89-90 A un tratto non si sentono più le grida degli uccelli. Nessun fruscio tra l’erba, nessun ronzio d’insetti. Il mare è piatto, il gorgoglio dell’acqua tra i ciottoli del bagnasciuga si è fermato, non c’è un solo rumore tra tutti gli orizzonti, sono al chiuso. Un silenzio così è molto raro. Ancora più strano è sentirlo su un’isola, dove fa più effetto di un silenzio che cali all’improvviso in un bosco. Che un bosco sia silenzioso capita spesso. Su un’isola il silenzio è così insolito che la gente smette di colpo di fare quel che faceva e si guarda intorno per capire cosa succede. Il silenzio li stupisce. È misterioso, quasi un brivido di attesa, un forestiero senza volto che percorre l’isola a passi felpati, avvolto in un mantello nero. La sua durata dipende dalle stagioni, il silenzio può essere molto lungo nel gelo dell’inverno, come quando il mare si era ghiacciato, mentre d’estate è sempre una brevissima pausa tra un vento e l’altro, tra l’alta e la bassa marea, o il miracolo di quel momento in cui si finisce di inspirare e si comincia a espirare.
–
Poi di colpo un gabbiano ricomincia a gridare, una ventata arriva dal nulla, e il neonato cicciottello si sveglia urlando sulla sua pelle di pecora. Possono riprendere in mano gli attrezzi e continuare il lavoro come se nulla fosse accaduto. Perché è precisamente questo che è accaduto: nulla. Si parla di quiete prima della tempesta, si dice che il silenzio può essere un segnale, come quando si carica un’arma; può avere un senso di cui si capirà la portata solo dopo aver sfogliato a lungo una Bibbia. Ma il silenzio su un’isola è niente. Nessuno ne parla, nessuno lo ricorda né gli dà un nome, per quanto sia profonda l’impressione che suscita in loro. Un brevissimo spiraglio di morte mentre sono ancora in vita.
–
È un silenzio pieno. Si parla con il mare. Gli oggetti, che il mare fornisce danno le storie, le parole, che vanno e vengono. L’isola le pesca e loro come marinai raccolgono tempo nelle ceste della loro biografia. Gli elementi sono quelli norvegesi e la traduzione in italiano, nel normalizzare gli aggettivi, potrebbe dare l’impressione che il clima, il vento, il freddo, l’inverno, l’estate, il giorno, la notte, la luce e il giorno siano analoghi a quelli del Mediterraneo. No. Qui è tutto al superlativo. E il teatro è il paesaggio, non quello borghese e collinare nostro, ma quello lungo, ampio, e frastagliato dell’Oceano Atlantico che oscilla insieme alle correnti artiche. Vento e mare sono solidi e liquidi. Il vento li unisce e li trasporta nell’isola. Un’isola muta come quelle lì, tante e quasi invisibili dalla costa. Piena di questo popolo isolato ognun con l’altro nei giorni, se non in rade ore dell’anno, o per viaggi nel buio delle pesche artiche che durano mesi con il rischio di esser loro la preda delle tempeste. E quindi mai più di ritorno.
–
Il lavoro scandisce l’attività del vivere. Ogni oggetto è utile, ogni oggetto è strumento e materia, e serve per sé, per gli animali, per i pesci, e per le attività di sussistenza. Parlano tra nonni e figli. Inframmezzati dal freddo e dalla vecchiaia che trasporta tutti loro nelle correnti dei simboli e delle storie. Il loro tesoro. Dei dimenticati, del silenzio, dove terra e mare uguali sono: spazi altri, con cui si è in relazione, ma disgiunti. L’isolano ha la mente che spazia nel tentare di sopravvivere, ma sa che la direzione delle sue radici e nel tempo, è ancorato nell’isola. Le barche sono solo vele incastonate nella nave maestra, che è l’isola stessa, in viaggio tra le stagioni, gli elementi, la vita e -la morte.
–
Vi è un silenzio, che però è pieno e un oblio, che però non annulla, ma conserva e deposita, tra secoli di alghe, e volumi di vento. E tutto è lì. Pieno, denso, pronto a rivelarsi nell’orecchio di chi è pronto a viaggiare, lì, tra gli interstizi delle civiltà che fluiscono tra l’estrema luce e il fondo freddo.
–
UNO STRUGGIMENTO che porta nostalgia a chi non è mai vissuto in quelle zone d’assenza, ma che suggerisce una chiave dello scorrere di senso tra l’abisso e la memoria.
–
Il vivere e il morire trasportano il proprio ciclo attorno all’isola, e questa non lo abbandona. Resiste, lo accoglie nell’approdo. Ella sta: lì, piccola e tenace tra gli abissi.
La nostalgia irresistibile dello straniero che mai lì è vissuto, ma a cui tende nel suo tempo interiore.
Questo romanzo fu ed è una inchiesta giornalistica, un trattato di antropologia, una rivendicazione politica, un atto di immedesimazione e di amore verso il popolo napoletano.
–
9 “[…] Questo libro è stato scritto in tre epoche diverse.
La prima parte, nel 1884, quando in un paese lontano, mi giungeva da Napoli tutto il senso di orrore, di terrore, di pietà, per il flagello che l’attraversava, seminando il morbo e la morte: e il dolore, l’ansia, l’affanno che dominano, in chi scrive, ogni cura, d’arte, dicano quanto dovette soffrire profondamente, allora, il
mio cuore di napoletana.
La seconda parte, è scritta venti anni dopo, cioè solo due anni fa, e si riannoda alla prima, con un sentimento più tranquillo, ma, ahimè, più sfiduciato, più scettico che un miglior avvenire sociale e civile, possa esser mai assicurato al popolo napoletano, di cui chi scrive si onora e si gloria di esser fraterna emanazione.
La terza parte è di ieri, è di oggi: nè io debbo chiarirla, poichè essa è come le altre: espressione di un cuore sincero, di un’anima sincera: espressione tenera e dolente: espressione nostalgica e triste di un ideale di giustizia e di pietà, che discenda sovra il popolo napoletano e lo elevi o lo esalti! […]”.
–
Matilde Serao racconta Napoli, la parte non detta, le strade vive, ognuna con le sue caratteristiche. In base ai luoghi, traduce le impressioni in stati emotivi gettati nello stile della scrittura che varia dalla cantilena, al tono declamatorio, alla doglianza medievale quasi. In alcuni passi sembra che l’autrice parli in pubblica piazza, affinché ognuno accolga i lamenti, le richieste, le critiche a nome di chi non può, perché asservito e ricattato dall’indigenza.
21-23 “[…]
Fortunate quelle che trovano un posto alla Fabbrica del tabacco, che sanno lavorare e arrivano ad allogarsi, come sarte, come modiste, come fioraie! La mercede è miserissima, quindici lire, diciassette, venti lire il mese; pure sembra loro fortuna. Ma sono poche: tutto il resto della immensa classe povera femminile, si dà alla domesticità.
La serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla mattina fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni, scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come un’ombra affranta. Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l’uno e corrono continuamente da una casa all’altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva, per addormentarsi subito.
Queste serve trovano anche il tempo di dar latte
a un bimbo, di far la calza, ma sono esseri mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno trent’anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi.
Non si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di quarant’anni, all’ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante ne avrà portate via il colera!
E tutti gli altri mestieri ambulanti femminili, lavandaie, pettinatrici, stiratrici a giornata, venditrici di spassatiempo, rimpagliatrici di seggiole (mpagliaseggie), mestieri che le espongono a tutte le intemperie, a tutti gli accidenti, a una quantità di malattie, mestieri pesanti o nauseanti, non fanno guadagnare a quelle disgraziate più di dieci soldi, quindici soldi al giorno. Quando guadagnano una lira, le miserelle, fanno economia e si maritano.
Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono, amate, si sono maritate: dopo, il marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri, temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono.
[…]”
–
Matilde Serao scrive ponendosi accanto alle protagoniste. Non è il grande burattinaio. Sta lì, assieme a loro e li conduce innanzi al lettore. Bussa alla porta del lettore. Sta lì nell’uscio e indica il mondo, le persone, e lo rende sonoro nel dolore delle loro storie. Porta la biografia di una città, di una comunità, di un mondo. La sintassi è ricca di aggettivi e di superlativi. La caratterizzazione è netta, perché ogni protagonista è al limite nel vivere, dal cibo, alla necessità di sopravvivenza. Non è solo povertà, o una rivendicazione economica, ma pure culturale.
–
È una rivendicazione di soggettività che è non solo sfruttata, come può accadere in altre parti d’Italia, ma è anche culturale, perché si riflette in una considerazione nazionale artefatta da una parte e nel disprezzo e nella svalutazione dall’altra verso il corpo di Napoli all’interno delle sue viscere. Le autorità gestiscono il consenso, per non fare, mantenendo la stasi del controllo. Nei fatti il potere lascia questo boccheggiare acefalo nello stagno dell’indigenza di futuro, di bellezza, di cibo, di serenità anche piccola, per elemosinare lentamente piccole bocche di ossigeno, rendendo verticali tutti i rapporti sociali. Si trae la ricchezza potenziale in un equilibrio che permette il dominio. E alla fine questo corpo di Napoli è sia un agglomerato perennemente morente che conferisce autorità a chi promette l’elemosina e nello stesso tempo un peso per tutte le istituzioni e la società italiana tutta.
–
25-27 “[…] bimbi che vanno a scuola; quando la provvista è finita, il pizzaiuolo la rifornisce, sino a notte.
Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e dànno un grido speciale, dicendo che la pizza ce l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza.
Con un soldo, la scelta è abbastanza varia, pel pranzo del popolo napoletano. Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano fragaglia e che sono il fondo del paniere dei pescivendoli: dallo stesso friggitore si hanno per un soldo, quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne di carciofi, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici. Per un soldo, una vecchia dà nove castagne allesse, denudate della prima buccia e nuotanti in un succo rossastro: in questo brodo il popolo napoletano vi bagna il pane e mangia le castagne, come seconda pietanza; per un soldo, un’altra vecchia, che si trascina dietro un calderottino in un carroccio, dà due spighe di granturco bollite. Dall’oste, per un soldo, si può comperare una porzione di scapece; la scapece è fatta di zucchetti o melanzane fritte nell’olio e poi condite con aceto, pepe, origano, formaggio, pomidoro, ed è esposta in istrada, in un grande vaso profondo, in cui sta intasata, come una conserva e da cui si taglia con un cucchiaio. Il popolo napoletano porta il suo tozzo di pane, lo divide per metà, e l’oste vi versa sopra la scapece. Dall’oste, sempre per un soldo, si compera la spiritosa: la spiritosa è fatta di fette di pastinache gialle, cotte nell’acqua e poi messe in una salsa forte di aceto, pepe, origano e peperoni. L’oste sta sulla porta e grida: addorosa, addorosa, ‘a spiritosa! Come è naturale, tutta questa roba è condita in modo piccantissimo, tanto da soddisfare il più atonizzato palato meridionale. […]”
–
28-29 “[…] Con due soldi si compera un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta; con due soldi di maruzze, si hanno le lumache, il brodo e anche un biscotto intriso nel brodo: per due soldi l’oste, da una grande padella dove friggono confusamente ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline, e frammenti di seppia, cava una grossa cucchiaiata di questa miscela e la depone sul pane del compratore, badando bene a che l’unto caldo e bruno non coli per terra, che vada tutto sulla mollica, perchè il compratore ci tiene.
Appena ha tre soldi al giorno per pranzare, il buon popolo napoletano, che è corroso dalla nostalgia familiare, non va più dall’oste per comperare i commestibili cotti, pranza a casa sua, per terra, sulla soglia del basso, o sopra una sedia sfiancata.
Con quattro soldi si compone una grande insalata di pomidori crudi verdastri e di cipolle; o un’insalata di patate cotte e di barbabietole, o un’insalata di broccoli di rape; o un’insalata di citrioli freschi.
La gente agiata, quella che può disporre di otto soldi al giorno, mangia dei grandi piatti di minestra verde, indivia, foglie di cavolo, cicoria, o tutte queste erbe insieme, la cosidetta minestra maritata; o una minestra, quando ne è tempo, di zucca gialla con molto pepe; o una minestra di fagiolini verdi, conditi col pomidoro; o una minestra di patate cotte nel pomidoro.
Ma per lo più compra un rotolo di maccheroni, una pasta nerastra, e di tutte le misure e di tutte le grossezze, che è il raccogliticcio, il fondiccio confuso di tutti i cartoni di pasta, e che si chiama efficacemente monnezzaglia: e la condisce con pomidoro e formaggio.
* **
Il popolo napoletano è goloso di frutta: ma non spende mai più di un soldo, alla volta. A Napoli, con un soldo si hanno sei peruzze un po’ bacate, ma non importa: si ha mezzo chilo di fichi, un po’ flosci dal sole: si hanno dieci o dodici di quelle piccole prugne gialle, che pare abbiano l’aspetto della febbre; si ha un grappolo di uva nera, si ha un poponcino giallo, piccolo, ammaccato, un po’ fradicio; dal venditore di melloni, quelli rossi, si hanno due fette, di quelli che sono riusciti male, vale a dire biancastri.
Ha anche qualche altra golosità, il popolo napoletano: lo spassatiempo, vale a dire i semi di mellone o di popone, le fave e i ceci cotti nel forno; con un soldo si rosicchia mezza giornata, la lingua punge e
lo stomaco si gonfia, come se avesse mangiato.
La massima golosità è il soffritto: dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all’occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite.
***
Questionario:
Carne in umido? – Il popolo napoletano non ne mangia mai.
Carne arrosto? – Qualche volta, alla domenica, o nelle grandi feste, ma è di maiale o di agnello.
Brodo di carne? – Il popolo napoletano lo ignora.
Vino? – Alla domenica, qualche volta: l’asprino, a quattro soldi il litro, o il maraniello a cinque soldi: questo tinge di azzurro la tovaglia.
Acqua! – Sempre: e cattiva. […]”
–
Come osservatrice partecipante, l’autrice anche in modo inconsapevole assume uno sguardo da antropologa nel descrivere la natura degli usi e dei linguaggi del popolino tra i vicoli, i miasmi, le viuzze soffocanti, la sporcizia, e l’acqua maleodorante.
–
***
71 “[…]
Nessuna donna che mangi, nella strada, vede fermarsi un bambino a guardare, senza dargli subito di quello che mangia: e quando non ha altro, gli dà del pane. Appena una donna incinta si ferma in una via, tutti quelli che mangiano o che vendono qualche cosa da mangiare, senza che ella mostri nessun desiderio, gliene fanno parte, la obbligano a prenderlo, non vogliono avere lo scrupolo.
E i poveri che girano, sono aiutati alla meglio, da quella gente povera: chi dà un pezzo di pane, chi due o tre pomidoro, chi una cipolla, chi un po’ d’olio, chi due fichi, chi una paletta di carboncini accesi: una donna, per fare la carità in qualche modo, lasciava che una mendicante venisse a cuocere sul proprio fuoco, sul focolaretto di tufo, il poco di commestibile che la mendicante aveva raccattato. Tanto avrebbe dovuto perdersi, quel resto del fuoco, dopo la sua cucina; era meglio adoperarlo a sollevare una miserabile.
Un’altra faceva una carità più ingegnosa: essendo già lei povera, mangiava dei maccheroni cotti nell’acqua e conditi solo con un po’ di formaggio piccante, ma la sua vicina, poverissima, non aveva che dei tozzi di pane secco, duro.
Allora quella meno povera regalava alla sua vicina l’acqua dove erano stati cotti i maccheroni, un’acqua biancastra che ella rovesciava su quei tozzi di
72
pane, che si facevano molli e almeno avevano un certo sapore di maccheroni.
Una giovane cucitrice era stata a Gesù e Maria, l’ospedale, con una polmonite; poi si era guarita, e pallida, esaurita, sfinita, era venuta via. Pure l’ospedale, per assisterla ancora in vista di una tisi probabile, le concedeva, ogni mattina, quattro dita di olio di fegato di merluzzo, che ella doveva andare a prendere, lassù. Ella capitava ogni mattina, col suo bicchiere, sino a che fu rimessa completamente in salute: e allora le dissero che non le avrebbero più data la medicina. Ella si confuse, impallidì, pianse, pregò la monaca che per carità, non gli sospendessero quell’olio – e infine fu saputo che di quell’olio, ella si privava per darlo in elemosina a una povera donna – la quale per miseria, superato il naturale disgusto, lo adoperava a condire il pane o a friggerci un soldo di peperoni. […]”
***
Matilde Serao partecipa a questa condizione rivendicando direttamente la necessità di rete fognarie e di elettrificare le vie per prevenire con il crimine con i lampioni. Richiede una politica abitativa e un mercato degli affitti compatibili per coloro che hanno un basso reddito, costretti a risiedere nelle baracche. Luoghi continui di epidemie che danneggiano tutti indistintamente dal ceto e dalla ricchezza.
–
E alla fine per stemperare la tensione, cerca di assumere un tono lirico che offra una speranza minima in particolare nel paragrafo sul CHE fare nel quale loda gli imprenditori, gli operai e le donne, che non accettano le tentazioni come Cristo sul monte, perché l’uomo non vive di solo pane, e questo può essere il riscatto per Napoli: onestà, resistenza al vizio, dignità, laboriosità.
–
Per Matilde Serao il riscatto morale è necessariamente anche politico e sociale.
Irène Némirovsky la scrittrice perennemente in fuga da San Pietroburgo, dalla famiglia, dalla Francia, fino a morire nei campi di concentramento nel 1942. Negli anni venti fu una scrittrice di successo. Innovativa, densa, briosa, tagliente, impietosa. Letta da tutti, perché rispecchiava appieno i mutamenti del tempo. Dimenticata a forza per le leggi razziste contro gli ebrei nella Francia occupata. Riscoperta dopo decenni dalla tenacia delle figlie che dal baule conservato, che proposero gli ultimi romanzi non pubblicati e incompiuti.
–
Questo romanzo, del 1940, è dotato di uno stile conciso e strepitoso che varia dal resoconto alla cantilena di una fiaba secondo il ritmo espressivo dei bambini nel vedere il mondo degli adulti. L’emotività e il carattere dei protagonisti tracciano il ritmo alla storia. Il lettore è guidato per mano, attraverso una prosa ricca di descrizioni
–
Gli adulti sono caratterizzati dal fisico in assonanza alle loro ossessioni: il vestito degli scopi della loro esistenza. La compulsione offre l’illusione del libero arbitrio nell’azzardo che naufraga nella “hybris”. Il mondo restituisce una immagine dell’agire umano vile e rozza. La bugia è la sorgente dei valori e della presunzione a dichiararsi gli unici artefici della propria volontà. Le proprie abilità sono il nucleo della cupidigia e della sopraffazione. La morale è la cosmesi che tenta di rendere plausibile la bugia, ovvero la sua reduplicazione
–
Tutti ne sono immersi. Ogni persona è una maschera che intesse la morale nella trama dell’ipocrisia.
–
Ada e Ben, da bambini, cercano di salvarsi con la fantasia, creando mondi, città e storie, durante il <pogrom>.
–
“[…] D’istinto i bambini correvano sempre più in alto, verso le colline, voltando le spalle al ghetto. Poi alla fine si fermarono: non sentivano più niente. I cosacchi non li avevano inseguiti, però erano rimasti soli e non sapevano dove andare. Ada si lasciò cadere su una pietra singhiozzando; aveva perso il cappello, i guanti e il manicotto, l’orlo del cappotto si era strappato e pendeva pietosamente; si strofinò la faccia con i pugni; le piccole guance livide erano segnate da macchie nerastre; il pianto si mescolava alla polvere del giorno precedente, formando lunghe striature scure. Ben disse con voce spezzata: «Noi ora scendiamo e cerchiamo di passare da Lilla». «No! No!», gridò Ada in preda a una sorta di crisi di nervi. «Ho paura! Non voglio andare laggiù! Ho paura!». «Ascolta: ti dico adesso quello che faremo! Passeremo per i cortili, dietro le case. Nessuno ci vedrà e noi non vedremo niente».
–
«Ada», disse, «non bisogna desiderare così forte».
«Madame, non posso fare altrimenti». «Bisogna avere più distacco negli affari di cuore. Essere nei confronti della vita come un creditore generoso e non come un avido usuraio». «Non posso fare altrimenti», ripeté Ada […]”.
–
Mentre la bella Lilla rappresenta la superficialità ingenua e limitata, Ada ne è il corrispettivo nell’interiorità, entrambe condannate a girare intorno al loro essere ebree perseguitate.
–
“[…] «Imbecille», disse lui con tono di aspro disprezzo come quando erano bambini. «Tu non hai mai capito niente? Sì, io millanto, io invento, ma si comincia con immaginare tutto quello che non si può possedere, e si finisce, se lo si desidera con abbastanza forza, per possedere più di quanto si è immaginato». «Lo credi sul serio? Davvero?», mormorò lei. Nascose il viso tra le mani, poi scosse la testa: «A tratti penso che tu ti beffi di me, a tratti invece che sei fuori di senno». «Abbiamo tutti e due il nostro grano di follia! Non siamo esperti in logica, non siamo dei cartesiani, non siamo dei francesi, noi! Non è insensato sognare, a diciassette anni come a otto, di un ragazzo sconosciuto?» […]
«Tu vivi come su un’isola deserta», diceva Harry. «Non ho mai vissuto in altro modo. A che serve attaccarsi a quello che si dovrà perdere?» «Ma perché si dovrebbe perderlo, Ada?» «Non lo so. È il nostro destino. Tutto mi è sempre stato strappato». «Ma io, allora? Io? Tu però mi ami? Tu tieni a me?» «Quanto a te, è tutt’altra cosa. Ho vissuto senza vederti, e quasi senza conoscerti, e tu eri mio come lo sei adesso. Io, che temo sempre la disgrazia, non temo di perderti. Mi puoi dimenticare, abbandonare, lasciare, sarai sempre mio, e unicamente mio. Ti ho inventato, amore mio. Tu sei molto più che il mio amante. Tu sei la mia creazione. È per questo che mi appartieni quasi senza volerlo». […]”
–
Ada immagina il mondo nella pittura, ricavandone l’interiorità cercando di non occluderla. Ben invece sostituisce il mondo con la sua immaginazione rivolta all’esteriorità, anche per vendetta contro tutti.
–
L’autrice descrive la CONDIZIONE UMANA NEI SUOI STADI DELLA VITA. SA INTUIRE I PENSIERI DELLE DONNE E DEGLI UOMINI DALLA LORO GIOVINEZZA E DALLA LORO VECCHIEZZA. UNA INTROSPEZIONE FINISSIMA.
–
Più volte negli anni Ada cammina intorno la casa di Harry con la speranza di essere accolta, e ogni volta è respinta, errando nel ripetere la condizione del popolo errante respinto dal Paradiso.
–
“[…] «Che tempi, che tristi tempi per una nascita… E la donna è sola». Ma Rose disse: «Bah! Qualunque donna, anche la più ricca e la più adorata, si sente sola il giorno in cui mette al mondo il suo primo bambino, sola come quella che muore o come la prima di noi che abbia dato un figlio alla luce».[…]”
Ed è qui la grandezza di Irène Némirovsky nel descrivere le condizioni universali dell’essere umano dalla contingenza degli eventi storici.
–
“[…] suo figlio, senza alcun dubbio, conosceva una parte – ed era ciò a conferirgli quell’aria matura e piena di saggezza; lei possedeva l’altra, lei che non lottava più, che non chiedeva niente, che non rimpiangeva niente, che si sentiva insieme così leggera e così stanca. Queste due parti di verità forse stavano per congiungersi e formare una grande luce? La fiamma attacca uno a uno gli alberi e finisce per incendiare tutta la foresta. Contò sulle dita, come un bambino che enumera le sue ricchezze: “La pittura, il piccolo, il coraggio: con questo, si può vivere. Si può vivere benissimo”. Rose Liebig, un po’ preoccupata dal suo silenzio, si alzò e guardò il letto. «State bene tutti e due?», chiese. «Noi stiamo bene», disse Ada. Ripeté, sorridendo, “noi”… Pensava che era la prima volta che poteva pronunciare con certezza questa parola, e che era dolcissima […]”.
–
Il bambino nasce. Lei diventa la casa di Harry, di suo figlio, del popolo ebraico. La sua maternità continua nel verbo il <<noi>>.
Questo libro offre una imponente bibliografia ragionata e ben documentata delle storie delle italiane dall’Unità d’Italia ad oggi, scritte da donne. Romanzi alti, e d’appendice, di tutte le offerte per i tipi di pubblico che emergevano, mostrano come dalla scrittrice più quotata a quella “popolare”, la produzione di storie fosse una porta per affermare la piena soggettività della donna, mai realizzata nella storia dell’umanità.
–
Vi sono nomi che abbiamo letto distrattamente nelle antologie scolastiche, altri sentiti di velocità da un canale all’altro della tv o da canzone nella radio. Risuonano familiari i luoghi evocati, le gesta, i luoghi comuni, gli archetipi dei personaggi, anche se non si è letto nulla e non si ha nemmeno in mente l’immagine dell’autrice.
–
Eppure ci sentiamo a casa, tutti, uomini e donne, perché questi libri riguardano la nostra infanzia, la vita di tutti noi e di tutte le donne, e ciò è valido per i maschi, perché di grandi scrittori che hanno parlato delle donne ne abbiamo, MA DA UN PUNTO DI VISTA maschile. Ed è qui il punto: lo scrittore maschio quando narra le gesta e le storie, anche le più abbiette cerca di trovare qualcosa di lirico ed eroico, in particolare nei protagonisti maschili. Quelli femminili solitamente vengono sacrificati con dolore e con sangue.
Per le autrici no.
–
LE DONNE CHE SCRIVONO NON INVENTANO IN MODO ASTRATTO, PERCHÉ PARLANO DELLA LORO VITA E DI TUTTE LE ALTRE DONNE. In carne ed ossa. Le protagoniste dei romanzi delle donne, assieme alle autrici, sono giudicate, criticate, condannate. Le donne scrivendo storie, e romanzi, e biografie, rivendicano la propria memoria, una possibilità di esistenza preclusa dai maschi, dalle leggi, dagli usi e dalle consuetudini. Una donna si poteva uccidere, se tradiva. Non l’uomo. Era il maschio che decideva se una donna dovesse crepare o no di parto. Il maschio decideva dei figli come tenerli, come darli via eventualmente e sottrarli alla madre. La figlia femmina non poteva scegliere: eventualmente elemosinare una concessione di qualche anno di studio. Una donna non poteva uscire e recarsi all’estero senza il permesso del marito o del padre. Tutto ciò fino a pochissimi decenni fa, qui, in Italia.
–
Ancora oggi vi sono disparità e sono tendenze che partono dalla grande e continua letteratura di queste donne. Conosciute tutte. E se si invertono i modi di lettura, ecco che anche quelle meno dotate dal punto di vista artistico, in realtà hanno compiuto opere inenarrabili solo per riuscire ad ottenere un foglio e una matita, e strappare quote di tempo liberato per scrivere. Tantissime riuscirono per pochi padri e mariti illuminati, ma sempre per una DECISIONE di questi ultimi. Anche i più combattenti per le cause delle donne, in realtà, agli occhi nostri, avevano strati interi di quello che noi oggi diremmo “maschilismo”.
–
In tutto questo la figura della madre, il ruolo della maternità è l’epicentro di ogni conflitto. La sorgente massima di vita, di tempo, di senso, idolatrata dalle canzoni dei maschi, dai libri dei maschi. La madre è il ciò che è “sacro”: decorporata, se paga il suo ruolo con il dolore, il sacrificio, il sangue. La donna che salva la società, il matrimonio, i figli, il senso comune, è quella che si suicida o che diventa cattiva, pazza internata in manicomio, isterica: insomma se si autosopprime, o se è inscritta nella devianza. Se la donna si ribella, lo fa perché è una malata, o una criminale, o affetta dal demonio. Deve sacrificarsi per ristabilire l’ordine attraverso la tragedia. Questa è la base dei romanzi maschili.
–
Le donne che scrivono riprendono questi temi, ma nel contempo mostrano, attraverso il loro vissuto interiore, la donna violata, schiavizzata, lentamente annichilita, nella famiglia, nel matrimonio, nei figli, in modo diretto, a colori e non idealizzato. Tantissime opere nel passato vennero censurate, criticate, reputate violente, bugiarde, scandalose. E non è un caso, mostravano il tabù: la donna è come l’uomo. Può pensare, agire, e l’uomo, le leggi, i valori hanno bisogno di lei, sopprimendola in questa relazione coatta. Fino a pochi anni fa, una donna non poteva neanche ereditare le proprietà. Rimangono ancora queste leggi in dottrina: si pensi al cognome. La donna cede il suo nome, cede il figlio e la figlia. Cede il figlio alla patria e fa la ruffiana affinché la figlia possa sposarsi e rivestirsi con un cappio: meglio questo che la schiavitù della strada che porta alla morte precoce.
–
Tante donne hanno dovuto abbandonare i loro figli. Condannate per aver concepito un figlio fuori dal vincolo giuridico e quindi costrette ad abbandonarlo e celarlo al padre, a meno che quest’ultimo non lo rilevasse a qualche famiglia che lo accudisse. Condannate, comunque, per averlo abbandonato. Giudicate dalla prole, perché causa della separazione. Salvano la famiglia diventando schiave, e disprezzate perché si sono ridotte in schiavitù.
–
Uccise e torturate. Ma vi sono anche romanzi del riscatto, di crescita, di liberazione e di speranze, di nuovi stili poetici e di parole.
–
La lettura di questo libro, se presa sul serio, rende i grandi capolavori maschili degli ultimi centocinquanta anni molto più limitati, e più sbiaditi. Le opere di queste donne che trattano dell’Italia, dell’Europa, del mondo, parlano di se stesse a colori, senza sconti, nella bellezza e nell’abiezione, negando l’astrattezza dei protagonisti.
–
Tutti, sia i capolavori sia gli scritti d’appendice, mostrano la bugia del tragico che svilisce la donna, e principalmente la figura materna, quella che svela il limite e l’ipocrisia del potente e dei meccanismi di oppressione.
–
I maschi che leggeranno cercando di porsi in modo diretto come le autrici, immaginando di essere veramente loro stessi i protagonisti di questi romanzi, biografie, novelle, ricostruzioni storiche, proveranno un senso di ripulsa e di negazione all’inizio. Se, però, si compie il tuffo verso noi stessi, considerando che il primo urto causerà disappunto, vergogna, ipocrisia, la spogliazione del proprio io, conferirà la possibilità di parlare con il proprio passato, con il proprio femminile e con tutte le donne non viste e non considerate. Si acquisiranno nuove proprietà linguistiche, di scrittura e di immaginazione, abbracciando il dolore e la gioia di vivere di questo oceano di donne.
È un libro importante per i dibattiti di oggi relativamente ai ruoli della donna in quanto immessa all’interno dei processi sociali di liberazione da vincoli millenari in ordine a strutture culturali, tecnologiche e meramente economiche. Nei dibattiti odierni, in particolare nel mondo occidentale tecnicamente avanzato, la figura della madre è vista anche come un giogo cui la donna è sottoposta, nonostante il mutare degli agglomerati sociali.
–
Il ruolo di madre è inscritto nelle narrazioni conflittuali in termini dicotomici tra tempi di lavoro e tempi di maternità. Appena ieri, la madre era oggetto di doveri come quello di dover procreare per fornire forza lavoro e ancora più indietro nei secoli, come certificatrice delle successioni e delle eredità. Il passaggio il tra padre e il figlio era il primo investimento che mantenesse il valore nel capitale di sussistenza: dal podere del latifondista, al tugurio del piccolo artigiano, fino alla possibilità di coltivare la terra a cottimo per il signore.
–
I ruoli di madre mutano ovunque e nel tempo, si pensi alle forme certificate di unione che sono via via arrivate a quelle formali monogamiche di oggi. Nonostante la sterminata varietà, sussiste sempre l’elemento comune: la donna in quanto madre non è possibile ridurla in un ruolo che sia solo quello della procreazione e nemmeno quello della prima cura. Anzi, nemmeno come un ruolo e neanche come genere, e neppure come categoria oppressa. Certamente la donna e le singole donne sì, in quanto schiave, o in vendita, come accade oggi per decine di milioni di donne in quasi tutto il pianeta.
–
Il rischio odierno proprio per la condizione della donna, e di quell’altro soggetto che di solito è omesso che sono i figli e le figlie, se resi oggetto di contesa, diventano appunto oggetti da manipolare e da inscrivere in leggi che regolano la nascita, la successione, la ripartizione dei beni.
–
Essendo pacifico che i maschi sono in posizione di privilegio e per gran parte del pianeta in ruoli di preDOMINIO, forse sarebbe opportuno rivedere il ruolo di madre, che essendo universale, nei nostri discorsi lo assumiamo come premessa, compiendo poi un artificio retorico, in gran parte inconscio, anche nei nostri singoli pensieri, di ridurlo a una etichetta pronta a essere inscritta in giudizi categorici, ideologici, e alla fine violenti negli esiti.
–
7-8 Indagare le molteplici forme assunte dalla funzione materna nel Medioevo ci aiuterà a capire i vari modi di impersonare questo ruolo, nonché le valutazioni suscitate dalle figure di alcune madri particolari di cui è possibile ricostruire la storia. All’origine di questo libro non c’è una tesi, ma una serie di domande e dubbi. Pensiamo ad alcuni modi attuali di concepire la maternità. Sono davvero così inediti?
[…]
L’ambizione non è certo quella di tracciare una storia della maternità in età medievale; più semplicemente, mi riprometto di ricostruire, grazie alle informazioni di cui disponiamo, le vicende di alcune donne ora poco conosciute, ora note, in qualche caso addirittura illustri. Quando conosciute e famose, lo sono per motivi non legati al fatto di essere o non essere state madri, che è invece il fulcro del mio interesse. Le sei storie che seguono ci consentono di penetrare per qualche tratto nell’universo delle esperienze e delle sensibilità di donne che hanno generato figli, o che non hanno voluto o potuto farlo, fra IX e XV secolo. Ci interessa sapere non solo e non tanto come sono andate le cose («wie es eigentlich gewesen»: lo scopo di ogni ricerca storica, secondo Leopold von Rank), ma anche come è stata da loro vissuta e compresa l’esperienza della maternità.
[…]
Le nostre protagoniste sono Dhuoda, donna del IX secolo, di ambiente elevato e di riconosciute capacità, vissuta nell’area della Linguadoca; la grancontessa Matilde di Canossa, personaggio di spicco nel panorama europeo dell’XI secolo; Caterina da Siena, terziaria domenicana che scelse di sposare Cristo ed era chiamata mamma dalla brigata che la seguiva fedelmente; Margherita Bandini, Bandini, moglie del noto mercante pratese Francesco Datini al quale non riuscì a dare l’agognato erede; Christine de Pizan, vissuta a cavallo fra il Tre e il Quattrocento, prima intellettuale di professione ma anche madre di due figli che dovette sistemare da sola, senza l’aiuto del marito, morto a dieci anni dal matrimonio; infine la vedova d’esule Alessandra Macinghi Strozzi, che in pieno Quattrocento fece ai figli tanto da madre come da padre. Sia Dhuoda sia Christine, ma anche Alessandra, quasi contemporanea di Christine, misero al mondo più di un figlio; non così le altre tre: chi madre mancata, chi quasi madre, chi madre ideale. Tutte hanno fatto i conti con la dimensione materna strettamente legata al loro genere, eppure la storiografia non sempre ha voluto cogliere questo nesso. Nel caso di Matilde – per limitarci a quest’unico esempio – la sua appartenenza al genere femminile è stata quasi considerata un incidente, il suo essere malmaritata un dettaglio, la sua travagliata esperienza di madre un elemento sul quale sorvolare.
–
8 Quando le donne che hanno lasciato segni rilevanti nella storia sono state anche madri, questo loro ruolo è rimasto perlopiù nell’ombra: troppo usuale, quasi in contraddizione con la loro opera o azione pubblica, e lo si è quindi sottaciuto, temendo un effetto riduttivo, quasi andasse a scalfirne la rilevanza. In questa silloge, per contro, si è fatto spazio ad alcune donne eccezionali proprio in quanto madri (o madri mancate) e quindi per ricavare dalla loro esperienza elementi di conoscenza sia di questa realtà sia della coscienza di essa.
9 Le storie proposte riguardano donne forti e talentuose che anche come madri superano i limiti imposti al loro genere: limiti che non sono del loro genere. Sono e fanno le madri, anche senza esserlo, ciascuna a modo suo, con determinazione e abilità. Se possono esprimere le loro potenzialità è perché appartengono ad ambienti che lo consentono e in ragione di circostanze favorevoli, ma resta il fatto che incarnano casi di madri effettivamente capaci di agire ben oltre quegli schemi usuali di cui Christine mette a nudo pretestuosità e nocività.
[…]
«oltre». Sono infatti storie oltre le nostre aspettative, madri oltre la retorica che le relega a un ruolo ritenuto angusto, autentiche madri anche oltre l’effettiva esperienza biologica, donne in azione oltre la sfera della domesticità, protagoniste oltre i limiti imposti al loro genere. Direi madri e donne oltre le nostre ristrette concezioni del Medioevo e delle capacità femminili.
–
E queste sono solo le prime pagine per scoprire ciò che nel nostro intimo già sappiamo, ma che nell’immedesimazione di queste donne che hanno attraversato i molteplici ruoli della maternità, le donne e anche i maschi, riceveranno in dono un tesoro di chiavi di lettura di sé, del nostro passato, del senso del nostro vivere finito, proiettato nel futuro. Sia FECONDA Lettura.
“[…] era solito raccontarmi mio padre da bambina, ogni volta
che chiedevo perché non avessi fratelli o sorelle. «Non sarebbe stato carino
nei confronti delle altre famiglie se avessimo chiesto di più dalla vita».
Eppure, di rado mi è capitato di sentirmi una benedizione per mia madre. Al
massimo riuscivo a essere una delusione per lei: lo vidi dal modo in cui le sue
labbra si strinsero quando persi alla finale della gara di spelling in quinta
elementare; dal modo in cui il suo viso sembrò irrigidirsi quando non riuscii a
entrare nella squadra delle cheerleader; o dallo sguardo distante che ora vedo nei
suoi occhi, mentre contempla la mia incapacità di dare alla luce un bambino.
[…]”
–
“[…] «La promessa è stato il prezzo che ho dovuto pagare per
essere nata. È tutto ciò che hai bisogno di sapere». Con voce stanca, mi augura
la buonanotte. […]”
–
Le storie di Jaya nata
negli USA, da una coppia indiana e delle vicende della Nonna Amisha, raccontata
da Ravi, vanno in parallelo, quando lei si recò in India, scappando
letteralmente da tutto, dopo il terzo aborto spontaneo. E lì nella casa, i due
tempi si incrociano: il suo di Jaya che, attraverso i racconti di Ravi, va alle
fonti del passato, e l’altra di Amisha, che cerca di imparare l’inglese perché
voleva scrivere. I due tempi vanno simultaneamente da quella casa: una in
avanti nel tempo e una indietro, ridefinendo un nuovo presente.
–
“[…] Amisha alzò il capo e i loro sguardi si incrociarono.
Negli occhi di lui, vide confusione e distacco. Senza dire una parola alla
moglie, Deepak si riaddormentò alla tenue luce della luna. Amisha, invece,
continuò a scrivere, trovando conforto nell’unico posto che conosceva, ossia le
parole che sgorgavano dal suo cuore. […]”.
–
“[…] «Io sono un intoccabile». Ravi batté il terreno con un
piede nudo e distolse lo sguardo per la vergogna. «È importante che voi lo
sappiate». «E io sono una donna». Abituata a vivere una realtà perennemente in
ombra, rivolse lo sguardo al sole. «Ora abbiamo stabilito i nostri ruoli». «Voi
siete la figlia del proprietario del mulino», ribatté Ravi. «I miei genitori e
i miei fratelli sono vagabondi come me. Mendicare è il nostro destino». […]”
–
Il sentiero di questo
tempo è l’India tra le divinità, l’indipendenza, le riforme sociali ed
economiche, in un cammino dove le donne e le caste cercano di scrollarsi i
vestiti e le catene. Nel libro vi è una sovrabbondanza di monologhi interiori
che hanno lo scopo di parlare degli assenti, quali i genitori di Jaya negli
Stati Uniti, suo marito Patrick dal quale si è separata, ma ancora non
divorziata e i fantasmi del passato raccontati da Ravi, che spiegano gli eventi
del presente. Attraverso i racconti e il vivere di quei giorni Jaya si immerge
nel cibo, nei ritmi, negli odori, nelle divinità presenti, concrete, dove
l’immagine è soggetto a sé e non rimando del divino. Proprio perché il libro
viaggia nel tempo, le azioni sono quasi raccontate in uno stile giornalistico.
Ed infatti Jaya è una giornalista, scrive come la nonna Amisha, e comprende
spinte sue interiori, conoscendo la storia dei suoi parenti lì in India.
Una storia mai
raccontata dai suoi genitori.
–
“[…] Forse, la sua passione per la scrittura non era una
sofferenza da tollerare, bensì un dono da amare e proteggere. Le sue storie
erano l’unico passaporto che l’avrebbe condotta in luoghi in cui non era mai
stata. Senza di loro, sarebbe rimasta intrappolata per sempre in quel
villaggio. […]”
–
“[…] Amisha raddrizzò la schiena e tentò di raccogliere la
sua forza limitata, eppure si sentiva piccola rispetto all’imponente donna
inglese. «Insegnerò qui perché questo è ciò che mi è stato chiesto». Pensò alle
sue storie e all’importanza che avevano per lei. «Per quanto riguarda ciò che
insegnerò, non lo so ancora bene», ammise. Nell’affrontare quella donna, si
sentì ancora più giovane dei suoi anni. «Chiederò agli studenti di mettere per
iscritto quello che si annida nei loro giovani cuori. E se le storie li
condurranno in terre lontane, li incoraggerò a intraprendere questo viaggio».
Amisha concesse un sorriso a quella donna irremovibile. «Insegnerò loro, quando
viaggeranno con le storie, a rispettare le persone che incontreranno e i loro
valori. Non sta a noi giudicare gli usi e i costumi degli altri, ma possiamo
sfruttare l’occasione per imparare». Ignorò il fatto che la donna la guardasse
con gli occhi sbarrati, e concluse dicendo: «Perché quando tendi la mano in
segno di rispetto, sarai a tua volta accolto con benevolenza». […]”
–
“[…] Gli studenti si sporsero in avanti, ansiosi di
conoscere quel mistero. «“Prima che nasceste voi, non ero mai stata una mamma”,
dissi loro. “Sto imparando a essere la vostra mamma come voi state imparando a
essere i miei figli”». «Avete detto loro queste cose?», chiese un’altra
studentessa. Emozionata dal modo in cui i bambini stavano interagendo con lei,
Amisha annuì. «Sì, l’ho fatto. Erano sorpresi. Probabilmente, credevano che io
fossi nata mamma». Sorrise alle loro risate. «Così abbiamo stretto un patto.
Loro mi avrebbero aiutato a essere una mamma migliore e io li avrei aiutati a
essere dei buoni figli». Amisha si alzò e cominciò a camminare tra le file di
banchi. «Propongo a ciascuno di voi lo stesso patto. Non sono mai stata
un’insegnante prima d’ora. Se voi mi aiuterete a diventare una brava
insegnante, io farò del mio meglio per aiutarvi a diventare degli scrittori
migliori». […]”.
–
“[…] «Da dove vengono
le storie?» «Dalle nostre menti», rispose uno studente. «Dalle varie storie che
ascoltiamo», disse un altro. «Dai nostri sogni», esclamò una ragazza. […]”
–
“[…] Entusiasta per l’interesse dimostrato dagli allievi,
Amisha disse: «Voglio che ciascuno di voi scriva della creazione di qualcosa
che desiderate, della distruzione di qualcosa di cui non avete bisogno, e della
protezione di ciò che è vitale. E dovete spiegare le sensazioni che il vostro
cuore, la vostra anima e la vostra mente provano riguardo a ognuno di questi
eventi». Amisha stava riordinando la classe quando entrò Stephen, lanciando uno
sguardo alla lavagna. «La Terra?» […]”
Jaya comprende che
gli Stati Uniti, lei stessa, l’India e sua nonna erano e sono in cammino verso
nuove porte del sapere.
–
“[…] «Non sei d’accordo sulla perfezione della mia
pronipote?», chiede Ravi. Urla a Misha di salutare i suoi amici. «Nella
mitologia indiana, quando la luna copre il sole, le tenebre hanno il potere di
coprire la tua vita». Lentamente, si fa strada attraverso la sala, in direzione
dell’uscita. «Ma non è sempre necessario che il sole splenda per avere la luce.
Nel buio, dobbiamo cercare le stelle. Anche la loro luminosità ha un potere».
«Perché mi hai portata qui, Ravi?», domando. Mi rivolge un sorriso triste. «Mi
hai detto che sei venuta in India per fuggire dal tuo dolore. Ho pensato a cosa
ti avrebbe detto tua nonna se fosse stata qui». Abbassa la testa. «Non potrei
mai pensare di parlare per lei, ma…». […]”
–
E colei che era
venuta per cacciare e raccontare le storie, comprende di esserne parte
integrante. Sebbene il finale del libro, ricalca uno stile quasi prevedibile
nelle relazioni tra il marito e i genitori e con Ravi, tale senso di ordine,
permette invece di immergersi totalmente nella consapevolezza della propria
rinascita, dove non si caccia alcunché e la preda è inesistente, perché si è se
stessi, testimoni del proprio vivere.
“ Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Seconda edizione digitale 2016. Traduzione dall’inglese di Silvia Rota Sperti
L’oscillazione tra Passato e Presente, tra radici e foglie, tra genitori e figli.
Un libro coinvolgente. Si entra in una saga epica quasi, su eventi reali.È un romanzo con personaggi di fantasia, ma che raccoglie con una precisione storica e una caratterizzazione da resoconto giornalistico, eventi che durano decenni e che trapassano intere coorti generazionali lì in Palestina. La narrazione che va avanti e indietro nel tempo. La voce narrante descrive come i due ragazzi inizino a parlare con lingue diverse: l’arabo Hassan impara un poco di inglese e di ebraico e di tedesco per Ari, che a sua volta apprende l’arabo. Storpio Ari, malaticcio Hassan, in disparte e presi in giro, si rifugiarono nelle letture e nelle culture dei due popoli e delle culture tedesca e inglese. Lo stile descrive il tempo e lancia per contrasto alcuni accenni del futuro, come di Yeah il padre di Hassan che impedisce al figlio di andare a studiare a Gerusalemme perché voleva che lavorasse la terra, ma si sarebbe pentito per tutta la vita.
–
“[…] Anche se gli fu negato il privilegio degli studi
superiori, Hassan ricevette le ottime lezioni private della signora Perlstein,
che mandava a casa il suo giovane e assiduo studente carico di libri, letture e
compiti. Le lezioni erano il frutto di un accordo segreto tra Bassima e la
signora Perlstein per sollevare Hassan dallo sconforto in cui era caduto da
quando Yehya aveva pronunciato l’ultima parola sulla questione della scuola.
[…]”
–
“[…] Un attimo, il piccolo Isma’il di sei mesi era sul suo
petto, tra le sue braccia materne. L’attimo dopo, Isma’il non c’era più. Un
attimo può schiacciare un cervello e cambiare il corso della vita, il corso
della storia. Fu un’infinitesimale scheggia di tempo a cui Dalia avrebbe
ripensato più e più volte nel corso degli anni, cercando un indizio, una
traccia di cosa poteva essere successo a suo figlio. Anche quando finì per
smarrirsi in una realtà offuscata, continuò a cercare con il pensiero Isma’il
tra quella folla in fuga. […]”.
–
“[…] Yehya calcolò quaranta generazioni di vite, ora spezzate.
Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere
e ginocchia sbucciate. […]”
–
“[…] Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina
l’anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni,
mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico.
I dodici mesi di quell’anno si riorganizzarono e turbinarono senza meta nel
cuore della Palestina. […]”.
–
Moshe ruba il bimbo
Isma’il per Jolanta sua moglie resa sterile dai nazisti. Ma occorre ricordare
che aveva la cicatrice il bimbo, causata da suo fratellino Youssef, cadendo nel
chiodo di quella culla, che la nonna considerava portafortuna. E forse quella
cicatrice era un pegno di salvezza futura. Ecco anche qui il tempo va avanti e
indietro, in un andirivieni come indicato nella genealogia del libro.
–
“[…] Mentre gli abitanti di ‘Ain Hod venivano costretti ad
allontanarsi, privati di ogni cosa, Moshe e i compagni controllavano e
saccheggiavano il villaggio appena rimasto vuoto. Mentre Dalia giaceva
straziata dal dolore, delirante per la perdita di Isma’il, Jolanta cullava
David. Mentre Hassan si preoccupava per la sopravvivenza della propria
famiglia, Moshe cantava e gozzovigliava insieme ai compagni in una baldoria
ebbra. E mentre Yehya e gli altri si allontanavano con passo angosciato dalla
loro terra, gli usurpatori cantavano l’Hativka e gridavano: “Lunga vita a
Israele!”. […]”.
–
Avanti e indietro nel
tempo, anche qui, nell’oscillazione di un popolo che va, in una terra vista da
uno e dall’altro che continuamente sfugge. Oscilla il senso temporale e il
senso spaziale. Villaggi, generazioni, radici e figli, padri e foglie. Quaranta
generazioni sdradicate da Almod.
Sembra un ciclo, come il numero 40 delle generazioni
sdradicate. Rievoca un ciclo che si ripete come cent’anni di solitudine.
–
Nel libro vi sono le
frasi in corsivo che benedicono la terra, i figli, e quelle declamate dai
protagonisti quando parlano del passare delle stagioni, delle piogge che
umidificano il terreno. Le parole in corsivo detengono la memoria orale della
comunità: i detti, i saperi sul ciclo delle stagioni, sul raccolto, sulla
nascita e sulla crescita degli olivi, dei fichi, dei figli.
–
“[…]La morte di Yeyha spinse tutti nel campo a rimboccarsi
le maniche. Un febbrile senso di orgoglio avvolse Jenin e ci si diede da fare
per istituire delle scuole, specialmente femminili. Nel giro di un anno la
comunità di profughi costruì un’altra moschea e tre scuole, e in tutto questo
Hassan ebbe un ruolo centrale ma discreto, tenendosi ai margini della
quotidianità ma continuando a scrivere laboriosamente lettere e documenti. […]”
–
“[…] Papà disse: “Possono portarti via la terra e tutto
quello che c’è sopra, ma non potranno mai portarti via quello che sai o le cose
che hai studiato”. Avevo sei anni e i bei voti a scuola diventarono la moneta
di scambio per conquistarmi l’approvazione di papà, che desideravo come non
mai. Diventai l’alunna più brava di tutta Jenin e imparai a memoria le poesie
che mio padre amava così tanto. Anche quando il mio corpo diventò troppo grande
per il suo grembo, il sole ci trovava sempre abbracciati e con un libro tra le
mani. […]”.
–
Ogni evento diventa
l’occasione del ricordo, per ritornare a pensare. Il ricordo è il mantenimento
della terra.
–
“[…] “Nasciamo tutti possedendo già i tesori più grandi che
avremo nella vita. Uno di questi è la tua mente, un altro è il tuo cuore. E gli
strumenti indispensabili di queste ricchezze sono il tempo e la salute. Il modo
in cui userai i doni di Dio per aiutare te stesso e l’umanità sarà il modo in
cui Gli renderai onore. Io ho cercato di usare la mente e il cuore per tenere
il nostro popolo legato alla propria storia, perché non diventassimo creature
senza memoria che vivono arbitrariamente in balia dell’ingiustizia.” […]”
–
Anche Amal (in
italiano: speranza) rimane di ghiaccio nei rapporti con la figlia quando la partorisce.
È costretta a vivere in un ciclo continuo al fine di preservare se stessa per
far vivere la figlia, come se l’amore fosse la loro condanna a morte, come per
il marito che per amore della terra morì in ospedale, come per Fatima per amore
di Yussef che voleva far partorire i figli. Se non ami i tuoi figli, se li vuoi
distaccare dalla tua terra (Palestina) allora essi vivranno, altrove, nella
speranza di non conoscere l’origine e i genitori.
–
“[…] Così, smisi di leggere e di guardare i telegiornali e
cominciai ad aver paura di toccare Sara, per non contaminarla con il mio
destino. Perché non mi scaldasse il cuore e sciogliesse la rabbia, i fantasmi e
la follia che mi portavo dentro.
Mi chiusi in me stessa. Le mie difese allontanavano chiunque
osasse avvicinarsi, compresa Sara, anche se continuavo a consumare il suo
profumo di notte, mentre dormiva, riempiendomi i polmoni del buonsenso che
avevo bisogno di respirare. La amavo mio malgrado. La amavo immensamente.
Infinitamente. E avevo paura di quell’amore così come avevo paura della mia
rabbia contro il mondo. […]”.
–
Come la madre Dalia
andava di notte ad accarezzare i figli.
–
“[…] La comunicazione fu interrotta. Mio fratello era
irrimediabilmente perduto. Aveva attraversato l’abisso di fiamme davanti al
quale io ancora esitavo, ed era atterrato sulla sponda placida e distaccata
della vendetta. Aveva lasciato la sua anima a vagare per Sabra e Shatila, dove
sua moglie e sua figlia giacevano in una fossa comune sotto a un mucchio di
rifiuti, sotto l’impunità dei loro assassini, le promesse infrante delle
superpotenze e l’indifferenza del mondo verso il sangue versato dagli arabi.
[…]”
–
E il libro continua e
consiglio la lettura, perché nonostante si tenti di bloccare l’amore, il legame
materno e quello tra fratelli e sorelle, il tempo alla fine tutto scoperchia,
in un crescendo emotivo di una intensità unica.
Una donna che aspetta…
E’ così che immagino il mio mondo sospeso. In attesa di qualcosa o qualcuno, magari l’ispirazione, che per me è donna. E puntualmente essa arriva. Mi coglie a volte all’improvviso, e non posso che trascrivere ciò che sento, ciò che provo.
Ora ho creato questo luogo virtuale. Qui mi ritroverò ad inseguire sogni e sensazioni, e qui li condividerò con voi. L’avventura comincia adesso. Benvenuti, e felice di conoscervi…
Lino
Le mie sono solo risposte a un tuo continuo richiamo…