigliari e gli altri soci. Conosce il legame fra finanza d’impresa (al servizio, appunto, dell’impresa) e finanza straordinaria (al servizio, anche, degli azionisti). In questa nota si legge che questi 8 miliardi corrispondono «a più di due volte le emissioni di nuove azioni di tre miliardi», un fattore di persistente tensione con gli azionisti della Olivetti, abituati da dieci anni a portare fuori capitali sotto forma di dividendi e ad autoassegnarsi aumenti di capitale non a pagamento, vedendo crescere la loro ricchezza individuale senza pagare alcun dazio. In un contesto simile la questione della Fondazione, che di necessità interromperebbe l’assorbimento di dividendi da parte degli Olivetti dalla Olivetti, diventa astratta e irrealistica e il tema del Consiglio di gestione appare significativo, ma minimo. L’intero edificio non regge più. Non funziona il meccanismo nel rapporto fra impresa e azionisti, che sono abituati ad avere tanti, tanti dividendi. Non funziona il rapporto fra Adriano e gli altri famigliari. Non funziona, paradossalmente, nemmeno il rapporto fra Adriano imprenditore e Adriano politico perché, come in una dissociazione, il secondo è stato «spogliato» delle sue finanze personali dal primo […]”

E appena pochi mesi dopo la sua morte:

509-512  “[…] Il 10 febbraio 1961, il Comitato centrale del Movimento di Comunità si scioglierà. Tutto questo succede sei anni dopo il discorso di Adriano ai lavoratori di Pozzuoli: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? La nostra Società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». Ma è tutto il mondo di Adriano a perdere consistenza, a sfibrarsi e a sfilacciarsi nella realtà e, allo stesso tempo, a impiantarsi, a crescere e ad assumere vita nell’immaginazione degli altri. Con la scomparsa di Adriano, è come se all’improvviso le radici nascoste dell’albero della crisi prendessero vita e si manifestassero nella Storia ed è come se, simultaneamente, una nuova dimensione civile e affettiva venisse costruita prima di tutto sulla sua assenza. La stessa Olivetti, segnata dai conflitti famigliari e dalla mancanza di un leader carismatico seppur discusso come Adriano, sarà scossa da uno sbandamento strategico e si ritroverà in una fragilità finanziaria di cui c’erano già segni evidenti fra il 1958 e il 1960. Pochi anni dopo rischierà di diventare di proprietà delle banche svizzere, che avranno in pegno le azioni degli indebitatissimi Olivetti: per evitarlo, il ripianamento dei debiti personali di questi ultimi e la ricapitalizzazione della società verranno realizzati dal gruppo di intervento coordinato da Mediobanca e composto da Fiat, IMI, Pirelli e La Centrale. La Olivetti, però, perderà la sua autonomia, diventando un’impresa industriale senza un imprenditore. La riduzione dell’autonomia sarà duplice: la Olivetti, diventata acefala, dovrà rinunciare alla grande elettronica, ceduta alla General Electric, e si troverà in una sorta di camera iperbarica finanziaria, con una specializzazione produttiva concentrata sulla meccanica e sulla piccola elettronica e una dipendenza completa dal sistema bancario italiano. Succederà tutto questo, nel 1964, esattamente cinquant’anni dopo la prima volta di Adriano in uno stabilimento: «Nel lontano agosto 1914, avevo allora tredici anni, mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina. Per molti anni non rimisi piede nella fabbrica, ben deciso che nella vita non avrei atteso all’industria paterna»56. Succederà tutto questo pochi anni dopo che Adriano ha vissuto il suo ultimo giorno. Un ultimo giorno in cui ha mangiato cacciagione e ha bevuto champagne, ha festeggiato la quotazione in Borsa della Olivetti con i suoi famigliari e i suoi dirigenti industriali, si è occupato di libri e di editoria, ha aumentato lo stipendio ai redattori di una rivista, è salito su un treno diretto in Svizzera per discutere con i banchieri e per andare ad amare […]”

§CONSIGLI DI LETTURA: LA PORTA

La porta di Magda Szabò (Autore), Bruno Ventavoli (Traduttore), 2014, Einaudi, Torino, ( Prima ed: Az ajtó, 1987)

È una crepa nel presente che cresce come un vortice, attirando moti d’aria e d’attenzione, perché non si può smettere di leggere. I personaggi sono introdotti con indizi che a mo’ di esca, attraggono e seducono, evocando una irresistibile curiosità.

Gli eventi e i luoghi sono sorgenti di misteri che veicolano la narrazione. Anche rimanendo tali, li sentiamo scandire il ritmo delle vicende.

La descrizione dei personaggi si accompagna ai loro atti e alla osservazione partecipante dell’autrice che è una dei partecipanti. Si è nel dubbio se la scrittrice stia rievocando la sua biografia, o se sia una inventata. In ogni caso, le protagoniste si sdoppiano nell’offrire un diario degli eventi. I quali a loro volta viaggiano in un binario esterno cronologico e uno interiore che curva e si torce nelle storie di vita accadute di ognuno.

Nonostante i rimandi e le spirali, non si hanno sensazioni di pesantezza nel voler definire un ordine logiche di cause che scateneranno nuovi sommovimenti. Anzi, il lettore è invitato a supporli amplificando una ricca offerta di climax nella narrativa.

È una magnifica prova di scrittura per Magda Szabò, non a caso ritenuta una delle scrittrici ungheresi più autorevoli del ‘900. Dovette subire decennali e multiple forme di censure, resistendo comunque, attraverso un’incessante opera di libera divulgazione, tesa a scandagliare i processi più profondi dell’animo umano, correlati a precise e tragiche vicende storiche.

La storia delle protagoniste è anche uno specchio della storia del popolo ungherese, con rimandi continui tra gli anni e i secoli. L’inconscio di una bimba è quella di un popolo, e ogni ciclo famigliare costituisce una individuazione del corso di crescita dell’Ungheria.

4-6  “[…]. I miei sogni sono assolutamente uguali, tessuti di visioni ricorrenti. Sogno sempre la stessa cosa, sono in piedi, in fondo alle nostre scale, nell’androne, mi trovo sul lato interno del portone con il telaio d’acciaio, il vetro infrangibile rinforzato di tessuto metallico, e cerco di aprirlo. Fuori, in strada, si è fermata un’ambulanza, attraverso il vetro intravedo le silhouette iridescenti degli infermieri, hanno volti gonfi, innaturalmente grandi, contornati da un alone come la luna. La chiave gira nella serratura, ma i miei sforzi sono vani, non riesco ad aprire il portone, eppure so che devo far entrare gli infermieri altrimenti arriveranno troppo tardi dal mio malato. La serratura è bloccata, la porta non si muove, come se fosse saldata al telaio d’acciaio. Grido, invoco aiuto, ma nessuno degli inquilini che abitano sui tre piani della casa mi ascolta, non possono farlo perché – me ne rendo conto – boccheggio a vuoto come un pesce, e quando capisco che non solo non riesco ad aprire il portone ai soccorritori, ma sono anche diventata muta, il terrore del sogno raggiunge il culmine. A questo punto vengo risvegliata dalle mie stesse urla, accendo la luce, provo a dominare il senso di soffocamento che mi assale sempre dopo il sogno, intorno ci sono i mobili conosciuti della nostra stanza da letto, sopra il letto l’iconostasi di famiglia, i miei avi parricidi che indossano i dolman con gli alamari secondo la moda del barocco ungherese o del biedermeier, vedono tutto, capiscono tutto, sono gli unici testimoni delle mie notti, sanno quante volte sono corsa ad aprire la porta agli infermieri, all’ambulanza, quante volte ho provato a immaginare, mentre udivo filtrare dal portone aperto il passo felpato di un gatto, o lo stormire delle fronde, invece dei noti rumori diurni delle strade ora ammutolite, che cosa succederebbe se un giorno lottassi invano e la chiave non girasse nella serratura. I ritratti sanno tutto, in special modo ciò che mi sforzo di dimenticare, che ormai non è più sogno […]”

Una governante e la padrona in perenne conflitto che ricercano comunque attraverso gli anni un universo coerente circa gli eventi subiti e immaginati, perché questi non cadono mai nel participio passato. Rimangono lì, modificando lo spazio, indirizzando i comportamenti, coltivando le superfici perennemente seminate di nuovi simboli.

L’ossessiva descrizione degli ambienti e delle persone fin nei minimi particolari, potrebbe instillare un pigro e sonnolento giudizio circa la dilatazione temporale delle storie. Quasi uno stato di indugio autocompiaciuto. In realtà ogni offerta degli scenari provoca uno slittamento semantico che ricompone un nuovo quadro di significato. S’aprono ulteriori direzioni che avvertono nuovi accadimenti in relazione con quelli accaduti.

La doppia riflessione su una narrazione che è già una strada di analisi, trasla ciò che è compiuto accostandolo a ciò che in quel momento è considerato l’attimo presente. Il passato si espande nel presente, ma non dilegua, perché lascia aperta una porta al lettore, illudendolo che sia il censore che finalmente risolve il dissidio, ma che in realtà diviene il vettore di una nuova strada possibile: cioè il futuro.

Gli oggetti, i luoghi apparentemente banali e i dialoghi di raccordo, d’improvviso evocano le guerre mondiali, quelle dell’ottocento, le dominazioni subite e inflitte ai confinanti. Le prime forme statuali emergono d’improvviso, come mattoni nello spazio in cui i protagonisti si muovono. Ogni famiglia è una comunità, e questa è un popolo. La città è la nazione ungherese e questa è parte dei popoli che in essa la attraversarono e che ancora lì sono presenti, tra i cimiteri, le nascite, le guerre, e le stagioni.

La governante è la padrona instaurano un dialogo ininterrotto, scambiandosi a volte il ruolo della coscienza che disvela, e quello dell’errante cieco, sordo e muto. Eroiche e malate entrambe. Ignare comunque di portare l’eredità di questa storia personale e collettiva, anzi di esserne loro stesse un simbolo che via via si accosta a tutti gli altri di questo percorso accidentato tra le porte, le serrature, e i muri: ostacoli prima, illusioni dopo, ed enigmi sempre.

33-34  “[…] Al momento del mio risveglio non la vidi in casa, né in strada quando partii per l’ospedale, ma il marciapiede scopato e sgombro di neve davanti al portone rivelava la presenza del suo lavoro. «Evidentemente Emerenc sta facendo il giro delle altre case», spiegai a me stessa mentre il taxi mi portava a destinazione; non ero piú angosciata, avevo il cuore leggero, sentivo che in ospedale mi aspettavano solo buone notizie, ed effettivamente fu cosí. Rimasi fuori fino all’ora di pranzo, rincasai affamata, sicura che lei fosse là seduta nell’appartamento e aspettasse il mio ritorno, ma mi sbagliavo. Mi trovai nella situazione, cui non ci si riesce mai ad abituare, di chi torna a casa e non trova nessuno curioso di sapere che notizie porta, liete o funeste che siano – l’uomo di Neandertal probabilmente imparò a piangere quando capí per la prima volta di essere completamente solo accanto al corpo del bisonte trascinato nella caverna, di non aver nessuno con cui condividere le avventure della caccia, nessuno cui mostrare il trofeo o le ferite subite. L’appartamento mi aspettava vuoto, la cercai dappertutto, chiamai il suo nome ad alta voce, semplicemente non volevo […]”

133  “[…] Emerenc, se mai credeva in qualcosa, credeva nel tempo: il Tempo, nella sua personale mitologia, era un mugnaio che macinava senza sosta nel suo mulino eterno e dosava la tramoggia degli eventi a seconda del sacco che le persone gli posavano davanti. Nella fede di Emerenc nessuno restava a mani vuote, nemmeno i morti, non capiva come, ma era convinta che il mugnaio macinasse anche il loro grano e riempisse i loro sacchi, solo che alla fine erano altri a caricarsi la farina in spalla e a portarla via per cucinare il pane […]”

Il tempo, la scrittura, il ritmo, e la porta: il grande ostacolo che in realtà è tale in base alle domande che il singolo si pone. Una sfida stimolante per il lettore, perché in questo romanzo è direttamente chiamato in causa, assieme alla sua intera biografia itinerante.

§CONSIGLI DI LETTURA: SOLDATEN

Soldaten. Combattere uccidere morire.
Le intercettazioni dei militari tedeschi
prigionieri degli Alleati
Sönke Neitzel (Autore), Harald Welzer (Autore),
S. Sullam (Traduttore), Garzanti, Milano, 2013  
(Prima Edizione 2011)

Allacciate le cinture. Non vi lasciate ingannare: non è solo un libro che ci informa di ciò che fu, perché è anche una mappa di un viaggio possibile verso noi stessi. E non è una gita turistica.

Non si tratta soltanto del genocidio, delle stragi e dell’orrore. No, qui si va nel sottoscala del luogo più profondo del buio del “male assoluto”, perché è evocato in carcere tra i commilitoni tedeschi imprigionati, aventi la convinzione di non essere ascoltati.

Questo volume ci schianta non solo perché mostra il nostro sapere superficiale di ciò che fu. Subiamo un tarlo che corrode la patina di normalità, per lasciar emergere l’orrore più profondo del cuore nero… che potremmo averlo anche noi, ognuno di noi dentro di sé. Nella lettura ci si interroga se anche noi si abbia viva e presente la voragine della morte.

Sono trascritti i modi di interloquire che non hanno lo scopo di rivolgersi alle mogli, ai famigliari, agli avvocati, quindi non sono censurati, con fini opportunistici, di negazione, di deresponsabilizzazione, per cercare di salvarsi, o anche di negare a se stessi il proprio terribile e tragico operato. Sono sinceri e colloquiali. Sanno di non essere ascoltati, e quindi emerge l’inconscio. Lasciano emergere le memorie, anche quelle che a loro non sono ben manifeste in ordine al senso, ai motivi più profondi del loro operato terribile e orrorifico, oltre la vicenda bellica e di scontro che già di sé è una espressione massima di violenza.

Questo parlare serve anche a catalogare il proprio passato assieme ad altri, per non impazzire. Sapere che vi sono altri che assieme a te hanno condiviso quelle esperienze e che attribuiscono nelle profondità emotive inespresse il senso delle parole e delle gesta, allontana la solitudine della propria responsabilità, che ha e avrà gli specchi della vergogna, della condanna, e i segni degli sguardi delle vittime. Sono sinceri nel cercare di dire l’inespresso perché tentano di mantenere lontana la morte, e quindi l’insensatezza della loro esistenza che ha avuto un segno soltanto nel regime della crudeltà.

E proprio perché parlano di un oceano nascosto, il lettore ha l’occasione di riflettere sulla multiforme composizione dell’animo umano, e di come, ed è qui ciò che ci terremota il cuore, un nostro simile, e quindi anche noi stessi che ci riteniamo normali, possa compiere ciò che la storia, la società, il nostro sistema di valori indicano come l’aberrazione: la negazione del nostro dirci esseri umani.

Quei discorsi trascritti di nascosto, attraverso i microfoni e gli agenti travestiti da prigionieri, e dalle spie, invitano a riformulare la domanda che ognun di noi conosce nel profondo, e che ha pudore a esprimerla agli altri e di fronte allo specchio mentre ci si guarda: “Ma…. Anche io potrei compiere tutto ciò? Se cambiassero le condizioni storiche e ambientali, sarebbe così facile divenire un mostro?”

La lettura di questa opera di studio, narrata con uno stile quasi da “memoriale”, fornisce l’occasione di estendere i nostri dubbi, aiutandoci a non essere noi principalmente l’oggetto di giudizio. Tale stratagemma aiuta emotivamente a sostenere lo sguardo dell’abisso che è già dentro di noi, e quindi ci facilita nell’intento di una migliore consapevolezza nell’affrontare l’imprevisto che potrebbe attirarci nell’abisso.

Questi prigionieri non parlano per informare principalmente: usano frasi sconnesse, con richiami e associazioni e rimandi su uno stesso racconto. Si parlano tra loro per intavolare relazioni lì nel carcere per un simulacro di comunanza di vedute per quello che hanno compiuto, anche e principalmente per allearsi in una ricerca di un fondo emotivo simile. Una fratellanza di crudeltà, considerata da loro necessaria, e quindi che non sia passibile di giudizio o di messa in questione. I racconti e i loro dialoghi hanno un tono di una cruda evidenza: si comportarono da sadici assassini perché era così che andava. Non vi è un motivo: è ciò che accadde. Questo è il punto: ne parlano come se stessero in un bar a bere assieme, parlando delle cronache sportive. L’oceano infernale può emergere se non è messo in questione, cioè posto in luce. Può esser intravisto da noi, perché si traveste da mondo normale.

La bugia: È la guerra: così accade e così andrà.

Anzi è la necessità che impone l’agire indipendentemente dal singolo. E già dalle prime pagine emerge la volontà di mistificare l’orrore in modo inespresso, entimematico, senza nominarlo: rendendolo un oggetto che vi è da sempre, e che quindi non ha origine da noi. Noi, quindi, non siamo responsabili. Ci troviamo immersi in esso, perciò non ne siamo gli artefici. Vi è una doppia menzogna: oltre a mentire su tale condizione, mentono a se stessi quando comunicano le loro storie agli altri prigionieri. Credono veramente alle loro bugie, alla cronaca fredda che descrive i nemici e i civili: ostacoli da abbattere.

138  “[…] Si delineano così i confini del dicibile, di ciò che ci si può aspettare dalle conversazioni intercettate: nulla, della violenza di cui si parla, va contro le aspettative dell’interlocutore. Nei racconti di guerra, le storie di fucilazioni, stupri e saccheggi appartengono alla quotidianità: quando se ne parla, non capita quasi mai che si arrivi a un confronto, che ci siano obiezioni di carattere morale o litigi. Conversazioni dal contenuto decisamente violento si svolgono in modo armonico; i soldati si capiscono, vivono nello stesso mondo, si informano a vicenda sugli eventi che li riguardano e sulle cose che hanno visto o fatto. Le raccontano e le interpretano all’interno di un quadro ben preciso dal punto di vista storico, culturale e situazionale: la cornice di riferimento. […]”

I verbali delle intercettazioni catturano in tempo reale il modo in cui i soldati vedono la guerra e ne parlano. I loro commenti e le loro conversazioni sono diversi da come si è soliti immaginarli, anche perché, a differenza nostra, i soldati non sanno come andrà a finire la guerra e quale sarà il destino del Terzo Reich e del suo Führer. Per noi, il loro futuro – sognato o reale che sia – è già passato, mentre per loro è ancora aperto. Solo pochi mostrano interesse nei confronti dell’ideologia, della politica, dell’ordine mondiale e di faccende simili; non combattono per convinzione, ma perché sono soldati e combattere è il loro lavoro. Molti sono antisemiti, ma ciò non significa essere nazisti o avere la stessa disposizione omicida. Non pochi odiano gli ebrei, ma provano indignazione quando vengono fucilati. Alcuni sono antinazisti convinti, ma appoggiano apertamente la politica antisemita del regime nazista. Molti sono sconvolti dal fatto che centinaia di migliaia di prigionieri russi siano condannati a morire di fame, ma non esitano a fucilarli quando sorvegliarli e portarli a destinazione diventa troppo faticoso o pericoloso.

A una prima lettura, la maggior parte dei racconti appare incoerente. Questo però solo se si suppone che le persone si relazionino secondo le proprie «posizioni», e che queste dipendano in gran parte da ideologie, teorie e convinzioni radicate. In realtà, gli uomini si relazionano proprio come ci si aspetta che facciano – e questo libro vuole dimostrarlo.

E vi è lo sgomento, perché noi oggi giudichiamo il genocidio degli ebrei, e di tutte le cosiddette “minoranze di minorati” secondo i nazisti come un processo pianificato, chiaro, ed evidente a livello personale e collettivo in Germania. Eppure dai discorsi in cella di questi militari si ricava un sistema di norme, di presupposti, di valori, di usi, di modi di vedere il mondo, completamente diversi dai nostri. Attenzione anche da parte di chi osteggiava le fucilazioni in massa, e i gas contro gli ebrei, ma NON PER I MOTIVI e LE CONDANNE che noi oggi attribuiamo. No. In realtà, a parte poche decine di individui sui milioni delle SS e dell’esercito cosiddetto regolare della WEHRMACHT l’antisemitismo non era una questione, non era un elemento di dibattito, o di studio, non era una etichetta che permetteva di caratterizzare l’appartenenza politica, di censo, di tifo, di simpatia o no verso o contro gli ebrei. No: l’antisemitismo era un quadro di riferimento. Ovvero, anche coloro che criticavano l’approccio dello sterminio, tra le righe dei discorsi e del non detto e di ciò che era scontato, non si condannava l’omicidio in sé, la strage di donne e di bambini per fucilazione, il soffocamento, la fame, il freddo, il gas e il fuoco.  Molti esprimevano dubbi per questioni di opportunità diplomatiche. Alcuni criticavano il metodo. Altri come alcuni generali, osteggiavano la politica e le SS, perché distoglievano risorse e militari dai due fronti: sovietici ed occidentali. Eventualmente si sarebbero potuti ucciderli tutti dopo con discrezione.

Alcuni più avveduti, ritenevano che alcuni ebrei avrebbero potuto essere alleati temporanei durante la guerra. Molti, specie tra i civili, ritenevano che poi gli ebrei si sarebbero vendicati, perché controllavano gli USA e la Gran Bretagna. Insomma, si rileva che in guerra si libera e già in quei decenni lo era come dato di fatto, la possibilità di uccidere per noi, con i nostri occhi di paesi in pace all’interno dell’Unione Europea da decenni, dove generazioni di uomini e donne non hanno visto concretamente la guerra.

Questi soldati poi vedevano solo piccoli eventi. All’interno delle fasi di combattimento, di invasione, di bombardamento, di avanzata e di ritirata, l’uccisione e la deportazione degli ebrei era spezzettata in tante fasi e da persone diverse. Era un episodio tra i tanti. Non avevano molti (a parte i più istruiti e gli alti in grado) la strategia complessiva posta in atto dai quadri nazisti. In più i modi di uccidere si sperimentavano per renderli efficienti: togliere le prove, non sprecare le pallottole, bilanciare poi il bisogno di schiavi da lavoro e di sesso per ricavare materiale da un’economia di guerra, eventualmente poi si sarebbero consumati per la fame, la fatica, il freddo. Tecnica sperimentata dai sovietici, e dai cinesi di Mao, oltre che da Pol Pot in Cambogia nei decenni successivi.

La visione del genocidio è venuta dopo anni la fine della guerra. Questo non significa che i tedeschi siano giustificati. No, peggio: significa che gli ebrei e le minoranze considerate tali dai nazisti traeva una legittimazione dagli usi e consuetudini delle realtà germaniche. Ovvero, i valori con tutte le variazioni possibili, erano condivisi. E qui si crea una voragine etica. Ovviamente i militari tutti non è che pensassero alle camere a gas: il primo problema era sopravvivere e combattere, l’altro andava eliminato. Ma il punto è che anche coloro che non fossero nemici apparenti, erano considerati oggetti, che se reputati ostacoli, andavano annichiliti.

Ed è terribile leggere che i civili, volessero partecipare a uccidere in massa i prigionieri e gli ebrei, chiedendo ai militari di poter usare i loro fucili, e di come in tante parti dei paesi dell’est fino ai territori dell’URSS occupati, facessero foto e si divertissero come se fossero in un Colosseo, e come indicassero ai militari di sparare in un modo coreografico o di puntare alcuni gruppi, anche le donne, sì tutti. Nessuno e nessuna esclusa. La possibilità di una violenza AUTOTELICA e dell’omicidio avente l’illusione dell’assenza di colpa.

Il dramma è che si parla della popolazione normale. E allora dopo il disgusto e lo sgomento che si prova a leggere ogni riga, ci si fissa sull’orrore di ciò che accadde e lo si rifiuta. Ma vi è un’altra voragine: tutto questo, sotto sotto, ci fa pensare, e non lo vogliamo dire, che anche noi, forse, in contesti valoriali e ambientali simili, avremmo agito in modo analogo. Quello che vogliamo sancire come male assoluto, significa che è così grande da non potersi ripetere. Fu di loro, non riguarda noi. Eppure il male assoluto si è ripetuto in Siberia con molti più morti e in Cina con stragi maggiori.

Il tabù che abbiamo noi oggi: nel cuore di ogni individuo, ora, in questo momento, è la possibilità di incarnare quell’orrore. Si dirà: ma vi è la responsabilità individuale! Certo, ed è qui il punto, per molti non si può imputare la scusa che sia stato plagiato come un adolescente, o come una persona vissuta in perenne privazione. No, vi furono individui, benestanti e acculturati tra i civili che acconsentirono, anzi che vollero sparare per divertirsi.

E qui entrano i blocchi che abbiamo oggi nell’analizzare il nostro passato fascista, e il modo volutamente superficiale di non condannare la Russia di oggi, o di dire che è solo colpa di Putin.

Queste forse sono strategie che coprono la paura più grande, oltre quella di morire, che io e voi, si possa volere di compiere il “male assoluto”, di credere di averne utilità, giustezza, ma ancor di più un enorme godimento e piacere.

Le mentalità precedono le decisioni, ma non le determinano. Anche quando le percezioni e le azioni umane sono legate a condizioni sociali, culturali, gerarchiche, biologiche o antropologiche, c’è sempre un margine per l’interpretazione e la negoziazione. Per saper interpretare e decidere bisogna sapersi orientare, conoscere la propria realtà ed essere coscienti delle conseguenze delle proprie decisioni. Le mentalità però non spiegano perché qualcuno ha fatto qualcosa, a maggior ragione quando soggetti con la stessa forma mentis giungono a conclusioni e decisioni diametralmente opposte. È qui che ci vengono in aiuto le teorie sulle guerre ideologiche o sui regimi totalitari. La domanda è sempre la stessa: in che modo le «visioni del mondo» e le «ideologie» si traducono in percezioni e interpretazioni individuali? Come influenzano l’agire del singolo? La cornice di riferimento può essere uno strumento valido, e i discorsi che si fanno i prigionieri di guerra, rappresentano il quadro del sottosuolo.

25 “[…] L’azione psicologica profonda dei doveri sociali fa sì che, contrariamente a quanto si pensi, gli uomini non agiscano sulla base di motivazioni fondate e calcoli razionali, ma all’interno di relazioni sociali. Queste ultime rappresentano una variabile fondamentale per le decisioni umane. Ciò vale in particolare per le decisioni prese in condizioni di stress, simulate nei celebri esperimenti sull’obbedienza condotti da Stanley Milgram. In quel caso era soprattutto la costellazione sociale a rivestire un ruolo rilevante nel grado di obbedienza dimostrata dalle cavie nei confronti dell’autorità. […]”

26-27  La vicinanza sociale avvertita o reale, con i doveri che essa comporta, costituisce un elemento centrale nelle cornici di riferimento. I doveri sociali non devono essere per forza consci, ma sono così interiorizzati che fungono da agente di orientamento senza che la persona in questione lo sappia. In questo caso gli psicoanalisti parlano di delega. Il ruolo degli obblighi sociali si chiarisce ulteriormente se si accetta la mono dimensione della cornice di riferimento nel contesto delle situazioni militari e la limitazione dello spazio sociale dei soldati al solo gruppo dei camerati. Mentre la famiglia, le fidanzate, gli amici, i compagni di scuola e di università costituiscono numerosi punti di riferimento quando ci si trova a prendere una decisione, al fronte tale pluralità si riduce al gruppo dei camerati. E questi ultimi lavorano all’interno del medesimo quadro di riferimento, con gli stessi obiettivi: adempiere il proprio dovere e sopravvivere. Per questo in battaglia la tenuta e la cooperazione sono decisive; in quella situazione il gruppo costituisce l’elemento più forte della cornice di riferimento. Le regole del gruppo agiscono in profondità in quanto sono decisive per la sopravvivenza. Tuttavia, anche quando non combatte, il singolo soldato è legato al gruppo a filo doppio: non sa né quanto durerà la guerra né quando gli verrà concesso un congedo o quando verrà trasferito, cioè quando verrà allontanato dal gruppo totale e tornerà a far parte di gruppi plurali. Così inteso, il cameratismo comporta non solo la massima concentrazione del dovere sociale, ma anche l’esonero da tutto ciò che conta nel mondo reale. Il cameratismo, quindi, non è un mito militare idealizzante, ma è un luogo sociale che diventa più importante di qualunque altro.

Dai colloqui sembra che è la pratica della violenza specifica a un gruppo, molto più di qualunque motivazione e classificazione di ordine cognitivo, a motivare e rendere comprensibili le azioni dei soldati. Il passaggio dalla cornice di riferimento della vita civile a quella della guerra è il fattore decisivo, più importante di qualsiasi disposizione. Queste sono rilevanti solo per ciò che i soldati ritengono di potersi aspettare, per ciò che stimano giusto, irritante o indegno, ma non per ciò che fanno. L’ideologia può fornire occasioni per una guerra, ma non può essere presa come spiegazione del perché i soldati uccidono o commettono crimini di guerra. La guerra, le azioni svolte dai lavoratori e il lavoro della guerra sono banali, banali come è sempre la condotta umana in condizioni eteronome: al lavoro, in un’istituzione, a scuola o all’università. Tuttavia questa banalità ha partorito la violenza più estrema della storia dell’umanità, ha lasciato dietro di sé più di cinquanta milioni di morti e un continente sotto molti aspetti devastato per decenni.

Una ipotesi che emerge dal libro è che la cornice di riferimento della violenza nelle società moderne sia diversa da quella delle culture non moderne. È quindi errato contrapporre la violenza alla non violenza: si tratta piuttosto di capire come essa venga regolata. Perché una persona decida di ucciderne un’altra, basta che si senta minacciata nella sua esistenza, che si senta autorizzata a farlo o che attribuisca al proprio atto un significato politico, culturale o religioso. E questo non solo in guerra, ma anche in altre situazioni sociali. La violenza praticata dai soldati della Wehrmacht non è quindi più «nazionalsocialista» di quella praticata dai soldati inglesi o americani. Diventa tipicamente nazionalsocialista solo quando è finalizzata allo sterminio premeditato di un gruppo di persone, che, persino in malafede, non può essere definito una minaccia militare. È il caso dell’uccisione dei prigionieri di guerra sovietici e, soprattutto, dello sterminio degli ebrei. In quelle occasioni – come del resto in tutti i genocidi – la guerra ha fornito un contesto in cui si sono abbattute le barriere della civiltà.

E qui alla fine gli autori propongono tale asserzione che è compito di noi lettore discuterla in modo compiuto. Ma ciò esige che ci si guardi allo specchio, ovvero: “Le persone uccidono per i motivi più diversi. I soldati uccidono perché quello è il loro compito.”

È veramente così? Il libero arbitrio è questa linea di confine tra le due tendenze micro (psichica) e macro (normatività sociale)? È un dovere morale interrogarsi su tale questione. Cioè su di noi.

§CONSIGLI DI LETTURA: vita e destino

Uno struggente, continuo, poetico inno alla vita

È motivo di imbarazzo la volontà di scrivere qualche riflessione su “Vita e destino” di Vasilij Grossman nella ristampa del 2008, Gli Adelphi, Milano. Semplicemente: è un capolavoro monumentale. È un viaggio nell’animo umano: di ciò che più intimo abbiamo nello splendore e nella dignità del vivere di ognuno e del suo morire. In questo libro vi è la compassione, l’amore, l’odio, la bassezza e la meschinità, la crudeltà, l’assassinio voluto e progettato, l’orrore, il razzismo, la guerra, i lager, i gulag, la fame, la malattia, la speranza, la dolcezza, la voglia di amare se stessi, i propri cari, i figli e le figlie.

Fu terminato nei primi anni sessanta del secolo scorso. Vasilij Grossman combatté a Stalingrado durante la seconda guerra mondiale. Fu un giornalista, un saggista, un romanziere, un lettore attento dell’animo umano, un esperto di politica, e, per le sue esperienze, un profondo conoscitore della guerra e dell’oppressione. Scrisse diari e libri sulle vittime per opera dei tedeschi in URSS. Ebbe una lunga gavetta dura di sangue e di letture, di vita e di morte. Padroneggiava gli stili dello scrivere. Profondo conoscitore della letteratura russa e, nelle pieghe della censura sovietica, anche di quella degli altri paesi.

Il libro fu censurato dall’Urss e anche da noi, qui in Occidente. Da colui che visse Stalingrado, prima della guerra e dopo, e la censura di Stalin e di Krusciov. Si sente la Russia che è prima e continua a esserci nell’URSS. La Russia che non è solo dei russi, ma dei popoli che lì dimoravano nelle pianure infinite. Riformula continuamente la nozione di popolo, di epica, e della madre Russia. Non a caso è stato definito il libro che segue “Guerra e Pace” di Tolstoj, che in realtà il titolo dovrebbe essere “Guerra e vita”. Un libro imbarazzante per il mito del cuore del popolo russo e anche del nostro, di noi (non gli italiani, perché combattevamo con i tedeschi) alleati. Colpevoli di aver chiuso gli occhi sui lager e anche sulle epurazioni che dopo la guerra l’URSS intraprese contro coloro che professavano la religione ebraica.

Vasilij Grossman è consapevole che il processo storico sociale del nazismo non può essere semplicemente equiparato a quello del comunismo, ma, a costo di rischiare la vita o di finire povero e isolato (e ciò accadde, dopo i fasti e gli onori per le sue attività di guerra e di scrittura durante la guerra e nei primi anni successivi ad essa), volle affrontare la verità: la rivoluzione russa con Stalin e con l’URSS è stata tradita. I popoli dell’URSS dopo il nazismo vivono un comunismo che tale non è, perché in realtà ha un elemento comune con coloro che sconfissero in guerra: il totalitarismo che è basato sulla violenza. Ma, secondo Vasilij Grossman, l’uomo ha un anelito irresistibile alla libertà, perché ogni uomo è unico e irripetibile.

“Vita e destino” fu ripescato per caso, in una sola copia. E fu da monito per tanti scrittori all’epoca dell’URSS, come i fratelli Stugarskij che creavano copie nascoste e frammentate dei loro testi, per non farle sparire e diffonderle comunque, anche inviandole a editori che le avrebbero rifiutate (molti per non finire nei Gulag), con la convinzione che comunque sarebbero girate comunque.

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Il romanzo è uno struggente, continuo, poetico inno alla vita. La vita senza aggettivi, senza idee che pretendono di giustificarla, senza utopie che presumono darle uno scopo: la vita come dono. Questo lungo canto di sofferenza è una possente epica lirica che travolge qualsiasi narrazione ideologica, mostrandola piccola, statica e piatta nella sua visione del mondo.

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“Vita e destino” fa sentire i popoli delle steppe, tutti, non solo i russi e nelle sue pagine vi sono tratti altissimi di epica, lirica, mito, riflessioni filosofiche ed etiche profonde e capitali.

È impressionante la variazione degli stili letterari che compaiono in corrispondenza degli eventi, dei dialoghi e delle personalità dei protagonisti che sono tanti e tanti: sovietici e, ed è qui lo scandalo, anche i tedeschi. I tedeschi nella loro umanità come quella dei sovietici, sia nella loro terribile crudeltà sia nelle speranze, e nelle paure di alcuni.

Non è un libro da leggere in modo episodico e distratto. Il lettore sente i protagonisti vicino, nella loro carne, nel loro respiro, nelle loro gioie e dolori. Meravigliose le pagine dello struggimento d’amore, e terribili quelle delle azioni di guerra, vere, dure, crude, senza retorica. Ma, ancora di più, quelle relative ai lager e ai gulag. E da lì si comprende, perché nessuno, fino a che Vasilij Grossman fu in vita, volle pubblicare il romanzo. NESSUNO, ovunque.

Impossibile trascrivere un frammento di questo capolavoro: non rende giustizia a questo monumento sull’umanità. Veramente: questo è un libro che va vissuto integralmente, con tutto il proprio cuore.

§CONSIGLI DI LETTURA – Borderlife

“Borderlife” di Dorit Rabinyan Longanesi Editore, aprile 2016 traduzione di Elena Loewenthal, il romanzo è definito il moderno Romeo e Giulietta per via della diversa cultura che caratterizza i due amanti del libro.

America, 2003. Lei si chiama Liat e si trova a New York grazie a una borsa di studio della sua università israeliana, di Tel Aviv, che terminerà nel mese di maggio. Lui si chiama Hilmi: è palestinese e vive a Brooklyn praticando la pittura, sognando che sia il suo mestiere per abbandonare le lezioni di arabo che impartisce a diversi studenti.

Si trovano per caso insieme, per via di una persona che hanno come amico comune, si studiano, e nel pomeriggio che trascorrono in giro per la città nella loro testa passano tutte le differenze e le somiglianze che li stringono in una morsa. Liat viveva nelle città occupate qualche tempo fa dai palestinesi, prima che gli israeliani ci si insediassero. Hilmi abita a Ramallah. La sua famiglia vi si è trasferita scappando da un campo profughi. Nella mente di entrambi si affaccia in continuazione la possibilità di parlare della situazione spinosa che riguarda le loro genti ma che in qualche modo li fa sentire estranei, lì nella grande America che tutti accoglie.

Chiusi in casa di origine e della famiglia. Chiusi nella carta di identità del proprio io, della propria storia. E si incontrano muti e si amano, nonostante le pareti delle loro identità. Delle due case di origine Palestina e Israele in quarantena ultradecennale. Nella città di New York devastata dalle torri gemelle. Dalle torri fantasma, nelle strade aperte e ferite e loro aperti perché nudi. Una città nuda di quella via dove si incontrano. Destini di ferite intorno che cercano di darsi pelle e sangue. E vedersi tra il proprio io cieco.

“[…]

c’è sempre un bimbo che dorme e sogna il mare, quel mare di cui da ragazzo poteva cogliere appena un lembo, da lassù, al nono piano di un palazzo di Ramallah. Che questo amore sia un’isola nel tempo, si dice lei. Un amore a cronometro, un amore a scadenza, la stessa indicata sul visto, la stessa impressa sul biglietto del volo di ritorno per Israele, verso la vita reale.

[…]”.

Lui è al nono piano (il numero nove che ricorre nel libro), il piano del bambino che deve partorire in un palazzo, a Ramallah, mentre a New York le due gemelle sono morte anzitempo, in una via di New York di un amore a tempo, perché forse sterile. Loro sospesi. Lei ama la famiglia, e la patria, ma è fuori, senza identità, e anche lui. Lui dipinge un mare irraggiungibile perché confinato nel nono piano. E dorme in attesa di nascere. Non sa fare tre cose: non sa guidare, sparare, nuotare. Non impone, non uccide e non sa nascere. Le loro identità sono molte e rispecchiate dalla strada, fuori le case, senza chiavi e quindi senza una identità. Nella strada del cordone ombelicale.

Il giorno del loro primo incontro Hilmi perde le chiavi della sua casa e iniziano una ricerca forsennata per la via accanto alle fu torri gemelle e ripensano alla strada verso sud, chiusa con i confini della loro giovinezza di bambini perennemente in fuga. Lei con le spille per difendersi dagli operai arabi che costruivano scheletri di case, e lui anche da bambini ebrei. Le case della loro mente ancora in costruzione lì a New York violata con la distruzione delle torri. Che vanno in verticale, e ora anche nelle loro ombre orizzontali riversate nelle strade.

“[…]

Mentre Andrew, la sorella e l’amico per lo yoga inviano messaggi dalla segreteria che non possono venire, ecco lasciati lì da soli senza comunità che li raccolga nelle loro identità. Dicono il loro passato di esercito, di detenuto, di come cantano da una lingua all’altra, della frase dello scrittore Yesouha che la “«La musica è il linguaggio con cui l’anima parla a se stessa E si abbandonarono l’un l’altro e nell’altra: nelle lingue madri parlando sia arabo sia ebraico, lì nella sua casa, lei con il foulard viola intorno alle anche, nuda, balla sulle note di Rachid, e lui a gambe aperte sul letto la guarda. Tutti e due senza ruoli, ma tutto se stessi lì.

“[…]

L’inconfessabile senso di trionfo che ci prende quando siamo fuori, quando passiamo insieme per le strade, abbracciati, anonimi, due fra la folla. Lo sfavillio delle luci e l’animazione della città, un palloncino smarrito che sale sopra le teste della gente e noi che lo seguiamo con lo sguardo, e con il palloncino sale e volteggia anche il mio cuore che quasi scoppia di felicità, sale come quel palloncino, come quel punto argentato che sparisce lassù fra i grattacieli.

[…]

La sua mano è calma, sicura di sé, indugia da un seno all’altro. Con lo sguardo seguo il movimento circolare intorno al capezzolo, le sue dita e le macchie di colore che le costellano. Con stupore, con il fiato sospeso, le vedo passare sull’altro seno, cerchiarlo lasciando tracce di colore e strisce pallide lungo il cammino delle carezze, e un sussulto d’ansia mi lampeggia dentro, come una luce distante nella nebbia: siamo come quei colori – versati, mescolati tanto che non ci si riconosce più, verde, giallo e blu.

[…]

a volte sento che sto quasi diventando lui, sono così vicina a lui, dissolta in lui che posso quasi sentire cosa significa essere lui.

[…]

Lo avevo sentito tremare quando gli avevo infilato una mano nel colletto, lasciando scivolare le dita sui peli del petto. «Immersi nel presente, provvisori come la vita, come tutto il resto. Effimeri.»

[…]

Al notiziario dicono che è uno degli inverni più freddi e lunghi nella storia di New York, uno dei più nevosi di sempre. La prima neve è arrivata poco prima del Ringraziamento, poi è caduta svariate altre volte, in dosi che non si vedevano da ventidue anni, coprendo la città e accumulandosi sulle strade. Dalla fine di novembre sino ad aprile inoltrato, per più di cinque mesi New York è tutta bianca e grigia, sigillata dal gelo.

[…]

La neve che tutto copre e sospende del loro amore provvisorio.

Nell’ultima parte del libro ambientata in Israele, la divisione forzata impone che solo lei divenga l’io narrante, trasformando lo stile in un monologo sdoppiato e separato. Il monologo diventa in una meravigliosa poetica, il luogo di sospensione come era la città di New York. Ancora qui emerge la necessità di staccarsi dai limiti fisici imposti dalle barriere e dai divieti. Ed ecco che in quei nuovi luoghi della mente, entrambi continuano a spogliarsi dalle identità nel riappropriarsi dei mondi lontani, ripartendo dall’infanzia, rimanendo però nella consapevolezza della provvisorietà  e [Buona lettura …].

L’amore oltre le identità