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§CONSIGLI DI LETTURA: I TRE MOSCHETTIERI

TRATTO DA: I tre moschettieri / di Alessandro Dumas ; versione di Angiolo Orvieto. – Napoli : G. Rondinella, 1853. 4 v. ; 16 cm.; vol. 1 216 p., vol 2 216 p., vol 3 180 p., vol. 4 211 p.

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“I tre moschettieri” (Les trois mousquetaires) è un romanzo d’appendice scritto dal francese Alexandre Dumas con la collaborazione di Auguste Maquet nel 1844 e pubblicato originariamente a puntate sul giornale Le Siècle. È uno dei romanzi più famosi e tradotti della letteratura francese che ha dato inizio ad una trilogia: Vent’anni dopo (1845) e Il visconte di Bragelonne (1850).

I tre moschettieri del titolo sono Athos, Porthos e Aramis, a cui poi si aggiunge il protagonista del romanzo, D’Artagnan.

I “Tre Moschettieri” in questa traduzione del 1853 a cura di Angiolo Orvieto offre un’occasione per comprendere lo spirito dei contemporanei a sognare e a vivere le gesta di questi intrepidi nei primi decenni del 1600 in Francia presso la corte di Re Luigi XIII assieme al cardinale Richelieu.

Il testo nela traduzione in italiano è un ottimo indicatore nel rilevare i termini in lingua italiana “alta” in uso nella prima metà dell’ottocento, quando ancora l’unità d’Italia era in divenire. Vi è una doppia lettura riferita allo stile di Alexander Dumas e a quella del romanzo moderno italiano che proprio in quei decenni Alessandro Manzoni stava tessendo.

La traduzione non è una semplice trascrizione, ma è una vera e propria interpretazione stilistica e produttiva di nuovi stili in prosa nella lingua italiana.

Alexander Dumas scriveva i romanzi a puntate per pubblicarli via via nelle riviste di uscita bisettimanale o mensile. Vi sono ridondanze e richiami tra i capitoli e addirittura tra un romanzo e l’altro. Le riviste costavano poco ed erano facili da stampare e diffondere. Erano grandi faldoni di carta grezza piegati in quattro parti circa, da ritagliare e ricomporre mediante le pagine numerate. Era un lavoro lungo, ma piacevole: si pregustava l’arrivo per posta o la compera nell’edicola, se si abitava nelle grandi città vicino alle tipografie. E si aveva l’idea al tatto e all’odore della consistenza dell’episodio o del racconto. Lo si percepiva nelle proprie braccia, prima ancora degli occhi.

Come nel “Conte di Montecristo”, o nel romanzo “La Sanfelice”, Alexander Dumas è abilissimo a incasellare gli eventi e i personaggi storici con quelli di fantasia, e riesce a presentare scenograficamente gli ambienti e i modi di fare dell’epoca. Le digressioni accompagnano il lettore nello spiegare il modo di agire dei protagonisti, i loro pensieri e i modi di concepire il mondo. E il bello è che noi riusciamo anche a comprendere il modo di sentire e di vivere dei contemporanei dello stesso autore.

Alexander Dumas, massone e repubblicano, filo garibaldino, era abilissimo nel ridicolizzare indirettamente i re, i cardinali, i nobili in tutte le loro piccolezze. Paterno del mostrare le debolezze dei protagonisti con simpatia e talvolta con severità. Aveva una memoria prodigiosa che rendeva leggera la descrizione degli eventi storici passati, i nomi degli strumenti della vita quotidiana e l’organizzazione sociale. Il lettore si sente a suo agio nell’essere guidato nel contesto degli avvenimenti.

I “Tre moschettieri” è un romanzo che è utile leggere oggi perché, oltre a essere un capolavoro e una figura topica del nostro immaginario, prospetta una nuova fonte cui attingere esempi per la nostra capacità di immedesimazione, emulazione, e creatività, in particolare del nostro futuro. I tre moschettieri e D’Artagnan anche  provenendo da classi sociali e storie radicalmente diverse, diventano amici. Vivono assieme, non formano solo un gruppo, ma una vera e propria comunità di apprendimento, e ciò è valido anche per i loro lacchè. Crescono assieme dichiarando le proprie debolezze, cooperando lealmente e a viso aperto.

Nonostante che alcuni di loro fossero già più che adulti per l’epoca, mantengono una disponibilità ad apprendere, giocare, progettare, agire con risolutezza, in modo giovanile, cioè fresco, creativo e innovativo. La lealtà, la comunanza, l’affidamento, costituiscono la spinta per migliorare dal punto di vista morale, relazionale (ed anche economico), nonostante i vizi e le debolezze.

È importante leggere questo romanzo, perché, a differenza dei lettori contemporanei ad Alexander Dumas e ai tempi dei nostri padri, qui in Italia siamo ora un popolo con pochi giovani e con figli unici. La capacità di cooperare e di giocare assieme, accettare gli errori e le ignoranze altrui, per farle proprie nel condividere un comune percorso di apprendimento, non è più scontata. Fratelli e sorelle si alimentano l’un l’altro di creatività, di idee, e di progetti per il futuro, anche improbabili e fantastici e di lì verso il gruppo dei pari.

Oggi non vi sono tanti fratelli e sorelle, e i gruppi dei pari sono asfittici. La chiusura di sé rende povero e pigro il proprio bagaglio emotivo.

I “Tre moschettieri” sono un giardino nel quale è possibile entrare sorridendo nel mirare la bellezza e la mutevolezza dei colori, oltre ai profumi, intensi alcuni e leggeri altri. E da questi rivedere il nostro corpo nel fantasticare nuove immagini di ciò che potremmo essere, che è appunto la spinta naturale di chi è giovane mentre cammina verso il suo futuro.

§CONSIGLI DI LETTURA: La sanfelice

Alexandre Dumas. LA SANFELICE.

Adelphi Edizioni, Milano 1999 (gli Adelphi 144).

Titolo originale: “La San Felice”.

Traduzione di Fabrizio Ascari, Graziella Cillario e Piero Ferrero. Cura editoriale di Emma Bas.

Cura redazionale di Pia Cigala Fulgosi e Stefano Zicari.

Alexandre Dumas era considerato uno scrittore “classico” già prima che i nostri nonni fossero nati. Senza aver letto alcunché delle sue opere, alla fine del 1800, alcuni personaggi dei suoi romanzi erano riconosciuti dai letterati e dal pubblico, archetipi dei tipi e dei comportamenti umani. Si pensi ai “Tre moschettieri” e al “Conte di Montecristo”. Vi sono altri romanzi meno noti, ma incisivi nel delineare tratti universali del nostro animo.

Era uno scrittore dotato di una memoria eccezionale, di una capacità investigativa e di ricerca superlativa e di una creatività inesauribile. In più, oltre a saper descrivere in modo minuzioso il contesto attraverso i dialoghi dei personaggi, caratteristica che discrimina la grandezza di un romanziere, è un antropologo moderno. L’osservazione degli usi, dei costumi, dei tratti fisici delle persone e dei luoghi, è di un livello pari agli etnologi, agli antropologi culturali moderni.

Viaggiò molto, massone e repubblicano. Amico di Giuseppe Garibaldi, fedele ai principi della rivoluzione francese, affine alla visione di Mazzini per una “Giovine Europa”, cementata dalla fratellanza e dalla libertà dei popoli.

“La Sanfelice” parla dei popoli e delle genti dell’Italia del sud. Del Regno delle due Sicilie, e in particolare di Napoli. Alexander Dumas visse a Napoli dal 1860 al 1864 circa, esule dalla Francia, e poi ancora dalla stessa Napoli e dai napoletani. Duramente critico, eppure di loro innamorato. Agì da “ministro dei beni culturali”, adempiendo con scrupolo al suo ufficio.

“La Sanfelice” apparve a puntate sul quotidiano parigino «La Presse» fra il 15 dicembre 1863 e il 3 marzo 1865 – e, con uno scarto di qualche mese (10 maggio 1864 – 28 ottobre 1865), sull’«Indipendente», il giornale che proprio a Napoli Dumas aveva fondato e diretto. Pressoché contemporanea l’edizione in nove volumi di Michel Lévy, Parigi, 1864-1865.

Suo padre partecipò alle guerre napoleoniche in Italia, e qui fu imprigionato per 25 mesi. Recarsi a Napoli fu anche un’occasione di riflessione sulla rivoluzione francese, sulla degradazione dei principi repubblicani per opera di Napoleone, sulle monarchie repressive europee, e in particolare con i Borboni e con gli stessi napoletani, che nel periodo tra il 1798 e il 1799 uccisero e si uccisero tra di loro, in modo che noi diremmo oggi barocco, esagerato, arrivando ad atti cannibalici contro i propri avversari. Un popolo di vinti perenne, tenuto a bada e volutamente diviso dai potenti, timorosi dai suoi scoppi improvvisi di ira, pieni di voluttà di sangue. Vi sono descrizioni truci, quasi da film dell’orrore, purtroppo verosimili.

Di prima lettura sembra che Alexander Dumas abbia scritto “La Sanfelice” per pareggiare il conto nei riguardi di quel regno che già allora era disprezzato per la sua arretratezza dalle coorti europee e dai suoi regnanti. Nel libro vi è una descrizione dei potenti, carica di ironia a tratti. La grandezza di quest’opera emerge dalla capacità di squadernare in modo quasi fotografico l’ambiente e le trame e le piccolezze dei potenti e del popolo.

Sarebbe limitato però fermarsi alla prima impressione, perché vi è anche una esaltazione della generosità degli stessi napoletani e degli altri personaggi del sud d’Italia, anche nel combattere tra di loro. Alexander Dumas l’avverte ed è rispettoso di queste terre, ricche di passato, e in realtà complesse, impossibili da qualificare con sguardi affrettati dai propri pregiudizi.

Fa bene leggere quest’opera perché immedesimandosi nei protagonisti realmente esistiti e in quelli inventati, ma verosimili nelle loro gesta ed azioni, storicamente determinate giorno per giorno, si sentono nel proprio animo, i dolori, le speranze, le paure, lo strazio, l’amore provato. È un romanzo lungo, ma ricco di sentimenti ed emozioni.

Vi è l’onestà intellettuale di comunicare al lettore la veridicità dei fatti storici attraverso i documenti realmente esistenti, e alcuni eventi delle scene, dispiegati attraverso la fantasia dello scrittore. E fu questo il successo iniziale da parte del pubblico, perché si sentiva partecipe di questo appuntamento bisettimanale, e mensile, pari a una telenovela brasiliana per la lunghezza dei mesi, nonostante si sapesse già la fine e la sorte dei protagonisti.

“La Sanfelice” nasce da esigenze personali, politiche, di lavoro ed estetiche, ed è un libro pianificato, e scritto passo passo per 18 mesi, attraverso ricerche storiche correlate, testimonianze e controlli in loco dei luoghi descritti. È una creazione estetica mediante un lavoro da storico e da antropologo. L’autore interviene direttamente nel testo per serrare le fila e precisare al lettore ciò che è scaturito dalle ricerche e dalle sue valutazioni.

Allora ed oggi, il lettore si sente a suo agio e ha fiducia nell’autore, perché mostra senza giri di parole, i suoi intenti e li delimita, permettendo al pubblico, il godimento nell’approccio di lettura.

Alexander Dumas offre un quadro del nostro passato e di quello che ancora di esso abbiamo, da osservatore partecipante, addolorato, critico, ma in fondo innamorato dell’Italia e di Napoli.

“La Sanfelice” è un tesoro cui attingere le tecniche di scrittura dei dialoghi, e della ricchezza nel mostrare l’animo umano, le caratteristiche morali e fisiche delle persone, dei luoghi e le tracce di ricostituzione della nostra memoria inconscia, all’interno di processi storici ben determinati.

Ed è utile per esercitare le capacità di analisi quasi sociologiche. Un esempio tra tutti:

Pgg. 334-35

“[…] Ma a che è dovuta questa differenza fra gli individui e le masse? Perché a volte il soldato fugge al primo colpo di cannone e il bandito muore invece da eroe?

[…]

Ecco i princìpi essenziali:

Il coraggio collettivo è la virtù dei popoli liberi.

Il coraggio individuale è la virtù dei popoli che sono soltanto indipendenti. Quasi tutte le popolazioni di montagna – gli svizzeri, i corsi, gli scozzesi, i siciliani, i montenegrini, gli albanesi, i drusi, i circassi – possono benissimo

fare a meno della libertà, purché si lasci loro l’indipendenza.

Passiamo a spiegare che differenza enorme ci sia fra queste due parole: LIBERTA’

e INDIPENDENZA.

La libertà è la rinuncia da parte di ogni cittadino a una porzione della sua indipendenza per costituirne un fondo comune che si chiama legge.

L’indipendenza è per l’uomo il godimento completo di tutte le sue facoltà, l’appagamento dei suoi desideri. L’uomo libero è l’uomo che vive in società, che sa di poter contare sul suo vicino, il quale a sua volta fa affidamento su di lui. E, essendo disposto a sacrificarsi per gli altri, ha il diritto di esigere che gli altri

si sacrifichino per lui. L’uomo indipendente è l’uomo allo stato naturale. Si fida

soltanto di se stesso. I suoi unici alleati sono la montagna e la foresta. La sua difesa, il fucile e il pugnale. I suoi aiutanti sono la vista e l’udito.

Con gli uomini liberi si costituiscono degli eserciti.

Con gli uomini indipendenti si formano delle bande.

Agli uomini liberi si dice, come Bonaparte alle piramidi: «Serrate le file!».

Agli uomini indipendenti si dice, come Charette (85) a Machecoul: «Divertitevi, figlioli!».

L’uomo libero si leva alla voce del suo re o della sua patria.

L’uomo indipendente si leva alla voce del proprio interesse e della propria pass ione.

L’uomo libero combatte.

L’uomo indipendente uccide.

L’uomo libero dice: «Noi».

L’uomo indipendente dice: «Io».

L’uomo libero è Fraternità.

L’uomo indipendente non è altro che Egoismo.

Ora, nel 1798, i napoletani erano ancora nella fase dell’indipendenza. Non conoscevano né la libertà né la fraternità. Ecco perché furono sconfitti sul campo da to cinque volte meno numeroso del loro.

Ma i contadini delle province napoletane sono sempre stati indipendenti.

Ecco perché, alla voce dei monaci che parlavano in nome di Dio, alla voce del re he parlava in nome della famiglia, e soprattutto alla voce dell’odio che parlava

in nome della cupidigia, del saccheggio e della strage, si sollevarono tutti.

[…]”

Oggi noi potremmo criticare questa divisione così netta, ma quello che interessa osservare è che, in base agli eventi descritti precedentemente, Alexander Dumas fornisce la sua chiave interpretativa nel delineare gli eventi.

Il lettore è coinvolto in prima persona e sente di essere rispettato nella sua intelligenza e nella sua capacità di riflessione.

Alexander Dumas mentre parla del passato della sua famiglia, di sé e delle sue convinzioni, ha la mirabile capacità di costringerci in modo inconscio a guardare a noi stessi, alla nostra storia e a riflettere sul presente di oggi.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL CONTE DI MONTECRISTO

Il Conte di Montecristo – Alexandre Dumas Pubblicato su www.booksandbooks.it

Grafica copertina © Mirabilia – www.mirabiliaweb.net

Un capolavoro che ha viaggiato nei secoli. Di tutto è stato scritto per temi comuni dell’animo umano: la vendetta, l’avidità, l’invidia, la brama, la voglia del potere, la disperazione, la compassione, la timida richiesta d’amore.

Il tentativo di scrivere qualcosa di nuovo in merito è a dir poco contraddistinto da una goffa presunzione.

Può essere invece utile approfondire qualche elemento che risulta urticante in questi giorni di isolamento forzato.

Essendo un libro scritto a puntate per le riviste, l’autore richiama gli eventi ad ogni capitolo. I personaggi sono generosamente caratterizzati con un’abbondanza di aggettivi. Frequentemente si ha la sensazione di leggere un copione di teatro in cui l’inizio vi è l’illustrazione della scena da interpretare. Vi è la spasmodica volontà di far percepire i luoghi in carne ed ossa. Con gli strumenti multimediali la lettura è divenuta un accessorio, scarno nella sintassi, perché deputato a riferire immagini, legami, suoni, strutture relazionali. Per noi contemporanei risalta molto di più di un tempo il ritmo narrativo denso e corposo, sovrabbondante di segni e di significati.

Il tema dell’isolamento carcerario è il perno che determina i vettori della trama che si snoda per decenni. Sebbene il protagonista riesca ad evadere dall’antro del Castello d’If, la cella rimane nell’animo, risaldata dal dolore, dalla consapevole disperazione di aver avuto una vita sottratta, da una volontà di vendetta che acquisisce il ruolo di guardiano della gabbia del cuore. L’ossessione di perseguire la restituzione di ottener memoria di ciò che si è stati e del proprio dolore verso i carnefici e quindi verso il mondo, è il motore che snoda gli eventi e i pensieri, energico e inarrestabile, ma vorace dei sentimenti e dei moti emotivi di chi fu violato ed oltraggiato.

Il Conte di Montecristo intraprende un progetto che lo coinvolgerà totalmente per anni e anni quasi a eguagliare quelli di prigionia. Ritorna nei luoghi passati e cerca i protagonisti cari e i suoi carnefici. In più si pone in relazione con i loro figli. Nel libro vi è una simmetria che denota uno stile di contrappasso, perché ogni protagonista nelle fortune e nelle ascese in società, oppure nelle sconfitte, è costretto a negare il suo passato. Ognuno si separa dalle proprie memorie, isolandosi in una gabbia del presente per non vedere ciò che fu e per negare le proprie bugie e le correlative meschine brame.

Il paradigma carcerario è sovrano, perché scandisce gli eventi e orienta il destino dei personaggi. Proprio perché isolate nel carcere delle proprie omissioni, le relazioni assumono parvenze di significati, ambigue come fuochi fatui che esalano da una finestra di una cella.

Il protagonista separa gli antagonisti da se stessi, togliendo anche il loro presente, nel negare le possibilità di poter continuare in quella stasi.

Nel momento in cui si arriva al culmine della perdita di senso tra il passato e il presente, la vita scarnificata mostra la ferita che da sempre lì rimase: incatenata alla lugubre paura dell’oblio.

Il tentativo di uscire dalla caverna fredda dell’odio, comporta il pegno da pagare che è il dolore. Il farmaco che cura è quello che dispera di sé e di tutto. Si rimane nel carcere se si tenta di fuggire da esso, perché la cella del proprio animo è creduta il rifugio sicuro che, però, come una spirale, esige il tracollo della propria dignità.

E alla fine rimane il tentativo di lasciar uscire la propria umanità, attraverso il gigantesco atto eroico della compassione. Atto glorioso che forse attende noi tutti, qui, oggi, in questo carcere mondiale di mascherine e di timore d’abbracciar il cuore altrui.

§CONSIGLI DI LETTURA: La chiocciola sul pendio



Collana: CIELO STELLATO

Arkadij e Boris Strugackij

“La chiocciola sul pendio” con una postfazione di Boris Strugackij Traduzione di Daniela Liberti

Carbonio Editore – Milano.

Titolo originale Улитка на склоне di Arkadij e Boris Strugackij Copyright © 1966.

Un libro poliedrico scritto a quattro mani dai fratelli Strugackij, in piena epoca sovietica, nel periodo di congiunzione tra le timide aperture di Krusciov con riferimento a una maggiore libertà di espressione in URSS, a quelle di ritorno a un controllo ortodosso di Kruscev. I fratelli Strugackij oltre a leggere e interessarsi di letteratura sempre di più negli anni, fino a intraprendere il mestiere di scrittori, curatori, pubblicisti, studiarono chimica, meccanica, ingegneria. Tale formazione, fu utile nell’uso e nella descrizione dei fenomeni biologici, geologici, chimici, meccanici nei loro libri e in particolare in ambito fantascientifico. L’uso di termini appropriati connotano una estrema verosimiglianza nella loro prosa. Il lettore entra con agio e leggerezza nei loro mondi, anche per l’uso di termini riferiti a strumenti consueti nel vivere quotidiano.

Negli anni, anche per non incombere nella censura e in problemi più pesanti, furono costretti ad un uso metaforico e satirico della loro poetica nel descrivere la realtà in cui erano immersi. Nonostante la loro scoppiettante capacità immaginifica, riescono a rendere la trama lineare. Questo romanzo dovette essere pubblicato all’estero. E il motivo è chiaro: vi è una critica alla burocrazia, all’amministrazione ottusa, alla volontà di controllare ogni aspetto della vita quotidiana, all’insensatezza di fondo in cui si reggono le organizzazioni preposte alla gestione del consenso e del controllo. Ma non sono, però direttamente rivendicativi. Cercano di ironizzare, mostrando le pratiche di ciò che era l’URSS nella quotidiana amministrazione in un modo fantastico, corredato da apparenti nonsense, quasi da richiamare i giochi di parole di Alice nel Paese delle Meraviglie. Scrittori abilissimi nello scrivere variando in diversi registri linguistici, mostrando una inventiva unica.

I due fratelli delineano personaggi che richiamano le caratteristiche delle leggende e delle fiabe russe, affinché il tema del “fantastico” sia un motore che avvia le scene, con luoghi topici delle favole come la foresta, la baita, la casa, la via, i funghi, gli animali della notte, i nani, le anime gloriose. La metafora degli spiriti nella cultura russa. Gli eventi sono descritti con aggettivi doppi e tripli, dove ognuno svolge la funzione dell’altro, sicché le persone diventano la loro funzione: l’origliatore, lo zoppo, il muto, pugnolesto, l’anziano, il giallo. E oltre alla predicazione vi è anche una relazione di attribuzione. Colori, forme, suoni, odori e posture assumono di volta in volta la funzione di predicato e la funzione di soggetto. Le descrizioni sono discendenti, gonfie, sovrabbondanti, ma nel ritmo della scrittura, come in una danza, tutto si tiene. Vi è un equilibrio nei dialoghi e nel ritmo. Tale iper caratterizzazione fornisce una visione fisica dei luoghi, degli eventi e si entra nella psicologia dei personaggi. E poiché questo è un mondo surreale, con frasi ossessive e deliranti da parte dei protagonisti, l’esplosione dei predicati verbali e nominali, per converso forniscono una logica coerente per accedere nel caos mentale dei protagonisti.

Ogni mania assume la veste di un patronimico russo dei protagonisti. Una propria carta di identità. La scansione veloce degli eventi permette al lettore di non disorientarsi e di seguire ogni scena avendo bene in chiaro l’insieme degli spazi immaginari e irreali. I luoghi come il canneto, la foresta, il villaggio, la distesa d’erba, i funghi, le radure dei morti viventi, assumono anche una funzione mitica. Come se si fosse dentro una Odissea con Ulisse che va da Circe e da Polifemo. Una prosa brillante, pazzoide, satirica eppure coerente, agile, fresca, ironica. E si avverte subito tra un registro fiabesco, mitico, fantascientifico, allegorico, satirico, d’avventura l’attacco contro l’amministrazione sovietica, nella veste della rigidità, del controllo, nell’illogicità a eseguire procedure emanate e scritte altrove, con logiche misteriose, esterne, formali, senza un riscontro immediato.

I dialoghi così serrati e veloci ma densi di immagini e di descrizioni, sono così ben scanditi da seguire passi di danza tra una domanda e una risposta dei dialoganti. E tra l’incomprensione reciproca, il conflitto, le litigate, il gioco dei termini omonimi e sinonimi, gli slittamenti semantici, si dispiega pian piano la trama, seminando per il lettore indizi su ciò che avverrà.

Una poetica avvincente per adulti e lettori molto giovani. L’assurdo come normalità, vestito di una involontaria ironia.

§CONSIGLI DI LETTURA: Embassytown

Un’avventura dei popoli e del linguaggio

In un futuro remoto, gli esseri umani si sono spinti ai confini dell’universo colonizzando il pianeta Arieka. Qui i rapporti tra gli uomini e il popolo degli Ariekei, custode di una lingua misteriosa. Avice Benner Cho non è in grado di parlare la lingua degli Ariekei, eppure in qualche modo ne rappresenta una parte: lei, come alcuni esseri umani, è utilizzata dagli indigeni come una “similitudine vivente”, necessaria alla formulazione di concetti altrimenti inesprimibili.

“[…] «le parole non possono considerarsi davvero dei referenti. Ecco la vera tragedia della lingua. Gli sforzi asintotici per ordinarle in una frase compiuta non sono niente a confronto.» […]”

La lingua degli Arekei è generata da due apparati di fonazione che producono rispettivamente l‘inciso e l’eco e per loro chi parla con una sola voce è automaticamente escluso dal computo delle creature dotate di intelligenza e in grado di esprimersi. È una lingua totalmente empirica, nel senso che qualsiasi oggetto o elemento di un loro discorso è visibile e afferrabile. Deve essere indicato. Tale caratteristica implica l’impossibilità di mentire, ovvero un insieme di dati non immediatamente verificabili. Ovviamente gli umani in quanto specie non possono essere calcolati come creature senzienti, fatta eccezione per gli «ambasciatori», cloni appositamente creati di due individui che parlavano all’unisono, ma in quanto unità simbiotiche.

“[…] Per gli umani, l’aggettivo rosso non comunica niente di per sé: a esprimere il colore è la combinazione dei fonemi che compongono la parola. Funziona così, sia che a dirlo sia io, Scile, uno Shur’asi o un programma irrazionale che non conosce il significato di ciò che articola in maniera meccanica. Questa regola non vale per gli Ariekei. Il loro linguaggio è costituito da un insieme di rumori organizzati, così come lo è anche la nostra lingua, ma per questi indigeni ogni parola funge da imbuto: per noi le parole significano qualcosa, mentre loro le ritengono un semplice mezzo attraverso il quale il suono dischiude al pensiero le porte per accedere al suo referente. «Se programmo il mio traduttore per pronunciare una parola in anglo-ubiq, tu sei in grado di capirla» disse. «Eppure, se faccio lo stesso con la Lingua degli Ariekei, l’unico a capirla sono io. Per loro è solo un suono privo di senso, perché, per significare qualcosa, deve essere prodotto da una mente pensante.»

 […]”

Significante e significato costituiscono una relazione univoca che impedisce di immaginare una serie di forme inesistenti di reale. Quando a comunicare con loro appare per la prima volta un ambasciatore proveniente da Bremen – il pianeta dal quale Embassytown dipende – e non dalla comunità umana su Arieka, il delicato equilibrio sul quale si fonda la convivenza tra umani e Ariekei si spezza.

“[…] Scollegate dai loro relativi significati, le falsità non erano altro che rumori prodotti dagli stessi mentitori, una testimonianza della pigrizia biologica: se fosse stato possibile descrivere soltanto la realtà, a cosa mai sarebbe servito saperla discernere dal suo opposto? Ogni cosa sarebbe stata davvero come da definizione? Nonostante un simile deficit adattivo (non erano predisposti a mentire), gli Ospiti riuscivano lo stesso a capire un enunciato falso. O ci credevano (credere era un dato di fatto privo di senso), oppure, quando la falsità era appariscente, la vivevano come qualcosa di impossibile e frastornante, un enunciato impensabile.

[…]”

“[…] «Vogliamo essere noi a decidere cosa ascoltare, come vivere, cosa dire, con chi parlare, come comportarci e a chi obbedire. Vogliamo che la nostra lingua torni a essere nostra.».

Erano infastiditi dalla loro dipendenza alla nuova droga e dalla loro incapacità a disobbedire. Di sicuro, non era l’unico gruppo segreto ad avvertire un simile fastidio, ma questo combaciava con ciò che desideravano da sempre: sforzarsi di mentire era direttamente collegato al desiderio di dare alla Lingua qualunque significato volessero. Quell’antico bisogno sembrò spingerli a odiare la loro nuova condizione e in maniera ancora più violenta di qualsiasi altro alieno cosciente.

[…]”

La lettura del libro non è banale: fino alla fine della terza parte, vi sono capitoli denominati «Ricordo recente» e «Ricordo datato», e poi seguono le sezioni. Intorno ad Embassytown esiste un universo denominato <Immer> (il sempre) e tale città dipende da Bremen, i cui rapporti non sono pacifici.

È un libro ambizioso che spinge a indossare nuovi occhiali nell’uso del linguaggio e della nozione stessa dei significati e dei soggetti parlanti, in particolare se tra di loro sono all’inizio in uno stato di oggettiva incomunicabilità.

“[…] gli Assurdi hanno imparato a esprimersi come noi. Gli Ariekei in questa stanza vogliono che gli insegniamo a mentire e questo significa pensare al mondo secondo una prospettiva diversa. Nessun referente, ma soltanto significanti. Lo ritenevo impossibile. Eppure, guarda.» Puntai il dito verso la creatura che voleva uccidermi. «Ecco cosa hanno fatto. Ogni volta che indicano, significano qualcosa. Seguendo una strada del genere lo scotto da pagare è davvero troppo alto, ma adesso sappiamo che questi alieni sono in grado di farlo. Insegnare loro tutto questo senza strappargli le ali equivale a insegnargli a mentire.»

[…]”

“[…] «Le similitudini sono una scappatoia. Una via d’uscita che parte da un referente e arriva a un significante. Solo questo. Eppure, sappiamo di poterli spingere a continuare, un passo alla volta, fino alla fine.» Io stessa mi chiarii le idee parlando. «Dobbiamo condurli dove il significato letterale diventa…» feci una pausa. «Qualcos’altro. Se noi similitudini funzioneremo al meglio, ci trasformeremo in qualcos’altro, poiché il miglior modo di cui disponiamo per rappresentare il vero passa attraverso la falsità.»

  Avrei voluto spiegargli che non era affatto un paradosso, né un controsenso. «Non voglio più essere una similitudine» esclamai. «Voglio diventare una metafora.»

[…]”

Questo libro è un tentativo ambizioso di utilizzare il “Bizzarro Finction” (che è estrema ed esagerata) con la scrittura “Fantasy”, mantenendo però una coerenza verosimigliante in termini di ambienti, tecnologie e logiche politiche. In più, pone nuove sfide nell’uso del linguaggio e anzi nel modo stesso di intenderlo.

 “[…] Le loro menti divennero improvvisamente simili a dei mercanti: come il denaro, le metafore avevano un valore incommensurabile. Adesso potevano diventare dei mitologi, studiosi di una realtà un tempo priva di mostri ma ora affollata di chimere; ogni metafora era un collegamento.

[…]”

“[…] Ballerina aveva ormai imparato che poteva esprimersi anche senza parole, l’Assurdo invece aveva appreso non solo di poter parlare, ma anche di ascoltare.

[…]”

E il lettore qui, ascolta leggendo.