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SUNFALL DI JIM AL-KHALILI

Sunfall di Jim Al-Khalili, 2014, Traduzione
di Carlo Prosperi, (Prima ed. 2019), 2022,
Bollati Boringhieri, Torino

L’autore è in primo luogo un fisico di fama internazionale, che con la presente opera si è prestato a redigere un romanzo, a differenza di altri suoi scritti di divulgazione sulle nozioni e sugli sviluppi della Fisica contemporanea. I concetti e i termini impiegati sono veri e verosimili, in quanto i neutralini, sebbene siano già stati ipotizzati e circoscritti in modelli coerenti a livello teorico, in data attuale non hanno avuto un preciso riscontro sperimentale. L’appunto a queste particelle che dovrebbero costituire la materia oscura, è la base su cui si innesta quest’opera: una narrazione distopica di eventi possibili qui e ora.

Le tempeste solari in modo ciclico investono i pianeti che gravitano intorno alla nostra stella. La Terra grazie alla intensità del suo campo magnetico riesce a deviare gran parte di queste radiazioni, mantenendo così integra la sottilissima pellicola che chiamiamo atmosfera e per conseguenza gli ecosistemi per noi vitali. Le tempeste solari negli evi passati hanno invertito i poli del nostro campo magnetico, e in queste fasi per le leggi fisiche relative alla densità di campo, lo hanno indebolito, e quindi hanno permesso una maggiore incidenza radioattiva negli strati più bassi dell’atmosfera. Si ipotizza che ciò abbia contribuito a causare l’estinzione di specie viventi, dalla flora fino agli animali a sangue caldo.

Il romanzo si incentra su questo evento e nella concomitanza della tragica evidenza che il polo magnetico avrebbe raggiunto una sua inversione e quindi un equilibrio in un periodo di tempo molto più lungo di quello delle coorti generazionali dell’uomo, in termini di nascita, età adulta, e morte. La conseguenza è una altissima probabilità di estinzione dei mammiferi, per il caldo crescente, per i raggi solari letali, per l’innalzamento delle acque, e nel complesso per lo sconvolgimento climatico sì temporaneo, ma devastante.

È un romanzo di avventura, di spionaggio, che si incentra nel tentativo di veicolare i neutralini in un modo tale da permettere al campo magnetico di assestarsi. Non rivelo nulla, e lascio al lettore il gusto dell’approfondimento e della scoperta, anche perché è un romanzo che scorre in un ritmo che cerca il climax e la sorpresa.  

I personaggi sono però stereotipati, perché nelle dinamiche di relazione sembrano che vivano tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Sì vi sono donne e uomini che nel campo della scienza, della politica, e dello spionaggio risultano pari agli uomini nelle prestazioni, ma nelle disposizioni emotive verso i colleghi di lavoro, i partner e i familiari stretti, seguono modelli di due generazioni fa.

La visione di fondo tra gli uomini e le donne sebbene sia limitata in questi stereotipi prevedibili, da una parte facilita la comprensione degli eventi scanditi in un ritmo agevole. Tale semplificazione lascia quindi il tempo per concentrarsi riguardo la comprensione dei concetti di fisica che via via sono espressi, dai quali si ricavano le connessioni di causa ed effetto delle azioni dei protagonisti.

Vi è un tema di fondo reale e non fantascientifico che è rivolto nella concreta possibilità dell’avverarsi di accadimenti terrestri e cosmologici di frequenza singolare o ciclica tali da arrecare danni all’ambiente di vita favorevole nel suo complesso per la nostra sopravvivenza.

La gravità di tali rischi nel loro concretizzarsi in pericoli manifesti abbisogneranno di una collaborazione interstatuale tra i popoli. La condivisione delle conoscenze, la partecipazione democratica al loro sviluppo e messa in opera, definiscono la speranza di concepire la soluzione.

La convinzione di adottare un approccio collaborativo nell’integrare le proprie risorse materiali, tecnologiche e di sapere, avviano le strategie di impieghi impensabili delle nostre capacità nel manifestare positivamente la nostra volontà di sopravvivenza.

L’umiltà di considerarsi solo una parte del pianeta Terra che è la nostra unica e sola casa di fronte alla collettività, garantisce di una caratura morale che invita alla fiducia e alla volontà di agire non solo per i propri esclusivi interessi.

È un libro progettato per attrarre il grande pubblico nella lineare scansione degli eventi e nella costruzione, non estremamente sofistica, nel delineare le personalità dei protagonisti. La voluta semplicità della trama, però, offre un linguaggio tecnologico rivolto a problemi scientifici attuali che fa sentire il lettore partecipe di questo processo nel pensare su di sé e sul proprio destino, vivendo da quasi due secoli in un ambiente che non è mai stato così favorevole in tutta la storia dell’umanità.

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Nota tecnica dell’autore sulla materia oscura L’idea di fondo del Progetto Odino si basa sul comportamento della materia oscura. Ma quanto c’è di scientificamente accurato in tutto questo? Be’, lasciatemi chiarire un paio di cose. Anzitutto, la materia oscura è reale. È ciò che tiene insieme le galassie. Anzi, nell’universo la materia oscura è cinque volte la materia cosiddetta normale. Il problema è che, al momento in cui scrivo, ossia dicembre del 2018, non sappiamo ancora di cosa la materia oscura sia composta. Quali che siano le sue particelle costituenti, a oggi non ne conosciamo nulla. I fisici la chiamano «materia non barionica».

Sappiamo che la materia oscura percepisce la forza di gravità ma non quella elettromagnetica (il che le permette di attraversare la materia normale come se questa non ci fosse). Il secondo punto è che uno dei potenziali candidati come costituente della materia oscura è effettivamente il neutralino, un’ipotetica particella prevista da una teoria tuttora speculativa chiamata Supersimmetria. La mia remora nell’usare il neutralino in Sunfall era che potesse essere scoperto prima dell’uscita del libro o, ancora peggio, che qualche nuovo risultato sperimentale escludesse categoricamente la sua esistenza, magari rivelandoci che la materia oscura è composta da tutt’altra particella. Finora, invece, tutto bene. I neutralini sono ancora in corsa. Quanto al fatto che i fasci di materia oscura interagiscono con se stessi, ciò è all’incirca corretto, almeno sulla base delle attuali conoscenze.

Al proposito, tuttavia, mi sono preso alcune libertà, nel senso che l’auto-interazione della materia oscura è probabilmente molto debole, altrimenti ne vedremmo le testimonianze in astronomia. D’altro canto, se al momento di collidere i fasci sono dotati di sufficiente intensità ed energia… Quanto alla questione del decadimento dei neutralini pesanti in chargini e di questi, a loro volta, in neutralini leggeri – tutta quella roba necessaria affinché la traiettoria del fascio possa essere deviata dai magneti – be’… non è sbagliata ma solo estremamente semplificata. Se ne stanno occupando fisici teorici di tutto il mondo, attualmente al lavoro su modelli matematici come il Modello Standard Supersimmetrico Minimale con parametri complessi (o cMSSM) o il modello di concordanza cosmologica, ΛCDM, che si legge «lambda-CDM» e ha per elementi costitutivi la materia oscura fredda e la costante cosmologica. Oh, siete stati a voi a chiedermelo! Come dite? No? Ah, ok.

MERIDIANO DI SANGUE O ROSSO DI SERA NEL WEST DI Cormac McCarthy

Meridiano di sangue o Rosso di sera nel West, di Cormac McCarthy (Autore), Raul Montanari (Traduttore), Einaudi, Torino, 2014, ed. originale: Blood Meridian or The Evening Redness in the West, 1985 

Il meridiano di sangue è una traccia scritta dagli eventi per opera dei protagonisti. La mappa del mondo è raffigurata con i radianti delle ossa e gli angoli delle armi. Il corpo umano è quello degli Stati Uniti in formazione. Le configurazioni statuali figliano involucri di pus e di sangue disseminati tra la terra e l’acqua che viaggiano tra est ed ovest, crollando uno dopo l’altro, fornendo un linguaggio e un senso dei confini, attraverso la consunzione e la decomposizione.

Il ritmo della narrazione è scandito dal timbro della violenza. Ogni trama è descritta dall’offesa della natura contro gli esseri viventi. Le vite sono pollini sparsi dall’Atlantico verso l’Oceano Pacifico, con pochi che germogliano, e la massa che invece crepita nel baratro, collassando tra la crudeltà, il sadismo, e la vacua razzia, aggrappandosi a scheletri di trofei macilenti e velenosi.

Vi sono richiami storici ben precisi, e per noi europei quasi oscuri, circa la storia dell’America del Nord, riguardo la guerra civile degli Stati Uniti d’America (detta da noi impropriamente guerra di secessione), le lotte decennali tra l’ex impero spagnolo e francese, gli agglomerati statuali transitori e in perenne conflitto tra quelle nebulose chiamate Louisiana, Messico, Texas e gli stati centrali e dell’ovest dell’Unione di recente formazione, fino alla California.

Ricordando comunque che già dapprima vi erano guerre senza fine tra i creoli, gli ispanici, le varianti che noi facilmente e in modo superficiale denominiamo Apache o Sioux, i Comanche identificandoli semplicemente come indiani, attraverso i film Western del secolo scorso. No, i complessi gruppi ed etnie stanziali prima dell’avvento degli spagnoli, dei francesi e degli inglesi, e poi di tutta quella sterminata immigrazione senza patria dell’ottocento, erano già agglomerati in conflitto ed ibrida mutazione.

Lo stile di scrittura è piano e lineare e paradossalmente con pochi superlativi. Di prima impressione sembra sia costellato da ritmi giornalistici, di cronaca addirittura, per planare su resoconti storici indiretti con nomi nascosti di generali, di personalità del periodo, che per il lettore veloce e superficiale sembreranno gettati così senza un criterio. Si passa dalla cronaca di eventi bellici, fino alle narrazioni dell’uomo settecentesco che affronta una natura ostile alla Robinson Crusoe.

Questa capacità istrionica è sublimata in una forma di romanzo, che è incorniciata dalle descrizioni ambientali delle Montagne Rocciose, e relativi dirupi, con un’alluvione di termini geologici, botanici, nonché zoologici. Vi è una capillare descrizione etnologica dei gruppi etnici, e delle bande, oltre degli eserciti che lottano tra loro. Emerge una visione antropologica dei modi di vivere degli agglomerati, posti, indipendentemente dalle loro dimensioni, tra il deserto, i boschi, il freddo, la siccità, in un oceano di ostilità, dove l’orizzonte è un continuo generatore di pericoli, di nemici: un bardo del dolore e della morte.

I protagonisti sono coraggiosi e capaci, che agiscono senza enfasi. Quasi in un richiamo ipnotico si avverte l’impressione di leggere stanche descrizioni di marinai anziani seduti davanti al caminetto raccontando dei tempi che furono, gli argomenti trattati e gli eventi sono lo spasimo. Almeno all’inizio, perché poi, appena si entra in questo mondo, non vi è un attimo di tregua. Il ritmo varia in un crescendo di azione violenta, su scenari di orrore e di morte.

La crudeltà è il pendolo che oscilla tra un vortice di sadismo e di una assurda tranquillità, nella quale i protagonisti quasi morenti e in sofferenza estrema, riflettono sulla loro condizione, sull’etica, sul senso del proprio agire. Il dolore e l’angoscia della propria scomparsa, aprono la possibilità di un tono lirico, e veramente letterario tra il tragico, il poetico, il drammatico.

Non si salva nessuno: ognuno di loro uccide, imbrattato di sangue e di repellenza. Appare pulito e accettabile nel raffigurarlo esteticamente, il personaggio che non subisce la morale e la compassione, e che cerca di rimanere integro alle pallottole, alle coltellate, alle frecce, alle ferite invalidanti, tra la bile e il vomito.

Anche chi riesce a razziare, a portare gli scalpi e vendere le orecchie e le teste essiccate, sperpera il ricavato in veleni d’alcool e d’azzardo che portano alla rissa, all’omicidio, alla prigione, alla morte subita quasi senza senso dal compagno dell’ora prima, che uccide totalmente ubriaco, in una abiezione sessuale che comunque porta all’infezione.

Non vi è una giustificazione: l’avidità e la ricerca del piacere perverso non sono nobilitati, e non sono descritti come ciò che ottunde la ragione, salvando quindi la razionalità, bella e buona. No. Questo è un romanzo che affronta di petto la cattiveria, l’altra parte del cuore nero che tutti abbiamo e che cerchiamo di delimitarlo con questa linea di sangue. Sì, perché questo meridiano è disegnato nel cuore di ogni essere umano.

Oltre la violenza fisica e immediata, vi è uno scontro sotterraneo tra una visione data da un protagonista che descrive il senso della storia, del vivere e del mondo in un piano amorale, e chi invece cerca di aggrapparsi ancora con un dito nell’altra parte del confine, essendo però, assassino e spietato come il suo interlocutore.

Non è una dialettica dove vi è la sintesi tra il protagonista e l’antagonista. Più che la sublimazione, si dissolvono e lasciano al lettore di immedesimarsi, con il tranello che alla fine si sta parlando proprio di lui. Ed è ovvio che quasi nessuno potrà definire compiutamente queste posizioni, perché l’oggetto del contendere siamo io e te. Il mio e il tuo cuore.

Lo scritto innesta uno studio etico in una opera letteraria, finemente cesellata nei termini americani, spagnoli, amerindi. Nessuno è innocente.

Vi sono riferimenti non tanto nascosti relativi alle interpretazioni metodiste e battiste degli Usa, oltre al mix cattolico inca azteco dei popoli del Messico, innestato nelle correnti animiste dell’universo degli indiani. Il tutto cozza contro riferimenti espliciti alle metafore del “Così parlò Zarathustra”, di “Ecce Homo”, e della “Genealogia della morale” di Friedrich Nietzsche, come anche nelle pagine finali, circa il richiamo alla danza della “Gaia Scienza”.

In prima e anche in una seconda lettura, risulta quasi immediata la considerazione che il romanzo voglia svelare la nudità dei rapporti sociali e della propria posizione rispetto alla natura, in un’escrescenza etica labile, usata per il più come tattica di sopraffazione.

Eppure i momenti più lirici e di consapevolezza, avvengono nei momenti in cui si ha bisogno degli altri per le cure, per un sorso di acqua, per un riparo dalle asperità climatica. L’aiuto è fornito indipendentemente da una transazione di scambio di valore monetario, perché in quelle condizioni alcunché ha un valore, se non la soddisfazione immediata delle esigenze della sopravvivenza.

Sembra che alla fine vincano quelli che sono “Al di là del bene e del male” e che dicano “sì” al vivere che è insensatezza,

MA

agendo in modo tragico nell’accettare il caos, che è crudele perché gli si vuole dare un senso, ricercano un contrappunto nella propria morale. Non è un caso, infatti, che dichiarando di non avere il cuore, e offrendo solo questo meridiano, tutto rimane svuotato, ciò loro stessi, e la loro capacità di rispondere. Chi è giudice, diventa il giudicato, e chi vuol essere libero, non ha più parole per dire se le proprie mani siano o no incatenate.

E qui il dilemma è consegnato al nostro meridiano personale, attraverso questo capolavoro di romanzo che non offre sconti.

CONSIGLI DI LETTURA: POIROT, Tutti i racconti

““Poirot. Tutti i racconti (Hercule Poirot) di Agatha Christie (Autore), D. Fonticoli (Traduttore), G. M. Griffini (Traduttore), L. Lax (Traduttore), Ed. Italiano 2012, Mondadori, Milano

Quando una copia muta divenendo altro dal modello originale, e trasfigurandosi in un capolavoro che esprime inediti sensi estetici.

Hercule Poirot con il suo correlato capitano Hastings all’inizio dei primi racconti, si riferiscono entrambi a Sherlock Holmes e al dottor Watson. Vi è un evento traumatico dovuto ad un assassinio, ad un furto, ad una truffa che portano a misteri circa l’autore, il motivo, gli eventi sotterranei concomitanti e passati, nella stessa dinamica del fatto criminoso.

Agatha Christie ne fu consapevole, e iniziò a scrivere i primi racconti brevi e a puntate per le riviste settimanali e mensili, come lo stesso Arthur Conan Doyle intraprese decenni prima, avendo un pubblico crescente di lettori e un aumento ininterrotto degli introiti. Agatha Christie ne fu un’ottima allieva: una delle scrittrici più prolifiche con un occhio rivolto agli aspetti imprenditoriali, organizzativi, editoriali, in particolare per i ricavi.

Poirot nasce per opposizione alle caratteristiche morfologiche e caratteriali di Holmes, sebbene il risolvimento del caso si ha per una trama che esprime una dialettica elementare di fondo fissa. L’evento snoda i ritmi del racconto tra il luogo familiare di Sherlock fino all’analisi del luogo, nella valutazione dei soggetti implicati, per poi ritornare nella dimora propria che è anche quella mentale, dove ritessere i racconti, le bugie, e gli echi attorno all’evento accaduto, per risalirne alla causa.

Tutto questo vi è anche in Poirot all’inizio. Negli anni successivi di pubblicazione dei racconti, le situazioni si fanno più articolate. Vi sono anche i comprimari, donne e uomini, che agiscono per suo conto, e durante alcuni passi, lui rimane nello sfondo. Se entrambi sono razionali, analitici ed esprimono il senso sperimentale delle scienze tra la fine del secolo diciannovesimo per l’inizio del ventesimo, nelle pratiche investigative, Sherlock, però, era un drogato ciclotimico maniaco depressivo, mentre Poirot è un maniaco dell’ordine, estremamente controllato e attento alla sua salute e alla esteriorità ed eleganza.

Sherlock amplia le sue conoscenze enciclopediche in funzione del risolvimento dei casi, mentre nei periodi di stasi è quasi catatonico. Poirot, invece, seleziona le sue vaste conoscenze in funzione delle esigenze di investigazione, per la sua irresistibile curiosità. Entrambi sono vanitosi e ci tengono ad essere considerati i più abili investigatori del loro tempo, sebbene Sherlock in modo indiretto, a differenza di Poirot che lo esige.

Fin qui si potrebbe dire che Agatha Christie abbia fornito una eccellente copia, innovativa, con estro ed agilità nello stile di scrittura. E forse vale solo per i primi racconti, ma ella scrisse di Poirot all’inizio della prima guerra mondiale fino al 1939. Ella è di due generazioni più avanti rispetto ad Arthur Conan Doyle. I suoi personaggi diventano sempre più complessi. In Sherlock Holmes le donne acquisiscono una autonomia intellettiva però rivolta ancora al male, e allo straordinario, e man mano hanno sempre più possibilità di studiare, agire, riflettere nella trasformazione dell’epoca Vittoriana. In Agatha Christie le donne acquisiscono ruoli lavorativi ed istituzionali sempre più avanzati, segno del progresso generale del primo novecento e anche della sensibilità ed estrema intelligenza, nonché dello spirito di osservazione da vera ricercatrice sociale di Agatha Christie. Non si hanno solo i personaggi neri della donna d’amore malato e della arpia rapace, ma anche delle segretarie estremamente capaci, delle donne che collaborano con Poirot per incastrare i colpevoli, rischiando in prima persona, assieme alle forze dell’ordine. Compaiono vedove e donne sole che amministrano beni, e tengono su le famiglie contro i rispettivi mariti, figli, e amanti inetti.

Consapevole del suo pubblico, e della necessità di guadagnare, lentamente, Agatha Christie con ironia, rende quasi naturale che le donne avessero un ruolo letterario e sociale sempre più vicino per le capacità, i diritti, le possibilità a quelle degli uomini. Irresistibile nel sarcasmo circa le mode del secondo ventennio del ventesimo secolo, dai vestiti, alle musiche, alle abitudini, alle convinzioni rese ridicole della tradizione, non in modo polemico, con invettive dirette, ma nel rendere ridicoli i parrucconi con un perfetto humor inglese.

Agatha Christie registrava i nuovi modi di interagire rispetto alle abitudini delle classi sociali più elevate in Gran Bretagna, rendendole accessibili verso gli strati della borghesia che si allargavano sempre di più. Questo è uno dei fattori del suo successo. E il bello è che il fustigatore è quello snob belga quasi sempre fuori tempo di Poirot, che, con il suo sguardo tagliente, ma involontariamente ridicolo, aderiva indirettamente alla tradizione elitaria, e moralistica inglese.

Cambiano i collaboratori di Poirot, e anche i tempi della narrazione in cui il passato e il presente delle sue gesta si mischiano, e così anche i poliziotti con cui collabora: all’inizio tronfi, sciocchi, incapaci ed ottusi, fino ad acquisire una propria autonomia di azione e di supporto al nostro protagonista.

Come Sherlock che pian piano mostra le trasformazioni urbanistiche, lo sviluppo industriale e tecnologico dell’Inghilterra e in particolare della città di Londra, così è anche per Poirot, ma in quest’ultimo vi è un’attenzione agli arredi, alla vita materiale, anche di tutta la Gran Bretagna e di altri luoghi d’Europa. Poirot va nel continente più volte, e anzi anche in Egitto. Agatha Christie ci offre piccoli quadri delle dinamiche sociali dell’epoca. Il lettore ne sente i profumi, i colori, l’arredamento delle case vissute, gli odori dei cibi.

Conan Doyle fu dapprima un giornalista e poi uno scrittore eccellente. Fu la sua fortuna nel creare racconti con più registri linguistici accessibili ai lettori. Agatha Christie acquisì la stessa abilità, ma non può essere inscritta solo in questa poetica di scrittura. In base ai personaggi cambia lo stile: da quello diretto e gergale in stile realista, a quello finemente psicologico, fino a comporre descrizioni decadenti dal punto di vista estetico, per poi lanciarsi in velocità verso ritmi d’azione quasi poliziesca moderni. Riesce a condensare tali stili in un unico racconto, disponendolo in un ritmo che armonicamente pone in una successione lineare e continua gli eventi.

I racconti potrebbero essere apprezzati ancor di più, se in concomitanza fossero letti in lingua originale. Si avverte quasi subito, di come Ella assorbisse nuovi termini anche di uso quotidiano e gergale e li innestasse nelle forme canoniche di interpretazione, fornendo però in modo discreto una sua interpretazione che è un doppio inganno, perché le rende a prima vista naturali, benché siano una sua creazione compositiva. E qui è la sua grandezza: è una generatrice continua di dialettismi gergali che attraverso la sua opera quotidiana, diventano frasi comuni, per condensarsi in veri e propri schemi letterari di scrittura.

Agatha Christie è una vera Maestra di scrittura con la “M” maiuscola, che, nel contempo, permette la fruizione estetica della lettura, di un genere che attraverso il suo minuzioso lavoro quotidiano ha generato solchi narrativi e visivi ancora in opera oggi. Con dietro il suo personaggio Hercule Poirot che se la ride soddisfatto, bevendo una tisana calda, con i piedi davanti al calorifero a gas, così regolare nelle sue linee, a differenza del disordinato, rumoroso e puzzolente polveroso camino a legna.

CONSIGLI DI LETTURA: NEL PAESE DELLE ULTIME COSE

“Nel paese delle ultime cose (In the Country of Last Things) 1987, Ed. Italiano 2018, Einaudi, Torino, di Paul Auster (Autore), Monica Sperandini (Traduttore)

Con Paul Auster si respira alta lettura con un’aria di montagna che non lascia spazio a pigre sensazioni. Si arriva subito in una posizione panoramica che invita ad una lettura che segnerà il proprio senso estetico.

Soltanto per la sapiente commistione di stili, questo romanzo è un capolavoro. A prima vista sembra una lunga lettera che però assume, nel corso della lettura, la struttura di un lungo diario. Nelle prime pagine è narrato nel tempo presente, ma è intervallato nei salti temporali e nelle spiegazioni circa gli eventi generali che oltrepassano le gesta dei momentanei protagonisti in una narrativa di memoria.

È un diario di bordo, perché la narratrice man mano che prosegue nella descrizione delle sue avventure, colloca i luoghi e le vicende in una spirale, in cui ella ne diviene parte. Il punto di vista dell’esterno e lo spazio di confine, nel flusso delle parole, sono risucchiati all’interno del luogo circoscritto: il paese delle ultime cose.

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Paul Auster descrive con una eccellente capacità i personaggi attraverso una tecnica che rimanda alla descrizione dei tratti somatici e dalle loro posture in linea con la tradizione dei romanzi psicologici dell’inizio del 1900. Però non si ferma solo in questa linea di presentazione: ed è qui che mostra di essere uno scrittore di altissimo livello. La narratrice descrivendo i personaggi, nel contempo, attribuisce qualità morali e caratteriali che non hanno soltanto lo scopo di inquadrare ed eventualmente collocare la figura in un quadro che delinea l’eroe, l’antieroe, il buono, il meschino, perché le loro inclinazioni ed attitudini variano di scopo e di valore. Il mutamento è in relazione ai continui climax di sopravvivenze cui sono sottoposti.

Vi è una tecnica sopraffina nel ritmo della scrittura che offre dapprima un quadro morale sicuro in cui collocare i tipi e indurre le loro eventuali azioni, il quale, in modo sotterraneo con i richiami del loro passato, è trasformato in un complesso di cause efficienti per gli avvenimenti che da lì a poco appariranno. Le figure topiche che via via scorrono, lasciano emergere nuovi luoghi di narrazione che proiettano il diario di memoria, e quindi al passato, in un fiume del presente. Il lettore è accompagnato in questa navigazione, senza che perda il pathos e il godimento estetico derivato dalla fruizione del testo, per soffermarsi a ricollegare le situazioni e le condizioni che hanno generato i singoli eventi.

Paul Auster dispiega una palestra dotata di infinite risorse conoscitive e di strumenti per chiunque voglia esprimere il suo mondo interiore nella forma della scrittura. In primo luogo, in forza diaristica, quindi personale, e per avventurarsi nell’acquisizione e nella produzione autonoma di propri stili espressivi.

Gli ambienti acquisiscono una vita propria che è dipinta dalle metamorfiche caratteristiche fisiche e morali dei personaggi. La narratrice entra ed esce dagli avvenimenti, perché in un primo momento configura un timbro complessivo di questa cascata sovrabbondante di stimoli che in modo alternato fa scorrere i dialoghi nei momenti topici. In seguito trasla gli scenari in un participio passato per riassumere il vortice di caduta di questo paese in un capolinea: la linea sicura cui il lettore possa appoggiarsi nel mantenere un filo temporale compiuto.

Il lettore ha in dotazione la possibilità di poter modificare la vista del paesaggio in negativo, a colori, in bianco e nero, di vederlo muovere o di collocarlo in un fermo immagine, e tutto ciò accade nello spazio di uno o due pagine. La bellezza di questo romanzo, è che nella lettura, se ci si lascia appassionare, non vi è bisogno di soffermarcisi, o di accorgersi di questa giravolta stroboscopica dei punti di vista.

La protagonista, ama, odia, dispera, reagisce, avanza in modo tenace anche nel dolore e nello scoramento. Gli avvenimenti accadono sull’orlo di un baratro, in una tensione per la quale si possa perdere tutto: cose, persone, ricordi, criteri di ordine delle relazioni sociali. Vi è una spasmodica ricerca di ordine e di senso, per definire una prospettiva verso il futuro, all’interno di uno stato carcerario di continua sopravvivenza, ove sembra impossibile uscirne.

Il fiume non si ferma, sicché si cerca di galleggiare tra i flutti delle onde su una zattera che affonda. Si afferra un suo relitto, che successivamente è travolto da una nuova tempesta. Si cerca, allora, un appiglio a ridosso di scogli taglienti, ma anche qui ricomincia l’instabilità.

Vi è il tempo che divora. Questo paese si vuol mostrare come un luogo in cui i bimbi decidono di non nascere e i vecchi di non trapassare. I secondi sono cannibali, cloni di Crono, e i primi olive avvizzite cadute dal ramo, prima della trasformazione in olio.

La trama del romanzo è definita da una metafora della scrittura che oscilla nell’invenzione del mondo, e nel tentativo di descrivere quello che è presunto reale, cadendo quindi nella onnipresente contraddizione di scrivere del fantastico, e di definire in modo infondato ciò che non lo è, partendo proprio dall’invenzione. È una prigione dalla quale è impossibile uscirne.

Ciò spiega allora il modo indiretto in cui sono sovrapposti gli stili. È impossibile dichiararli compiutamente in un elenco esplicito, perché diverrebbero un polo dei due di questa insanabile contraddizione che appare in un regresso all’infinito.

Ed è qui che il tempo della narrazione, nel suo complesso, si svolge in questo vortice senza fine di distruzione di senso, se non in quello della contraddizione, che è l’ultima stazione degli eventi cui è impossibile ripartire.

Vi sono situazioni che richiamano le tragiche e mondiali vicende accadute nella prima metà del novecento, e quelle attuali tra gli anni settanta e ottanta, coeve alla generazione dello scritto. Si parla di ieri e di oggi, perché appunto qui sono entrambi fermi in questo “fine” capolinea.

È un romanzo che suscita forti emozioni e impegna il lettore a sostenere questa integrale tensione fisica che però dona la possibilità di sublimare la sensazione di greve precarietà che avvolge ognuno di noi. Siamo tutti sorelle e fratelli in questa grama condizione che lascia trasparire qualche fiore nelle paludi delle lacrime. La bellezza che strugge.

È sentitamente consigliato avventurarsi in questa tremenda consapevolezza, avendo comunque accanto la narratrice che ci protegge e ci accompagna durante la lettura.

CONSIGLI DI LETTURA: LA RAGAZZA DELLA PALUDE

LA RAGAZZA DELLA PALUDE, di Delia Owens (Autore), Lucia Fochi (Traduttore), Solferino Editore (2022), Rizzoli, Milano, ed. originale in lingua inglese, 2018

Non è un caso che appena uscito, fu un successo per tutto il mondo anglosassone e poi europeo, e da cui fu tratto un film, famosissimo. Il romanzo, però, al di là delle stesse intenzioni dell’autrice, ed è questo il bello delle opere mirabili, è ben più articolato e denso del film e della pubblicistica. Qui siamo innanzi all’evento di questa ragazza che oltrepassa il suo luogo d’ideazione e diviene veramente la “La Ragazza della Palude”.

Gli anni vanno e vengono nella narrazione come onde, flutti e riflussi sulle coste. Ritornano lì nel pantano, e tutto ritorna accolto nella palude. La mappa fornisce i luoghi topici e mitici. La città è una escrescenza tra l’oceano, la pozzanghera, l’umido e il fiume, conservata per poco dal sale, e poi corrosa. Tra schiume del tempo e brezza del ricordo.

In quel luogo vi è la ragazza della palude che ognuno abbandona nella solitudine. Però, lì, quasi tutti ritornano. Nel pantano le onde e i rami schiumano, interrompendo il loro flusso ben coordinato e veloce rispetto allo scandire del tempo. Ciò che sembra lineare, nel pantano sembra arrestarsi. Acqua, fango, uova di uccelli, molluschi, insetti, rami, radici, foglie morte, ognun si tampona con l’altro. Il grande cumulo, dove anche i secondi restano intrappolati nella sabbia che, accogliendoli e disgregandosi, inclina lo spazio, e lo proietta in una immagine statica, senza che vi sia movimento: in modo carsico. L’acqua pian piano fluisce e lega ogni oggetto in un groviglio, vivo o decomposto, in un grande grumo, che continuamente si dispiega, in una metamorfosi di insetti, di larve, di fusti d’acquitrino, di alghe, di pesci che lì stazionano e nascono. È una danza da fermi che roteando genera strutture ben più corpose, come le aree costruite dagli uccelli migratori e da quelli stanziali, i quali, come provetti carpentieri, impastano l’acqua nell’edificare le spiagge, i nidi, gli isolotti e le dighe.

Prede e predatori lì convergono, attirati da tutti i loro secondi impigliati.

Delia Owens, prima di scrivere il suo romanzo d’esordio, e anche dopo, è stata una valente etologa e ornitologa, e lo si nota dalla descrizione minuziosa degli animali, dei pesci, degli insetti, i quali agiscono, entro e con la palude, assieme ai personaggi canonici.

L’ecologia, intesa come un nido d’infanzia, la casa di cura e di nascita, segue un filo narrativo parallelo con le azioni dei singoli, oscillando su intervalli temporali che, come il giorno e la notte della nebbia e della rugiada della palude, vanno avanti negli anni e ritornano indietro. Gli eventi iniziano in modo invertito, collegandosi con situazioni accadute mesi e decenni prima, e viceversa. Il perno di questo vortice temporale che conferisce la stabilità alla narrazione è LEI: la ragazza della palude. La fragile bimba vessata ed abbandonata, disprezzata, osteggiata, isolata, che, però, trae da sé stessa le forze e le capacità per sopravvivere e crescere e venire in relazione con ciò che è al di fuori della palude, nel tempo della società. Quella particolare comunità che però ondeggia tra il fiume e l’oceano. Due canne d’acqua in balia delle onde del tempo, delle quali, la palude, è ancor di più, a pelo d’aria e d’acqua, sospesa tra il reale e il fantastico, che risponde nel mito, nel ricordo e nel racconto.

Quando la ragazza della palude è estremamente debole ed indigente, fortunatamente riceve l’aiuto di alcuni, che però, guarda caso, sono anch’essi quasi reietti dal mondo del tempo lineare. E quando acquisisce l’autonomia, altri ancora, però, tentano di sopraffarla e acquisirle la vitalità, l’eccitazione e la propria affermazione. La palude e la ragazza sono i luoghi in cui l’inconscio di ogni personaggio emerge nei lati non visti e non espressi magari, volutamente celati, oppure strenuamente perseguiti.

All’inizio il romanzo assume uno stile quasi dell’ottocento, nel raffigurare una famiglia disgraziata, con l’abbandono di questa figlia. Dopodiché assume il tono di un thriller, fino a quello del mistero, passando per l’avventura della sopravvivenza, ma poi declina in una descrizione etologica di tutti gli esseri viventi, non fredda, ma partecipata e quasi compassionevole. Il lettore si ritrova a convivere con famigliarità in questo ambiente di più dimensioni temporali dove i mutamenti non si disperdono, ma si raccolgono in quella memora ciclica di nascita, crescita, mutamento che è la palude, con il suo ingresso che è il pantano: il luogo che risponde alle proprie inclinazioni. Dure, crudeli, di riparo, edificanti, in base agli angoli nascosti dei protagonisti.

È anche una storia indiretta del sud degli Stati Uniti, visti però da lontano, dove gli avvenimenti giungono sfocati, lenti, in punta di piedi e questi subiscono l’erosione dell’ambiente salino, salmastro, sornione della palude. La riposante umidità che ipnotizza, impigrisce, richiama, affonda, e fa naufragare le parole a una sola dimensione. Si riesce a muoversi e a vivere, solo se si ha la capacità di osservare la realtà e di comprendersi in più livelli interpretativi. I ruoli si moltiplicano nello stesso personaggio, connettendosi, però, attraverso contorni laschi e sfumati.

Violenza, delitto, amore, passione, fuga, tristezza, dolore, speranza, eroismo, generosità, tutto vi è un questo quadro che prende vita ogni volta che il lettore ha la spinta a percorrerlo. E lì quell’incrocio tra il fiume e l’oceano ad esprimere questa comunità piccola e modesta, ma universale tra l’angoscia della caduta, il timore dell’attacco, la speranza del guado, come è appunto la vita di una libellula d’acqua, cioè la ragazza della palude.

§CONSIGLI DI LETTURA: MONDI SENZA FINE

Mondi senza fine, 2023, Urania, Mondadori, Milano, di Clifford D. Simak (Autore), Davide De Boni (Traduttore)

Il volume contiene 4 romanzi di Clifford Donald Simak: “Oltre l’invisibile”; “City”; “Way Sation” e “L’Ospite Del Senatore Horton”. Sono contraddistinti da una narrativa immaginifica con un senso della meraviglia, che invita il lettore a espandere il suo orizzonte visivo nel cosmo, mentre ci si immerge nel profondo dell’animo umano.

Il cuore del singolo e l’infinito del cosmo che convergono in una domanda: “Perché io Esisto?” e “Cosa è l’umanità?”

Domande terribili, che, però, sono dispiegate in una narrazione fantascientifica, evocativa, pudica e discreta, con una poetica magica, che effonde una pacifica suggestione di rilassatezza e di buona disposizione a pensare l’incertezza.

È impossibile leggere questi romanzi in modo distaccato, perché l’autore esige la collaborazione e la compassione del lettore rivolta a tutte le creature viventi e a quella particolare manifestazione del cosmo che è l’uomo, anche nelle sue gesta violente e distruttive.

Vi sono domande radicali, cui il lettore non può evitare di interrogarsi. Nel romanzo “Oltre L’invisibile” è posto principalmente il tema della presunta superiorità e del diritto dell’essere umano di disporre di ogni essere vivente dell’universo.

59-60 “ […] «Per farla breve,» proseguì Stevens «siamo portavoce dell’idea che agli androidi dovrebbe essere garantita l’uguaglianza con il genere umano. Di fatto, sono umani sotto ogni aspetto tranne uno.» «Non possono avere figli»

[…]

«Migliaia di anni fa è stato cancellato ogni legame di schiavitù tra esseri umani biologici. Ma oggi esiste un altro tipo di schiavitù, che lega l’umano fabbricato a quello biologico. Perché gli androidi sono una proprietà. Non vivono come padroni del proprio destino, ma al servizio di una forma di vita identica alla loro… identica sotto ogni aspetto, tranne per il fatto che una è biologicamente fertile, mentre l’altra è sterile» […]”

203-204   Tutta la vita possiede un destino, non soltanto quella umana. Esiste una creatura del destino per ogni altro essere vivente. Per ogni essere vivente e anche di più. Aspettano che la vita accada, e ogni volta che si manifesta una di loro è lì, e ci rimane fino alla conclusione di quella specifica vita. Non so come, né perché. Non so se il vero Johnny sia alloggiato nella mia mente e nel mio essere o se rimanga semplicemente in contatto con me da 61 Cygni. Ma so che è con me. So che resterà.

“City. Anni senza fine” si compone di una sapiente architettura di racconti mitici circa l’esistenza della presunta “razza umana”. E qui si arriva alla definizione del ciclo della nascita e della morte di ogni età del mondo, e delle specie viventi in essa coeve. Il timore della memoria e della ricerca di senso di ciò che si è stati e dello scopo di ogni senziente è mostrato, in una riflessione dolorosa, sperduta, alla ricerca di almeno una rispondenza temporale della veridicità del proprio esser stati in vita.

622-624 “”[…] «Ci sono altri mondi là fuori,» stava dicendo Andrew «e in alcuni di essi c’è vita. E persino una qualche forma di intelligenza. C’è del lavoro da fare.» Non poteva trasferirsi nel mondo delle ombre in cui si erano stabiliti i Cani. Molto tempo prima, quando tutto era iniziato, i Webster se n’erano andati per far sì che i Cani fossero liberi di sviluppare la propria civiltà senza interferenze da parte degli umani. E lui non poteva essere da meno rispetto ai Webster, perché anche lui, dopotutto, era un Webster. Non poteva intromettersi nelle loro vite; non poteva interferire. Aveva tentato la strada dell’oblio, provando a ignorare il tempo, ma non aveva funzionato, perché nessun robot poteva dimenticare. Si era convinto che le formiche non avrebbero mai avuto importanza. Si era risentito per la loro presenza, certe volte le aveva persino odiate, perché se non fosse stato per loro, i Cani sarebbero stati ancora lì. Ma adesso si rendeva conto che tutta la vita aveva importanza. C’erano ancora i topi, ma quelli stavano meglio da soli. Erano gli ultimi mammiferi rimasti sulla Terra, e non dovevano esserci interferenze. Loro non ne volevano e non ne avevano bisogno, se la sarebbero cavata bene. Avrebbero forgiato da soli il proprio destino, e se il loro destino non fosse stato altro che rimanere semplici topi, non ci sarebbe stato niente di male in questo.

[…]

 Col tempo non ci sarebbe stata più nessuna casa, ma solo un tumulo d’argilla a contrassegnare il punto in cui in passato ne sorgeva una. Tutto derivava dal fatto di aver vissuto troppo a lungo, meditò Jenkins – aver vissuto troppo a lungo e non essere in grado di dimenticare. Quella sarebbe stata la parte più difficile: lui non avrebbe mai dimenticato. Si voltò e riattraversò la porta e il patio. Andrew lo stava aspettando ai piedi della scala che portava a bordo dell’astronave. Jenkins tentò di dire addio, ma non ne fu capace. Se solo avesse potuto piangere, pensò… ma i robot non potevano piangere […]”

“Way Station. La casa delle finestre nere” accoglie tutti noi in una sensazione di struggimento, nostalgia di amore, di una civiltà, del tempo, il passato e il presente, che si confronta con l’eternità, per venirne a patti. Il dilemma scaturito dalla consapevolezza che la mortalità ha le idee, i pensieri, la memoria, le aspirazioni, la fantasia.

Se diventassimo immortali, d’altro canto e se fosse impossibile cambiare il proprio sé rispetto ai tempi più lunghi imposti al proprio io e alla propria mente, ciò colliderebbe con la nostra specifica individualità: la nozione dell’<Io>. Simak suggerisce che il sottoscritto, voi, e ogni mortale che ancora deve nascere, ha dei limiti nella sua evoluzione.

Il dubbio che l’evoluzione trascenda la mia intelligenza: informa che io sono destinato a diventare un passato, ovvero una parte di ciò che avverrà, o semplicemente di comporsi in un magma che sprofonda nell’oblio.

La volontà di sopravvivere, mantenendo la memoria e la biografia del proprio animo, nella sua tensione di espandersi verso il tutto, ha la sua evoluzione in una sublimazione in un futuro che ingloba il passato.

Il mortale, quindi, ha come suo elemento costitutivo la perenne oscillazione di senso tra l’oblio e la negazione della realtà come altra da sé. Si rimane quindi imprigionati in questo dilemma, avendo la tentazione della scappatoia verso la morte. Con il terribile timore che l’eternità  possa soltanto promettere l’angoscia del fallimento.

Certamente Simak non pensava nel modo in cui il sottoscritto sta radicalizzando i suoi intenti e la sua poetica, ma egli è un grande scrittore che supera il genere della fantascienza, perché i suoi romanzi sfuggono dalle sue stesse premesse e intenti. Diventano dei classici. Acquisiscono una vita propria e si nutrono del fascino e delle sensibilità del pubblico che sopravviene nel tempo e nei luoghi ulteriori a quelli di riferimento all’atto della pubblicazione dello stesso autore.

I suoi romanzi hanno un lirismo poetico, una struttura mitica, una passione commovente nel cercare un abbraccio di consapevolezza circa i propri dilemmi, verso qualunque essere umano, anzi oltre esso: qualsiasi forma del vivere.

Sono il protagonista del mondo? Certamente i valori, i criteri della verità sono tali, coerenti e adeguati entro la mia specie, che si vede unica e il resto dell’universo un residuo. Mi concedo, quindi, il lusso di guerreggiare e distruggere. Ma l’intelligenza e l’idea dell’anima, questo mio “io” e “destino” correlato, sono i punti insondabili di ciò che è la rappresentazione del mondo. Oppure ne sono un epifenomeno tra i tanti? E quindi ancora la nozione del vivere e la rappresentazione di esso, nei modelli di vita, non potrebbero essere di più e diversi da noi?

L’insignificanza, ancora prima dell’oblio, comporta in questi romanzi, dalla paura della supremazia del primo romanzo, a quella della estinzione del secondo, al terrore della propria insignificanza nel terzo, la percezione dell’abisso e nel contempo la visione di una prospettiva più ampia dell’universo. Fino alla irresistibile richiesta di un perché della realtà nel quarto romanzo “L’ospite del senatore Horton”.

E qui che vi è il poetico e lo struggimento, perché Simak utilizza la vastità delle galassie per mostrare la periferia infima del nostro settore dell’universo e noi in esso, ma offrendo, con questa amara consapevolezza, un arricchimento del proprio vivere, qui ed ora.

È impossibile che noi non ci si possa porre le domande sul nostro senso dell’essere, del luogo, e dell’anima, nonostante che l’insensatezza sembra essere l’unica conclusione.

Eppure nei romanzi si mantiene un filo di speranza nel mantenere la memoria e una costanza di comprensione, ove il luogo è una semplice, pudica, ma universale compassione, forse anche al di là della volontà dell’autore. Tra i monologhi interiori, le domande retoriche, i picchi drammatici, le scene d’azione, sublimano in un lirismo in cui il proprio dolore di una nostalgia di ciò che non è mai accaduto e di ciò che da sempre fu impossibile sperare, rivela la capacità infinità di subire la sconfitta della morte, mantenendo l’attitudine a cantare e a poetare della propria condizione, tra il ritmo della caduta ultima, al verso stilistico dell’insignificanza.

L’accoglienza del dolore invita alla lettura, al richiamo, all’acclamazione di un segno di speranza all’infinito, in uno spiraglio di insensatezza eterno, tra gli spazi e i millenni.

I romanzi sono contraddistinti da una iniziale descrizione dell’eroe che, in primo luogo, esce fuori dalla comunità. È il deviante. Chi per il tempo, chi perché deve compiere una impresa per conto di potenti organizzazioni, ovvero quelle che costituiscono la trasfigurazione del “grande padre”. L’eroe intuisce il mistero, e in quell’istante diventa il pericoloso deviante.

L’uomo che viaggia nel tempo. Il mutante con i tre corpi. L’uomo immortale. Protagonisti solitari al limite del crimine e della follia. Ogni loro individuazione è aiutata dalla donna “Beatrice” che assume il ruolo di una guida, che offre un luogo, una risorsa, una parte umana di sé che riaffiora. Ella è sempre la figlia di un padre che è l’autorità, che dipende da quella organizzazione dove il protagonista ha avuto lo scopo e la missione. Ma che ritorna contravvenendo agli scopi iniziali.

Il deviante consegna un messaggio che rende insensato lo scopo iniziale e quindi la stessa organizzazione, ovvero la specie umana. La nazione che si crede la più potente. La razza umana che si crede di dominare le altre. Di essere unica. La razza umana che pretende la galassia. Ognuna di queste trame della follia, diventa arcaica, una facezia, un soffio d’aria dileguante.

Simak si interroga sul messaggio religioso del mistero. Non è un caso che gran parte dei nomi dei personaggi hanno riferimenti a caratteristiche di virtù, di inclinazioni, di debolezze, di luoghi che hanno avuto significati storici e religiosi. Tali assonanze sono poste in corrispondenza con le capacità, le attitudini, le capacità fisiche, e l’aspetto. Attraverso i termini scientifici, usa i miti medioevali, traslati in altri tempi, in altri mondi. Il mostro, il lupo, la minaccia del pericolo, e del male, che è proiettato fuori e che forse è dentro di sé. L’eroe difende i più deboli, e quindi cerca la parte più debole di sé.

È la canzone dell’eroe che cerca il Graal, tuffandosi nella realtà. Il protagonista sopravvive se la sua visione del mondo volge nel pietismo, nella compassione, e nell’accettazione dei limiti. È il messaggio morale nascosto di Simak forse a lui stesso non esplicito, ma che si trova nei decenni traslato in sempre nuovi romanzi.

§CONSIGLI DI LETTURA: STARPLEX

Starplex, di Robert J. Sawyer (Autore),
Mauro Gaffo, Traduttore, Urania, 1996,
Mondadori, Milano

“Starplex” è un crocevia di luoghi classici della fantascienza in ordine ai temi dei viaggi interstellari, alla natura delle leggi della relatività generale, e al destino degli esseri viventi e dell’intero universo, all’interno di un processo di acquisizione di conoscenze, attraverso gli stimoli e le domande che vengono calibrate dagli impieghi tecnologici.

È anche una riproposizione dei grandi afflati di democrazia, di apertura, di approccio con lo straniero e le culture “altre”, tipici degli anni sessanta, individuati da saghe come “Star Trek” e non è un caso il rimando indiretto del titolo del libro.

Le produzioni di fantascienza proiettano le storie e i conflitti individuali e sociali tra singoli e interi agglomerati statuali al di fuori del pianeta Terra, in luoghi in cui risiedono umanoidi o forme di vita radicalmente diverse che hanno però, comunque un nostro tratto tipico di comportamento e di valori, che induce a una relazione conflittuale e/o di collaborazione. Le vicende che avvengono tra le entità senzienti sono poi tradotte in avventure con un climax tale da indurre inconsciamente, e non, al lettore una valutazione morale ed etica delle questioni che riguardano direttamente il nostro vivere.

Se il modo di vedere l’esterno è quello di un confine di guerra, allora ogni forma d’intelligenza è un nemico, e quindi estendiamo la nozione di pericolo all’intero cosmo. La ricerca di cibo, di energia, di ambienti adeguati atti alla prosecuzione della nostra specie, si allarga a quella di ambienti interplanetari per arrivare a quelli ultra galattici.

Dalle tensioni derivate dalla volontà di acquisire il potere, di soddisfare i bisogni primari e quelli più evoluti, si esprime una dinamica di scontro e di dialogo tra le diverse razze e forme di vita al limite dei nostri parametri di loro riconoscimento.

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“Starplex” però offre un passo ulteriore di approfondimento che dalla iniziale antica domanda sul “chi siamo noi” umani su questa Terra e su questo Cosmo, e quindi nelle due divaricazioni tra l’origine e lo scopo, la si estende a porre tale questione a forme senzienti tremendamente più antiche e potenti, fino poi a porre in questione il destino dell’intero universo.

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Il tema è sviluppato nel corso della prosecuzione degli avvenimenti. E pone, quindi, dilemmi morali che riguardano noi terrestri, oggi, qui, sul pianeta Terra. Robert J. Sawyer è un canadese come gli altri suoi colleghi coevi sente il bisogno di indagare il tema del riconoscimento delle minoranze, delle culture altre, e di una convivenza aperta e reciprocamente fruttuosa. Ciò deriva dalle condizioni storiche, politiche e statuali della loro nazione di residenza. È opportuno precisare che l’autore non propone facili soluzioni che esortino a un vivere dove tutti si vogliano bene, in un mondo incantato costituito dalla collaborazione e convivenza stretta senza porsi in discussione ed affrontare il sistema dei valori e delle conoscenze in cui si è inseriti. Tale necessità non deriva da una adesione semplicemente volontaria e di abnegazione ma di una riflessione razionale per la quale, l’assenza di una volontà di condividere le risorse e le conoscenze, porterebbe comunque alla estinzione di ogni presunto contendente.

L’autore ha studiato in modo approfondito di astronomia, di meccanica aerospaziale di teoria della relatività. Il romanzo descrive scenari verosimili, pur all’interno di alcune ipotesi fantascientifiche. Tutto però è descritto in modo coerente, con azzardi ben congegnati e adeguatamente descritti. La lettura è anche un’occasione per comprendere le nostre nozioni riguardo la velocità della luce, la materia oscura, i modelli di descrizione dell’espansione o meno indefinita dell’universo, la struttura delle galassie, e infine l’uso della variabile temporale in un’ottica in cui il limite costante della velocità della luce sia posto in discussione.

È veramente immaginifico e nutre la creatività del lettore spingendolo ad immaginare scenari in cui si possa veramente trovare nelle situazioni dei protagonisti.

Il perno fantascientifico è relativo ai salti interstellari causati da una rete di scorciatoie artificiali che costella la Via Lattea e non solo. Ed è qui un punto focale che abbisogna di chiarire, perché gli stratagemmi del salto, del passaggio, del tubo magico, della singolarità che sono usati in innumerevoli racconti di fantascienza si basano tutti sull’idea di poter aggirare il limite della velocità della luce e quindi di uscire fuori dalla concavità del cono spazio temporale, e quindi considerare lo spazio come un punto e il tempo anche con una misura negativa, che comporta la possibilità, quindi viaggiare nel tempo.

Parliamoci chiaro: non è solo una questione di impossibilità tecnologica o di una mancanza di una teoria scientifica attualmente oscura. All’interno del paradigma relativistico in cui pensiamo, per viaggiare alla velocità della luce, o addirittura superarla, ci vorrebbe una quantità tale di energia che ammonterebbe a quella di tutto l’universo.

In un’ottica ipercritica si potrebbe considerare tale ipotesi abusata, pigra, di maniera, ma non se ne può fare una critica eccessivamente spinta all’autore, anche perché non sarebbe più un libro di fantascienza. A suo merito però si pone l’intenzione di discutere di tale natura di salto e di porre una spiegazione plausibile non tanto verso le relazioni dello spazio-tempo, quanto invece, sull’analisi della continua dilatazione dell’universo stesso in rapporto alla materia oscura. Ecco qui l’autore descrive ipotesi interessanti, pregevoli, coerenti rispetto alle ipotesi immaginifiche iniziali, ma coerenti rispetto al nostro bagaglio teorico effettivo.

Non descrivo in modo compiuto la trama e alcune vicende, perché il romanzo è denso di sorprese, e toglierei il piacere della lettura al pubblico. Posso soltanto suggerire alcune questioni di fondo che pone il libro, per chi volesse rifletterne in modo più approfondito:

  • Poiché l’universo ha più di 14 miliardi di anni, siamo così sicuri che la sua evoluzione è volta ad adempiere a uno scopo predefinito quali la creazione degli esseri viventi che hanno di base il carbonio e quindi giungere alla razza umana? Siamo davvero noi il picco della piramide evolutiva?
  • È proprio necessario reagire in modo automatico al sopruso, all’attacco violento, o a una azione di ostilità interstatuale? Non si può lasciar correre? Non accettare lo schema di azione e di reazione? Non è meglio invece rispondere in modo asimmetrico cercando invece la collaborazione, anche tenendo ferme le proprie possibilità di difesa? In altri termini, è proprio necessario che gli inevitabili conflitti che intercorrono tra forme aggregate debbano sfociare poi in azioni che abbiano sempre le etichette dell’odio e della rabbia

È un romanzo che fa respirare l’aria di montagna: fresca, tonda, e vivificante. Un’avventura verso noi stessi e le domande sul nostro destino.

Sia una meraviglia di lettura.

§CONSIGLI DI LETTURA: Tutto Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle

Tutto Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle
(Autore), Nicoletta Rosati Bizzotto (Traduttrice),
2010, Newton Compton Editori, Roma

Perché Leggere i romanzi e i racconti con Sherlock Holmes oggi? I testi di critica sono riprodotti su decine di chilometri di biblioteche. Le sue opere sono tradotte in una quantità sterminata di scene teatrali e successivamente di trasmissioni cinematografiche e televisive. Oggi le sue trame sono una costellazione lattea di figure topiche e in modi di dire.

In particolare per chi è più giovane ed è nato a ridosso della fine del 1900, è illuminante la lettura di tutta l’opera di Conan Doyle riferita a Sherlock Holmes per rilevare gli usi e i costumi del periodo, in un’ottica antropologica e comparativa. Molti dei termini e dei giudizi attribuiti alle persone, alle razze, ai rapporti con le divinità e le autorità, per noi, oggi, sarebbero considerati razzisti, orrendi, settari, sciovinisti, di un maschilismo millenario ordalico.

Lo stesso Sherlock in particolare nei primi racconti degli anni ottanta del 1800 era introdotto nelle sue fasi ciclotimiche di depressione, iperattività, fissazioni ossessive sui casi, o sulle sue ricerche di botanica, di chimica, di medicina, fino alla compilazione frenetica di informazioni quotidiane, in gran parte gravitanti in fatti luttuosi, disastrosi, criminosi.

Indagava in modo compulsivo con travestimenti e con stratagemmi in cui simulava anche eventuali malattie e stati prossimi alla morte, pericolosamente vicini alla realtà. Era un oppiomane e cocainomane, dipendenze poi sfumate nei racconti dopo il 1900 da parte dell’autore attraverso Watson, che in qualità di medico lo convinse ad abbandonare tali abitudini.

Oggi Sherlock Holmes sarebbe appellato con una lista poderosa di patologie psichiche e comportamentali. Watson, dapprima militare ferito, dipendente anche lui dalla morfina, poi sposato con una protagonista dei racconti, ma via via dimenticata, e quasi come se nulla fosse, egli ritorna a vivere con Sherlock. Consapevolmente o no, i due ripropongono la coppia degli eroi complementari, che, per rimanere entrambi protagonisti, e non assumere una inevitabile deriva antagonista, hanno abilità e deficienze, ognuna negativa dell’altra in modo tale che possano essere congiunte. Tale dialettica infinita che si avvita a spirale, è il motore che permette la prosecuzione del racconto.

Vi è una ripetibilità che parte da una scena di tranquillità omofila, in un rapporto tra i due, che oscilla tra il cameratesco, alla schietta amicizia, alla irritabilità di una coppia di lungo corso, ad un affetto dapprima paterno-filiale che si inverte a seconda dei racconti. Watson continua a svolgere la sua funzione di medico, e anche se nella tradizione appare come quello meno dotato, in realtà è un elemento necessario per Holmes in quanto, svolgendo il ruolo di cassa di risonanza, permette ad Holmes di svolgere in modo lineare le sue ipotesi per tradurle in un resoconto che ricostruisce gli eventi tragici nel loro svolgimento, nelle loro cause, determinando quindi la tipologia di reato e la gravità rispetto agli attori coinvolti.

Sì, i due protagonisti mutano comunque in decenni di racconti le loro caratteristiche, non solo perché il loro autore avanza di età negli anni, ma per lo stesso pubblico borghese che si espande, e richiede, quindi, una lettura sempre più vorace e frequente, anche per la maggiore reperibilità dei tabloid che fornivano pagine ulteriori dei racconti, dapprima pubblicati in edizioni più economiche per la relativa stampa e diffusione con strumenti tecnologici sempre più efficienti ed innovativi.

Comparvero in quei decenni sensibilità democratiche più spinte e istanze di piena partecipazione al vivere quotidiano, ed istituzionale di parti della popolazione sempre più ampie. E ancor di più del pubblico femminile che, in Inghilterra, non era più inscritto nel dominio dei romanzi d’amore in senso classico, in cui la protagonista subisce le intenzioni dell’eventuale amato e che risponde solo per reazioni ad una trama precostituita e a lei esterna. No: non è un caso infatti che nei racconti più maturi, le donne via via assumono un tono da protagonista, e non più da vittima, anche in quello di eroina negativa, ma non perché indotta da una sua deficienza emotiva, o da una moralità infima, ma per le sue capacità, volte al male e alla delinquenza.

Vi è molto dell’autore e della sua biografia nei due protagonisti. Tante abitudini e modi di vedere la realtà, appartengono a Conan Doyle, il quale fu un giornalista abile, uno scrittore che si interessò di scrivere di storia, appassionato di ogni novità scientifica, che in quei tempi esplodeva nei campi dell’archeologia, della biologia e della medicina. Avvertiva, anche per le sue esperienze di guerra e di viaggi in tutto il mondo, i punti di vista che l’antropologia culturale e l’etnologia offrivano nel comprendere i singoli e i gruppi sociali.

Questi racconti sono utili anche nel capire la tecnologia del periodo, la scansione del tempo che misura gli spazi attraverso le carrozze cittadine, i treni a carbone, la potente elettrificazione che nei primi racconti è assente, e quindi connotata dalle candele, per arrivare poi alle prime case illuminate. Dove ancora la prima fonte di calore è quella del caminetto, e si parla di borghesi quasi benestanti. Non è un caso che si fanno riferimenti alla cena fredda. Riscaldare le pietanze costava. E si cucinava una volta sola e per più piatti. Quindi ancora le soprascarpe e gli immancabili soprabiti da casa e le vestaglie per ripararsi dal freddo e per non sciupare i vestiti per uscire. Le strade erano piene di fango e di sporcizia. Tracce che Holmes rilevava per comprendere l’origine e le attività dei suoi interlocutori.

Il brandy era considerato una medicina, come pure il fumare i sigari e le pipe. La mole dei dati giornaliera aumentava ogni giorno. Non è un caso che Holmes cataloga eventi, scoperte di nuove specie, denominazione di nuovi composti rocciosi, specie batteriche, floreali, fino a quelle delle alghe marine. Noi con i nostri personal computer, e archivi digitali, per lo studio, il lavoro, il diletto, per diario, per hobby e anche per dati inutili che mai approfondiremo, siamo come loro.

Ecco il punto, e questo vale per chi è più anziano. Anche se la maggior parte dei quarantenni in su, non ha mai letto alcunché di Conan Doyle, però sicuramente avrà visto migliaia di film, ore di telefilm, vissuto in modo di dire, e assorbito una mentalità inconscia deduttiva, catalogante e calcolante, che Sherlock Holmes e anche Watson applicavano per conoscere, orientarsi nel mondo e risolvere i problemi, nella fattispecie ricostruire i casi.

Non vi era una eccessiva condanna morale di coloro che perseguivano i reati, affinché il pubblico borghese leggesse in modo più disteso, senza subire una pericolosa identificazione, nel rilevare i tic e le miserie morali degli eroi negativi. Da bravo artigiano cronista, giornalista, indagatore quale era Conan Doyle, attirava l’attenzione del pubblico meno acculturato e più facile alla distrazione, attraverso l’uso dell’ironia, dell’offerta di situazioni ridicole di contorno.

Compare allora il canone del “giallo” che si distacca dall’orrorifico, dal demonio e al conseguente annichilimento tragico di tutto e di tutti. Nella lotta laica tra il bene e il male del racconto “giallo”, tutto ritorna e deve essere ricomposto in una ripartizione di giustizia retributiva e proporzionale. L’ordine riporta la realtà, non la sublimazione dei protagonisti in figure implete. Ed ecco allora la ripetibilità della trama: la lotta diventa un rito, dove il mistero si presenta per essere svelato.  

Il racconto “giallo” londinese è quello della nebbia, in particolare mista anche allo smog che la faceva da padrone in quegli anni. La cronaca nera, lo scontro titanico tra l’autorità e il delinquente, il bene e il male, porta al mutamento radicale di tutto, e invece qui, lo scontro è interno al mondo, che è stabile, che muta e cresce. Il giallo quindi è la mancanza di conoscenza, di un percorso, di un perché degli eventi, di una ricostruzione di ciò che è appena accaduto. Ma si è sicuri, comunque, che tutto ciò esiste ed è razionale, e può essere ridotto in concatenati e logici elementi: “Elementare Watson”.

Il racconto “giallo” quindi determina una dialettica del racconto tra gli antagonisti che è volta ad una conclusione in cui la nebbia dirada, e quindi si ritorna all’evento accaduto, o quasi da compiere, inquadrato, nel come, quando, dove. La trama assume le vesti di una cronaca giornalistica, e di un perché (il livello giudiziario). Alla lunga è accomodante per il lettore, e induce alla pigrizia, ma non si è il caso di attribuire noi giudizi severi, perché il risolutore di cruciverba cosa fa? Chi guardia serie televisive simili? O chi legge saghe e cicli di libri dove già si intuisce un finale, come nelle attuali saghe “Fantasy”?

Saremmo ingenerosi, se inscrivessimo quest’opera soltanto in uno stratagemma innovativo per attirare i lettori. Vi è molto di più: questi racconti contribuiscono a creare uno stile moderno e per noi contemporaneo di ciò che definiamo borghese e laico, determinando inoltre l’apertura letteraria ed estetica alla donna in quanto soggetto senziente, sempre più lucido, e calcolante. Fattori per niente ammessi nei periodi indicati.

Arthur Conan Doyle è uno scrittore moderno perché apprende in tempo reale il complesso dei mutamenti che via via emergevano tra le tecnologie della produzione dei testi, la loro diffusione e fruizione, rispettivamente per quote sempre più ampie e diversificate del pubblico. Sperimenta una tecnica che diventa una nota distintiva del suo stile nel coinvolgere il lettore nel suo racconto, richiamando la sua attenzione, dialogando negli intermezzi della trama, per riannodare i fili e spiegare alcune azioni dei protagonisti e anche semplici modi di fare. Il tutto richiamando racconti precedenti in cui Watson a sua volta ricorda di averne scritto di queste avventure già accadute.

Insomma avviene un gioco degli specchi, in cui l’autore usa i racconti precedenti, richiamati dallo stesso Watson, che, a sua volta, in qualità di curatore del diario delle avventure e di sue pubblicazioni per il suo pubblico che è all’interno del racconto, delinea la biografia itinerante di questa relazione tra i personaggi e l’autore. Le avventure di Sherlock Holmes agiscono in modo centripeto, risucchiando la città di Londra, l’Inghilterra, l’Europa, nel cavallo di due secoli.

Più volte Watson scrive che Sherlock è morto, per poi rivelare che è uno stratagemma per le sue indagini, oppure scrivendo un altro racconto in un tempo traslato in quello dell’avvenimento che appare sempre più sfumato. Così Conan Doyle dichiara di voler smettere di scrivere di loro due, eppure nei decenni ci ritorna, con un tono sempre meno avventuroso e più lirico, per raggiungere le spiagge del mito, in cui le gesta sono collocate in luoghi atemporali, e senza più omicidi, in cui il mistero, il problema diventa il vero protagonista: la mentalità razionale e l’approccio di indagine sperimentale.

§CONSIGLI DI LETTURA: LA BRIGATA DEI BASTARDI.

La Brigata dei bastardi. La vera storia degli
scienziati e delle spie che sabotarono
la bomba atomica nazista, di Sam Kean,
Traduzione di Luigi Civalleri,
La collana dei casi, 2022, Adelphi, Milan
o

Prima ancora della trasmissione nei cinema del film “Oppenheimer” del 2023, questa ricostruzione storica in forma di romanzo, è sorprendente nel rivelare il gran numero di persone coinvolte, alcune impensabili, e altre dimenticate. Vi è un’ottima documentazione che parte dagli archivi dei servizi segreti delle nazioni che furono coinvolte nella seconda guerra mondiale.

Tutto ciò che è accaduto è reale. Personaggi, biografia, avvenimenti, avventure, esperimenti, vita privata. Persone famose come i ragazzi di Via Panisperna, la famiglia Curie, sportivi famosissimi un secolo fa, tutti, agirono per non permettere ai tedeschi di sviluppare la bomba atomica. Chi agì come una spia, chi intraprese attività di guerriglia durante il conflitto, chi, da lontano, accelerò nelle ricerche per nuove scoperte scientifiche.

Il libro ha una struttura di un romanzo con una grande quantità di protagonisti, l’uno ignaro dell’altro, ma tutti agenti in modo corale lungo gli anni. E sebbene la struttura narrativa dia l’impressione che sia immaginifica, in realtà le vicende narrate, sono tutte ben documentate, anche dagli stessi attori, mentre erano ancora in vita.

È un libro che trasforma resoconti di ciò che accadde in un insieme di storie parallele avvincenti che non inventano alcunché, perché la Brigata dei Bastardi fu un accrocco simile a una sporca dozzina composto da campioni sportivi, premi Nobel per la fisica, agenti segreti improvvisati, esuli militari e politici dalla unione Sovietica, e dalla Germania nazista, nonché dall’Italia fascista.

Alcuni mesi prima dell’inizio della seconda guerra mondiale in Europa e negli Stati Uniti cominciò a esser sempre più viva la preoccupazione che la Germania Nazista stesse compiendo velocemente la capacità di ottenere energia atomica atta per un a riconversione di tipo militare.

Tra alti e bassi di costituirono nuove organizzazioni di spionaggio coinvolgendo personaggi famosi alcuni, oscuri altri, diversissimi tra loro, ma consapevoli del pericolo.

Le vicende coinvolsero anche chimici e fisici che decenni prima scoprirono alcune leggi relative al comportamento fissile di alcuni elementi chimici e le correlative ricadute in ambito fisico. Mancava una concreta possibilità di applicazione ingegneristica. Adolf Hitler diede una sveglia a tutti.

Le letture in cartaceo o in formato digitale dovrebbero essere accompagnate da ricerche su web in contemporanea alla presentazione dei personaggi, e al richiamo di nozioni di fisica e di chimica. È un ottimo indicatore per approfondire conoscenze reperite distrattamente e in modo forse episodico negli anni, ma anche per recuperare il nostro passato. Sì, in questo libro ritroviamo noi stessi, perché tutti costoro sono stati la nostra storia. Hanno determinato indirettamente paradigmi di opinioni con le quali ancora oggi, tentiamo di valutare ciò che intorno ci accade.

Da segnalare le chiarissime spiegazioni relative ai processi fisici che portarono alla fissione nucleare.

Commoventi sono state le biografie di resistenza dei Marie Curie e di sua figlia, anch’essa valente scienziata Irène Curie con il suo marito, altro premio Nobel, Frédéric Joliot, il quale divenne poi un capo segreto dei partigiani francesi.

Le vicende dei nostri ragazzi di Panisperna, da Enrico Fermi a Edoardo Amaldi, e di come cercarono ognuno a suo modo di mantenere l’umanità e di resistere contro la barbarie.

Irresistibili le vicende di Moe Berg, la spia più improbabile, ma incredibilmente letale contro la Germania, il campione di Baseball, poliglotta, gran affabulatore, mestatore, irrecuperabile spendaccione, fuori da ogni regola. E non si può non sospettare che sia stato l’ispirazione per migliaia di film di spionaggio del dopoguerra.

Senza contare il Generale Leslie Groves e i suoi collaboratori: dei veri e propri “bastardi”. E vi sono anche le vicende di coloro che affrontano pericoli consapevoli di poter morire da un momento all’altro, come Joe Kennedy Jr, fratello maggiore di John e Robert Kennedy.

E naturalmente ai dubbi, e ai nuovi problemi morali conseguenti, perché conoscenze così imponenti nei loro possibili ambiti di applicazione, comportano nuovi paradigmi interpretativi su ciò che è la responsabilità relativa all’uso della conoscenza. Ad esempio, tra i tanti, il chimico Otto Hahn e il fisico Robert Oppenheimer che portarono un dolore infinito per tutta la loro vita, a causa dei complessi di colpa. E si rimane, forse per l’opinione pubblica di bassa lega, dalla quantità di scienziate che contribuirono alla ricerca e alla resistenza contro tutto e tutti, ad esempio Lise Meitner.

E però, si provano grandi turbamenti sull’animo umano che ha una doppia faccia. Un cuore pieno e generoso che però nello stesso tempo, ha lati oscuri e riprovevoli, come il premio Nobel per la fisica Werner Karl Heisenberg che rimase a lavorare per i nazisti fino alla fine. Che ebbe la convinzione di salvare la scienza e la ricerca comunque anche in Germania, nonostante e contro Hitler. Colui che assieme ad altri suoi collaboratori, si diede da fare per salvare di nascosto tantissimi ebrei, organizzando una struttura operativa per farli fuggire dalla Germania. Colui che durante i bombardamenti degli alleati, si comportò eroicamente per salvare individui sconosciuti dagli incendi e dai crolli dei palazzi, rischiando in prima persona, mentre un momento prima parlava di come inventare nuove soluzioni per costruire una bomba atomica a servizio della Germania. Colui che non aiutò a salvare i genitori di un suo amico che lo favorì tantissime volte, fisico come lui, ovvero Samuel Abraham Goudsmit.

Vi è un campionario di varia umanità ricchissimo, inesauribile di spunti. Irritante e ammirevole nello stesso tempo. Leggendo il libro è impossibile non immedesimarsi con questi personaggi, perché sono il nostro specchio. Sono proprio come noi.

§CONSIGLI DI LETTURA: SPINE

Spine di Franci Conforti, 2022,
Serie Urania, Mondadori, Milano

La Spina che ci mette in gioco: il pungolo del dubbio che corrode l’equilibrio precario tra ciò che siamo negli ambienti antropici ed antropizzati. Il mutamento di prospettiva del nostro vivere, e dei suoi significati allegati, ferisce appunto quando si è troppo sicuri di afferrare il senso di tutto, bello e buono, come una rosa, dimenticando poi che il suo sostegno graffia e ferisce.

Talvolta però il disagio momentaneo può essere un farmaco che ci avverte di pericoli meno ambigui, ma tremendamente minacciosi.

Franci Conforti ha deciso di scrivere romanzi dopo decenni in cui inventava storie soltanto per sé. È una biologa, accademica e giornalista. Non è un caso che abbia avuto negli ultimi anni ripetuti riconoscimenti nell’ambito della fantascienza “hard”, cioè quella tecnologicamente verosimile ed accurata.

L’essere umano è definito anche dalla tecnologia e riformula la sua posizione in base alle scoperte scientifiche. Le spine ci avvertono istintivamente del fastidio e del dolore. Comportano il segnale che l’ambiente circostante non è una semplice propagazione di noi stessi. La spina respinge oppure si conficca. È un limite rispetto al nostro spazio di azione ritenuto neutro, quindi vitale, perché minaccia l’equilibrio in cui il nostro volume d’esistenza è ritenuto integro.

La spina è anche una increspatura rispetto a una regolarità estetica di modelli che intendono descrivere il mondo o determinarne lo sviluppo nel tempo. È un sovrappiù estraneo rispetto ai nostri scopi: un cruccio che sgretola la (in)certe convinzioni.

Oppure ancora, le spine sono avamposti di organismi tentacolari che mirano a disporre del nostro organismo. A un livello più istituzionale, sono associazioni o clan che, in forma parassitaria, perseguono l’obiettivo di detenere la corteccia della società, per assorbirne la linfa vitale. Ed è il caso di questo romanzo che, però, non esclude, ma ingloba le definizioni fin ora scritte.

La storia è ambientata tra il pianeta Marte, la Terra e vari satelliti. Vi è una descrizione accurata degli ambienti astrali. Il valore aggiunto emerge dalla creazione di ecosistemi in cui convivono flore e faune che hanno avuto una lieve traslazione intorno alla propria specie. Infatti, emerge un potenziamento delle possibilità riproduttive e di adattamento con una notevole variazione intraspecifica per lo sviluppo delle applicazioni delle scoperte della genetica.

Il libro è fecondo di applicazioni quasi vicine alle possibilità di impiego odierne. È un libro di avventura. Le relazioni tra i protagonisti sono ben disposte in azioni che permettono la presa di conoscenza e di acquisizione di nuove abilità. I picchi dei climax sono ben distribuiti tra confronti intellettuali e violenti.

Vi è una strabordante e immaginifica offerta di nuovi equilibri ecologici. Gli alberi diventano loro stessi città viventi. I conflitti sociali comunque vi sono sempre, ma ecco che le disparità economiche, cognitive e giuridiche, sono accompagnate da nuove stratificazioni di popolazioni geniche.

Vi è la volontà di potenziare le facoltà che riteniamo proprie dell’essere umano, e di gestire la gamma delle emozioni e dei sentimenti. Tutto ciò è impiegato anche verso le altre specie viventi, con le quali interagiamo in modo inedito.

Vi sono dibattiti evocati in modo trasposto in ordine ai diritti che oggi riteniamo urgenti per tutte le specie viventi, che perseguono il riconoscimento di nuove forme di soggettività. Umani, mammiferi, uccelli, rettili, alberi, fino alle alghe, hanno voce in campo per rivendicare una possibilità di esistenza più libera e concreta. Si afferma il compito di ridefinire una nuova forma di cooperazione e quindi anche di conflitto, con la speranza di ottenere un’ulteriore consapevolezza, rispetto alle domande che ogni senziente si pone rispetto al mondo, al futuro e al senso dell’esistenza.

77-78 “[…] Lady Tuarna Fortemare era docente di storia evolutiva comparata. «Quale lezione?» «Ah, qui sulla Terra ancora si crede alla fola che gli animar li abbiamo importati dalle colonie spaziali quando, invece, i protoesemplari sono terrestri. Diciamo tra il 2040 e il 2050. Fino a quel momento i nativi selezionavano gli animali in base alla razza, non all’intelligenza. Eppure l’elemento che penalizzava maggiormente la convivenza erano, non ridere eh, le deiezioni. Tenevano in casa solo cani e gatti perché erano capaci di controllare queste funzioni. Cassette con la sabbia e guinzagli per portarli a fare i bisogni in strada, bisogni che venivano raccolti dai padroni e messi in appositi cestini legati ai pali della luce. Te lo immagini?» Mi fermai a guardarla. «Non ci credo…» Mi prendeva in giro? «Credici. Senza tener conto che in quegli anni scoppiarono alcune epidemie che costrinsero la gente in casa. Il numero degli animali di affezione prima crebbe, poi crollò e bastonò l’intera filiera produttiva. Così le grandi aziende si misero di buzzo buono a selezionare tenendo come parametro l’intelligenza. Migliorarono le aree logico-verbali, fecero qualche ritocchino usando tecniche prebiomiche, come la CRISPR. Fu una corsa all’oro. Gli animar cominciarono così e poi furono usati nello spazio: come cavie, come produttori di cibo, come bassa manovalanza in ambienti ostili. E nello spazio si sperimentò senza troppi vincoli etici fino a ottenere gli animar attuali. E ora si buttano, perché si è trovato di meglio: i friendz. Non mangiano, non sporcano, li aggiusti solo se ti va e li accendi quando ti pare…» […]”

78-79 “[…] Arrivammo all’IZA. Muro di mattoni rossi e scritta in avorio bianco che brillava la sole. PRIMUS INTER PARES, e subito sotto spiccava una frase del fondatore: ERA PREVISTO CHE GLI ANIMALI DIVENTASSERO INTELLIGENTI. L’EVOLUZIONE HA USATO L’UOMO COME SCORCIATOIA. KLK «Già» disse Tuarna, «Era previsto, Ken Lonel Kon lo scriveva nelle prefazioni di ogni suo saggio. Quello che non era previsto era il tradimento. Che proprio noi evoluti cominciassimo a considerare gli animar come strumenti superati o una tappa pseudoevolutiva che si poteva lasciare indietro. Cancellare. E poi? Chi ci si toglie dai piedi? I nativi? E per cosa? Perché edificare un mondo tutto bellino e precisino? Suvvia, non diciamo eresie! Venite, qui animar e nativi sono i benvenuti.» […]”

Lo stile è contraddistinto da fasi di spiegazioni scientifiche chiare e ogni tanto da un intercalare da parte di alcuni protagonisti che richiamano dialetti fiorentini, assieme ad alcuni idiomi del nord Italia. Ciò è spiazzante e divertente. Le vicende non sono piatte, ma vive. Le emozioni sono forti, contraddistinte da odori e colori intensi.

Si presti attenzione comunque a ritenere che il romanzo sia una sorta di manifesto ecologista per il quale l’uomo è cattivo e brutto, perché vìola il paradiso dei biomi della Terra e degli altri pianeti. No, no. Gli ecosistemi, tutti, sono umani. La natura, invece, è infinitamente eccedente a ciò che è l’orizzonte di significato. Nelle sue manifestazioni indirette non è un luogo univocamente benevole, dolce e delicato. I viventi che richiedono una loro dignità non sono angeli.

Questo romanzo è un’ottima occasione per riflettere riguardo a concetti che pigramente diamo per scontati nel loro significato: “evoluzione” e “selezione naturale”. 

211-13 “[…] Cominciai a dare rifugio a chi ne aveva bisogno, a denunciare i soprusi, a prendere posizione a favore della sessualità, anche tra generi diversi. Argomento piuttosto difficile, credimi, in una società in cui i rapporti carnali vengono visti come la radice di ogni male.» «Da noi nello spazio sono tollerati solo per i nativi come me.» «In genere anche qui. Il controllo sessuale e riproduttivo sono forme di potere» continuò lei battagliera, «le nascite carnali sono sempre più rare. Siamo tutti figli di alberi-madre e buone selezioni. Io e Paulito abbiamo provato a fare un figlio alla vecchia maniera

[…]

Tra una boccata e l’altra, Eridiana riempì il mio silenzio. «… Quindi, capisci, non c’è da prendersela nemmeno con gli evoluti, ma con chi, tra gli evoluti, mette in atto queste pratiche di controllo. Quello che si fa agli animali, agli animar o ai nativi, poi lo facciamo a noi stessi. Sempre. Siamo tutti delle vittime […]”

I protagonisti, anche nelle loro caratteristiche repellenti e meschine, non possono non sortire qualche sentimento di benevolenza da parte nostra, perché la natura è ben più strutturata degli schemi morali che usiamo nel quotidiano. Non possiamo odiarli, perché è possibile ritrovarsi in quelle figure.

275-77  Le emozioni non sono altro che proto-pensieri, generati dallo stesso asse funzionale, in organi diversi. Ciò significa che la semplificazione emotiva indotta negli animar e l’ascesi delle emozioni a puro pensiero degli evoluti, sono delle… menomazioni.» Aveva fatto fatica a pronunciare quella parola, ma continuò. «Menomazioni molto utili in fatto di efficienza che però possono esporci a una cecità pericolosa e a un rigore logico spietato.

[…]

Gli animatzu conducono a un bivio che determinerà il nostro futuro. Senza animatzu proseguiremo a edificare una società ordinata, controllata, pacificata, semplificata e omologata, ovviamente retta da noi evoluti. Nativi e animar sopravviveranno solo relegati in riserve atte a conservare il pool culturale e genetico. Con l’introduzione degli animatzu, invece, la società tornerà a essere complessa, diversificata e conflittuale. Nativi e animar diventeranno componenti forti e attive del tessuto sociale, con tutti i problemi che ne nasceranno.» «Guerre?» «No, non credo, la diversità tende a generare microconflitti, mai guerre. Però dovremo immaginare una nuova struttura sociale per vivere bene insieme. La mia famiglia è terrorizzata da questa prospettiva di… decadenza. La vive come un declino della civiltà, un ritorno alle barbarie.» […]”

È un romanzo divertente che stimola a riflettere sui nostri lati oscuri. Offre un’occasione per ragionare sul viaggio comune che noi e questo pianeta stiamo percorrendo verso i sentieri delle domande inevase.