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CONSIGLI DI LETTURA: La Saga di Gösta Berling di Selma Lagerlöf

La Saga di Gösta Berling di Selma Lagerlöf (Autore),
G. Pozzo (Traduttore), 2010 (prima edizione 1891),
Iperborea, Milano

La saga è avvincente e parla dei luoghi atavici della Svezia anche in relazione con le comunità finniche. Vi sono come nelle saghe a noi vicine, i luoghi universali dell’eroe che lotta contra il nemico, l’estraneo, il bosco, le entità sovra mondane e quelle degli abissi. Il pericolo e le minacce provengono anche dal cuore degli esseri umani, sì virtuosi, ma passibili di cadere nel male.

Il bisogno di crescere, di procreare, e di accedere nell’aldilà, è continuamente ostacolato dall’imprevedibilità del mondo. Il racconto, come in ogni saga, e quindi in ogni narrazione che tesse i miti, tenta di porre un ordine e di chiudere i cicli, per continuare a a dotare di senso lo scorrere del tempo.

Dagli ordini ciclici della natura, si passa a quello degli stadi della nascita, alla giovinezza, fino alla morte, in modo che l’ostacolo e l’attrito che si ha contro gli altri, il mondo, il mistero, si accordino come i criteri morali e leggi del mondo, che sono anche etiche, aventi a fondamento quelle ultra mondane.

Poiché nelle storie che riproducono il senso del mondo, alcunché può esser lasciato fuori, ogni oggetto e manifestazione naturale hanno un senso che oltrepassa la semplice presenza; il solo stare. Vi è sempre una intenzione talvolta non immediatamente manifesta, una caratteristica della materia, l’influsso di uno spirito, il moto dell’intero mondo. Lo scopo è quello di avere un “se e un allora”, che fornisca al tempo, una comune ragione del “cosa è”, del “chi è”, e del “perché dell’agire e del divenire”. I luoghi sono quelli dell’eroismo, dell’amore, dell’avidità, del coraggio, della cedevolezza, della prole, e della morte.

La saga di Selma Lagerlöf è tutto questo e di più. Ebbe un successo che diede all’autrice la possibilità di continuare a scrivere e a divenire una delle prime scrittrici quotate ed autonome nella attività imprenditoriale tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento in Svezia.

L’opera è qualcosa di più di una saga, perché, essendo un’opera che fu scritta in tempi lunghi e con racconti autonomi, anche nella pubblicazione preliminare nelle riviste, si snoda cambiando le prospettive, in base agli affinamenti dello scrivere dell’autrice. Da una serie di racconti a tema, si passa ai tempi di un romanzo. Da precetti già dati nel piano della morale, e dalla meccanica dei conflitti del protagonista contro il mondo, l’animo, la virtù, i precetti morali, la seduzione, il vizio, diventano la trama che descrive una comunità negli accadimenti della storia ciclica.

Se nelle saghe tradizionali ed arcaiche che hanno un sapore orale, prima ancora della loro trascrizione, i protagonisti sono netti, chiari, aventi qualità e debolezze che fanno già intuire i loro appuntamenti nefasti o gioiosi con il destino, qui i cavalieri, i nobili, i fabbri, i sacerdoti, il male stesso, da reali e concreti, diventano di volta in volta, i luoghi mitici del racconto post datato, o figure implete, o emanazioni delle divinità paniche, fino a quelle religiose per ritornare poi ad essere in carne ed ossa. Stesso percorso è subito dai boschi, dai fiumi, dai mulini, dai guadi dei fiumi, agli animali e agli spiriti dei boschi che assumono un percorso speculare.

Vi sono in verità più racconti paralleli che si manifestano nei diversi episodi, incrociandosi talvolta.

Si passa dai toni picareschi, a quelli di formazione adolescenziali, a quelli di amor sacro e profano, fino alle storie edificanti. Non mancano riferimenti embrionali dell’orrore a quelli lirici.

L’autrice è abile, spregiudicata, curiosa nell’attraversare i generi entro la struttura della saga. La forza, la distorce, cerca di creare un nuovo stile, anzi più di uno. Invece di definirli compiutamente, però, li lascia incompiuti e li fa cozzare uno con l’altro. Lasciando l’idea che non è detta l’ultima parola sugli eventi narrati.

È una saga che esce fuori dalle regole canoniche. È un romanzo dell’ottocento che trasforma i protagonisti con più personalità in una forma novecentesca, perché usano la razionalità e le parti nascoste di sé per porsi in relazione con gli spiriti dei boschi e le allegorie monoteistiche.

In alcuni episodi l’epica volge in un’avventura sulle navi, sulle coste e sui fiumi, ma anche lì rimane inceppata, per ritornare sui luoghi saldi della terra.

È comunque coinvolgente: i dialoghi non sono banali, e, nonostante le dichiarazioni di virtù e di sacrificio, le norme e gli usi e le consuetudini vengono continuamente poste a critica.  

È un arcipelago di stili che si tengono insieme e stimolano la fantasia del lettore, solleticando l’indole a vedere con occhi nuovi e più profondi, i meccanismi con quali attribuiamo senso alle cose.

Quest’opera è un tesoro pieno di monete di diverso conio, che sta a noi, raccogliere e inquadrare in base ai nostri bisogni di progettare il futuro, e i vincoli morali.

CONSIGLI DI LETTURA: Racconti di Isaac Bashevis Singer

Racconti di Isaac Bashevis Singer, Editore Corbaccio,
Milano, 2013, traduttori: Bruno Oddera,
Maria Vasta Dazzi, Mario Biondi

Il corpo di questi racconti che hanno attraversato il vivere di Isaac Bashevis Singer mostrano le sue eccellenti doti nel creare storie brevi e concise, tali da esprimere un climax coerente nello svolgimento delle scene. Il lettore si sente a suo agio nell’introdursi nei mondi evocati dalle singole narrazioni. Non vi sono ambiguità nel delineare i personaggi, perché sono descritti fisicamente con un involucro di segni distintivi dei loro caratteri e con le rispettive morali e biografie.

La presenza di ogni personaggio dispiega immediatamente il suo mondo, le origini dei suoi modi e delle sue inclinazioni nei rapporti verso gli altri, la divinità e il tempo.

Nella brevità delle composizioni vi sono, però, più piani concomitanti di lettura, perché si rileva la descrizione di un mondo intero, che parte da una stanza, una via, un villaggio, una città, un paese, un popolo, una nazione, un intero continente. Non è solo una descrizione fotografica, perché ogni uso e consuetudine ha una sua storia, un tratto distintivo di regole morali e di rapporti con le autorità mondane e con le dimensioni religiose.

I protagonisti esprimono il carico di un popolo nell’interrogarsi sull’umanità di ognuno e degli altri individui appartenenti a religioni e paesi diversi e lontani.

Il nucleo narrativo è innestato nelle comunità degli ebrei aschenaziti: il gruppo religioso ebraico originario dell’Europa centrale e orientale, tradizionalmente di lingua e cultura yiddish. I racconti sono ambientati nei periodi che intercorrono tra la seconda metà dell’ottocento e nella prima metà del novecento, per intersecarsi, infine, con la biografia dell’autore, passando dalla giovinezza, fino ai racconti della vecchiezza.

I protagonisti sono tutti appartenenti alle comunità aschenazite si fondono con le vicende verosimili accadute in Prussia, Germania, Svezia, Russia, Ucraina, Lituania, Olanda, Francia, Israele, fino agli Stati Uniti.

La struttura narrativa esprime una tensione costante tra i precetti religiosi yiddish, densi di regole, consigli, dibattiti, interpretazione del divino e di ogni aspetto pubblico e privato delle proprie interazioni sociali ed amicali.

I demoni intervengono come attori in gioco, mostrando anch’essi le debolezze, i dubbi e i crucci sul proprio operato. Dibattono con i protagonisti, nel tentativo di dominarli e di soggiogarli in una tensione continua tra la fede, l’aderenza ai precetti religiosi, e l’esigenza di esprimere le proprie convinzioni.

Si ammirano le multiformi culture yiddish, nelle loro inclinazioni a dibattere circa la bontà dell’operato di ognuno dalle azioni e dalle scelte capitali fino alle pratiche quotidiane nell’osservanza dei precetti delle feste e delle preghiere. Vi è una esorbitante pervasività della religione che è correlata, però, alla sua messa in discussione perenne. Sono godibili, e in certi casi comici, i dissidi, e i conflitti tra chi agisce, chi giudica, chi si oppone, chi cerca di comporre una giustificazione del proprio operato, fino all’intera biografia personale. Si dibatte e si litiga anche da morti. L’ultramondano è un elemento essenziale del senso e dello scopo che si dà al tempo e allo spazio del mondo.

Ognuno si sente un estraneo nel suo tempo e in ogni luogo, ma ogni ambiente è famigliare, perché è passibile ad accogliere le comunità aschenazite, in perenne bisogno di un luogo stanziale, che è però accompagnato dalla consapevolezza di poter risiedere ovunque. Ogni sito è la propria casa, seppure litigiosa, instabile, sotto i colpi delle violenze altrui, dei pogrom, del razzismo, dell’odio e dell’ostilità preconcetta.

Si sopravvive, nonostante tutto, alle avversità esogene, e alle proprie debolezze e peccati. Nella pena subita, e nella disperazione, vi è comunque una speranza inconscia di poter rimediare e di avere una seconda possibilità, anche di fronte alla divinità giudicante.

Vi è una infinita, inestinguibile e incrollabile ricerca di senso. I messaggi e i tempi sottostanti travalicano questo popolo, per interpretare l’esigenza di ogni individuo: narrare il proprio vivere in una coerenza tale da permettere un giudizio su di sé e quindi uno scopo per il futuro e per l’eterno. La condizione universale della speranza.

Una ironica compassione è distesa nei ruoli e nei caratteri degli agenti sociali. L’amaro disincanto che trasuda nel ritmo dei dialoghi e degli eventi, però, non è mai sarcastico, perché l’autore parla di sé, assimilando le inclinazioni dei protagonisti.

Questi racconti gravitano presso una domanda che Isaac Singer rivolge a se stesso: sono stato degno? Di quanto il mio vivere è stato coerente con i precetti che mi sono imposto e a cui credo e mi identifico? E se ho, come sicuramente lo è per me, e per il mio popolo, oltre che per il genere umano, la possibilità di rimediare e di migliorare?

Che speranze abbiamo nonostante i limiti, i pregiudizi e la superficiale ignoranza che ci contraddistingue?

La lettura dei racconti è già una risposta ai quesiti dell’autore, perché si è invitati a contribuire con la propria fruizione e i propri giudizi in questo percorso infinito della fruizione estetica, tale da renderci più aperti a sentire il mondo e ad immaginare uno scopo commendevole.

Emerge la speranza di un uomo, di un popolo, del genere umano, di noi stessi che leggiamo: acconsentire al proprio vivere, testimoniare il proprio vissuto, pregare di poter ancora vivere, se non altro per rimediare alle parti più oscure che appesantiscono il cuore e l’anima.

La lingua yiddish ride di se stessa, svelando la sua limitatezza e dichiarando quindi la volontà di apprendere, quindi di affermare la volontà di vivere, nonostante tutto.

CONSIGLI DI LETTURA: NEL PAESE DELLE ULTIME COSE

“Nel paese delle ultime cose (In the Country of Last Things) 1987, Ed. Italiano 2018, Einaudi, Torino, di Paul Auster (Autore), Monica Sperandini (Traduttore)

Con Paul Auster si respira alta lettura con un’aria di montagna che non lascia spazio a pigre sensazioni. Si arriva subito in una posizione panoramica che invita ad una lettura che segnerà il proprio senso estetico.

Soltanto per la sapiente commistione di stili, questo romanzo è un capolavoro. A prima vista sembra una lunga lettera che però assume, nel corso della lettura, la struttura di un lungo diario. Nelle prime pagine è narrato nel tempo presente, ma è intervallato nei salti temporali e nelle spiegazioni circa gli eventi generali che oltrepassano le gesta dei momentanei protagonisti in una narrativa di memoria.

È un diario di bordo, perché la narratrice man mano che prosegue nella descrizione delle sue avventure, colloca i luoghi e le vicende in una spirale, in cui ella ne diviene parte. Il punto di vista dell’esterno e lo spazio di confine, nel flusso delle parole, sono risucchiati all’interno del luogo circoscritto: il paese delle ultime cose.

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Paul Auster descrive con una eccellente capacità i personaggi attraverso una tecnica che rimanda alla descrizione dei tratti somatici e dalle loro posture in linea con la tradizione dei romanzi psicologici dell’inizio del 1900. Però non si ferma solo in questa linea di presentazione: ed è qui che mostra di essere uno scrittore di altissimo livello. La narratrice descrivendo i personaggi, nel contempo, attribuisce qualità morali e caratteriali che non hanno soltanto lo scopo di inquadrare ed eventualmente collocare la figura in un quadro che delinea l’eroe, l’antieroe, il buono, il meschino, perché le loro inclinazioni ed attitudini variano di scopo e di valore. Il mutamento è in relazione ai continui climax di sopravvivenze cui sono sottoposti.

Vi è una tecnica sopraffina nel ritmo della scrittura che offre dapprima un quadro morale sicuro in cui collocare i tipi e indurre le loro eventuali azioni, il quale, in modo sotterraneo con i richiami del loro passato, è trasformato in un complesso di cause efficienti per gli avvenimenti che da lì a poco appariranno. Le figure topiche che via via scorrono, lasciano emergere nuovi luoghi di narrazione che proiettano il diario di memoria, e quindi al passato, in un fiume del presente. Il lettore è accompagnato in questa navigazione, senza che perda il pathos e il godimento estetico derivato dalla fruizione del testo, per soffermarsi a ricollegare le situazioni e le condizioni che hanno generato i singoli eventi.

Paul Auster dispiega una palestra dotata di infinite risorse conoscitive e di strumenti per chiunque voglia esprimere il suo mondo interiore nella forma della scrittura. In primo luogo, in forza diaristica, quindi personale, e per avventurarsi nell’acquisizione e nella produzione autonoma di propri stili espressivi.

Gli ambienti acquisiscono una vita propria che è dipinta dalle metamorfiche caratteristiche fisiche e morali dei personaggi. La narratrice entra ed esce dagli avvenimenti, perché in un primo momento configura un timbro complessivo di questa cascata sovrabbondante di stimoli che in modo alternato fa scorrere i dialoghi nei momenti topici. In seguito trasla gli scenari in un participio passato per riassumere il vortice di caduta di questo paese in un capolinea: la linea sicura cui il lettore possa appoggiarsi nel mantenere un filo temporale compiuto.

Il lettore ha in dotazione la possibilità di poter modificare la vista del paesaggio in negativo, a colori, in bianco e nero, di vederlo muovere o di collocarlo in un fermo immagine, e tutto ciò accade nello spazio di uno o due pagine. La bellezza di questo romanzo, è che nella lettura, se ci si lascia appassionare, non vi è bisogno di soffermarcisi, o di accorgersi di questa giravolta stroboscopica dei punti di vista.

La protagonista, ama, odia, dispera, reagisce, avanza in modo tenace anche nel dolore e nello scoramento. Gli avvenimenti accadono sull’orlo di un baratro, in una tensione per la quale si possa perdere tutto: cose, persone, ricordi, criteri di ordine delle relazioni sociali. Vi è una spasmodica ricerca di ordine e di senso, per definire una prospettiva verso il futuro, all’interno di uno stato carcerario di continua sopravvivenza, ove sembra impossibile uscirne.

Il fiume non si ferma, sicché si cerca di galleggiare tra i flutti delle onde su una zattera che affonda. Si afferra un suo relitto, che successivamente è travolto da una nuova tempesta. Si cerca, allora, un appiglio a ridosso di scogli taglienti, ma anche qui ricomincia l’instabilità.

Vi è il tempo che divora. Questo paese si vuol mostrare come un luogo in cui i bimbi decidono di non nascere e i vecchi di non trapassare. I secondi sono cannibali, cloni di Crono, e i primi olive avvizzite cadute dal ramo, prima della trasformazione in olio.

La trama del romanzo è definita da una metafora della scrittura che oscilla nell’invenzione del mondo, e nel tentativo di descrivere quello che è presunto reale, cadendo quindi nella onnipresente contraddizione di scrivere del fantastico, e di definire in modo infondato ciò che non lo è, partendo proprio dall’invenzione. È una prigione dalla quale è impossibile uscirne.

Ciò spiega allora il modo indiretto in cui sono sovrapposti gli stili. È impossibile dichiararli compiutamente in un elenco esplicito, perché diverrebbero un polo dei due di questa insanabile contraddizione che appare in un regresso all’infinito.

Ed è qui che il tempo della narrazione, nel suo complesso, si svolge in questo vortice senza fine di distruzione di senso, se non in quello della contraddizione, che è l’ultima stazione degli eventi cui è impossibile ripartire.

Vi sono situazioni che richiamano le tragiche e mondiali vicende accadute nella prima metà del novecento, e quelle attuali tra gli anni settanta e ottanta, coeve alla generazione dello scritto. Si parla di ieri e di oggi, perché appunto qui sono entrambi fermi in questo “fine” capolinea.

È un romanzo che suscita forti emozioni e impegna il lettore a sostenere questa integrale tensione fisica che però dona la possibilità di sublimare la sensazione di greve precarietà che avvolge ognuno di noi. Siamo tutti sorelle e fratelli in questa grama condizione che lascia trasparire qualche fiore nelle paludi delle lacrime. La bellezza che strugge.

È sentitamente consigliato avventurarsi in questa tremenda consapevolezza, avendo comunque accanto la narratrice che ci protegge e ci accompagna durante la lettura.

CONSIGLI DI LETTURA: LA RAGAZZA DELLA PALUDE

LA RAGAZZA DELLA PALUDE, di Delia Owens (Autore), Lucia Fochi (Traduttore), Solferino Editore (2022), Rizzoli, Milano, ed. originale in lingua inglese, 2018

Non è un caso che appena uscito, fu un successo per tutto il mondo anglosassone e poi europeo, e da cui fu tratto un film, famosissimo. Il romanzo, però, al di là delle stesse intenzioni dell’autrice, ed è questo il bello delle opere mirabili, è ben più articolato e denso del film e della pubblicistica. Qui siamo innanzi all’evento di questa ragazza che oltrepassa il suo luogo d’ideazione e diviene veramente la “La Ragazza della Palude”.

Gli anni vanno e vengono nella narrazione come onde, flutti e riflussi sulle coste. Ritornano lì nel pantano, e tutto ritorna accolto nella palude. La mappa fornisce i luoghi topici e mitici. La città è una escrescenza tra l’oceano, la pozzanghera, l’umido e il fiume, conservata per poco dal sale, e poi corrosa. Tra schiume del tempo e brezza del ricordo.

In quel luogo vi è la ragazza della palude che ognuno abbandona nella solitudine. Però, lì, quasi tutti ritornano. Nel pantano le onde e i rami schiumano, interrompendo il loro flusso ben coordinato e veloce rispetto allo scandire del tempo. Ciò che sembra lineare, nel pantano sembra arrestarsi. Acqua, fango, uova di uccelli, molluschi, insetti, rami, radici, foglie morte, ognun si tampona con l’altro. Il grande cumulo, dove anche i secondi restano intrappolati nella sabbia che, accogliendoli e disgregandosi, inclina lo spazio, e lo proietta in una immagine statica, senza che vi sia movimento: in modo carsico. L’acqua pian piano fluisce e lega ogni oggetto in un groviglio, vivo o decomposto, in un grande grumo, che continuamente si dispiega, in una metamorfosi di insetti, di larve, di fusti d’acquitrino, di alghe, di pesci che lì stazionano e nascono. È una danza da fermi che roteando genera strutture ben più corpose, come le aree costruite dagli uccelli migratori e da quelli stanziali, i quali, come provetti carpentieri, impastano l’acqua nell’edificare le spiagge, i nidi, gli isolotti e le dighe.

Prede e predatori lì convergono, attirati da tutti i loro secondi impigliati.

Delia Owens, prima di scrivere il suo romanzo d’esordio, e anche dopo, è stata una valente etologa e ornitologa, e lo si nota dalla descrizione minuziosa degli animali, dei pesci, degli insetti, i quali agiscono, entro e con la palude, assieme ai personaggi canonici.

L’ecologia, intesa come un nido d’infanzia, la casa di cura e di nascita, segue un filo narrativo parallelo con le azioni dei singoli, oscillando su intervalli temporali che, come il giorno e la notte della nebbia e della rugiada della palude, vanno avanti negli anni e ritornano indietro. Gli eventi iniziano in modo invertito, collegandosi con situazioni accadute mesi e decenni prima, e viceversa. Il perno di questo vortice temporale che conferisce la stabilità alla narrazione è LEI: la ragazza della palude. La fragile bimba vessata ed abbandonata, disprezzata, osteggiata, isolata, che, però, trae da sé stessa le forze e le capacità per sopravvivere e crescere e venire in relazione con ciò che è al di fuori della palude, nel tempo della società. Quella particolare comunità che però ondeggia tra il fiume e l’oceano. Due canne d’acqua in balia delle onde del tempo, delle quali, la palude, è ancor di più, a pelo d’aria e d’acqua, sospesa tra il reale e il fantastico, che risponde nel mito, nel ricordo e nel racconto.

Quando la ragazza della palude è estremamente debole ed indigente, fortunatamente riceve l’aiuto di alcuni, che però, guarda caso, sono anch’essi quasi reietti dal mondo del tempo lineare. E quando acquisisce l’autonomia, altri ancora, però, tentano di sopraffarla e acquisirle la vitalità, l’eccitazione e la propria affermazione. La palude e la ragazza sono i luoghi in cui l’inconscio di ogni personaggio emerge nei lati non visti e non espressi magari, volutamente celati, oppure strenuamente perseguiti.

All’inizio il romanzo assume uno stile quasi dell’ottocento, nel raffigurare una famiglia disgraziata, con l’abbandono di questa figlia. Dopodiché assume il tono di un thriller, fino a quello del mistero, passando per l’avventura della sopravvivenza, ma poi declina in una descrizione etologica di tutti gli esseri viventi, non fredda, ma partecipata e quasi compassionevole. Il lettore si ritrova a convivere con famigliarità in questo ambiente di più dimensioni temporali dove i mutamenti non si disperdono, ma si raccolgono in quella memora ciclica di nascita, crescita, mutamento che è la palude, con il suo ingresso che è il pantano: il luogo che risponde alle proprie inclinazioni. Dure, crudeli, di riparo, edificanti, in base agli angoli nascosti dei protagonisti.

È anche una storia indiretta del sud degli Stati Uniti, visti però da lontano, dove gli avvenimenti giungono sfocati, lenti, in punta di piedi e questi subiscono l’erosione dell’ambiente salino, salmastro, sornione della palude. La riposante umidità che ipnotizza, impigrisce, richiama, affonda, e fa naufragare le parole a una sola dimensione. Si riesce a muoversi e a vivere, solo se si ha la capacità di osservare la realtà e di comprendersi in più livelli interpretativi. I ruoli si moltiplicano nello stesso personaggio, connettendosi, però, attraverso contorni laschi e sfumati.

Violenza, delitto, amore, passione, fuga, tristezza, dolore, speranza, eroismo, generosità, tutto vi è un questo quadro che prende vita ogni volta che il lettore ha la spinta a percorrerlo. E lì quell’incrocio tra il fiume e l’oceano ad esprimere questa comunità piccola e modesta, ma universale tra l’angoscia della caduta, il timore dell’attacco, la speranza del guado, come è appunto la vita di una libellula d’acqua, cioè la ragazza della palude.

§CONSIGLI DI LETTURA: I PICCOLI MAESTRI

I piccoli maestri di Luigi Meneghello, 2013,
prima ed. 1964, Rizzoli, Milano

Tanti lati nascosti ha quest’opera. Racconta i luoghi e gli eventi, immersi in un processo storico in cui l’incanto della natura antropizzata unisce l’antico e il mito. L’autore è anche il protagonista che incarna il mito di Ulisse, ma verso se stesso. Il suo “io” è Itaca. Tutto converge nel suo monologo.

I fantasmi, coloro che sono rimasero adolescenti a metà, li riporta in vita affinché il loro destino sia compiuto in un appuntamento della memoria. Ognun di loro inizia il viaggio per ricongiungersi nella voce di Luigi Meneghello.

L’autore rinnova quelle gesta, scrivendo da adulto, le parole e gli atti della gioventù. Si fa da parte, in modo che i morti riassumano un articolo determinativo. La cornice ha lo scheletro della resistenza dei partigiani tra l’armistizio del giorno 8 settembre 1943 e la fine della seconda guerra mondiale e la cornice dei racconti dei comunisti, dei cattolici, dei libertari, secondo gli inni degli anni cinquanta, degli anni sessanta, e negli anni di “piombo”.

Vi è l’intento di ricollocare la biografia e la cronaca in un quadro depurato dalle retoriche derivate dalla guerra fredda. Ed ecco, quindi, che il mito assume una posa lirica, in cui il protagonista, parla con le montagne e con le valli del Veneto, nella speranza di colloquiare con gli dei, con la natura e con il tempo dei cicli e dei riti. Tutti coloro che furono maestri a metà, perché morti, o fermati dal loro percorso originario di scopi e di speranze, verso di lui si approssimano e si abbeverano alla fonte del suo scritto.

La versione di quest’opera è degli anni settanta, dieci anni dopo la prima pubblicazione. E inizia nel momento in cui lui, ventiduenne, assieme ad altri amici universitari, lascia tutto e va nelle montagne per assumere il ruolo di partigiano.

È una formazione in itinere. Ognuno di loro aveva una razionalità limitata riguardo alla guerra, alle tecniche di resistenza, e alle modalità di organizzare azioni contro i tedeschi e contro i fascisti della Repubblica Sociale. Lo stile all’inizio è quasi simile, all’inizio, a un resoconto di cronaca. È preciso nei dettagli dei luoghi, nella descrizione puntuale dei paesaggi e dei personaggi, fino alla singola piega o strappo di un vestito. Eppure, ed è qui l’effetto caleidoscopico, è anche un romanzo di formazione, perché narra una crescita che parte da una istanza morale: darsi una dignità per sé e per le proprie comunità, dopo il disonore fascista, la vergogna della disfatta, la guerra civile, e l’abbraccio fraterno al sanguinario tedesco.

È delineato un approccio antitetico alle mitopoiesi partigiane e a quelle dei fascisti “buoni” che si scontrarono, si ritrovarono in quel periodo, tra i lutti, le vendette, gli orrori, e le lacerazioni presenti fino ad oggi. I libri e la retorica diaristica e politica negli anni cinquanta e sessanta ponevano sì uno scontro duro, e di rivendicazione, ma ammettendo, nonostante tutto, il valore di chi resisteva e anche di quei pochi, pochissimi che mantennero l’umanità stando dalla parte “sbagliata”, siano stati essi compagni confusi o fascisti.

Luigi Meneghello narra le sue vicende e di quelle dei partigiani di area comunista, liberale, cattolica, o semplicemente di comunità e locale, in una progressiva acquisizione di strategie e tecniche di guerra, di maggiore consapevolezza ideologica, e di un maggiore affinamento delle proprie valutazioni morali, MA non attraverso il mito dell’eroe partigiano, del grande guerriero, della gioventù gloriosa.

Gli eventi topici sono contraddistinti da dubbi, errori ed atteggiamenti goffi quasi comici, all’interno degli epiloghi tragici in cui i suoi compagni morivano così, quasi per sbaglio o incuria.

Tutte quelle persone furono piene di dubbi, di limiti, di pregiudizi, analfabete quasi, neanche tanto intelligenti, piagate dalle malattie, e con disabilità varie. Eppure resistettero nel rifugiarsi nelle montagne, negli attentati, nel sopportare la fame e il freddo, nel morire malamente e nell’attuare una lotta clandestina in pianura, dentro le città. Nel litigare tra comunisti, socialisti, comunisti antisovietici, liberali, repubblicani, realisti, cattolici proto ecumenici, e quelli ortodossi, e contro la grande maggioranza amorfa, suddivisa nelle preoccupazioni quotidiane e in un fascismo di convenienza, pronta ad aderire al potente di turno.

La narrazione assume toni comici, nonostante il racconto si snodi tra tragedie e toni lirici e commoventi, nel recepire il senso ancestrale delle comunità in rapporto al paesaggio natio. E qui vi è un nostro errore prospettico di lettori. Luigi Meneghello non voleva risultare comico mentre scriveva, perché siamo noi oggi, ad avvertire lo scarto delle retoriche del valore, degli eroi, e di come queste siano piccole, semplici, tronfie rispetto all’oceano degli eventi che accaddero. Un popolo debole, corrotto dalle proprie bugie, che si trova ad affrontare una realtà che consapevolmente contribuì ad evocare.

Eppure, nonostante le avventure maldestre e picaresche, Luigi Meneghello è indulgente verso il giovane che fu e verso tutti gli altri, gran parte uccisi e rimasti giovani lì, per sempre. È un padre che si avvicina e li abbraccia, perché, nonostante tutto, in modo irriflesso, inconscio, rozzo ebbero una caratura etica, tesa all’estremo sacrificio per di mantenere una postura dignitosa nella tensione verso la libertà con le mani aperte, callose, ma pulite.

§CONSIGLI DI LETTURA: LA CERTOSA DI PARMA

La Certosa di Parma / Stendhal
traduzione di Ferdinando Martini – Milano-Verona : A. Mondadori , 1930,
– (Biblioteca romantica / diretta da G. A. Borgese ;
1)

Tanto è stato scritto riguardo a tale capolavoro che divenne un classico, per impostare le trame, tra intrighi dei potenti (nobili, proprietari terrieri, banchieri, clero) e nuovi attori che dalle guerre napoleoniche apparvero come soggetti autonomi nei racconti e nei romanzi: il popolo, gli intellettuali d’assalto. E ancor di più, la messa in questione tra la lingua, il popolo, il regno, il territorio, la libertà e l’autonomia giuridica.

La guerra non fu più solo intesa come una espansione territoriale e imperiale, perché si volle rendere visibile una nuova equazione geografica tra lo Stato e il regno, il ducato e il principato, con il popolo che è ora caratterizzato da una omogeneità culturale e linguistica. Ciò fu inteso come una proiezione, non la realtà di fatto di quel tempo.

Stendhal (ovvero Marie-Henri Beyle) partecipò alle guerre rivoluzionarie e poi napoleoniche. Attraversò anche il territorio italico, e qui soggiornò nei diversi regni conquistati. Conobbe gli italiani, ma non quelli che noi riteniamo tali oggi. No: gli italiani che erano dell’Impero Austriaco, del Regno Sabaudo, del Granducato di Toscana, dei Regni Pontifici, dei vari ducati di Parma e di Modena, e così via.

I potenti si sentivano sì italiani, ma come un’unione (e non un’unità) culturale che derivava da una radice storica per i vari dialetti in una lingua che si formò dal latino. Noi oggi riteniamo scontata a livello formale (non sostanziale perché molti stereotipi li abbiamo anche oggi e li consideriamo reali e viventi tra di noi) l’unità linguistica e giuridica dei soggetti nel territorio, tra l’individuo e le istituzioni, le norme e la cultura, all’interno di un territorio ben delimitato che ha una prassi del diritto pubblico. Oggi vi è la legislazione formale che associa a un territorio omogeneo quella unità di analisi detta “popolo”.

È un tema più che mai attuale, specialmente per noi, qui in Italia, abituati a un paese lungo, costeggiato dal mare, che si sente tale perché omogeneo, credendo quindi che altrove sia così.

I parmensi si vedevano magari più vicini al Granducato di Toscana che al regno Sabaudo, più vicini all’imperatore D’Austria che allo Stato Pontificio. E tutti guardavano molto male il Regno delle Due Sicilie, che poi fu anche Regno di Napoli, ove al suo interno vi erano amministrazioni territoriali diverse, come quelle tra le isole, le capitanate, e i grandi centri metropolitani.

Stendhal ne fu un testimone diretto, infatti parla molto di noi, comparando il modo di agire dei popoli italici sia a livello “alto” sia a quello “popolare”.

È un romanzo moderno, e non è un caso che altri scrittori come Alexander Dumas ne abbiano attinto per ricavare spunti relativamente alla prigionia, alle questioni relative alle guerre intestine in Italia, e alla figura della donna. Le protagoniste femminili, dalle duchesse alle cameriere, agiscono in piena autonomia cognitiva e di azione nel rapportarsi ai corrispettivi maschili. Le donne ragionano in modo sottile sulle tecniche di comunicazione e di interpretazione circa gli eventi e i processi mentali dei maschi. Ciò è una novità rispetto ai romanzi del settecento, dove vi sono donne eroiche, abili, perfide, intelligenti, capaci, ma queste dipendevano in primo luogo dall’emotività e dal vizio. Si praticava un approccio laico della visione religiosa secondo la quale, una donna capace è una strega che è serva del demonio.

Nel romanzo le donne eticamente sono sullo stesso piano, sia le figure negative sia quelle commendevoli rispetto agli uomini. Certo vi è l’amore romantico che tenta di sublimare i contrasti e Stendhal che seguiva il suo pubblico, veicola la trama secondo questa logica, anche in modo affrettato, rispetto alla complessità delle descrizioni e degli eventi narrati nella prima parte del romanzo. Ciò dipende anche dalla necessità di ricavi monetari per la distribuzione dei romanzi, pubblicati a puntate nelle riviste settimanali o mensili. Ecco perché ogni tanto si rilevano ripetizioni e riassunti degli eventi. O talvolta vi siano stacchi netti da una scena all’altra. E forse per motivi contrattuali, o personali, Stendhal ebbe fretta di finire.

Occorre considerare che lui tra la vita militare e di corte, partecipò a vicende dure, rocambolesche, con alti e bassi, vivendo da nomade. Per quanto riguarda la descrizione delle battaglie e delle rivolte, siamo nel periodo dopo Waterloo: quello che va dalla restaurazione fino ai moti del 1830. Il libro è ambientato in un periodo di apparente ritorno alla tradizione, ma si vede come i nobili oramai avessero il terrore del “popolo” che appariva sempre più una espressione di interessi diversi e articolati. Il periodo di “pace” in realtà fu una pentola a pressione di conflitti che emersero momentaneamente a livello locale.

Stendhal era innamorato degli italici e del loro modo di agire. Vi sono, infatti, richiami alle loro modalità di comunicazione e di relazione. Nel romanzo vi sono ripetute comparazioni rispetto ai popoli nordici. La lettura di quest’opera è anche un’occasione per rilevare come ragionassero e si vedessero gli italici lombardi sotto l’Austria, i nobili dei vari ducati, l’aristocrazia e il popolo sabaudo.

La bellezza delle sue opere risalta anche nel modo in cui esprime i sentimenti e le riflessioni interiori dei personaggi, in un modo delicato conducendo per mano il lettore, mostrando infatti la causa delle loro azioni successive. La narrazione, a parte gli stacchi, derivati dalle puntate sulle riviste, segue un filo logico lineare all’interno di più storie parallele. E su questo è un autore superlativo. Una forza della natura, data anche la sua vasta produzione letteraria.

Rispetto ai nostri giorni si rileva un pudore nel mostrare scene scabrose di sesso, di violenza e di guerra. E ricordiamo che lui la guerra la fece per davvero. Non è un caso che alcune descrizioni dei campi di battaglia siano dirette, sintetiche, scarne, ma efficaci, appropriate, ed evocate con poche parole. Eppure non calca la mano. In certi casi, relativamente alla malattia, alle ferite, al sangue e allo sporco, il suo timbro è veloce, da apparire tenue ed ovattato. Ciò dipende in primo luogo dalla sua sensibilità. Era una persona curiosa, che voleva apprendere, leggere e migliorarsi. Man mano negli anni divenne sempre più sofisticato: sapeva vivere nel quotidiano e a corte. Anzi era addirittura severo con alcuni ambienti nobili e letterari per la superficialità.

L’uomo sacrificava lo scrittore per non apparire eccessivamente “volgare”. In generale, però, la sensibilità del tempo era molto più vicina alla malattia e alla guerra che offendono il corpo rispetto ai contemporanei. Non vi erano riflessioni riguardo la relazione tra il conflitto e la carneficina. Noi, e oggi diremmo fortunatamente, siamo molto più sensibili al dolore e alla presenza del cadavere, del caduto in guerra putrescente, all’amputazione e alla menomazione.

La morte non era configurata come un elemento astratto, ma si individuava nel fato che portava le malattie, e nello scontro tra ladri, malfattori e militari. Però Stendhal ci informa di un primo slittamento semantico: le guerre napoleoniche causarono vere e proprie stragi di massa che, per quei tempi, corrispondevano a devastazioni continue e generalizzate, e non più a scontri individuati in luoghi precisi. La razzia e l’attacco ai civili non fu più una conseguenza della disfatta e dell’occupazione, ma una tecnica complementare all’azione della battaglia. Gli eserciti si specializzarono distaccandosi sempre più dai civili, i quali divennero un obiettivo tattico.

La “Certosa di Parma” fu una miniera di spunti per i grandi romanzi dei decenni successivi in ordine alle guerre, alle avventure di corte tra gli amori e gli intrighi e alle nuove determinazioni delle politiche e delle relazioni internazionali.

Più di tutto, però, perché Stendhal scrive in un modo meraviglioso: mai un predicato o un aggettivo fuori posto, mai descrizioni ridondanti, a parte i raccordi delle puntate editoriali. Si respira aria di letteratura montana: aria fresca e corposa che riempie i polmoni.

§CONSIGLI DI LETTURA: LA SIGNORA DELLE CAMELIE

La signora delle camelie – Alexandre Dumas Pubblicato su www.booksandbooks.itGrafica copertina © Mirabilia

La signora delle camelie – Alexandre Dumas Pubblicato su www.booksandbooks.it – Grafica copertina © Mirabilia

La signora delle camelie è l’opera di Alexander Dumas figlio che fu più riprodotta nei decenni successivi alla pubblicazione nei teatri con testi progressivamente adattati al senso del tempo contingente. Lo Stesso Giuseppe Verdi usò la trama per comporre la sua “La Traviata”. Nel novecento fu riprodotta nel cinema in innumerevoli varianti.

Narra di una storia vera. Anzi di storie vere tra le quali vi sono quelle biografiche e dissimulate, da parte dello stesso autore. I personaggi e gli eventi, nonostante una regolarità che agli occhi dei contemporanei sembra classica e nota, è invece innovativa. La psicologia nascosta è analoga a quella maschile dei secoli vicini e passati a quelli di Alexander Dumas. In un ambiente sociale più laico, l’oggetto del peccato che è detto “donna” e che conferisce senso e moralità alla visione della divinità maschile che tutto ordina e dispone, conferendo senso e valore alle etiche, si trasferisce nella sublimazione dell’incanto e della passione.

Da fonte di conoscenza che porta il peccato, la donna diventa alternativamente nume, scoglio, abisso, via di elevazione. È ora uno strumento ed un oggetto verso il bello e il buon dire per opera dell’amante e dell’artista. Il prodotto letterario è buono e bello: bello perché buono: buono perché prodotto dall’estro e dal buon cuore dello scrittore.

La “donna” è un luogo di produzione letteraria che induce energia creativa per mezzo dell’autore. In questa accezione l’artista è colui che eleva la donna, trasfigurandola in figure floreali che emettono spore: la camelia. Il fiore che rappresenta l’unione perfetta, perché integro, non perde petali. Eppure si scrive di una prostituta che rimane perfetta più volte a pagamento.

Nel testo però, nonostante le intenzioni dell’autore che propone la millenaria visione della prostituta come il male, emerge quella che la intende come una vittima dei sistemi etici e come una schiava da parte degli uomini.

Lo stesso autore inconsciamente, lo avverte e vuole schermarsi, lasciando intendere che questa vittima, è per natura mutevole e bella, ma inevitabilmente infida e vampiresca, perché ha ceduto alla corruzione.

L’opera sfugge anche al lettore. In quegli anni (1848) vi fu un’espansione del pubblico ancillare che acquisì una valenza economica autonoma: quello femminile. Lo stesso Dumas figlio nel voler giustificare l’operato e gli errori e le meschinità dei presunti amanti, in realtà clienti che rimangono poi gabbati, valorizza e descrive le capacità intellettuali di questa donna. Marguerite Gautier  diventa una figura esemplare, non perché sia una prostituta, ma in quanto agisce in modo senziente e autonomo, mostrando capacità cognitive e strategiche che prescindono dall’antagonista e dall’eroe maschio.

Nonostante tutto nelle rappresentazioni teatrali fino ai fotoromanzi vi è il tentativo inconscio di occultare la piena soggettività della protagonista. Nei fatti l’occultamento ottiene l’effetto opposto: Marguerite Gautier è una donna che è pari all’uomo in tutto, anche in ambito estetico letterario.  Gli stili e le poetiche vorrebbero glorificare la vittima nella sublimazione dell’amore e dell’eroismo, attraverso l’acefala passione del sacrificio religioso, per fruire della “donna” come una figura letteraria menomata e pericolosa, perché si discosta dai valori e dalle visioni maschili.

La prostituta che è disprezzata dal senso estetico maschile, per contrappasso determina il successo dell’opera, perché contravviene agli intenti dell’autore, trasformandosi in un soggetto dotato di virtù e di capacità commendevoli.

Lo stile di Dumas figlio, come quello paterno risente della necessità di scrivere un romanzo a puntate che è letto nei quotidiani settimanali e mensili. Lo stile è veloce e immediato, inframmezzato da analisi psicologiche che in realtà sono giudizi morali da parte dell’autore, mascherati però dalle descrizioni di eventi e dalle impressioni sui luoghi, sui colori e sulle sensazioni.

Come può una camelia che è detto il fiore perfetto, associarsi al mutamento che è una caratteristica di questa donna? Come può il cliente, presunto amante, donatore di oggetti e non di stesso, giustificare la veridicità dei suoi intenti, se invece agisce in contrasto con quello che proclama? È un libro contraddittorio che percorre vie divergenti da quelle predisposte dall’autore.

La futilità della trama ridotta in pillole e rimasticata in tanti racconti fino ad oggi, è il luogo di partenza di uno dei tanti processi di riconfigurazione di un nuovo e radicale senso della femminilità che è in cammino ancora oggi.

§CONSIGLI DI LETTURA: LA CUSTODE DEI PROFUMI PERDUTI

Fiona Valpy, La custode dei profumi perduti, “The Beekeeper’s Promise” Text copyright © 2018. Traduzione di Clara Nubile e Nello Giugliano, Newton Compton Editori, Roma.

Il romanzo si compone di tre parti che poggiano su due piani temporali. Sebbene non vi siano molti dialoghi, i racconti interiori che snodano gli eventi tra il passato e il presente, hanno uno stile fluido che riesce a rendere dinamico il ritmo.

Le protagoniste sono due donne: Eliane che subisce l’occupazione tedesca in Francia durante la seconda guerra mondiale e Abi, in fuga da Londra, che ripercorre quei luoghi tragici e riceve simbolicamente il messaggio di speranza nel 2017.

Sono due donne ferite nel cuore e Abi ancor di più a causa di suo marito violento e aguzzino. Consumate dalla debolezza e dalla paura per sé e per gli altri, intorno all’assenza di futuro, nel buio della disperazione, vedono dentro se stesse la piccola fiammella che le fa resistere.

Il romanzo è costruito come uno scrigno, rappresentato da un castello della campagna francese.

Nel 1940, sotto i tedeschi, Eliane e la comunità tentavano di sopravvivere e contrastare la guerra. Lei era la custode delle api, coloro che insieme, seguendo il Sole, trasformano la terra in miele e aromi.

Abi è sola con il ricordo della madre alcoolista di cui si era presa cura fin da bambina. Soffre d’ansia e d’insonnia e convive con la sua incapacità cronica a mandare avanti la propria vita. Eliane, con la sua bontà e dolcezza, sa che in guerra può succedere di perdere tutto, ma non i profumi e le speranze, custodite come una piccola arnia.

Eliane e i suoi cari, furono costretti a confrontarsi con la fuga e la resistenza, senza mai perdere la solidarietà. Abi combatteva per rompere le catene del passato.

    “Io la conosco bene l’inerzia che si genera quando si vive in una perenne condizione di paura. È qualcosa che ti toglie le forze e risucchia ogni energia, finché non sei in trappola come una mosca nella tela del ragno. A quel punto più provi a ribellarti, più quei fili di seta ti si stringono addosso, e la fuga diventa impossibile.”

Il ritmo delle stagioni e lo scorrere impetuoso del fiume vicino al castello contrassegnano gli stati d’animo di ogni personaggio.

Due capitoli, due cuori, due donne. La Francia che collabora e la Francia che si ribella. Una donna che si innamora ed è malmenata dal suo presunto amato. Nell’amore che dona e seduce per annichilire, è quello cui si deve fuggire. Due donne che si raccontano in contrappunto tra la Francia e il battito di un cuore, tra i profumi che si schiudono e involano.

Il contrappunto di una grande madre nella veste della Francia aggredita dai nazisti e in quella di una donna dilaniata dal suo carceriere.

Il romanzo descrive la danza di due storie di resistenza impervie, dure, tra i ricatti, le sconfitte e le risalite.

259-260 Da dove veniva l’ondata di energia che mi attraversò il corpo? Ora so che il terrore e il dolore dovettero riversarmi nelle vene un fiotto di adrenalina, e che in realtà agii di riflesso. Ma credo che ci fosse anche altro. La rabbia per tutto ciò che mi aveva fatto, e la scintilla del Sé, a un tratto riaccesa; la resilienza dello spirito umano. Fu un atto di Resistenza. Poiché aveva schiacciato l’acceleratore a tavoletta, la cintura di sicurezza non mi impedì di girarmi e usare il braccio sinistro, ancora sano. Afferrai il volante e lo costrinsi a girare, mi opposi alla sua forza, ora che avevo finalmente trovato il mio vero potere. Sentii l’auto che si sollevava sull’erba, sfiorando il tronco grigio dell’albero di qualche millimetro appena, e poi si staccava da terra, un arco quasi aggraziato di metallo che volava in aria verso un camion in arrivo. Pronta all’impatto, sentii il ginocchio che si torceva con un dolore atroce che avvolse tutto in una sorta di foschia rossa e mi fece ribaltare lo stomaco. E poi non provai più nulla. Solo una calma strana e ultraterrena mentre l’auto implodeva intorno a noi due.

305  E poi, dopo un istante, alzo la testa e mi guardo intorno. Ripenso al giorno in cui sono arrivata qui. E mi rendo conto che non mi sono mai persa.

§L’altro nome. SETTOLOGIA. VOL. 1-2

L’altro nome. Settologia. Vol. 1-2 di Jon Fosse,
Margherita Podestà Heir (Traduttore)
La nave di Teseo, Milano, 2021.

Asle e Asle sono due versioni della stessa persona, due racconti della stessa vita, che si interrogano sull’esistenza, sulla morte, sull’ombra e sulla luce, la fede e la disperazione. È una scrittura senza fine, perché non vi sono punti, ma solo virgole e punti interrogativi. È un flusso di coscienza corredato da sintagmi verbali, come “penso” o “dico/dice”.

Pensa, e ripensa, vede e non vede, e ritorna a pensare sul perché vede e non vede: infinite ripetizioni e approfondimenti nel parlare del buio che è nella luce, e quindi di Dio, dell’inesistenza di Dio, dell’onnipotenza di Dio. Dipinge scrivendo, e ritocca parlando, in un quadro senza estensioni, perché il pittore stesso è tutto esteso.

Il ritmo è corredato da domande con risposte mancanti e implicite. Crea un alto e basso tonale, per seguire l’onda dei pensieri, come flutti che si infrangono sugli scogli delle frasi. Il riflusso crea la situazione. Le domande tracimano con le interiezioni e con i partitivi. Il linguaggio viaggia con il surf sulle onde della realtà in modo sfuggevole, rispetto al fondale e al vento stesso. Entrambi inattingibili. Appare l’impossibilità di accedere nella vista e nel linguaggio, e quindi nel senso e nel tempo, sia degli astri e quindi delle divinità sia degli oggetti e del mondo, e quindi della propria interiorità.

La consapevolezza dell’assenza di risposta è proiettata in un soliloquio di preghiere volte a chiarificare la sua limitatezza nel vedere e nel dipingere. Il quadro è una parte della domanda circa la realtà, ed è scambiato nel soliloquio come una risposta. Tale artificio ha lo scopo di rendere partecipe il lettore attraverso la scissione tra il protagonista con un alter ego, e questi con lo scrittore stesso. Tutti assieme nel ritrovarsi consapevoli a poter attingere compiutamente al senso del mondo.

Il lettore è dipinto attraverso il tentativo di seguire la rotta vorticosa degli eventi, nuotando assieme allo scrittore nel fingere che anche la propria impossibilità a capire il tutto sia una risposta, invece che una estensione infinita della domanda. Da dove deriva la presupposizione? Chi la fonda? Chi la manifesta?

Nella luce buia, lui e il suo alter ego entrano in simultaneità nei luoghi da essa illuminati. Anzi risucchiati. La luce vuota illumina togliendo. Per converso l’autore, il pittore e l’alcoolista si sdoppiano e si fondono, si fondono e si sdoppiano in uno stesso luogo nei diversi tempi delle riflessioni. Nelle inibizioni di luce, mentre osservano gli oggetti, le camere, le case, e con queste rievocano il loro passato che è presente e viaggia con loro. Anch’esso risucchiato dalla luce vuota.

Lo sdoppiamento dello spazio tempo permette la reversibilità delle azioni. Le domande sono arricchite da più verbi per una stessa richiesta. Il participio passato e il presente si intersecano. Le domande rivolte al futuro, si diramano nel passato, moltiplicando gli eventi accaduti secondo l’occhio dei doppi dell’autore. I congiuntivi e i condizionali, invece, hanno la funzione di determinare l’oggetto che è una risposta univoca alle richieste di senso: sì, no, vero, così sarebbe andata. Eppure non basta: tutte le risposte sono travolte dai coni spazio temporali che vorticano su se stessi. Ritornando su colui che formula il dubbio. Il quale non può fare altro che importarle da un monologo interiore, cioè proprio nel punto di partenza. Il complemento oggetto collassa sul partitivo relativo e le sue diramazioni: “che cosa è”, oppure perché “questo è o fa”. Ogni domanda si denuda mostrando una affermazione rivoltata che, come una perla, si inanella nella collana di una frase senza fine.

Il romanzo è una poderosa sperimentazione stilistica che cerca un contatto con la divinità. È un tentativo di concepire una preghiera che sia essa stessa un corpo dell’ultramondano.

***

69-70 Ma tu credi in Dio e io no, dice e dico, come dico sempre, che nessuno può dire nulla su Dio, ma è possibile pensare che senza Dio non esisterebbe niente perché, anche se Dio non è nulla, è distinto e separato dal Creato, che invece è sempre qualcosa di limitato, Lui è al di là del tempo e dello spazio, Lui è qualcosa che non possiamo immaginare, Lui non esiste, Lui non è una cosa, in altre parole non è nulla, dico e dico che nulla, nessuno esiste da sé perché è Dio a rendere possibile che qualsiasi cosa esista, senza Dio non ci sarebbe nulla, dico e Åsleik dice che allora che senso ha pensarla così? perché in tal caso non ci sarebbe nulla in cui credere, giusto? quale sarebbe lo scopo di credere nel nulla? e dico che in questo ha ragione, sì, su questo punto siamo d’accordo, ma è anche sbagliato dire che Dio è nulla, perché allo stesso tempo Lui è tutto, tutto quanto insieme, perché penso, dico, che dal momento che nulla sarebbe esistito senza che Dio lo avesse voluto, avesse fatto in modo che esistesse, che fosse, come dicono, quindi è Lui che è, è Lui la sostanza di tutte le cose, sì, di se stesso, di ciò che è il suo nome, infatti Dio dice di chiamarsi Io sono, dico Questo non lo capisco, dice Åsleik No, in effetti non lo capisco neanch’io, dico È soltanto qualcosa che pensi? dice Åsleik Sì, dico e poi nessuno dice più una parola e rimaniamo fermi dove siamo tenendo gli occhi abbassati Tu e la tua fede, dice Åsleik A volte non ti capisco, dice Ma nessuno può arrivare a Dio con il pensiero, dico Perché o uno avverte la vicinanza di Dio o non la avverte, dico Perché Dio è un’assenza molto lontana, sì, l’essenza stessa dell’essere, o una vicinanza molto stretta, dico Forse per te è così, dice Åsleik Ma non ha senso, dice e dico che no, non ce l’ha, eppure paradossalmente sì, dicono, c’è l’ha, e sia lui che io non siamo forse un paradosso per il fatto di trovarci lì dove siamo, perché in che modo sono connessi l’anima e il corpo, dico e Åsleik dice che be’, in effetti e rimaniamo in silenzio

182 Li sai i nomi dei colori? dice Asle Sì, dice Sorella Non ce ne sono tanti, le dice Ci sono molti più colori dei nomi che danno ai colori, almeno di quelli che conosco io, le dice Sicuramente, dice Sorella Giallo, blu, bianco, dice Asle Rosso, marrone, nero, gli dice E viola, le dice Sì e tanti altri, dice Sorella e Asle dice che è così perché il colore blu della casa è completamente diverso dal blu del cielo, dal blu del mare o dal blu del suo vestito, le dice, le basta vedere con i suoi occhi Guarda com’è diverso il blu della casa da quello del tuo vestito, le dice e dice che i colori non sono mai uguali e cambiano sempre, dipende dalla luce, le dice, ecco perché è impossibile dare un nome a tutti i colori esistenti, ce ne sarebbero così tanti che nessuno riuscirebbe a imparare tutti questi nomi, dice e Sorella dice che comunque il blu è blu, dice, e il giallo è giallo, dice

190 quando brilla il sole sembra quasi che ci siano soltanto due variazioni di grigio, ma quando c’è l’ombra le tonalità sono così diverse ed è come se i colori fossero sempre in movimento e al tempo stesso fossero fermi, sì i colori sono movimento nella quiete e quiete nel movimento, pensa Asle, per non parlare delle pareti della Rimessa, dove le assi che le compongono sono diventate completamente grigie e le spaccature del legno creano innumerevoli sfumature di grigio, pensa Asle e dice che la Rimessa è grigia, ma è anche un insieme di tonalità di grigio che non hanno un nome e Sorella risponde di sì e lui le stringe la mano con forza perché fa quasi paura che esistano così tante varietà di grigio e così tante varietà degli altri colori, si chiama blu, soltanto blu, ma di sicuro ci sono mille blu diversi, mille, almeno mille, no ce ne sono così tanti che è impossibile contarli, pensa Asle E di blu, sì, ce ne sono così tanti che è impossibile contarli, le dice Sì, dice Sorella Blu, gli dice Il cielo è blu, gli dice A volte, dice Asle

§CONSIGLI DI LETTURA: IN DUE SARA’ PIU’ FACILE RESTARE SVEGLI

Giorgia Surina. In due sarà più facile restare
svegli. Giunti Editore, Firenze, 2022

Le due amiche si recano all’ospedale per sottoporsi ad una procreazione medicalmente assistita. Non sono sposate. Non si conosce il donatore. Trattate come numeri. Quasi nude se non per i camici da salumeria con il laccetto, inquadrate. Senza privacy. Sgridate per non aver eseguito correttamente il protocollo. Senza un aiuto emotivo non tanto per la speranza, quanto per quel momento irripetibile per la donna, perché non si tratta di una semplice ingestione di una medicina. Tutto è messo alla prova. Tutto loro stesse. Da sole, se non nella loro alleanza.

E anche se ci fosse un uomo, sarebbero ugualmente sole per quanto riguarda la ricerca di una piena comprensione: un uomo non potrà mai accedere al terremoto devastante per ogni fibra della pelle, del cervello e del corpo che ha ogni secondo, quella donna che vorrebbe generare vita. Il dolore e la stanchezza comuni causate dal tentare più volte il trattamento dopo settimane di medicine di preparazione, di eventuali diete, di lastre, di controlli per la fertilità, saranno sempre quelle di lui e non di lei. È possibile anche la presenza di un rancore nascosto, nel non riuscire a divenire un padre. E se Lui è fertile, vi sarà sempre un angolo di frustrazione contro di Lei. Perché per lui di base una prestazione, che scaturisce nella socialità di un’esibizione, mentre per lei, probabile madre, è una totale Apocalisse.

Tutto ciò potrebbe accadere anche prima, per il rifiuto di lui ad accogliere l’evento atteso. L’imbarazzo e l’umiliazione per esser trattate entrambe come un pacco di magazzino sono infinitamente più lancinanti, perché vogliono concepire da sole, senza un compagno e vivere sostenendosi sempre come due amiche. Dopo esperienze sentimentali fallite, cercano la sorellanza nel divenire madri, nonostante lo sguardo perplesso della comunità, per la loro scelta poco ortodossa. Nude e alla merce del sistema sanitario e delle leggi.

Lo stile del romanzo è colloquiale, quasi diaristico. Parlato in prima persona, con locuzione gergali che accentuano alcune debolezze di stesura sintattica. Ribadiscono a se stesse la loro scelta, e quindi vi è una sovrabbondanza di un colloquio interiore con ridondanze di pronomi relativi e dei verbi declinati al futuro. La ripresa dei temi, spesso, è appesantita dalla ipertrofia d’uso di tempi imperfetti, poi schiacciati nel participio passato. Si avverte che l’autrice del romanzo è una nota e capace conduttrice radiofonica: sa veicolare le informazioni con una scrittura tesa a catturare l’attenzione di un ipotetico pubblico all’ascolto.

Bea e Gaia, le due protagoniste, attraverso i dubbi, tentano di sviluppare una morale coerente che sostenga la loro scelta. Si confidano con le madri, non lo dicono subito ai fratelli ai padri: la decisione e l’eventuale dolore della sconfitta implica la decisione di vivere il momento topico in modo intimo.

Riflettendo a proposito del suo ultimo mancato amore, Bea propone a Gaia di procreare comunque senza bisogno di un compagno: “Non si ha bisogno di un amore per vivere!”

Per divenire compiutamente se stesse, senza l’approvazione di alcunché.

Il romanzo, come una gestante, concepisce una biografia duale, che vorrebbe esser tipica di un modo di vivere la maternità. La scrittrice stessa si fa madre, attestando un percorso di vita che anticipa nuove possibilità dell’esistenza. Giorgia Surina negli specchi di se stessa, moltiplica l’atto di generazione per qualsiasi altra lettrice.

I capitoli si svolgono alternati tra le due protagoniste, in un contrappunto di un battito del cuore, come quello di una vita che nasce.