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Tanti anni fa ho cominciato a scrivere poesie, per gioco, inconsapevolmente. Quei versi erano solo miei. Mi facevano compagnia, erano il mio modo personalissimo di esprimermi. All'inizio del 2012 ho cominciato a scrivere con più consapevolezza. Se nel mio primo periodo la mia espressione artistica riguardava la creazione al di fuori di me, ora la materia della mia espressione artistica sono io, le mie emozioni, le mie sensazioni. Un'introspezione dunque, profonda ma liberata. Ora voglio condividere. Ora posso svelare. Con i miei versi. Con le mie poesie.

§CONSIGLI DI LETTURA: KARIN BERGOO. L’ARTISTA CHE MODELLA IL FUTURO

Karin Bergöö Larsson, fotografata attorno al 1882

La vita e la creatività di Karin Bergoo attraverso i quadri di suo marito Carl Larsson. La donna che ha concepito una nuova estetica della famiglia.

Consiglio di leggere l’opera di Karin Bergöö 83 ottobre 1859, Örebro, Svezia – 18 febbraio 1928, Fogdö parish) attraverso i quadri di suo marito Carl Larsson (28 maggio 1853, Stoccolma – 22 gennaio 1919, Falun, Svezia): fu un pittore e ritrattista famoso per la pittura della tecnica ad acquerello, adattata anche per le nuove forme di stampa che si approssimavano alla fine del 1800 e agli inizi del 1900. Versatile e innovativo nel dipingere su tele di diverse dimensioni, denso di immagini innestate in sequenze che furono poi dilaganti per tutto il secolo nei cartelloni, nei calendari e nei fumetti.

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Carl Larsson ritraeva principalmente tratti di vita quotidiana e famigliare. I soggetti erano la moglie Karin,  i figli e la casa dove risiedettero dopo un anno di matrimonio e di ritorno da Parigi, nel piccolo villaggio svedese di Sundborn, presso Falun. L’umorismo e la leggerezza erano i tratti distintivi del suo estro pittorico. La moglie nella storiografia e nell’opinione comune è ricordata come una madre di sette figli energica, dotata di capacità organizzative notevoli, anche nel seguire l’educazione e la formazione della prole in modo avanzato assieme al marito.

Di solito è scritto quasi sempre in una o due righe, che anche Karin Bergöö fu una pittrice e studentessa dell’Accademia Reale delle belle Arti, versatile per il suo estro artigianale e di arredamento. I testi degli ultimi due decenni,  mostrano invece l’influenza fondamentale che ebbe per il design e lo stile architettonico da interni per la Svezia, e successivamente per tutti i paesi del nord Europa.

Soggiorno
Poltrona per la lettura
Sedia da giardino

Verrebbe da pensare al detto ipocrita e omissivo “Dietro un grande uomo vi è una grande donna”. Carl Larsson per il contesto del periodo in cui visse, fu un uomo che oggi diremmo “femminista” e non tanto nei proclami, quanto nella vita quotidiana nel condividere tempo e lavoro con la moglie per la cura dei figli e della casa e nel dialogare tra pari in termini di arte, di produzione artistica, di creazione di manufatti utili per il quotidiano, e per l’educazione da impartire alla prole. Non basta però, la benevolenza di un singolo uomo. Sebbene Karin Bergöö fosse figlia di una famiglia agiata e di larghe vedute, che permisero a lei di studiare e di intraprendere anche l’attività di pittrice, gli spazi di autonomia economica e del diritto erano ben lontani rispetto alle prerogative maschili.

In altri termini: “Dietro un grande o normo uomo, vi è accanto una donna che è costretta a mantenere un passo indietro”.

Karin Bergöö concepì e realizzò nuovi modelli intimi e abiti per i propri figli e le figlie. Agili, funzionali per la vita all’aria aperta, e per i lavori e le attività quotidiane. Comodi ed eleganti in particolar modo per le figlie. E con lo stesso impegno si cimentò per vestiti più formali, anche per sé e suo marito che li raffigurò nei suoi dipinti con le sue famose scene di vita domestica.

Carl Larsson https://www.tuttartpitturasculturapoesiamusica.com

Dipinto di Carl Larsson del 1912 di suo figlio che studia. I vestiti e i mobili furono disegnati e realizzati da Karin.

Vi è un tema però che è lasciato solitamente nello sfondo: l’infanzia e l’adolescenza sono allungate e i figli sono considerati soggetti autonomi nel leggere, nel giocare, nello scoprire la natura con il gioco e lo studio. Vi sono scene in cui mangiano all’aperto su tavoli allestiti fuori casa, e anche nei pic nic, vestiti in modo elegante. Vi sono indumenti di mezza stagione per le passeggiate, per le letture, e quelli sportivi. Vi è una idea dell’adolescenza e della crescita che stava prendendo piede tra la fine dell’ottocento e all’inizio del novecento, come quella di Maria Montessori, per la quale il bimbo costruisce l’adulto dentro di sé e quindi è già un soggetto degno di rispetto nell’intendere con estrema serietà le sue attività quotidiane.

I vestiti ampi, chiari, multicolore, variabili nello stile in base all’età dei giovani e degli adulti, furono presi a modello dalla borghesia Nord Europea. Eleganza e leggerezza.

Figli in lettura nel giardino in estate, del 1916 di Carl Larsson.

Karin Bergöö progettò sedie, tavoli, armadi, seggiole, letti, con materiali poveri e di qualità con uno stile completamente diverso rispetto a quello tipico svedese che era plumbeo, monotono, grigio e marrone scuro. La comodità, la leggerezza e l’esplosione dei colori nella essenzialità e semplicità delle forme, furono gli indicatori che mutarono radicalmente lo stile del design svedese che si propagò poi in tutto il Nord Europa.

Emerge una fusione dell’arte giapponese e degli stili modulari inglesi e in questi lei elaborò trame astratte per le tende, per decorare gli armadi, i divani, le poltrone, immettendole in forme curve di Art Noveau.

Lei cambiò l’idea dello spazio domestico: assieme al marito, ad esempio, tolsero le tende e alcune pareti divisorie nel soggiorno, per porre nel centro un piano rialzato, confinandolo con la mobilia. E lì ci si poteva riposare o mangiare, lasciando i quadranti esterni per altre attività, concedendo una intimità nuova in cui la casa diveniva un luogo in cui moltiplicare le attività ricreative e di riposo, e il tutto mantenendo giochi di luce, tal, da non creare zone di ombra aggiuntive.

Karin Bergöö ha inteso il suo vivere in una espressione artistica che ha definito una nuova sociologia della famiglia, e ha perfezionato nella pratica quotidiana le nuove proposte pedagogiche del periodo. Cambiò il rapporto tra il dentro e il fuori, tra il domestico e il pubblico. Le attività fino ad allora reputate non degne di nota dal punto di vista della cronaca e dell’arte, divengono il soggetto principale che è la fonte di nuovi modelli del vivere nel mondo, e di nuove concezioni nell’elaborare manufatti.

Lei dipinse pochissimi quadri rispetto al marito, ed è ovvio: aveva più incombenze quotidiane. Inoltre la società svedese dell’epoca non è che fosse così aperta ad accettare una imprenditrice e artista autonoma.

Carl Larsson è famoso per aver ritratto la sua vita famigliare, e si sorvola sull’elemento sotterraneo: il mondo ritratto fu CREATO da Karin Bergöö. Non solo come mera organizzazione dei tempi e degli spazi, non solo per aver ampliato uno stile e un’anima artistica alla casa, alla natura e agli ambienti sociali circostanti, e non solo per aver determinato nuove scansioni sociali dell’infanzia e dell’adolescenza. No. Non solo questo. Lei ha anticipato il futuro. Noi, vedendo queste scene di vita, abbiamo una sensazione di felice nostalgia e di famigliarità. Non può che essere così, perché l’opera di Karin, certamente non l’unica, è un puntello della visione del mondo a noi contemporaneo.

Qui vi è un doppio inganno che è anche patrimonio dell’opera d’arte. Il pubblico che vede queste opere ritratte da Carl Larsson, sono dipinte, scolpite, cucite, segate, levigate da Karin Bergöö. Non sono dolci e infantili segni del passato che più non è, rispetto a una natura quasi edenica.

La natura dei boschi, dei giardini, dell’armonia che per noi sembra perduta, è invece una creazione nuova dell’uomo, anzi della donna contemporanea, che emerge in autonomia nei fatti, nella visione, nelle creazioni artigianali ed artistiche. È una visione estetica futura, a NOI contemporanea. La borghesia alfabetizzata, industriale nella suddivisione degli spazi e del tempo, nella concezione progressiva e sovrabbondante delle fasi di crescita.

L’estetica fornita da Karin Bergöö è subita da Carl Larsson nelle sue composizioni che mostrano un ambiente che poi divenne popolare nei fumetti, nei dipinti, nella formazione primaria di tutto il novecento. La fantasia e l’immaginazione di intere generazioni hanno attinto estro e creatività da questi luoghi, per comunicare immagini di sé che sono il tesoro della nostra crescita d’infanzia e delle età adulte.

Lei, vivendo, ha creato un futuro, che noi non approfondiamo e non riconosciamo, perché ne siamo totalmente immersi: è il nostro presente: l’apparentemente leggera apertura alla varietà delle forme del mondo con le quali noi riconosciamo il nostro corpo, come spazio di relazione di apprendimento nel gioco e nella individuazione delle future immagini di sé.

Lei è la testimone di una nuova estetica nel determinare le interazioni sociali all’interno dei processi di crescita in un mondo in fase di costruzione, dove lo spazio privato e lo spazio pubblico, ampliano le loro reti di significato in un contesto per noi contemporaneo.

§CONSIGLI DI LETTURA: IL RISOLUTORE

Pier Paolo Giannubilo. Il risolutore. Una vita estrema, 2019, RIZZOLI LIBRI

La lettura di quest’opera entra direttamente nelle viscere di noi stessi, nel nostro inconscio collettivo, nel nostro recente passato.

Il libro offre uno specchio dell’Italia di ieri sera e di oggi sul terrorismo, sulle stragi, sulla guerra fredda e su quelle calde dei nostri giorni. I protagonisti e gli avvenimenti sono accaduti, tutti, nessuno escluso. Qualche nome è cambiato per evidenti ragioni, dovute al tema che è riferito alla memoria di un sottosuolo. L’Italia delle stragi e dei servizi segreti operativi anche all’estero.

Una intervista biografica trasformata in un romanzo, dove nello svolgersi della narrazione l’autore e il protagonista si compenetrano nei loro recessi emotivi e ancestrali, passibili di divenire un lato della nostra memoria collettiva inconscia. Se ci si inoltra nella lettura, il distacco emotivo è impossibile. Gli eventi arrivano dentro le viscere del lettore.

Pag. 265 “[…] Io mi sono buttato in quest’impresa con motivazioni da vendere, ma lui perché lo sta facendo? Perché lanciarsi senza paracadute in un coming out così azzardato, che metterà a repentaglio tutti i suoi rapporti personali? La sua versione è che ha deciso di rompere il silenzio per due ragioni. Primo, per riconciliarsi attraverso un atto di verità con se stesso, col prossimo e col Dio d’amore sulle cui tracce si è rimesso da anni – la penitenza pubblica di un cristiano delle origini, tanto più efficace quanto più pubblica. Secondo, per contribuire a «fare un po’ di luce su alcune questioni della nostra storia recente che a molti, per troppo tempo, ha fatto comodo occultare». […]”

Pag. 267 “[…] La verità è che non sono mai uscito da me stesso scrivendo di lui – neanche per un momento. […]”

Il punto di vista è focalizzato dentro i corpi raccontati, sognati e vissuti dal protagonista. Lo scrittore è parte integrante del libro come protagonista e disponendo il ritmo della narrazione anche attraverso alcune sue concomitanti vicende biografiche. La vicenda si caratterizza anche per un contrappunto tra il passato che è vivo nel dialogare concretamente con il presente attraverso il malessere che corre tra gli occhi del protagonista e dello scrittore.

Il protagonista usa lo scrittore per raccontare le sue storie in un’ottica di rivisitazione del passato, quasi per trasformarlo in un testamento, per rimodulare le scelte accadute. Vi è il tentativo di immaginare diversi schemi temporali, in cui innestare giustificazioni del proprio operato. Vi è l’intento di fotografare nuovamente l’accaduto con diverse cromature, in modo che si possa lenire il dolore, per la lacerazione infinita del presente, dove la persona, le convinzioni passate e attuali, il proprio operare, le immagini di sé, rappresentano uno scarto contraddittorio. Con la consapevolezza, che se lo scarto opprime e dilania, la cura mostra l’errore e l’orrore della propria vita, cioè di ciò che si testimonia di sé: un integrale atto di accusa.

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Un libro tragico nel suo fine, perché, anche se lo scrittore riuscisse a offrire un resoconto farmacologico, l’esito della cura toglierebbe la nevrosi, il cruccio, la lama che taglia ogni bugia, tesa a occultare la colpa e l’integrale responsabilità di se stessi per una sconfitta subita e voluta, che sfiorisce la speranza di una vita migliore. Da una vita connotata da iperattività, che si contraddistingue in una fuga tracciata in un percorso circolare, dove si tenta di occupare ogni luogo di proprie opere e parole per occultare la catena potenzialmente infinita delle azioni oscure e innominabili, alla fine si dipinge la propria sconfitta. La sopravvivenza nel presente celebra la negazione di tutto ciò che si è sempre voluto.

Dall’altra parte lo scrittore, usa anche lui il protagonista e il suo vivere in modo terapeutico. È scisso da un rimando continuo del suo tempo, e dalla negazione delle persone, degli auspici e delle possibilità di relazione con le parti del mondo, tenute per intime. Una ex, una donna amata, la madre, la sorella che si vuole aiutare e che rimane sola, le aspirazioni di scrittore, la doppia immagine che è nel pubblico lavoro e nelle proprie credenziali rispetto alla comunità di riferimento, e alle sospensioni ondivaghe della percezione di sé nel tempo. Una adolescenza non finita, e non pienamente compresa, una prospettiva di azione negli stadi successivi dell’età adulta, nel senso integrale di inadeguatezza di ciò che si è facendo, nel pensare e nello scrivere rispetto a ciò che si prova nell’immedesimarsi nella propria carne. La propria carne del corpo che è inadeguata per un trapianto verso la madre, l’unico possibile contatto salvifico. Dall’incapacità di relazionarsi con la madre, nel momento che ella dimorò nelle case del ghiaccio, prima di uscire verso la strada senza riflesso. Nell’ammirare esternamente la sorella, in confronto alla sua incapacità emotiva, espressiva, operativa rispetto al dolore.  

E ora sentendosi monco, ecco che incontra un universo dell’altro che è di Piero e Alessandro Manzoni l’erede, nell’arte, nella scrittura di poesie su se stesso e sull’Italia nei suoi conflitti in ombra, ma sempre presenti. Lo scrittore, di rimando, assieme al protagonista, attraverso l’orrore e all’apparentemente assurdo, dialogano testimoniando di ciò che fu di loro stessi, delle loro speranze sfiorite, nel racconto d’invenzione di quei petali di giorni, tentando di offrire un polline reale verso il futuro.

I due parlanti stipulano un’intesa sapendo che il prezzo da pagare è la consapevolezza che porta l’ansia, il pericolo, e l’avvertimento di una caducità del proprio vivere in una progressiva sporgenza verso il bilico di un burrone. Il racconto è l’unico segno visibile dal cielo, scritto in un’isola arsa di Sole, di parole, e di persone, che offre la testimonianza di un altro vivere per rigenerare l’immagine di un nuovo futuro.

E qui è l’arte che canta nel ricordo e nell’esposizione, la loro volontà di scontare la propria pena, che è tutta il loro vivere. L’unica energia rimasta per seminare un’altra, disperata stavolta, possibilità d’esistenza.

§consigli di lettura: CAVOUR IL GRANDE TESSITORE DELL’UNITA D’ITALIA





© 1984 by Denis Mack Smith © 1984 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A.

© 1996/2010 RCS Libri S.p.A., Milano eISBN 978-88-58-76113-7 Prima edizione digitale 2013 Titolo originale: CAVOUR Traduzione di GIOVANNI ROSSI In copertina: Camillo Benso di Cavour in un ritratto di Hayez.

Il libro promette di svelare integralmente la personalità di Camillo Benso Conte di Cavour, ma forse è lui che sta svelando il nostro lato oscuro dello specchio.

Denis Mack Smith mostra quanto sia giovane l’Italia, ma noi italiani, nel leggerlo, avvertiamo di essere molto più antichi e infinitamente più complessi delle rappresentazioni offerte dall’opinione comune.

È un libro che ha avuto un enorme successo, quando fu pubblicato nel 1984. La storiografia da allora è andata avanti, perché mostra la limitatezza dei processi storici del periodo attorno alla figura di Camillo Benso Conte di Cavour. Lo stile è scorrevole. Non è un mero resoconto, perché sembra quasi un romanzo biografico, benché sia corredato da fonti autorevoli. Lettere, diari e i documenti degli archivi di Stato. La narrazione è basata sulle fonti dirette fornite dai protagonisti del tempo e dagli studi successivi dopo la morte di Cavour, passando per la rilettura del periodo fascista a quello successivo alla seconda guerra mondiale. Anche se alcuni archivi furono negati alla consultazione, i riferimenti incrociati permisero a Denis Mack Smith di percorrere le vicende pubbliche e private di Cavour assieme alle tendenze di lungo periodo che ancora oggi subiamo qui in Italia: dalle relazioni costituzionali e amministrative conflittuali tra gli organismi nazionali e quelli locali; dalle differenze linguistiche, economiche, sociali delle popolazioni italiche, dovute alle dominazioni dei differenti imperi e regni esteri, da vincoli economici come la mancanza di materie prime. Nonostante che nella minoranza esigua della popolazione ci fosse una comunanza storica e culturale verso un passato che il processo risorgimentale stava ricostruendo e ancor di più usando come mito dopo le guerre di indipendenza, la penisola italica era peculiare agli occhi altrui per la disorganizzazione e la parcellizzazione delle esigenze e delle rivendicazioni, e per un analfabetismo endemico, se rapportato alle nazioni del nord, e per una povertà spaventosa, da rasentare condizioni di servitù quasi medievali.

La vita di Camillo Benso conte di Cavour è una sonda che svela tratti di noi italici ancor oggi attuali. La sua vita nel corso degli anni, per le cariche assunte, era totalmente pubblica in sintonia con il suo presente, al centro dei conflitti europei. Fu una figura complessa e ambivalente, per l’eterogeneità delle valutazioni espresse dai regnanti, dai diplomatici e dai politici italiani ed esteri. Si avverte una sensazione di incompiutezza nelle descrizioni. Lo sconcerto deriva dalla condizione che indirettamente anche noi lettori siamo implicati in quei giudizi espressi.

Nel testo mancano riferimenti bibliografici diretti: solo nelle ultime pagine sono spiegate le modalità di reperimento. Da un punto di vista rigorosamente storico, ciò farebbe storcere il naso a lettori attenti, ma lo stesso autore spiega che in altri suoi libri vi sono note più puntuali associate ai documenti originali del periodo. Il libro è composto da più piani di lettura: una biografia quasi romanzata che permette di avere una visione panoramica di tutti gli altri attori; una stesura di valutazioni delle luci e delle ombre del risorgimento in rapporto alle vicissitudini di Cavour, che però non sono meramente psicologiche o morali, perché afferiscono a documenti storici pubblicamente consultabili. Infine, vi è una continua riflessione sul modo di leggere gli eventi, gli uomini e le donne di quel periodo, sia dal punto di vista del lettore sia dalle possibilità ulteriori per la ricerca storica, sia per l’agone politico odierno.

Introduzione  “[…] Queste vittorie furono conquistate contro avversità di ogni specie, e sono tanto più stupefacenti, in quanto il Piemonte di Cavour era uno Stato piccolo, dotato di scarsi mezzi. Non solo egli superò le difficoltà frappostegli dall’opposizione interna piemontese, ma tutti gli altri Stati italiani, malgrado ristrette minoranze fossero talvolta disposte ad aiutarlo, avversarono vigorosamente la sua opera. Uno dei risultati fu che il Risorgimento, lungi dal risolversi totalmente in una lotta contro l’oppressione straniera, fu anche una serie di guerre civili, le quali fatalmente lasciarono aperte ferite che non sarebbe stato facile sanare. Cavour ottenne grandi successi nel raccogliere adesioni al nuovo Regno, ma talune divisioni interne si rivelarono irriducibili: non soltanto la divisione tra conservatori e radicali in politica, ma quelle tra Chiesa e Stato, tra proprietari terrieri ricchi e contadini poveri, tra le più prospere regioni settentrionali e la miseria del sud. Tirate le somme, l’unificazione italiana fu un grande successo. Ma alcuni fallimenti collaterali lungo il cammino sono un elemento essenziale del quadro, e pongono in rilievo in tutta la sua pienezza il trionfo finale. Talvolta Cavour parve trovarsi sull’orlo del fallimento totale; talaltra compì quelli che per sua stessa ammissione erano errori di giudizio, ed impiegò metodi che sapeva sarebbero stati considerati disonorevoli; qualche volta, quando le circostanze sembravano congiurare contro di lui, parve in balìa degli eventi. L’abilità di Cavour si può valutare, giustamente, tracciando non soltanto i successi ma anche le difficoltà, le incertezze, gli sbagli, nonché ciò che lui stesso chiamò «la parte meno bella dell’opera». Ma la capacità di porre rimedio agli errori e di sfruttare a proprio vantaggio condizioni avverse era un ingrediente essenziale della sua suprema arte di statista. Nessun uomo politico del secolo – sicuramente non Bismarck – seppe realizzare tanto muovendo da così poco. Fu sventura gravissima ch’egli non vivesse abbastanza a lungo per poter applicare la sua abilità e la sua intelligenza ai problemi iniziali del Regno alla cui creazione aveva contribuito in misura tanto rilevante. […]”

§CONSIGLI DI LETTURA: LE GUERRE DI MUSSOLINI. DAL TRIONFO ALLA CADUTA

John Gooch Le guerre di Mussolini dal trionfo alla caduta Le imprese militari e le disfatte dell’Italia fascista, dall’invasione dell’Abissinia all’arresto del duce.

Titolo originale: Mussolini’s War. Fascist Italy from Triumph to Catastrophe, 1935-43 Original English language edition first published by Penguin Books Ltd, London Copyright © John Gooch, 2019 The author and illustrator have asserted their moral rights All rights reserved Traduzione dall’inglese di Marzio Petrolo, Micol Cerato, Cecilia Pirovano Prima edizione ebook: settembre 2020 © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

Il libro di John Gooch offre una ricca bibliografia riferita agli attori istituzionali implicati nelle vicende delle guerre d’Italia durante il periodo del fascismo. Un puntuale resoconto storico che snoda le fasi di preparazione, di inizio, di svolgimento e fine dei conflitti. Passa dal livello di diario, a quello di lettera, al riassunto di una riunione, al dispaccio, e alle riflessioni scaturite dalla lettura dei documenti storici che negli anni si rivelavano dopo la seconda guerra mondiale.

È utilissimo nell’approfondire il fascismo nella sua organizzazione militare ed istituzionale che pervadeva l’intera società italiana. Vi sono motivi storici per la rimozione di ciò che l’Italia e gli italiani furono in quegli anni nella messa in campo della politica coloniale, nelle repressioni interne, nella povertà, nel relativo miglioramento e progresso dovuto allo sviluppo tecnologico, e al lento ma continuo processo di alfabetizzazione, accompagnato da una limitazione ideologica e repressiva della libera ricerca e del libero pensiero. E ancora di più, nella nostra inclinazione ad abbandonare l’alleato di un’ora prima, per abbracciare il più forte che emerge nella contingenza.

Nel libro risultano tendenze di lungo periodo di noi italiani nella mancanza di organizzazione e della improvvisazione che si legano a una notevole creatività, associata però alla negazione della realtà dei fatti e dei propri limiti, per ottenere il consenso basato sulla suggestione, sulla bugia, sul plauso e sulla teatralità. Prevale in modo strutturale l’impreparazione, il clientelismo deleterio che premia figure analfabete, inadeguate, criminali e meschine. Sia chiaro: l’opera Benito Mussolini nell’accentrare il potere, inibire il coordinamento tra i vari corpi militari e nel disattendere i piani e i consigli preparati dai tecnici, dagli economisti, dai pochi generali valenti e onesti intellettualmente che lo criticavano nelle sue scelte portando argomenti chiari e coerenti, non è giustificata. No. Anzi: lui e l’apparato sono ancora più responsabili di aver portato a morire decine di migliaia di giovani consapevolmente e di averli lasciati allo sbaraglio senza armi, vettovaglie e indumenti.

La figura di Benito Mussolini risulta completamente inadeguata, limitata, folle nell’intendere la guerra, la tattica, la strategia. Considerando il contesto italiano deficitario di materie prime e di fattori di produzione siderurgici in una strutturale dipendenza dai capitali esteri, emerge l’ineludibile tendenza a finire nelle braccia della Germania durante il corso della guerra. Braccia velenose e crudeli.

Come in ogni guerra, in uno stesso esercito o battaglione vi sono atti di crudeltà e di orrore, assieme a quelli di eroismo, umanità e di fraterna compassione anche per i civili. Nel libro è descritta passo passo la nostra responsabilità, censurata nella memoria collettiva, della guerra di Spagna: fummo risoluti nella letalità e nella crudeltà, come nella guerra d’Etiopia. Nonostante tutto, però, a molti generali e alti funzionari delle istituzioni governative, fu chiaro che non eravamo in grado di sostenere una guerra contro le forze imperiali. Nel libro è trattata in parallelo l’invasione delle Jugoslavia, della Grecia e dell’Albania. E in ognuna di queste tragedie emerse rispettivamente l’orrore che compimmo, la valida resistenza dei greci e la nostra impreparazione che ci obbligò a richiedere l’aiuto della Germania. Fu l’inizio della fine che fu anche declinata nella ridicola invasione in Francia; ridotta a una serie di scaramucce nei confini, che causarono una seconda richiesta di aiuto alla Germania. Vi sono preziose pagine relative alla preparazione e alla conduzione della “gloriosa” campagna in URSS. Il disastro consapevolmente voluto.

I militari italiani al netto dell’impreparazione organizzativa e logistica di queste campagne di guerra, furono simbolicamente fucilati alle spalle dai generali; descritti uno per uno. Nonostante tutto, alcuni reparti delle forze armate italiane furono ammirati e rispettati sia dai tedeschi, come Rommel, sia dagli inglesi, in particolare gli alpini e i bersaglieri che combatterono con il nulla che avevano a disposizione.

Vi sono anche le descrizioni dettagliate degli scontri tra i croati e i serbi e tra questi, tra i cetnici, i repubblicani, i comunisti, i musulmani, gli albanesi, i kosovari e i montenegrini. Non furono   da meno anche loro nelle azioni crudeli. I fattori di quei conflitti sono utili a comprendere le instabilità politiche del presente in Europa.

È un libro veramente storico: una miniera per comprendere oggi e ieri, indirettamente anche prima del fascismo. L’autoritarismo. La formalità stucchevole e polverosa, quasi tenue che nasconde però il disprezzo totale per il popolo. Una nazione di mentalità signorile che tende ad accentrare il potere in pochi cooptati per la benevolenza da parte dei potenti, e che tiene il controllo verso i cittadini con un paternalismo a gocce da una parte e da una fredda autorità verso i sottoposti. Una mentalità signorile che fa la voce grossa con i più deboli, ma pronta a riverire chiunque gli si mostri di poco più forte. Compiacente verso il miglior offerente in modo sciatto, meschino, goffo e assurdamente controproducente.

Forse sono caratteristiche che si possono ritrovare ancor oggi.

È sorprendente come i pochi generali, nell’aderire al fascismo e alle sue caratteristiche più oscure, alla fine mostrando anche un amor proprio per sé e per la patria, opponendosi alla sciatteria guascona del regime e dello stesso Benito Mussolini, fossero rimossi immediatamente, inascoltati dai loro colleghi, i quali mostrarono un atteggiamento meschino e rivoltante nell’evitare le proprie responsabilità, accusando i propri sottoposti.

Leggendo questo lavoro imponente si prova vergogna per ciò che siamo stati, e compassione per le donne e gli uomini traditi e mandati allo sbaraglio. Un paese che uccide i propri figli e che nega una visione strategica per le generazioni future. E forse anche queste sono caratteristiche attuali.

Un libro di altissimo livello storico che, oltre a fornire un quadro a tutto campo delle relazioni sottostanti al fascismo durante la guerra, offre specchi caleidoscopici nel futuro, cioè nel nostro presente.

§CONSIGLI DI LETTURA: Bellezza di Mario luzi

In Poesie Ultime e ritrovate (1994-2005), 2014, Garzanti, Milano

Va letto tutto. Sfogliando a caso nel mezzo del libro, riporto questa poesia (Bellezza). Mario Luzi ha dentro la prosodia. Ha un ritmo innato e coltivato negli anni di letture, esercizi, prove, e di vita vissuta per ogni aspetto del suo vivere. La lingua italiana: aperta nelle vocali, con un ampio spettro cromatico in relazione alle variazioni di timbro delle consonanti. La possibilità di variare gli accenti nei versi secondo ritmi regolari, con forme che si avvertono immediatamente nella composizione dello scorrere del verbo parlato e scritto. È La bellezza della lingua italiana nella possibilità di variare nelle gutturali, nelle dentali, conferendo il ritmo poetico dell’armonia dei suoni, nella capacità di mantenere la coerenza d’accento nella variazione dei volumi sonori.

Tutto ciò permette la costruzione di complessi legami tra i versi e le strofe che richiamano strutture coerenti tra le armonie sonore, in modo che l’orecchio le percepisca. La colossale capacità della lingua italiana di sostenere la musicalità del canto poetico in una quantità impressionante di sequenze di versi, senza mai cedere alla facile caduta e appiattimento del verso deteriorato in prosa.

Mario Luzi scrive in modo rarefatto in apparenza, ma tale leggerezza deriva da una densa riflessione sui temi trattati in concomitanza al suo estro poetico che è fisico e immediato. La bellezza si subisce. L’estetica è un patimento in cui il corpo e la mente avvertono la loro divisione creduta, nella possibilità di esprimere la gamma dei sentimenti, scaturiti dalle emozioni in rapporto al mondo. La realtà spinge, irrita, penetra, muove, strabilia, strugge, impaurisce, allarga il giudizio che noi abbiamo del nostro stare con noi stessi e nel mondo.

Nei primi tre versi il mondo si presenta innanzi a noi, nel suo stare davanti e dentro il nostro sentire, che è la base del pensare e del parlare. La bellezza, la forma, il volto. Le regolarità in cui il pensiero determina se stesso attraverso il linguaggio scaturiscono dalle forme che avvolgono i visi degli umani, dei paesaggi, degli alberi, delle case, del cielo, dell’orizzonte, in cui il collegamento comune è quella indeterminatezza che è denominato il bello. Non a caso Mario Luzi scrive il termine “sentiamo”. Bellezza ti sentiamo, ma non ti vediamo, non riusciamo a definirti, ma è impossibile negare che tu non sia. In questi primi tre versi il mondo si presenta e noi riceviamo cognizione di noi stessi attraverso il mondo, con il sentire che è illusione e incanto. Cioè lo stupore, la meraviglia: il cuore del nostro pensare anche nel suo decadimento nel linguaggio e nel verso.

La poesia incanta. La sorpresa blocca quello che crediamo sia il pensiero. La bellezza mostra la nostra limitatezza: liquefa i muri regolari che noi creiamo nell’illusione che sia il mondo. Si noti come gli ultimi tre versi si concludano con le dentali. Cioè abbiamo un blocco della riflessione, perché essa avverte che noi eravamo nell’illusione dei giudizi creduti stabili. La bellezza, la forma e il volto ci ammutoliscono, e quindi le dentali bloccano il fluire del verso, perché inadeguato a descrivere nel ritmo poetico tale sentire.

E tale consapevolezza è comune. Il poeta qui è già aperto in questo sentire che avverte l’essere comune a ognuno. Questo noi è di colui che legge, che poetizza, che semplicemente avverte tale meraviglia. L’irresistibile senso poetico che è l’elemento comune di ciò che è umano.

Il verso successivo è una esortazione nella consapevole idea che la bellezza non è da noi eterodiretta, e la si prega della sua benevolenza o in modo invertito nel ritmo del verso, nel quale noi stessi si sia capace di sorridere, cioè di sostenere la propria apertura verso il mondo. Tale sorriso non manifesta la sua presenza, ma richiama un segno che traluce tra l’ombra del mondo, che è tale perché copre una sorgente che abbaglia; impossibile da vedere integralmente. La mente, cioè la riflessione su tale sentire, si innalza ovvero sente la convinzione che i pensieri possano mantenere tale sorriso che è contemplazione, nel giudizio che qualsiasi opera, parola, progetto sulla bellezza è una contraddizione: l’impossibilità a rinchiuderla, ovvero a serrare la sua bocca. La luce del verbo che traluce.

E poi nella consapevolezza che agisce al di là dei nostri intendimenti, e quindi nella nostra necessità di fornire un quadro compiuto del mondo, che è impossibile a determinare, allora noi, non lei, cala a precipizio. Ciò ci sgomenta, ma lo sgomento è il nostro calare del precipizio dell’illusione di averla afferrata, e quindi in una oscurità opaca che non permette il tralucere.

Si noti il gioco dei due versi tra il “tralucere” e il “talora”. E anche qui le dentali sono poste in modo invertito, rispetto ai due versi precedenti che si concludevano con altre due dentali. Questo collegamento incrociato, mirabile, di livello altissimo nella prosodia, permette a noi lettori di comprendere il senso logico, fisico, estetico di questo scorrere poetico con apparente semplicità, come se tale discorso fosse naturale, senza bisogno che ci si fermi a riflettere del doppio gioco che si pone tra le attività del nostro io verso il mondo.

Questi versi sono il resoconto di millenni di senso estetico, dipinti dalla meraviglia, in modo apparentemente leggero e per noi lineare nella lettura. Non avvertiamo nel magnifico gioco delle consonanze e delle assonanze che la lettura quasi lineare è una illusione che maschera una struttura complessa del discorso con variazioni multiple di cadute verticali emotive. A noi sembra appunto elementare tale discorso, perché Mario Luzi, non attua metafore, allegorie, allusioni, rimandi, ma pone il tema davanti, con la sua capacità poetica nel mostrare che tale oggetto è inafferrabile, e appunto tale gruppo di versi mostra l’impossibilità di presentarlo compiutamente nel verso. Sono versi denotanti una negazione che, attraverso la chiarezza dei legami consonantici, a noi risuona immediatamente innanzi. Qui è la grandezza di questo poeta.

Mario Luzi mostra il ritmo del parlare e del verso, di ognuno di noi, nell’innalzare e nel calare, le armoniche dei pensieri sugli orizzonti del mondo.

Il verso successivo apre una danza contraria rispetto alla esortazione del sorridere, che è quello di chiudersi, perché appunto consapevoli di non essere noi gli artefici del suo essere. La bellezza è paga, piena, non abbisogna di noi: ecco la meraviglia e lo stupore. L’indifferenza non è della bellezza, perché altrimenti sarebbe personificata. L’indifferenza diviene dalle nostre illusioni di descriverla, cioè di differirla. Il nimbo è questo luogo indescrivibile. La nuvola non ha forma e non ha volto. Cangiante nella continua risposta a esser descritta.

Tale verso di esortazione è un inganno, perché è una ripetizione del verso precedente sul sorridere, e fa credere che sia la bellezza ad agire e ad essere in relazione con noi. I due versi invece descrivono le nostre reazioni: il nostro sentire che vorrebbe dare la forma, cioè del sorriso che è aperto. La preghiera informa del consapevole artificio della sua inutilità che non dipende da noi. La bellezza che noi avvertiamo, è lo stupore della nostra impossibilità, che può esser descritta non da un comando, ma da una esortazione che è l’estetica sensazione della propria limitatezza.

“Non dormire in te” è la prosecuzione dell’inganno poetico, cioè io poeta dormo nella mia illusione che sia artefice della possibilità di incantarmi della bellezza, intervenendo su essa. Cioè versificando su di essa. Il termine “profondi” è trasformato in un aggettivo verbale, che, con le locuzioni omesse, crea un collegamento nascosto nel ritmo poetico nell’esortazione a non dormire. Il termine “profondi” avverte la presenza dell’oscuro, corrispondente per il poeta all’aprirsi alla grazia, ovvero a ciò che è di inaspettato e impossibile da contrattare, ma che può comunque arrivare. Tale possibilità implica l’impossibilità a dire che non arriverà mai. Non tanto perché si sa della grazia, ma perché noi, sia per la bellezza sia nello sprofondare nel mondo dell’indicibile, non possiamo definire alcunché. L’esortazione del poeta è nel suo verso e nella sua ultima illusione che la grazia sia.

Questa poesia ha quattro gruppi di esortazioni aventi la funzione di sorreggere le strofe, che giocano sulle sibilanti della limitatezza, della bellezza e sull’innalzare che taglia i nostri pensieri. Tale limitazione avviene per il sentire attraverso lo sgomento e il senso del profondo. Il legame del verso raccorda i due termini nel ritmo le due esortazioni finali relative alla grazia, la quale essendo prodiga, mostra il nostro volere piccolo e bugiardo.

La poesia conclude con il termine “Siilo”. È una meravigliosa chiusura di un sentire dolce, timido, consapevole e universale. Che tu lo sia. “Siilo” è la radice di tutti i versi della poesia con questa sibilante iniziale “SI..” che fa da contraltare con le “z” che tagliano. È una preghiera di speranza. L’ultima illusione di questo immenso poeta.

Bellezza, lo sentiamo

che sei al mondo.

Qualche transitiva forma

ci illudiamo ti sorprenda.

Da qualche raro volto

ci fulmini e ci incanti.

Sorridi, se puoi, traluci

tutta quanta: la mente

innalza allora i suoi pensieri,

talora, lo so, cala

a precipizio dentro i suoi sgomenti.

Non chiuderti però,

ti prego, paga

o indifferente nel tuo nimbo,

non dormire in te, profondi

in chiarità

viva la grazia – fu prodiga

con te lei, tu pure

vogliamo che lo sia. Siilo.

§CONSIGLI DI LETTURA: vita e destino

Uno struggente, continuo, poetico inno alla vita

È motivo di imbarazzo la volontà di scrivere qualche riflessione su “Vita e destino” di Vasilij Grossman nella ristampa del 2008, Gli Adelphi, Milano. Semplicemente: è un capolavoro monumentale. È un viaggio nell’animo umano: di ciò che più intimo abbiamo nello splendore e nella dignità del vivere di ognuno e del suo morire. In questo libro vi è la compassione, l’amore, l’odio, la bassezza e la meschinità, la crudeltà, l’assassinio voluto e progettato, l’orrore, il razzismo, la guerra, i lager, i gulag, la fame, la malattia, la speranza, la dolcezza, la voglia di amare se stessi, i propri cari, i figli e le figlie.

Fu terminato nei primi anni sessanta del secolo scorso. Vasilij Grossman combatté a Stalingrado durante la seconda guerra mondiale. Fu un giornalista, un saggista, un romanziere, un lettore attento dell’animo umano, un esperto di politica, e, per le sue esperienze, un profondo conoscitore della guerra e dell’oppressione. Scrisse diari e libri sulle vittime per opera dei tedeschi in URSS. Ebbe una lunga gavetta dura di sangue e di letture, di vita e di morte. Padroneggiava gli stili dello scrivere. Profondo conoscitore della letteratura russa e, nelle pieghe della censura sovietica, anche di quella degli altri paesi.

Il libro fu censurato dall’Urss e anche da noi, qui in Occidente. Da colui che visse Stalingrado, prima della guerra e dopo, e la censura di Stalin e di Krusciov. Si sente la Russia che è prima e continua a esserci nell’URSS. La Russia che non è solo dei russi, ma dei popoli che lì dimoravano nelle pianure infinite. Riformula continuamente la nozione di popolo, di epica, e della madre Russia. Non a caso è stato definito il libro che segue “Guerra e Pace” di Tolstoj, che in realtà il titolo dovrebbe essere “Guerra e vita”. Un libro imbarazzante per il mito del cuore del popolo russo e anche del nostro, di noi (non gli italiani, perché combattevamo con i tedeschi) alleati. Colpevoli di aver chiuso gli occhi sui lager e anche sulle epurazioni che dopo la guerra l’URSS intraprese contro coloro che professavano la religione ebraica.

Vasilij Grossman è consapevole che il processo storico sociale del nazismo non può essere semplicemente equiparato a quello del comunismo, ma, a costo di rischiare la vita o di finire povero e isolato (e ciò accadde, dopo i fasti e gli onori per le sue attività di guerra e di scrittura durante la guerra e nei primi anni successivi ad essa), volle affrontare la verità: la rivoluzione russa con Stalin e con l’URSS è stata tradita. I popoli dell’URSS dopo il nazismo vivono un comunismo che tale non è, perché in realtà ha un elemento comune con coloro che sconfissero in guerra: il totalitarismo che è basato sulla violenza. Ma, secondo Vasilij Grossman, l’uomo ha un anelito irresistibile alla libertà, perché ogni uomo è unico e irripetibile.

“Vita e destino” fu ripescato per caso, in una sola copia. E fu da monito per tanti scrittori all’epoca dell’URSS, come i fratelli Stugarskij che creavano copie nascoste e frammentate dei loro testi, per non farle sparire e diffonderle comunque, anche inviandole a editori che le avrebbero rifiutate (molti per non finire nei Gulag), con la convinzione che comunque sarebbero girate comunque.

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Il romanzo è uno struggente, continuo, poetico inno alla vita. La vita senza aggettivi, senza idee che pretendono di giustificarla, senza utopie che presumono darle uno scopo: la vita come dono. Questo lungo canto di sofferenza è una possente epica lirica che travolge qualsiasi narrazione ideologica, mostrandola piccola, statica e piatta nella sua visione del mondo.

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“Vita e destino” fa sentire i popoli delle steppe, tutti, non solo i russi e nelle sue pagine vi sono tratti altissimi di epica, lirica, mito, riflessioni filosofiche ed etiche profonde e capitali.

È impressionante la variazione degli stili letterari che compaiono in corrispondenza degli eventi, dei dialoghi e delle personalità dei protagonisti che sono tanti e tanti: sovietici e, ed è qui lo scandalo, anche i tedeschi. I tedeschi nella loro umanità come quella dei sovietici, sia nella loro terribile crudeltà sia nelle speranze, e nelle paure di alcuni.

Non è un libro da leggere in modo episodico e distratto. Il lettore sente i protagonisti vicino, nella loro carne, nel loro respiro, nelle loro gioie e dolori. Meravigliose le pagine dello struggimento d’amore, e terribili quelle delle azioni di guerra, vere, dure, crude, senza retorica. Ma, ancora di più, quelle relative ai lager e ai gulag. E da lì si comprende, perché nessuno, fino a che Vasilij Grossman fu in vita, volle pubblicare il romanzo. NESSUNO, ovunque.

Impossibile trascrivere un frammento di questo capolavoro: non rende giustizia a questo monumento sull’umanità. Veramente: questo è un libro che va vissuto integralmente, con tutto il proprio cuore.

§CONSIGLI DI LETTURA: Trilogia dello Sprawl

Gibson, William. Trilogia dello Sprawl: Neuromante – Giù nel cyberspazio – Monna Lisa cyberpunk (Italian Edition) . MONDADORI. Edizione del Kindle.

Tonnellate di pagine sono state scritte su questa trilogia magnifica che ha avviato un genere, più rigoglioso che mai, fino ad oggi. Si può offrire uno spunto in più, partendo dalle tecnologie di oggi. Lo stile riprende Burroughs, nel tono e nella sintassi violenta, e si frammenta in un gergo digitale. La droga è elemento chimico, strumento, tecnologia, non più pozione. Sotto vi è il mito dell’immortalità per opera di un’alchimia tra scienza, tecnologia, fede.

Il primo volume connota uno stile che continua negli altri due in una inclinazione analogica nell’evocare strumenti, meccanismi, ditte, marche, oggetti del passato: tutti fusi e impastati in un grande GOLEM: l’osare. Andare oltre i limiti e quindi pagarne lo scotto. Da Philip Dick al mito di Icaro, ad Adamo ed Eva.

William Gibson è uno scrittore unico: scrive coniando termini come ciberneutica e cyperpunk, senza conoscerne effettivamente le tecnologie sottostanti. I romanzi sono stati scritti negli anni ottanta, ma risentono di modi di vedere dei due decenni precedenti: l’impostazione è meccanica. Si riprende dell’innesto corpo macchina che è orrorifica nella locuzione del <<cyborg>>. Oggi le tecnologie sono più soft, l’impostazione è sì di rete, ma più articolata e dematerializzata. Dal tendine al muscolo, si arriva alla molecola, al Dna.

Il punto di vista è statunitense, più precisamente asiatico-californiano.

I luoghi sono claustrofobici: tombe per dormire, scale e piani a chiocciola. È una distesa cibernetica di reti, nelle quali i nodi, gli uomini e le donne, possono essere costruiti, decostruiti, riprogrammati, distrutte. Sia nelle città sia nello spazio, negli asteroidi e dentro il cyberspazio.

Nei tre libri emergono grandi quantità di oggetti di tutti i tipi: una chincagliera sterminata nel tempo, tra elicotteri, accendini, mobili, ringhiere, banconi, vestiti. Un enorme supermercato semovente pacchiano, altamente tecnologico, assieme alla sporcizia, al vecchiume, all’immondizia. Ognuno è potenzialmente un residuo che è sempre in vendita: parti del corpo, e pure le loro molecole e neuroni. Una continua presenza di polvere e pulizia patinata. Un’osmosi putrida, come i filtri di un rene.

Tutto deve essere pieno in un continuo vortice che trasmette, ingoia, pulsa oggetti. È emblematico nel secondo romanzo, il robot con le tante braccia che assembla scatole, relazioni, dati, oggetti, simboli. Significati. Il cyberspazio che parla con se stesso e ingoia continuamente se stesso.

È una trilogia che permette una nuova visione del nostro inconscio.

Sia consentita però una nota traduzione in italiano del terzo volume. Vi sono errori sistematici nell’uso dei condizionali con in congiuntivi. E talvolta l’uso di verbi fattuali ripetuti che denotano una semplificazione eccessiva del testo in lingua originale. E non mi si dica che è una traduzione letterale dell’autore. Non esiste sia nel testo inglese e anche per il fatto che nella lingua italiana si ha una maggiore libertà nel comporre le forme verbali, rispetto a quelle inglesi, e in particolare di Gibson che non usa un linguaggio sofisticato.

Nei libri che compongono una saga, o che più semplicemente si riferiscono l’un con l’altro vi è il rischio di dover elaborare finali non troppo originali, per mantenere la coerenza giustapposta in romanzi che magari all’inizio erano progettati per essere unici. Vi sono comportamenti prevedibili per alcuni personaggi alla fine. Come se l’autore volesse tirare le fila e chiudere i discorsi aperti e di poco incoerenti degli altri libri, ma il livello è altissimo nella tensione emotiva per la scansione degli eventi.

§CONSIGLI DI LETTURA: la citta’ condannata

Arkadij e Boris Strugackij LA CITTÀ CONDANNATA Traduzione di Daniela Liberti

Titolo originale Град обреченный – The Doomed City

Strugackij, Arkadij. La città condannata (Italian Edition) . Carbonio Editore.

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Copyright © 1988, 1989 by Arkady & Boris Strugatsky © 2020 Carbonio Editore srl, Milano Tutti i diritti riservati Traduzione dal russo di Daniela Liberti Pubblicato con il supporto del TRANSCRIPT Programme to Support Translations of Russian Literature della Mikhail Prokhorov Foundation

Un libro destinato a non uscire secondo le stesse intenzione dei due scrittori. Dai contenuti e dalla trama, quando iniziarono a comporlo nel 1967 nel tempo dell’Unione Sovietica, e alla luce delle enormi difficoltà per pubblicare le loro precedenti opere, i fratelli Strugackij sapevano che sarebbero incorsi nella censura in una previsione ottimistica, se non in carcere, o direttamente nei Gulag. Le esperienze dei loro colleghi scrittori erano evidenti.

Come per i precedenti libri, spedivano in prima lettura ad editori fidati, i quali rispondevano di non poterli pubblicare, perché, nonostante i temi fantascientifici, lo stile che oggi noi diremmo distopico, i temi delle fiabe, la descrizione del vivere russo e dei popoli all’interno dell’URSS, vi erano critiche all’amministrazione, al vivere civile, alle leggi, agli scopi e alla logica stessa di un apparato che si diceva rivoluzionario da anni e anni.

Lo stile delle loro opere, e di questo romanzo, è ricco di variazioni tra il favolistico, l’umoristico, accompagnato da un’analisi fredda dei meccanismi del consenso, del potere, dell’asservimento. Nonostante che i temi siano dissimulati e narrati con il meccanismo del paradosso e dell’ironia, la critica emerge netta e dura. Anzi, proprio per lo stile apparentemente leggero, pazzo a tratti, e quasi da cabaret, che aveva la funzione di occultare la critica radicale all’URSS e in più in generale alla costruzione dei miti usati dal potere politico ed economico per asservire le persone, per contrappasso, si traduceva in una condanna senza appello.

Ecco perché spedivano comunque le loro opere: anche nel diniego, le copie passavano in una cerchia di lettori professionisti sempre più ampia, in modo che poi qualcuno di loro fosse stato in grado di stamparlo all’estero. Per molte delle loro opere così accadde. I due scrittori assunsero precauzioni da vere spie dei romanzi gialli, cercando di nascondere il libro e le versioni corrette. Lo rimaneggiarono fino al 1973. Poi finalmente riuscirono a pubblicarlo dopo il crollo dell’URSS, ma anche qui dissimulando in due parti, e riducendolo. Non si fidavano degli apparati che erano ancora presenti nella nuova Russia. Nel 2000 finalmente uscì una versione unica, ricorretta e limata.

La “città condannata” è l’URSS, anzi è ogni agglomerato statuale che dopo un presunto processo rivoluzionario, per tentare di sopperire alla contraddizione tra le teorie del mutamento e la volontà di rimanere stabilmente nei centri del potere, rende vuoti gli obiettivi e gli scopi, delineando la dichiarazione di una terra promessa sempre di lì da venire, per un uomo nuovo e una società nuova. Tutto è subito in vista della società dell’avvenire, e ognuno è un ingranaggio.  I fratelli Strugackij mostrano che l’insensatezza, l’assenza di ragionamento, le parole d’ordine vuote sono gli strumenti razionali e coerenti del potere che asservisce e che ha l’unico scopo di mantenere se stesso, vuoto, e rivestito di una promessa sempre futura.

Un libro complesso, durato trenta anni. Molte caratteristiche dei personaggi, dai tic, ai modi di dire ritornano continuamente, come un leit motiv di annuncio dei personaggi delle opere di Richard Wagner. Questa apparente ridondanza è dovuta anche alla ripresa di temi e dialoghi nell’arco di decenni, con pause dovute alla scrittura di altre opere. I personaggi sono descritti in modo fisico, carnale, dalla sporcizia ai tic. Si ha l’impressione di averli vicino, fino a sentire la puzza del loro sudore. Si conosce anche il modo di vivere dei russi, ma della Russia profonda, dalle loro bevande, agli strumenti di lavoro agricolo e di fabbrica, ai carri, e agli indumenti, dai riti e dalle ricette tipiche, anche dei popoli non russi dell’URSS. Questo libro mostra il grande arcipelago dei popoli di questa Unione imperiale. La loro commistione e l’evidenza di antichi conflitti.

Sono trattati i temi dell’amministrazione, dell’informazione, della violenza, della tortura, della carestia, della mancanza di libertà, del razzismo, dello sciovinismo, e del maschilismo: le donne sono trattate molto male, proprio da coloro che indicano nell’esperimento (la società rivoluzionaria comunista, socialista, non ha importanza, anche totalitaria in modo astratto) la volontà di perseguire l’uguaglianza per un uomo e una donna nuova.

Lo stile dei due scrittori è rivestito da una sintassi brillante che avvolge il lettore, e lo spinge ad andare avanti con un ritmo talvolta da fuochi d’artificio, oppure lento e riflessivo. Vi sono variazioni continue in un tema di fondo che fornisce il ritmo della scansione degli eventi. Le allegorie sono originali e comiche.

È il loro libro: l’opera che secondo gli autori non sarebbe mai potuta uscire. Completamente inattuale. E lo è ancora oggi, perché le riflessioni contenute sono vive nel nostro presente.

Secondo le analisi di questi anni il libro è catalogato nel settore della distopia. I due fratelli nel 1967 non avevano in mente tale termine. Comunque il libro è molto di più: uno scrigno che via via nelle sue secrete, mostra l’aberrazione di ciò che è ritenuto “normale”.

Un libro godibilissimo, ironico, d’avventura, e denso di temi.

Vi è un’analisi approfondita sul potere che asservisce, descritto con una ironia dissacrante: per togliere regalità al re, occorre che sia visto nelle sue concrete fattezze: ridicolo e nudo. La risata disvela l’orrore della apparente normalità e dell’accettazione di valori imposti e pienamente contraddittori nella loro formulazione.

I fratelli Strugackij perfezionano il loro stile, talvolta poetico, nel mostrare la normale violenza dell’assurdo che è il nucleo dell’attività politica e di indirizzo che pervade ogni amministrazione, fino a ogni modo di vivere del singolo. La denuncia di ciò è mostrata attraverso il lato comico dei tratti caratteriali dei protagonisti, oltre alle loro goffe e patetiche imprese.

La risata che condanna questa città.

§CONSIGLI DI LETTURA: Stupro a pagamento

Stupro a pagamento: di Rachel Moran

“Stupro a pagamento”, Edizioni Fuori Rotta, di Rachel Moran, è un libro autobiografico in cui è narrata parte della vita trascorsa dell’autrice del testo. Nelle narrazioni autobiografiche vi sono diversi approcci nel presentare il passato che è proprio, nel presente, in un luogo pubblico che è quello dei lettori. Il passato, nelle trascrizioni, non è un intervallo unico e lineare. Gli eventi talvolta seguono una scansione progressiva, che è anche intervallata da ritorni di ciò che avvenne nell’istante di lettura, oppure prefigurazioni di ciò che avverrà in un futuro anteriore. O ancora tutte e tre le opzioni nella stessa trama narrativa. L’autobiografia può essere svolta in una narrazione di momenti apicali e fondanti che portano alla costruzione del personaggio nel presente della lettura, oppure in un continuo scorrere delle fasi del proprio vivere, sempre selezionato, come maree riverse sulla spiaggia. Talvolta il passato ritorna in uno stesso punto che è considerato il tema del libro. Una autobiografia è l’occasione per parlare esclusivamente del proprio mondo interiore, oppure degli eventi storici in cui ci si è trovati ad affrontare sia a livello delle proprie relazioni sia per fasi storiche che hanno riguardato i contemporanei. Oppure per giustificare e comprendere le proprie scelte del passato. Se poi vi è anche una riflessione etica sul proprio operato e sulle società in cui si fu e si è immersi, l’autobiografia diventa un memoriale che, in base ai temi esposti, si configura anche come una denuncia sociale. Il corpo e il proprio vivere diventano gli elementi per un’analisi della società di lungo periodo nelle asimmetrie di potere e deprivazione che in essa albergano.

Il libro “Stupro a pagamento” di Rachel Moran è tutto questo. È stato scritto in dieci anni, e nel momento in cui l’autrice cercava di comprendere e ricostruire il suo passato, le cause e i processi erano ancora in atto dentro di Lei, sia a livello emotivo sia sul piano pubblico. È una narrazione del proprio passare, in modo apparentemente caotico, verso una maggiore consapevolezza della propria condizione interiore che è comune alle donne, di tutte le donne del pianeta. La prostituzione è una forma originaria di schiavitù, in cui la donna, tutte le donne potenzialmente sono oggetto di scambio. Stuprare significa anniettare, demolire, scarnificare: manipolare ciò che già nella propria testa si considera un oggetto inerte.

La prostituzione agisce e permane nella visione della donna come oggetto disponibile ed eventualmente da distruggere.

La donna che è nella prostituzione deve essere continuamente distaccata da se stessa, dove lo schermo che essa crea per sopravvivere emotivamente e fisicamente, alla fine, dopo un lasso di tempo che può durare un mese o anni, cede nella malattia e nella morte.

Rachel Moran racconta la sua vita partendo dalle difficilissime condizioni famigliari, fino ad arrivare alla prostituzione descrivendone le caratteristiche sue personali e generali.

Questo libro non è solo un resoconto freddo, anzi è accorato, carnale, emotivamente coinvolgente. Questo libro mostra, nel variare degli stili del racconto, nelle analisi sincere e dure verso di sé e gli altri, cioè i maschi, l’ORRORE.

Ogni maschio che legge, se vuole e dichiara a se stesso il proprio pensiero e l’orizzonte culturale in cui è immerso, non può che provare vergogna, e se è dotato di empatia, immedesimandosi nella protagonista e nelle prostitute in genere, non può che sentire la colpa, anche se non ha mai compiuto ciò che è descritto nel libro.

Questo libro è una occasione di sorellanza per tutte le donne e di ascolto della propria interiorità femminile riguardo gli uomini.

Non posto stralci di questo libro, come di solito evidenzio nei consigli di lettura, per rispetto all’eventuale lettrice o lettore, ma non per una forma traslata di censura. No: è un libro terribile. Bello, scritto sul proprio sangue e sulla propria carne. E sia chiaro non vi sono indugi ammiccanti su situazioni erotiche e scabrose. No. Anzi, quelle considerate tali, mostrano l’opposto: la mancanza di amore, di sesso vero, di empatia, di unione.

È un libro che mostra chi siamo e come era ed è oggi la nostra società: l’orrore quotidiano che urla la violenza subita da ogni donna e da ogni bambina nel mondo, nei diversi gradi di sofferenza, tutti simili nel crescere verso un dolore infinito.

È un libro che offre la possibilità di divenire più umani.

§CONSIGLI DI LETTURA: Embassytown

Un’avventura dei popoli e del linguaggio

In un futuro remoto, gli esseri umani si sono spinti ai confini dell’universo colonizzando il pianeta Arieka. Qui i rapporti tra gli uomini e il popolo degli Ariekei, custode di una lingua misteriosa. Avice Benner Cho non è in grado di parlare la lingua degli Ariekei, eppure in qualche modo ne rappresenta una parte: lei, come alcuni esseri umani, è utilizzata dagli indigeni come una “similitudine vivente”, necessaria alla formulazione di concetti altrimenti inesprimibili.

“[…] «le parole non possono considerarsi davvero dei referenti. Ecco la vera tragedia della lingua. Gli sforzi asintotici per ordinarle in una frase compiuta non sono niente a confronto.» […]”

La lingua degli Arekei è generata da due apparati di fonazione che producono rispettivamente l‘inciso e l’eco e per loro chi parla con una sola voce è automaticamente escluso dal computo delle creature dotate di intelligenza e in grado di esprimersi. È una lingua totalmente empirica, nel senso che qualsiasi oggetto o elemento di un loro discorso è visibile e afferrabile. Deve essere indicato. Tale caratteristica implica l’impossibilità di mentire, ovvero un insieme di dati non immediatamente verificabili. Ovviamente gli umani in quanto specie non possono essere calcolati come creature senzienti, fatta eccezione per gli «ambasciatori», cloni appositamente creati di due individui che parlavano all’unisono, ma in quanto unità simbiotiche.

“[…] Per gli umani, l’aggettivo rosso non comunica niente di per sé: a esprimere il colore è la combinazione dei fonemi che compongono la parola. Funziona così, sia che a dirlo sia io, Scile, uno Shur’asi o un programma irrazionale che non conosce il significato di ciò che articola in maniera meccanica. Questa regola non vale per gli Ariekei. Il loro linguaggio è costituito da un insieme di rumori organizzati, così come lo è anche la nostra lingua, ma per questi indigeni ogni parola funge da imbuto: per noi le parole significano qualcosa, mentre loro le ritengono un semplice mezzo attraverso il quale il suono dischiude al pensiero le porte per accedere al suo referente. «Se programmo il mio traduttore per pronunciare una parola in anglo-ubiq, tu sei in grado di capirla» disse. «Eppure, se faccio lo stesso con la Lingua degli Ariekei, l’unico a capirla sono io. Per loro è solo un suono privo di senso, perché, per significare qualcosa, deve essere prodotto da una mente pensante.»

 […]”

Significante e significato costituiscono una relazione univoca che impedisce di immaginare una serie di forme inesistenti di reale. Quando a comunicare con loro appare per la prima volta un ambasciatore proveniente da Bremen – il pianeta dal quale Embassytown dipende – e non dalla comunità umana su Arieka, il delicato equilibrio sul quale si fonda la convivenza tra umani e Ariekei si spezza.

“[…] Scollegate dai loro relativi significati, le falsità non erano altro che rumori prodotti dagli stessi mentitori, una testimonianza della pigrizia biologica: se fosse stato possibile descrivere soltanto la realtà, a cosa mai sarebbe servito saperla discernere dal suo opposto? Ogni cosa sarebbe stata davvero come da definizione? Nonostante un simile deficit adattivo (non erano predisposti a mentire), gli Ospiti riuscivano lo stesso a capire un enunciato falso. O ci credevano (credere era un dato di fatto privo di senso), oppure, quando la falsità era appariscente, la vivevano come qualcosa di impossibile e frastornante, un enunciato impensabile.

[…]”

“[…] «Vogliamo essere noi a decidere cosa ascoltare, come vivere, cosa dire, con chi parlare, come comportarci e a chi obbedire. Vogliamo che la nostra lingua torni a essere nostra.».

Erano infastiditi dalla loro dipendenza alla nuova droga e dalla loro incapacità a disobbedire. Di sicuro, non era l’unico gruppo segreto ad avvertire un simile fastidio, ma questo combaciava con ciò che desideravano da sempre: sforzarsi di mentire era direttamente collegato al desiderio di dare alla Lingua qualunque significato volessero. Quell’antico bisogno sembrò spingerli a odiare la loro nuova condizione e in maniera ancora più violenta di qualsiasi altro alieno cosciente.

[…]”

La lettura del libro non è banale: fino alla fine della terza parte, vi sono capitoli denominati «Ricordo recente» e «Ricordo datato», e poi seguono le sezioni. Intorno ad Embassytown esiste un universo denominato <Immer> (il sempre) e tale città dipende da Bremen, i cui rapporti non sono pacifici.

È un libro ambizioso che spinge a indossare nuovi occhiali nell’uso del linguaggio e della nozione stessa dei significati e dei soggetti parlanti, in particolare se tra di loro sono all’inizio in uno stato di oggettiva incomunicabilità.

“[…] gli Assurdi hanno imparato a esprimersi come noi. Gli Ariekei in questa stanza vogliono che gli insegniamo a mentire e questo significa pensare al mondo secondo una prospettiva diversa. Nessun referente, ma soltanto significanti. Lo ritenevo impossibile. Eppure, guarda.» Puntai il dito verso la creatura che voleva uccidermi. «Ecco cosa hanno fatto. Ogni volta che indicano, significano qualcosa. Seguendo una strada del genere lo scotto da pagare è davvero troppo alto, ma adesso sappiamo che questi alieni sono in grado di farlo. Insegnare loro tutto questo senza strappargli le ali equivale a insegnargli a mentire.»

[…]”

“[…] «Le similitudini sono una scappatoia. Una via d’uscita che parte da un referente e arriva a un significante. Solo questo. Eppure, sappiamo di poterli spingere a continuare, un passo alla volta, fino alla fine.» Io stessa mi chiarii le idee parlando. «Dobbiamo condurli dove il significato letterale diventa…» feci una pausa. «Qualcos’altro. Se noi similitudini funzioneremo al meglio, ci trasformeremo in qualcos’altro, poiché il miglior modo di cui disponiamo per rappresentare il vero passa attraverso la falsità.»

  Avrei voluto spiegargli che non era affatto un paradosso, né un controsenso. «Non voglio più essere una similitudine» esclamai. «Voglio diventare una metafora.»

[…]”

Questo libro è un tentativo ambizioso di utilizzare il “Bizzarro Finction” (che è estrema ed esagerata) con la scrittura “Fantasy”, mantenendo però una coerenza verosimigliante in termini di ambienti, tecnologie e logiche politiche. In più, pone nuove sfide nell’uso del linguaggio e anzi nel modo stesso di intenderlo.

 “[…] Le loro menti divennero improvvisamente simili a dei mercanti: come il denaro, le metafore avevano un valore incommensurabile. Adesso potevano diventare dei mitologi, studiosi di una realtà un tempo priva di mostri ma ora affollata di chimere; ogni metafora era un collegamento.

[…]”

“[…] Ballerina aveva ormai imparato che poteva esprimersi anche senza parole, l’Assurdo invece aveva appreso non solo di poter parlare, ma anche di ascoltare.

[…]”

E il lettore qui, ascolta leggendo.