Flacco, Anthony. La danzatrice bambina (Bestseller Vol. 36) (Italian Edition) . EDIZIONI PIEMME, © 2006 – Edizioni Piemme Spa Titolo originale: Tiny Dancer © 2005 by Anthony Flacco with Dr. Peter and Rebecca Grossman – Traduzione di: Paola Conversano
La storia vera di una bambina tremendamente ustionata per un incidente domestico che è aggrappata alla vita, nonostante la devastazione del suo corpo, in un dolore infinito: come l’intera popolazione dell’Afghanistan. Il libro racconta lo spasmo di questa bambina aggrappata al dolore più forte della pelle arsa che tenta di cicatrizzarsi. Eppure vive come l’Afghanistan nel sangue e nel cuore. Il lettore leggendo, lo sente nello stomaco e nelle braccia.
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“[…] Nell’amore per la musica e per la danza aveva trovato un rimedio per scacciare la noia e per proteggersi dalla tristezza. Ma la sua vita di danze spensierate stava per finire. Secondo le leggi delle forze talebane, a partire dal suo decimo compleanno non avrebbe mai più potuto correre e giocare all’aperto con le altre bambine e men che mai avere un amico maschio. Lo sapeva e percepiva l’incedere del tempo. […]”.
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“[…] La preoccupazione che Hasan mostrava per la sua piccola era in genere riservata ai figli maschi. Era prassi comune che i genitori abbandonassero una figlia morente nel deserto o, se il patriarca aveva un animo più generoso, mettessero fine alla sua vita in modo più rapido e indolore, sparandole un colpo alla testa per poi sotterrare il corpo in segno di rispetto. Dopo tutto, una figlia femmina non poteva far molto per proteggere i genitori anziani dall’indigenza, visto che al momento del matrimonio veniva portata via e rinchiusa dietro altre mura. […]”
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“[…] La prima delle sorprendenti trasformazioni di Zubaida fu quasi immediata: appena l’incisione praticata lungo la linea della mascella venne completata, la testa automaticamente si piegò all’indietro, recuperando la normale posizione supina: subito buona parte della smorfia che le distorceva il viso scomparve. […]”
Dal fuoco di guerra che imprigiona la pelle, alla scissione del legame per donare il fuoco del sangue che libera.
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“[…] Durante l’ora e mezza che seguì, vide riaffiorare dalla maschera mostruosa le sembianze di una bambina. Iniziò eseguendo due delle più complesse e impegnative operazioni: una per liberare la testa e il collo nel punto in cui si erano fusi con il petto e la seconda per liberare il braccio sinistro dal tessuto cicatriziale che lo inglobava al tronco. […]”.
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Si è dentro il corpo di questa ragazza nel respiro traviato, nel dolore che consuma e urla nella pelle, nell’urlo che sgretola la gola, e impietrisce la bocca. Si sente la limitazione delle giunture, il blocco degli arti, la progressiva liberazione. La continua concertazione per la speranza della crescita del proprio corpo. L’angoscia e il dispiacere e la sensazione del carcere, dove il fuoco ha divorato parti di sé, e quindi ha rubato la possibilità di muoversi, di toccare, di sentire e proiettare il proprio spazio di azione. La lettura di ogni pagina è un impegno al quale non ci si può sottrarre, per non rimanere nello stato di prostrante agonia. Ogni pagina è una scalata faticosa e pesante, che permette comunque, ad ogni avanzamento, la liberazione di una zavorra.
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“[…] Era fondamentale preparare la classe in modo adeguato. L’insegnante sapeva che i bambini di quell’età sono capaci tanto di crudeltà involontarie quanto di dolcezza e dedizione. Quest’ultimo sentimento solitamente si sviluppa quando qualcosa permette loro di entrare in empatia invece di giudicare. Ritornata in classe, la maestra cominciò subito a prepararli, informandoli che sarebbe arrivata entro pochi giorni una nuova compagna che si era iscritta in ritardo. Si trattava di una bambina proveniente da un paese chiamato Afghanistan, e che non era mai andata a scuola perché nel suo paese le bambine non potevano farlo. Cercò con gli occhi tutte le bambine e attese che l’informazione venisse assimilata. «Pensate se tutte le bambine della classe dovessero andare a casa subito, per non tornare mai più. Se non potessero più imparare nulla del mondo in cui vivono.» Poi passò all’argomento più delicato. «Questa ragazzina ha avuto un incidente terribile l’anno scorso. È stata vittima di un tremendo incendio che le ha causato ustioni gravissime. È riuscita a sopravvivere, ma le ustioni erano così profonde che è dovuta venire in America a farsi operare per un anno intero in modo da tornare a essere quella di prima.» La maestra chiese quanti di loro erano mai stati in ospedale e contò le poche mani alzate. «Questa ragazzina è stata negli ospedali di tutto il mondo, ma non è riuscita a ottenere l’aiuto di cui aveva bisogno finché non è arrivata qui. Ha dovuto subire tantissimi interventi già nei mesi scorsi, uno dopo l’altro. E dovrà essere operata di nuovo. Quindi, quando arriverà, vedrete una ragazzina ancora piena di cicatrici, anche se adesso sta meglio: sarà assente ogni tanto per andare in ospedale e sottoporsi ad altri interventi.» Chiese ai suoi allievi di immaginare di essere lontani, molto lontani da tutti quelli che conoscevano, senza famiglia o amici. Vide un paio di volti impallidire al pensiero. «Quello che dobbiamo fare non è solo aiutarla a imparare. Dobbiamo essere la sua famiglia, i suoi amici, perché questo sarebbe ciò che vorremmo che altri facessero per noi.» Il concetto fece breccia: ne vide l’impatto su tutti quei piccoli volti. […]”
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I bambini la aiutano: curano le sue cicatrici interiori e la accolgono.
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“[…] Nonostante l’estremismo fondamentalista fosse stato imposto nel nome dell’Islam, nella pratica era antitetico ai suoi insegnamenti. Fin dal quattordicesimo secolo, l’Islam aveva dichiarato l’uguaglianza delle donne su tutti i fronti, all’interno della famiglia e nella società. Il Corano dice espressamente che le donne possono andare a comprare e a vendere al mercato proprio come gli uomini, e che devono godere della protezione della società nel suo insieme di fronte alla diffusione di pregiudizi nei loro confronti.
Gli uomini trarranno beneficio da ciò che guadagneranno, e le donne trarranno beneficio da ciò che guadagneranno. (Corano, 4,32) […]”
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“[…] Di lì a poco le capitò di sentire Peter e Rebecca che parlavano di quanto la nuova medicina la stesse aiutando. Riuscì a capire che entrambi ritenevano che fosse più contenta e tranquilla e pensavano fosse dovuto ai dottori, alla medicina e a tutto il parlare del terapeuta. Zubaida la pensava diversamente. Stava meglio perché la musica era ritornata, continuava a risuonare dentro di lei e le ricordava che lei era lei. Stava meglio perché finalmente le ferite erano abbastanza guarite da permetterle di muoversi, senza esagerare, al ritmo della musica. Già soltanto per questo era valsa la pena di vivere tutti quegli eventi incredibili del suo penoso viaggio. Nonostante tutte le incertezze, sapeva che finché avesse avuto la sua musica, avrebbe potuto essere la Zubaida che conosceva. Sia che le circostanze fossero familiari o assolutamente estranee, avrebbe saputo essere forte quando era necessario. Avrebbe potuto sostenere ogni genere di prova rimanendo tranquilla, perché la musica e la danza erano un’arma potente contro la disperazione. Forse, in futuro, quest’arma l’avrebbe protetta dalla tremenda depressione che così spesso attanagliava sua madre, che non sapeva danzare. Zubaida sapeva che senza musica non avrebbe potuto essere di aiuto agli altri perché sarebbe stata così di cattivo umore che nessuno l’avrebbe voluta attorno. […]”.
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La danza e la musica sono la cura dove Zubaida ritorna in se stessa. Peter finisce di essere un chirurgo e diventa un padre: cambia pelle anche lui. Non vede più una paziente, ma una bambina, una eventuale figlia, e così per Rebecca, la donna che non può avere i figli, prova a essere una madre.
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Negli ultimi capitoli l’autore racconta dal passato eventi che verranno dopo, dando la sensazione di giustificare in toto l’operato degli americani. E i dialoghi si riducono. Nonostante tutto alla fine, la speranza rifiorisce nel sorriso pieno della bimba che danza.