Tanti anni fa ho cominciato a scrivere poesie, per gioco, inconsapevolmente. Quei versi erano solo miei. Mi facevano compagnia, erano il mio modo personalissimo di esprimermi.
All'inizio del 2012 ho cominciato a scrivere con più consapevolezza. Se nel mio primo periodo la mia espressione artistica riguardava la creazione al di fuori di me, ora la materia della mia espressione artistica sono io, le mie emozioni, le mie sensazioni. Un'introspezione dunque, profonda ma liberata. Ora voglio condividere. Ora posso svelare. Con i miei versi. Con le mie poesie.
Il romanzo di Andy Weir segue lo stile dei due precedenti come Martians (Premere qui per leggere un consiglio scritto di lettura) e (Premere qui per leggere un consiglio scritto di lettura) Artemis. Vi sono protagonisti, maschile nel primo, femminile nel secondo, che hanno un rapporto conflittuale con le autorità. Mostrano una distonia tra ciò che il potere e il diritto pretendono per il mantenimento dell’ordine sociale e per risolvere problemi scaturiti da pericoli incombenti, a fronte dei valori di libertà e democrazia che conferiscono a loro autorità.
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Le esigenze del collettivo, o delle élite, se sopravanzano le richieste e le aspirazioni del singolo, spingono il protagonista del romanzo a opporsi a seguire una accondiscendenza formale ed acritica, fino a incorrere in reati penali come in Artemis. Il protagonista, come qui, in Hail Mary, cioè Randy Grace è una reincarnazione del Cow Boy Usa che è si fedele ai valori della comunità tutta, ma che è capace di azioni di rivolta, di rinuncia, di conflitto. Intraprende una vera ribellione, non tanto per sovvertire l’ordine costituito, quando, secondo la sua ottica, di renderlo più aderente e non contraddittorio nell’esercizio del suo potere, rispetto a ciò che dichiara e a ciò cui si appella in ordine all’etica, alla morale e al diritto.
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A fronte di un pericolo mortale per l’intero pianeta Terra, Randy Grace accetta di collaborare mantenendo un atteggiamento da battitore libero sia nell’effettuare una ricerca di biologia e di ritrovarsi poi coinvolto in una missione spaziale, a dir poco suicida.
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Lo scrittore Andy Weir, qui, affina sempre più, come nei due romanzi precedenti, il suo stile ironico e avvincente, per coinvolgere il lettore come se stesse seguendo un serial in tv. Offre una rappresentazione scenica in cui si ha la sensazione di essere immersi accanto ai personaggi. Anche qui, in modo mirabile, segue il filone della Hard Fiction, ovvero la scrittura di fantascienza che ha sì una idea attualmente irrealizzabile, ma che, se presa per vera, tutto il contorno tecnologico e le nozioni di fisica, chimica e astronomia, sono vere e coerenti nella loro relazione. Vi è una attenzione maniacale dei moti dell’astronave. Si rileva che ha studiato molto di microbiologia, e delle relazioni tra la luce e lo scambio di energia negli organismi viventi.
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È uno scrittore superlativo, e non è un caso il suo successo, anche nella riproduzione filmica dei suoi romanzi, in merito a una narrazione attenta ai ritmi di comprensione di ciò che è esposto. Non è un caso che ci si senta portare per mano nel comprendere l’ambiente ipertecnologico che fa da contesto. Anche qui ha frasi “slang” che possono essere comprese in modo compiuto solo da chi vive negli USA, anche per i riferimenti a particolari modi di dire riferiti a luoghi e a persone specifiche. E questo è un limite delle traduzioni di tutta l’opera di Andy Weir: sarebbe il caso di corredare con note esplicative, quella massa di riferimenti quotidiani che è offerta. Si dovrebbe avere la capacità, la voglia, e il tempo, come solitamente il sottoscritto compie, di avviare ricerche laterali per quei termini e per quei rimandi oscuri, che in realtà però sono rivelatori di analogie e di riferimenti che offrono nuove chiavi interpretative circa lo sviluppo della narrazione.
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È un peccato che non siano esplicitate, perché queste rendono più concreti i personaggi, e in particolare il loro vissuto. Senza contare poi, che lo stile è comico, con battute e motti di spirito, che potrebbero essere più ficcanti, nell’inquadrare i contesti in modo meno approssimato.
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Nei romanzi di Weir, come in questo, il monologo del protagonista la fa da padrone: scandisce l’intervallo con i dialoghi con gli altri personaggi. In Martians il soliloquio mentale traccia il prima e il dopo con i dialoghi e spiega lo svolgersi dei momenti topici nell’atto del loro svolgersi. In Artemis si riprende tale stile, aggiungendo un doppio dialogo che la protagonista ha con gli eventi del passato, in modo che siano incasellati nelle scelte dell’azione presente. Anche in Hail Mary vi sono queste due caratteristiche, ma il ricordo qui, non è solo un elemento per coordinare il monologo interiore, quanto un vero e proprio antagonista. Randy Grace all’inizio del romanzo è smemorato, e i ricordi arrivano goccia a goccia, non soltanto come elementi inerti, ma come un groviglio di situazioni reali che si accostano nelle vicende del presente.
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Il passato viaggia in parallelo con il presente, e la riflessione, e la chiave dell’interpretazione viaggiano entrambe nel participio passato. Il futuro, invece, si ritrae continuamente. Tutto ciò rende dinamica la storia. Va vissuta fino all’ultimo senza farsi prendere dalla voglia di sapere immediatamente la fine. Una chiave dei successi di questi libri, risiede nell’abilità dell’autore di moltiplicare il personaggio principale in tanti se stessi sia nei dilemmi morali sia nel corso della narrazione, in modo che tutti siano presenti, offrendo quindi una riflessione autoironica, disincantata e briosa.
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È facile immedesimarsi con i protagonisti, perché, nonostante le avversità, i disastri, i propri limiti, hanno comunque uno spirito positivo. Cercano di capire l’oscura minaccia che si avvicina e affrontano il pericolo nel tentativo di elaborare tattiche e strategie di risoluzione. Si rimane stupiti di quante risorse emotive e cognitive i protagonisti tirino fuori dal cappello, ma Andy Weir è abile nel mostrarcele nei momenti di massima tensione, offrendo quindi l’immagine che anche noi, in condizioni di necessità, saremmo capaci di reagire in modo proficuo ed adeguato.
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Per questo stile che definirei fresco e corroborante, questo libro andrebbe vissuto e sperimentato nel chiedersi quali siano i propri limiti, e nel pensare le soluzioni più adeguate per risolverli o perlomeno ridurli.
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Dietro l’apparente comicità del romanzo, però sono trattati temi capitali, come l’ambiente, il senso della propria esistenza qui in questo pianeta, e l’anomalia stessa che è la Terra rispetto agli astri. Vi è un tributo alla volontà di vivere associata a una genuina sete di conoscenza.
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Come in ogni sua opera Andy Weir si documenta in modo minuzioso chiedendo la collaborazione di esperti e di scienziati circa gli argomenti e gli ambiti scientifici e tecnologici in cui la narrazione è intessuta. Vi sono descrizioni della biologia molecolare e quella dei batteri. Vi è anche una ideazione comparativa riguardo le diverse forme ucroniche di evoluzioni della vita in pianeti diversi. Vi è un’ottima applicazione dei modelli delle teorie dell’evoluzione. E alla base di tutto, vi è una descrizione precisa ed attendibile dei fenomeni astrofisici e delle leggi di rotazione e di spinta per i viaggi interstellari.
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La lettura di questo libro offre un’occasione per approfondire l’ostico concetto delle teorie della relatività, in particolare per le relazioni tra lo spazio e il tempo in funzione di velocità quasi prossime a quella della luce. L’esposizione, infatti, è accessibile, lineare, senza scorciatoie “gergali” o ad “effetto” che mascherano eventuali incongruenze fisiche e astronomiche.
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È uno scrittore onesto: parte da una idea che è fantascientifica, ma l’ambiente e lo sviluppo della narrazione è coerente con le nostre effettive conoscenze teoriche e con le possibilità tecnologiche di oggi.
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Per questo l’autore può essere considerato un rappresentante dei nostri giorni degli approcci dei grandi scrittori di fantascienza della “Età dell’oro” che oggi si definisce tra gli anni quaranta e metà anni sessanta del secolo scorso.
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Vi è un elemento ulteriore che è più strettamente estetico. All’interno della trama, vi sono due grandi proiezioni dei modelli dei cicli vitali qui nella Terra e delle diverse forme di un paradigma finalistico di ciò che è il futuro e delle responsabilità delle specie più evolute. Qui siamo in un campo in cui è lo scrittore che si confronta con l’etica e la speranza.
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È un’opera a tutto tondo che riempie i polmoni d’aria fresca e pulita e si sorride con piacere nell’adagiarsi a una lettura avvincente, onesta, e tutt’altro che superficiale.
L’incanto nella visione di un bambino in una veste animistica. Ogni cosa acquista una vita propria. Il Sole nelle case, nelle mura, le luci. Le stelle che spariscono con un soffio del bimbo per offrire lo spazio per il ciclico tragitto del carro del sole. Le strade che si illuminano come occhi di drago. Arriva l’estate. Lui, Douglas, sveglia tutti. Le luci del mattino delle case si aprono come grappoli nell’orizzonte e nel converso i lampioni nella città si spengono come candele su una torta nera. Voler essere nudo tra gli alberi, portando sulla pelle il freddo del congelatore e il caldo della nonna che arrostisce i polli.
Metafora, sinestesia, allegoria. Per un bimbo tutto è un simbolo che si scopre per ogni oggetto: la magia che porta nuove parole dalle fiabe e dai racconti. Ogni elemento della realtà è uno scrigno di invenzioni.
La città viva che pulsa rigogliosa nelle nuove e crescenti ramificazioni estive per ragazzi che giocano tra il possibile e il reale, tentando di realizzare l’immaginazione negli eventi del mondo.
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Gli adulti sono ancora bambini e non lo sanno: ecco perché falliscono. Non riconoscono di esser già quello che di cui vanno perseguendo, ma Douglas e i suoi compagni invece riescono a scorgere il tesoro. La macchina della felicità di Spaulding fallisce miseramente, ma alla fine si accorge che questa è fornita dall’amore della moglie. Il vecchio colonnello Freleeigh cerca di mantenersi in vita riportando il passato nel presente, capendo però alla fine di esser lui stesso la congiunzione temporale, utile e benefica per i più giovani.
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La quasi centenaria Loomis che offre nuove vite e altri mondi già accaduti al giornalista Forrester, che la segue abbeverandosi alle sue considerazioni, fino a quelle più preziose.
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“[…] In un pomeriggio di primo settembre William Forrester attraversò il giardino di Helen Loomis e la trovò intenta a scrivere. Lei mise da parte la penna e l’inchiostro. «Le stavo scrivendo una lettera» confessò. «Be’, dato che sono qui può risparmiarsi la fatica.» «No, si tratta di una lettera speciale. Guardi.» Gli mostrò la busta azzurra, che chiuse e premette. «Se la ricordi. Quando il postino gliela recapiterà, lei saprà che sono morta.» «Che discorsi sono questi?» «Si sieda e mi stia a sentire.» […]
«Ma lei non può predire la sua morte» disse Bill. «Per cinquant’anni ho guardato la pendola in salone, William; dopo averla caricata so indovinare al secondo quando si fermerà, e nel mio caso è lo stesso. I vecchi le sanno, queste cose: sentono la macchina che rallenta e gli ultimi pesi che calano sul piatto. Oh, per favore, non mi guardi a quel modo… per favore.» «Non ci posso fare niente» disse lui. «Abbiamo passato insieme dei bei momenti, vero? Le nostre chiacchierate quotidiane erano qualcosa di speciale. C’è una frase abusata in proposito: “l’incontro di due spiriti”.» Helen rigirò fra le mani la busta azzurra. «Ho sempre saputo che la qualità dell’amore viene dallo spirito, anche se il corpo a volte si rifiuta di ammetterlo. Il corpo vive per conto suo, vive per cibarsi e aspettare la notte. È essenzialmente notturno. La mente invece, William, è nata nel sole, e passa gran parte della vita sveglia e all’erta. Si può trovare un equilibrio tra il corpo, pietosa ed egoista creatura della notte, e l’intelletto, fatto per una vita solare e attiva? Non lo so. Ma so che quando la sua mente e la mia si sono incontrate, i nostri pomeriggi in giardino si sono trasformati in qualcosa di unico. C’è ancora molto da dire, ma rimanderemo alla prossima occasione.» […]”
Douglas gioca, si interroga, sperimenta, vede le nascite e gli abbandoni. Da dodicenne qual è sente nel suo intimo l’idea del mutamento e il senso della morte. Prova la disperazione del rifiuto di tutto, inizialmente perché non vuole dipendere da nessuno, dato che tutti prima o poi lo abbandoneranno o moriranno, e le cose come le scarpe da tennis e i giocattoli si romperanno.
“[…] Quindi…! Inalò due profonde boccate d’aria e le espirò lentamente, fra i denti stretti. QUINDI. L’ultima parte la scrisse in tutte maiuscole. QUINDI SE I TRAM, LE MACCHINE, GLI AMICI E I CONOSCENTI POSSONO ANDARSENE PER UN POCO O PER SEMPRE, ARRUGGINIRE O CADERE A PEZZI; SE LA GENTE PUÒ ESSERE ASSASSINATA, SE PERFINO LA BISNONNA, CHE AVREI GIURATO CAMPASSE IN ETERNO, PUÒ MORIRE… SE TUTTO QUESTO È VERO… ALLORA IO, DOUGLAS SPAULDING, A MIA VOLTA UN GIORNO… DOVRÒ… Ma le lucciole, come spente dai suoi lugubri pensieri, non facevano più luce. In ogni caso non posso scrivere più, pensò Douglas. E non lo farò. Finirò un’altra volta, non stanotte. Dette un’occhiata a Tom, che dormiva appoggiato sul gomito, la guancia nel palmo della mano. Gli bastò dargli una spintarella perché Tom crollasse nel letto, silenziosamente. Douglas prese il grande boccale con le lucciole e lo agitò: come vitalizzate dal suo tocco, le bestiole splendettero di nuovo. Douglas guardò l’ultima pagina, che aspettava le sue conclusioni. Invece di scrivere parole andò alla finestra, alzò la zanzariera e liberò le lucciole, che si sparsero di qua e di là nella notte senza vento. Si affidarono alle ali e volarono via. Douglas le guardò scomparire. Se ne andavano come i pallidi frammenti dell’ultimo crepuscolo di un mondo morente. Se ne andavano come gli ultimi brandelli di calda speranza dal palmo della sua mano.
[…]”
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Ma l’intimità della sua irresistibile capacità a stupirsi e a notare che anche l’estate prendeva congedo, lo lasciò di nuovo ammirato per i primi doni dell’autunno che lanciava messaggi di arrivo. E anche qui, sentì nel suo intimo l’incanto di questi doni, che, non avendo ancora nomi, la sua meraviglia li portavano in una presenza piena di vita, e con uno slancio poetico tra i suoni e le luci, nuove sinestesie apparvero.
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Quest’opera è un formidabile canto dei corsi del vivere, sempre diverso, mutevole, caduco, ma tenace, tra il dolore e il sorriso, nella conoscenza del dolore e nell’abbraccio al tesoro del proprio animo: l’inimitabile patimento del vivere.
L’operato del giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Antonin Scalia (1933-2016) fornisce un’occasione per comprendere lo spirito più profondo circa l’intima struttura su cui poggia la nazione degli Stati Uniti.
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Logica e argomento versus fede e opinione. Scalia afferma che il soggetto, l’individuo, l’attore, colui che impersona un ruolo, un giudice, è sì fondamentale, ma non è il fondamento della validità del giudizio, e non è l’origine esclusiva di ciò che è vero, tradotto nella pratica di ciò che è bene e opportuno fare.
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In vita fu un cattolico osservante e un conservatore, ma ciò non fu determinante nei suoi orientamenti, scritti e sentenze che contribuì a stilare e ad approvare in più di trenta anni di attività in qualità di giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti.
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“[…] [Al] contrario di presidenti, ministri, senatori e deputati, i giudici federali non svolgono (o non dovrebbero svolgere) un’attività politica, dovendo invece discernere accuratamente e applicare onestamente le scelte politiche fissate, dai rappresentanti del popolo, nelle leggi, tranne quando queste ultime sono in conflitto con il testo della Costituzione, le tradizioni che fanno da sfondo a quest’ultimo o i precedenti vincolanti della Corte suprema. Proprio come non c’è un modo cattolico di cucinare un hamburger, così non c’è un modo cattolico di interpretare un testo, analizzare una tradizione storica, o stabilire il significato e la legittimità di precedenti decisioni giudiziarie – eccetto, naturalmente, fare queste cose onestamente e perfettamente[4] […]”
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La fiducia in una giurisprudenza dell’intenzione originaria riflette una profonda adesione all’idea di democrazia. La Costituzione rappresenta il consenso che il popolo ha espresso nei confronti delle istituzioni e dei poteri del governo. La Costituzione è la volontà fondamentale del popolo: ecco perché è la legge fondamentale.
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Scalia ha perfezionato e sviluppato all’interno delle prassi proprie della giurisprudenza, il senso «politico» dell’originalismo e del testualismo.
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L’originalismo oltre a essere un metodo interpretativo è una teoria sulla genesi dell’obbligazione politica, fondata su due assiomi:
primo: in un sistema democratico imperniato sulla separazione dei poteri, l’autorità di legiferare spetta ai rappresentanti investiti della legittimazione popolare;
secondo: gli individui osservano le regole perché ne riconoscono la legittimità, e ne riconoscono la legittimità perché hanno avuto parte, diretta o indiretta, nella loro formazione.
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I giudici devono quindi applicare lealmente le leggi, lasciando che sia l’elettorato a premere per una loro modifica là dove esse dovessero risultare inadeguate. Si tratta, in altre parole, di mantenere viva la ripartizione di poteri e responsabilità tra elettori, eletti e magistrati, senza accedere a un modello che potrebbe invece definirsi «collaborativo», ossia uno in cui, semplificando, l’istituzione giudiziaria sia parte attiva della promozione del cambiamento sociale.
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Questa impostazione è stata considerata nell’ultimo trentennio del secolo scorso una pratica ad alto tasso di conservatorismo, considerando però che nei parametri moderni degli ultimi anni andrebbe distinto il conservatorismo politico-partitico dal conservatorismo proprio delle attitudini giudiziali.
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In un discorso tenuto all’Università Gregoriana di Roma nel 1996, Scalia affermò che il ricorso alla tradizione del diritto naturale è incompatibile con un sistema democratico, giacché autorizzerebbe i giudici a imporre alla maggioranza della popolazione ciò che questa potrebbe non volere. Venti anni dopo, proprio qualche giorno prima di morire ribadì ancora il concetto: “[…] Non ci si può sottrarre al dettato della legge. Questo condurrà a un mondo perfetto? Certo che no: alcune leggi sono stupide, e alcune sono malvagie; ciò, però, condurrà a un mondo migliore di quello in cui i giudici sono liberi di applicare la loro idea di diritto naturale ed equità. Il primato del diritto sarà sempre secondo al primato dell’amore, ma dobbiamo lasciare quest’ultimo per il prossimo mondo […]”
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È opportuno chiarire che l’originalismo/testualismo, come lo stesso Scalia ha sempre riconosciuto, non è in verità una sua invenzione. L’idea che il significato delle parole della legge sia fissato al momento dell’adozione della legge stessa, e che quest’ultima possa essere modificata solo per via legislativa, era dominante nel primo abbondante secolo di giurisprudenza statunitense.
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A partire dalla New Deal Revolution, però, l’originalismo/testualismo perse importanza, per poi apparentemente tramontare del tutto durante gli anni sessanta per un’idea di una giurisprudenza propositiva verso una legislazione avente un orientamento teso ad una ridefinizione positiva dei diritti civili e sociali e nelle relazioni istituzionali tra gli Stati e gli organismi federali.
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Scalia, invece, ridette vita nuova a ciò che fu obliato nelle pratiche giuridiche e negli studi dottrinali. Durante i suoi trent’anni alla Corte suprema, infatti, soltanto lui e Thomas (due giudici su nove) impiegavano coerentemente la metodologia testualista e originalista. Oggi, dopo poco più di cinque anni dalla sua morte, è l’orientamento prevalente nella Corte (cinque su nove).
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In questo libro sono trattati gli sviluppi, le critiche e la messa a punto dell’impostazione testualista e originalista e si rimanda alla lettura del testo, che è redatto da copiosi contributi ben sintetizzati.
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Quello però che potrebbe interessare un lettore italiano, che vive in una Repubblica orleanista e non basato sul Common Law (orale) del Commonwealth e di quello scritto che è proprio degli USA, è il rapporto che potrebbe avere l’approccio di Scalia nella comparazione con l’approccio che noi abbiamo con il diritto.
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Luigi Mengoni ritiene che l’approccio di Scalia sia distante dalle posizioni del normativismo puro che riduce l’interpretazione ad una attività che coglie significati normativi già compiutamente precostituiti e immutabili, ritenuto non sostenibile, perché il giudice partecipa comunque al processo di formazione del diritto, attraverso un atto di decisione che individui, fra i vari possibili, il significato normativo applicabile al caso in questione. D’altro canto, il vincolo letterale delimita il senso del testo. In altri termini “[…] l’interpretazione resta subordinata alla legge, in quanto circoscritta dal vincolo di congruenza con le parole del testo e con la razionalità complessiva in cui la decisione deve integrarsi […]”
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Dalla valutazione del giurista Mengoni si potrebbe ritenere che tutto ciò sia il vero intendere di Scalia che è quindi inscrivibile nella cultura giuridica italiana.
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Un altro giurista Nicolò Zanon, invece, argomenta che Scalia abbia portato una procedura di trasparenza: “[…] «mentre negli Stati Uniti il dibattito sulle teorie dell’interpretazione pare assai vivace, […] ed è quindi sintomo di un pluralismo assai ricco», nella dottrina italiana manca «altrettanta vivacità di pensiero» e pare, anzi, che in essa si diano un po’ per scontate tante cose. Un atteggiamento vagamente «neocostituzionalista», un’adesione tendenzialmente acritica a teorie interpretative per «valori», senza alcuna consapevolezza di quel che le teorie dei valori sono e implicano, l’esaltazione di ogni scelta giurisprudenziale, la quale deve, ovviamente, ampliare l’area dei diritti dell’individuo («più diritti per tutti»), la conseguente adesione, spesso acritica, a tutto ciò che la giurisprudenza decide, meglio se in contrapposizione a ciò che il legislatore voleva. Con scarsa consapevolezza delle implicazioni politico-costituzionali di quel che si sostiene. Ed è possibile che questa scarsa vivacità finisca per riflettersi anche sulla giurisprudenza costituzionale, che non viene stimolata o criticata su questi terreni, e perciò non vi si impegna[65] […]”
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Vi è, quindi, nel dibattito attuale un dissidio tra una visione «maggioritarista» di Scalia che intende il giudice impotente, rispetto all’operato delle maggioranze che hanno il compito di definire soluzioni nuove a problemi non coperti dalla legge, a quella che ritiene la funzione giudiziaria necessariamente impegnata a interpretare e rendere concrete le aspirazioni di rinnovamento sociale, attraverso l’organo giudiziale.
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I due poli suddetti se presi alla lettera avrebbero la conseguenza o di creare una struttura giudiziale che diventerebbe o un puro meccanismo di trasmissione di parole di ordine politico, o un ceto detentore del vero interpretare i processi sociali per coordinarli, con il rischio di generare una struttura a dir poco dittatoriale.
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All’interno di questi dibattiti, più che mai attuali, in particolar modo relativi all’aborto, all’eutanasia, alla nozione di nucleo famigliare, ai nuovi spazi di azione tra l’individuo e l’ambiente e tra l’individuo e le strutture amministrative locali e nazionali, le impostazioni metodologiche e le indicazioni operative di Antonin Scalia si caratterizzano per un approccio prevalentemente pragmatico con la concezione del carattere «limitato» delle Costituzioni, così da riscoprire la maggiore flessibilità dello strumento della legge ordinaria.
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La ricchezza degli argomenti definiti da Scalia, si esprime nel sollecitare nuovi modi nel porsi domande circa le relazioni tra la giustizia, la democrazia e la mutevole ridefinizione del bilanciamento tra i poteri.
Tanti lati nascosti ha quest’opera. Racconta i luoghi e gli eventi, immersi in un processo storico in cui l’incanto della natura antropizzata unisce l’antico e il mito. L’autore è anche il protagonista che incarna il mito di Ulisse, ma verso se stesso. Il suo “io” è Itaca. Tutto converge nel suo monologo.
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I fantasmi, coloro che sono rimasero adolescenti a metà, li riporta in vita affinché il loro destino sia compiuto in un appuntamento della memoria. Ognun di loro inizia il viaggio per ricongiungersi nella voce di Luigi Meneghello.
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L’autore rinnova quelle gesta, scrivendo da adulto, le parole e gli atti della gioventù. Si fa da parte, in modo che i morti riassumano un articolo determinativo. La cornice ha lo scheletro della resistenza dei partigiani tra l’armistizio del giorno 8 settembre 1943 e la fine della seconda guerra mondiale e la cornice dei racconti dei comunisti, dei cattolici, dei libertari, secondo gli inni degli anni cinquanta, degli anni sessanta, e negli anni di “piombo”.
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Vi è l’intento di ricollocare la biografia e la cronaca in un quadro depurato dalle retoriche derivate dalla guerra fredda. Ed ecco, quindi, che il mito assume una posa lirica, in cui il protagonista, parla con le montagne e con le valli del Veneto, nella speranza di colloquiare con gli dei, con la natura e con il tempo dei cicli e dei riti. Tutti coloro che furono maestri a metà, perché morti, o fermati dal loro percorso originario di scopi e di speranze, verso di lui si approssimano e si abbeverano alla fonte del suo scritto.
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La versione di quest’opera è degli anni settanta, dieci anni dopo la prima pubblicazione. E inizia nel momento in cui lui, ventiduenne, assieme ad altri amici universitari, lascia tutto e va nelle montagne per assumere il ruolo di partigiano.
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È una formazione in itinere. Ognuno di loro aveva una razionalità limitata riguardo alla guerra, alle tecniche di resistenza, e alle modalità di organizzare azioni contro i tedeschi e contro i fascisti della Repubblica Sociale. Lo stile all’inizio è quasi simile, all’inizio, a un resoconto di cronaca. È preciso nei dettagli dei luoghi, nella descrizione puntuale dei paesaggi e dei personaggi, fino alla singola piega o strappo di un vestito. Eppure, ed è qui l’effetto caleidoscopico, è anche un romanzo di formazione, perché narra una crescita che parte da una istanza morale: darsi una dignità per sé e per le proprie comunità, dopo il disonore fascista, la vergogna della disfatta, la guerra civile, e l’abbraccio fraterno al sanguinario tedesco.
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È delineato un approccio antitetico alle mitopoiesi partigiane e a quelle dei fascisti “buoni” che si scontrarono, si ritrovarono in quel periodo, tra i lutti, le vendette, gli orrori, e le lacerazioni presenti fino ad oggi. I libri e la retorica diaristica e politica negli anni cinquanta e sessanta ponevano sì uno scontro duro, e di rivendicazione, ma ammettendo, nonostante tutto, il valore di chi resisteva e anche di quei pochi, pochissimi che mantennero l’umanità stando dalla parte “sbagliata”, siano stati essi compagni confusi o fascisti.
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Luigi Meneghello narra le sue vicende e di quelle dei partigiani di area comunista, liberale, cattolica, o semplicemente di comunità e locale, in una progressiva acquisizione di strategie e tecniche di guerra, di maggiore consapevolezza ideologica, e di un maggiore affinamento delle proprie valutazioni morali, MA non attraverso il mito dell’eroe partigiano, del grande guerriero, della gioventù gloriosa.
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Gli eventi topici sono contraddistinti da dubbi, errori ed atteggiamenti goffi quasi comici, all’interno degli epiloghi tragici in cui i suoi compagni morivano così, quasi per sbaglio o incuria.
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Tutte quelle persone furono piene di dubbi, di limiti, di pregiudizi, analfabete quasi, neanche tanto intelligenti, piagate dalle malattie, e con disabilità varie. Eppure resistettero nel rifugiarsi nelle montagne, negli attentati, nel sopportare la fame e il freddo, nel morire malamente e nell’attuare una lotta clandestina in pianura, dentro le città. Nel litigare tra comunisti, socialisti, comunisti antisovietici, liberali, repubblicani, realisti, cattolici proto ecumenici, e quelli ortodossi, e contro la grande maggioranza amorfa, suddivisa nelle preoccupazioni quotidiane e in un fascismo di convenienza, pronta ad aderire al potente di turno.
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La narrazione assume toni comici, nonostante il racconto si snodi tra tragedie e toni lirici e commoventi, nel recepire il senso ancestrale delle comunità in rapporto al paesaggio natio. E qui vi è un nostro errore prospettico di lettori. Luigi Meneghello non voleva risultare comico mentre scriveva, perché siamo noi oggi, ad avvertire lo scarto delle retoriche del valore, degli eroi, e di come queste siano piccole, semplici, tronfie rispetto all’oceano degli eventi che accaddero. Un popolo debole, corrotto dalle proprie bugie, che si trova ad affrontare una realtà che consapevolmente contribuì ad evocare.
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Eppure, nonostante le avventure maldestre e picaresche, Luigi Meneghello è indulgente verso il giovane che fu e verso tutti gli altri, gran parte uccisi e rimasti giovani lì, per sempre. È un padre che si avvicina e li abbraccia, perché, nonostante tutto, in modo irriflesso, inconscio, rozzo ebbero una caratura etica, tesa all’estremo sacrificio per di mantenere una postura dignitosa nella tensione verso la libertà con le mani aperte, callose, ma pulite.
L’evidenza che emerge dalle vicende qui narrate, definisce come gli equilibri tra i titoli ad agire e le facoltà di impiego tra le istituzioni, siano democratiche, di reciproco controllo e di elasticità rispetto ai mutamenti macroscopici ed episodici riguardo ai processi economici e sociali mondiali. Lo studio di questo libro è una occasione formidabile per ripensare il nostro modo di intendere le nozioni di “crisi”, “moneta”, “valore”. Solitamente attribuiamo significati irriflessi e simbolici a livello totemico. Rappresentano invece rapporti sociali, nelle loro estensioni giuridiche, economiche e dei singoli rapporti sociali, nel momento stesso in cui comperiamo una caramella.
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Non vi sono soltanto due mondi suddivisi tra i buoni e i cattivi, capitalisti e proletari, sfruttatori e sfruttati. Certamente tali qualifiche esistono nelle individuazioni tra i rapporti conflittuali che vi sono tra gli attori, ma in questo libro si nota come vi siano state persone e gruppi sociali che hanno agito per risolvere i problemi, in modo da porre le condizioni dello sviluppo e del benessere collettivo, oltre che alla stabilità dei sistemi sociali. Persone dotate di senso del dovere e testimoni del loro ruolo istituzionale. Al netto che molti non erano dei santi, come in ogni luogo della terra e in ogni ambiente di lavoro. Sono temi attualissimi. Si pensi solo al modo in cui noi pensiamo al termine “Crisi”: ogni volta che è stato proposto in termini apocalittici, avremmo dovuto avere la discesa degli arcangeli ogni due o tre mesi. Si prenda quest’opera come una cassetta degli attrezzi con i relativi manuali allegati, aventi la funzione di moltiplicare le possibilità di porci le domande volte a capire in modo più profondo i meccanismi attuali dei nostri rapporti sociali.
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Quest’opera monumentale di ricerca applicata, di comparazione statistica, di elaborazione di teorie economiche, innestate in una metodologia di ricerca storica è stata negli anni sessanta del secolo scorso fino ad oggi, una dimostrazione formidabile dell’attività scientifica caratterizzata da una profonda onestà intellettuale nell’esporre in più registri linguistici le ipotesi e i limiti degli ambiti di applicazione.
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Vi è un profondo rispetto per il pubblico di settore e per coloro che non sono pienamente addentro ai contesti e ai linguaggi economici, statistici e di politica monetaria. Nonostante l’intervallo temporale di studio e la complessità di ciò che si va a studiare, i resoconti, le tabelle, le formule di applicazione, la creazione degli indicatori e la loro messa in opera, oltre a essere rappresentate da una forma rigorosa, sono accompagnate da spiegazioni e correlazioni aventi una narrazione piana, lineare, volutamente lenta e scandita nei passaggi.
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Il testo può essere letto come una catena di risultati di ricerca applicati a gruppi di anni disposti in serie cronologica ben definiti, disposti in contesti di analisi documentati con plurime rappresentazioni algebriche, grafiche, normative, valutative e politiche.
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Non ci si annoia perché tutto ciò che viene proposto dalla raccolta e dalla elaborazione dei dati, oltre alla loro definizione e disposizione in teorie descrittive l’agire umano, l’andamento delle economie, e le prospettive di benessere e di ricchezza o di povertà per tutti noi, tutto ciò considerato un fatto non pienamente chiaro. L’attività di ricerca, quindi, non si ferma solo nella definizione coerente di ipotesi e nella loro disposizione in teorie ben comprese dal pubblico di riferimento. E non è conclusa neanche nella determinazione dei protocolli intersoggettivi di ricerca e di raccolta delle informazioni, tali da poter essere trasformati in “dati”, “variabili” che riportino una descrizione evolutiva dei processi storici dell’andamento della moneta, anzi delle monete, dei prezzi, dell’inflazione, del reddito, del PIL.
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Il passo veramente degno di nota, è la fase rigorosissima di comparazione tra gli Stati nei loro rapporti economici, produttivi e finanziari di scambio, ove anche la moneta (e quindi la ricchezza dei singoli e delle collettività) è messa in questione nell’attendibilità dei risultati ottenuti.
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Tutto ciò è innestato in una discussione aperta e con argomenti NON AMBIGUI e ben delimitati nel porre le valutazioni in modo che le correlazioni rilevate abbiano l’attitudine per un impiego di analisi attraverso modelli di causazione. Si cerca in modo filologico di riconfigurare il processo storico in una proposta di cause ed effetti, per spiegare singoli eventi e disporre tendenze di lungo periodo.
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La bellezza, vero e proprio godimento estetico, affiora dal rispetto e dall’educazione che i due autori hanno verso i collaboratori della loro ricerca pluriannuale spiegando e riconoscendo in modo puntuale il loro contributo.
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Tale caratura morale emerge anche nel modo in cui il lettore è invitato a questo libro. L’anfitrione, cioè i due autori, aprono la porta a noi ospiti e si collocano di lato, in modo che si possa accedere con agio e in libertà.
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Il libro è voluminoso e a parte qualche specialista, difficilmente può essere letto immediatamente e con speditezza fino alla fine. Qui è la sua caratteristica: è un insieme di più tomi, con dentro plurime narrazioni dal punto di vista economico, storico, politico, statistico, metodologico, le quali costituiscono un’unica e ben congegnata trama narrativa.
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Ognuno di noi ogni giorno compera qualche cosa e richiede un servizio e lo paga. Siamo sottoposti al pagamento delle tasse e delle imposte. Cerchiamo di ottenere redditi e, profitti per impiegarli in consumi e investimenti. Dal pacco di pasta, ad una obbligazione, al pagamento di una assicurazione, al richiedere il servizio di trasporto e di assistenza.
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Consiglio di non correre nelle prime pagine e di fermarsi, per approfondire il significato esplicito dei termini esposti in modo preliminare. Consideriamolo come un allenamento iniziale prima di recarsi in palestra. È un investimento su noi stessi.
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Se ci facciamo caso gli orientamenti politici, le opinioni, le discussioni che abbiamo ogni giorno, derivano anche da quell’oggetto mistico denominato “moneta”. Quest’opera è una occasione per acquisire un approccio laico nell’affrontare questo tabù, in modo tale da non cadere preda da santoni, da coloro che svolgono politiche in modo populistico, sollecitando le nostre paure, insicurezze e angosce.
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È un gigantesco esempio di condivisione democratica del sapere, oltre che a fornire un livello dei nostri livelli e abilità nel comprendere gran parte delle nostre attività sociali, sia a livello individuale sia collettivo.
E in più si nota come le vicende assumano quasi la caratura di un romanzo riguardo gli scontri tra i gestori delle istituzioni bancarie e governative, locali e nazionali. Emerge in un’ottica di lungo periodo la considerazione che una ripartizione dei poteri non ambigua, il reciproco controllo, e la nomina di persone qualificate e non cooptate, sia la migliore garanzia per attrezzarsi ad affrontare le crisi.
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Si può anche riporre il testo dopo averne letto una parte minima, per poi, dopo aver approfondito ciò che riteniamo utile, riprenderlo, ritornare indietro e proseguire la storia di questa moneta negli USA, per limare uno spettro di osservazione e di elaborazione a più dimensioni.
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Non è un libro che impone il suo sapere a noi incerti e ignari, volto a imporre per autorità teorie già ben definite. Abbiamo, invece, la possibilità di condividere i dubbi, i miglioramenti e l’offerta di un’etica tesa alla ricerca e al sapere condiviso, dove l’inadeguatezza e l’ignoranza è un tratto essenziale, che innestato in una biografia avente l’etica del rispetto e del miglioramento, offre un esempio di scambio e di crescita personale in una cittadinanza del sapere democratico.
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Il dubbio, l’umiltà, la volontà di migliorare forse sono il risultato che scandisce la tonalità di questo studio monumentale: il nostro tesoro condiviso.
[La sfida: ecco il tuo specchio personale: guardati…. fino in fondo. ]
Il singolo e l’umanità che si spogliano innanzi allo specchio. Lo scrittore e il protagonista si presentano all’inizio in un gioco di riflessi fino a coincidere in una forma che ripropone il passato, vero per il primo, inventato per l’altro. Nel futuro, ricostruendolo, comprendono l’intimità più nascosta della loro natura. Capaci entrambi, immorale il primo, severo il secondo, incline a seguire le sirene della vanità e dell’orgoglio.
Pregevoli le prime pagine nell’offrire temi storici incastonati a questioni moderne, nel porre una loro analisi impietosa, cruda, ma onesta riferita a come il singolo cresca e si relazioni con la collettività e quindi ancora, per analogia, tra l’individuo e la sua rappresentazione immaginaria sociale. Il conflitto permane attraverso l’ipocrisia e il compromesso laido: le catene rivoltanti, ma efficaci per tenere in gabbia la crudeltà e la volontà di sopraffazione nel ritenere il mondo un oggetto nelle proprie mani.
Eppure il mondo risponde con un segnale che arriva dalle profondità dell’universo, costituito da un raggio neutrinico portante agglomerati di frequenze, ampiezze e fasi non casuali. Con fissi cicli di ripetizioni settimanali.
Il libro è stato scritto nel 1968 in piena guerra fredda e si descrive la ripetizione di un “Centro Manhattan” di scienziati che usano le tecnologie nucleari per decifrare e comprendere cosa sia questo flusso, da dove viene ed eventualmente intuire chi e cosa sia il mittente, e se comunica qualcosa: il relativo messaggio.
Il protagonista, un grande matematico, con riluttanza accetta la chiamata. E qui inizia un percorso biennale nel tentativo di capire qualcosa in merito. L’attività è dissimulata rispetto al pubblico ed entro questo centro tantissimi gruppi di scienziati sono posti di in condizione di lavorare uno in modo indipendente dall’altro. Il protagonista descrive le meschinità, le aspirazioni e le bassezze dei suoi colleghi, tra i quali anche lui ci si mette come grande saggio e conoscitore della (propria) meschinità.
E in più si passa ai politici e ai ministri di governo, che assieme ai militari, sono preoccupati di eventuali minacce extraterrestri, dalla possibilità di dover gestire la conoscenza di altre società intelligenti e forse più evolute da parte dell’opinione pubblica e ancor di più di dover dire che l’intelligenza umana e forse la stessa specie umana, siano un prodotto di qualche altra forma di vita.
È un libro formidabile perché attraverso i tentativi di decifrazione la narrazione, in una forma di monologo interiore retrospettivo, tramutato in forma di diario, che si traveste come in un gioco degli specchi in un diario intimo, analizza in modo epistemologico gli approcci scientifici nell’accostarsi questo mistero.
Attraverso le attività dei singoli scienziati, dai biologi, dai fisici, dai matematici, dagli ingegneri, dai chimici, vengono sviscerate (sì proprio nel senso di scarnificare) senza indulgenza i pregiudizi, gli stereotipi di fondo, gli assunti infondati, i precetti di fede nell’intendere la propria attività di ricerca, il senso del mondo, e le domande che riducono il flusso neutrinico secondo la propria visione limitata della realtà.
Il flusso neutrinico è un solo messaggio? Oppure è una struttura che ha all’interno gli stessi comandi per creare qualcosa di inedito? Sono più messaggi? È rivolta a noi o è di passaggio? È un brandello di qualcosa di più complesso? E poi non potrebbero essere caratteristiche della fisica a noi sconosciute? E ancora esisterebbero veramente esseri viventi come mittente? E chi lo ha detto che sia emanato da qualcosa che noi definiamo intelligente?
Queste sono le prime domande che via via nei capitoli assumono un senso filosofico, in cui si argomenta circa la limitatezza dell’essere umano, dei nostri modi di ragionare, sul senso del nostro mondo, e della nostra esigenza di demarcare l’inconoscibile. E in più il gran dilemma su ciò che è il mistero e di come noi si possa esserne parte.
Il terrore e l’orrore, la speranza e la gioia, il senso dell’angoscia e del timore.
È un romanzo che non ha una trama lineare. Non va letto in modo rilassato. È un libro che sfida il lettore e lo invita a guardarsi di fronte allo specchio, dicendo che la prima immagine che vedi è la prima bugia che ti sei creato.
La prima pagina è una porta in cui vi è un segnale che indica una via per conoscere noi stessi, senza sconti. Sono argomenti che ci sfidano e interrogano il lettore, il quale se accetta la fatica del rispondere all’invito, sicuramente avrà più punti di vista in regalo per poter parlare di sé e del futuro.
Questo libro è un’apertura ed un invito verso un mondo caleidoscopico e muta forma, accogliente e resistente rispetto alle avversità dei tempi, dei lutti, dei rivolgimenti in una terra in cui si sono riversati i popoli nei millenni, lì in parte risiedendo e in altre continuando ad attraversarlo.
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Le terre d’Ucraina sono state e sono una spugna e un filtro degli attriti terrestri e delle strade ventose d’Asia e d’Europa, svolgendo, in più, una cesura d’equilibrio rispetto al medio oriente e ancor oggi parla e manda vita e cibo alle terre d’Africa. I popoli, le lingue, le culture, le genti, chi in pace e chi offendendo, hanno preso e preteso in questo paese. Considerato inesistente o gigantesco. Eppure anche nelle volontà d’arrecare danno e inibizione per questi luoghi, considerandoli meramente materia disponibile, tutti a loro si rivolgono. Non possono fare a meno di volgere lo sguardo in questo mondo, che, nonostante le offese e il sangue, sempre nuova vita è rinata. E nuove parole e modi di vedere il mondo. Certo è comune a tante vicende e popoli della terra, però, qui, si ha una caratteristica che risalta: la memoria di ciò che si è stati, di come ci si è trasformati con l’avvento di nuovi popoli, mantenendo un filo conduttore comune cui la lingua e le espressioni culturali essendone una espressione mutevole, a esso risalgono. La consapevolezza di avere una propria definizione: essere parte dei popoli d’Ucraina.
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Nei secoli l’Ucraina ha accolto le lingue, le persone, gli stili letterali e poetici dei paesi limitrofi, e tra i confinanti e i loro figli lì nati, si sono innestati nuovi rami che hanno contribuito a generare non un singolo albero, ma intere foreste di trame narrative, storiche e di miti che conferiscono un senso, un colore e un’estetica. Ciò si è delineato fino ad oggi a determinare le ricostruzioni storiche che permettono una visione feconda e creativa verso il futuro.
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I poeti d’Ucraina solo negli ultimi due secoli sono stati autoctoni, russofoni, polacchi, lituani, tartari, cosacchi, romeni, moldavi, slovacchi, ungheresi, provenienti da quell’altro agglomerato in continua evoluzione che sono i popoli delle terre del Caucaso, e fra gli stessi popoli provenienti dalle terre della Russia.
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L’attività poetica è verticale. Ogni testo poetico cerca di rappresentare l’universalità partendo da una occasione sentimentale, temporale, o da un oggetto considerato trasparente, ovvio, banale. Vi è una differenza però per il lettore medio italiano. In Italia da decenni siamo abituati a considerare il poeta nostrano inserito in un contesto nazionale che ha il patrimonio della lingua italiana come un mare creativo trasparente e ovvio. Certo può essere anche un poeta sperimentale e dialettale. Non importa: sempre nell’alveo di un contesto italico è reso nell’immaginario estetico uniforme. Così non è per l’Ucraina: ogni persona è già bilingue o trilingue dalla sua stessa famiglia, oppure anche se reputa di parlare una lingua unica, usa termini propri di ceppi diversi. Ovvero ogni poeta, qui in Ucraina, è un gruppo di persone, più famiglie, luoghi diversi, ricordi ancestrali che vanno dall’Austria fino al Kazakistan. E sì vi è anche di italiano. Anzi molto di noi italiani, genovesi, veneziani (prima ancora dell’unità d’Italia) in Ucraina. Ogni poeta e poetessa ucraina è una moltitudine di approcci linguistici diversi all’interno di una lingua e anche una lingua con più approcci culturali diversi. Eppure ognuno sa dentro di sé distinguere quel nucleo che è la linfa sua creativa e che parte dall’appartenenza primaria alle terre d’Ucraina.
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Molti di loro sono stati e sono ancora oggi, di queste ore, perseguitati, torturati, incarcerati, uccisi, e le loro opere obliate. Anzi, nei secoli i popoli circostanti oltre a voler negare l’esistenza istituzionale dell’Ucraina, hanno voluto e ancor oggi cercano di eliminare la lingua, la storia, l’anima ucraina.
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Eppure, nei dibatti attuali, specialmente di questi giorni di guerra, di stragi e di orrori in quelle terre, l’Ucraina offre tanto al mondo di cibo, di materie prime, di persone che lavorano all’estero, di idee, di creatività, di manufatti sempre più sofisticati. E principalmente sperimentazioni estetiche e narrative, che hanno anche una valenza identitaria popolare, politica, di resistenza, di cittadinanza. La caratteristica è l’apertura e la creazione di qualcosa che sia sempre ulteriore, avendo però un occhio rivolto alle proprie origini.
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E mia sia consentito dire ai russi: l’Ucraina sarebbe stata e lo è e lo sarà per il prossimo futuro, una occasione formidabile per la quale potranno essere qualcosa di diverso, di migliore e di fecondo per i popoli a venire. Di lasciare la visione imperiale che avanza fagocitando e distruggendo, ma di ampliare migliori condizioni di possibilità per l’esistenza di ogni abitante del luogo e anche dei vostri paesi delle Russia. La libertà d’Ucraina è la garanzia futura per la sopravvivenza della Russia e per un suo sviluppo inedito e migliore. La madre Russia crea come quella Ucraina, ma molti dei figli suoi, la rinnegano e avanzano solo volendo il sangue. L’estetica, la democrazia e la creatività ucraina sono forse l’unica occasione affinché la Russia come la conosciamo possa prosperare nel futuro. Sembra un paradosso, ma lo stesso sviluppo dell’Ucraina salderebbe nuove radici per la Russia, partendo proprio dalla poesia: il luogo della gloria, della bellezza, dell’amore, della morte, della sofferenza e della rinascita.
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Questo libro è iniziato a esser redatto otto anni prima della pubblicazione nel 2022. Non è solo un prodotto derivato indirettamente dalla tragedia in corso. Vi sono ovviamente selezioni, quello che offre è un insieme di chiavi di accesso, e qui per quanto mi riguarda mi soffermerò in modo non esaustivo, su alcuni punti di riflessione per noi italiani, in una terra che consideriamo lontana, eppure i nostri avi tanto ne hanno avuto a che fare. Dimentichiamo che molti ucraini e ucraini in questi ultimi decenni si sono stabiliti in Italia, e hanno teso rapporti forti, plurimi e diffusi, tanto da apparire trasparenti. Le culture dell’Ucraina da decenni sono aperte al popolo italico e stanno seminando inedite prospettive già presenti. Sta solo alla nostra curiosità, alla nostra capacità di ascolto e di interagire, permettere che questo fiume carsico, finalmente emerga, fecondo e bello di vita.
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Mi focalizzerò su alcuni tratti che emergono dalle poesie degli autori, che rimando alla lettura del libro, perché sono tante e per ognuna non basterebbero dieci pagine per discuterle.
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Vasyl’ Stus (1938-1985 – morto anche per le lunghe detenzioni nei Gulag). È uno degli uomini più osteggiato e perseguitato fino a controllare ogni ora se avesse o meno la possibilità di scrivere, per negare anche l’atto di prendere una matita, o un pezzo di legno. Un ponte gigantesco della poesia dell’ottocento, non solo delle terre D’Ucraina, anche dell’intera Europa. Classico e romantico. Una esplosione di creatività e di versificazione. L’<io> come colui che è un mondo gigantesco, multiforme che si interroga su di sé, sul mondo, sul tempo, sul senso dell’esistenza, partendo però dal suo stesso dubbio. Le sue poesie hanno domande e invocazioni che sanno già in negativo dell’impossibilità della risposta. Dalla limitatezza e dallo struggimento, dalla concatenazione logica e razionale, procede nei versi con un crescendo continuo di richieste, sempre più profonde, fino ai sensi ultimi dell’esistenza. Nella traduzione italiana il ritmo delle domande e dell’accostamento verso il tempo, il mondo e l’eternità è giustapposto con invocazioni al futuro, risposte del passato, in un gerundio ritmico che non è ripetitivo. È una spirale che riparte dal punto iniziale come un nastro di Moebius in timbri sempre nuovi. È una continua variazione nel chiedere chi sono “io”. È un chiedersi estetico meraviglioso in cui questo uscir da sé, è un ritorno nei punti di appoggio: nascita e morte, speranza e orrore, corpo e sangue. Ecco perché ogni potente e ogni dittatore ha paura della sua opera: svela l’inganno e la violenza sciocca e muta. Hanno cercato di obliarlo in tutti i modi, ma Vasyl’ Stus riesce a parlare anche attraverso la sua morte.
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La poesia libera della “Scuola di Kyjiv” nata negli anni Quaranta nega la prospettiva storica proposta dal regime sovietico nell’ottica di una predeterminazione diretta da un apparato statale che è ordine e senso del mutamento sovraordinato sopra qualsiasi individuo. I luoghi creativi intessono relazioni astoriche tra le cose, cioè il mondo con l’uomo che è un individuo aperto a prescindere del suo “ruolo” e “funzione”. Lo stile talvolta astratto ed ermetico tende a delineare una attività poetica difficilmente riassumibile dai canoni totalitari politici ed estetici e a generare luoghi in cui nuove istituzioni immaginarie della società possano apparire. I loro testi furono pubblicati finalmente nella seconda metà degli anni Ottanta.
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Mykola Vorobjov offre istantiquotidiani e privati, apparentemente immediati, ma l’uso e la sperimentazione di colori, toni, aggettivi sostantivati delle cose del mondo come la neve, le foglie, i diamanti, il pesce, sono attrattori di metafore e traslazioni predicative di azioni e di funzioni, dove il poeta, il parlante, l’individuo, ricostruisce il passato saputo ora, nell’attività poetica, come “suo”, e lo proietta nel presente, assieme al lettore. La situazione nella attività di versificazione scandisce un tempo che delinea senso nel ritmo delle strofe e in queste cuce una biografia itinerante, attorno a un istante, che in tal modo, può essere di tutti.
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Mychajlo Hryhoriv invece adotta uno stile asciutto, di non facile comprensione, ma con scopi analoghi a Vorobjov: affidarsi a una spinta creativa nel chiedere il “perché” delle cose. La richiesta è rivolta a sé, e poiché si parla di poeti, l’attività del versificare è ciò che ritorna nel punto iniziale. Il dito è rivolto verso il proprio petto. La struttura di questo domandare è analoga a quella del mondo, ed è una metafora dell’espressione estetica.
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Vasyl’ Holoborod’ko richiede risposte impossibili come i due poeti precedenti con uno stile immaginifico, decisamente diverso. Le “cose” e le “situazioni” di Vorobjo e di Hryhoriv, infatti, appiano scarne e minute, tali da agglutinare significati nascosti, accessibili solo dal versificare del poeta che cerca di attirarle mediante domande esistenziali. Holoborod’ko invece si lascia travolgere dalle costellazioni di significati che erompono con metafore ed analogie, per le quali l’io del poeta incarna ogni loro significato. Il poeta è l’albero e la pioggia che assieme al mondo crea una comune situazione estetica piena di luci, timbri, slittamenti semantici, ostili a qualsiasi criterio regolativo.
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Negli anni di Gorbaciov nasce il gruppo visimdesjatnyky cioè i “poeti degli anni Ottanta”, figli di famiglie di intellettuali, e studenti universitari con uno sguardo meno legato alle tradizioni e alla postura emotiva del periodo della Stagnazione, cioè di Breznev. Vivevano gran parte a Kiev ed essendo molti coetanei, frequentando l’università e luoghi di ritrovo come i bar, scrivevano dappertutto anche nei tovaglioli, scambiandosi citazioni, versi, idee, spunti, contrastando quindi il forte controllo quotidiano e la censura. L’altro polo del gruppo è nella città di Leopoli che usa la cultura carnevalesca come uno stile poetico di resistenza e agonistico verso il potere, attraverso l’ironia, il sarcasmo, il comico. Innovativi, ma con uno spirito che noi diremmo medievale, in cui le maschere di carnevale, e i giullari assolvevano a una funzione antiautoritaria. E qui questa poesia funge da ponte per gli anni novanta.
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Hryc’ko Ćubaj, scomparso nel 1982 a Leopoli, offre una lirica ermetica che si genera nell’istante di tempo, considerato infinito, in uno spazio per il quale qualsiasi oggetto di una stanza, o di un ramo visto dalla finestra, rappresenta l’occasione di esprimere un patimento cosmico. I corpi vengono descritti nelle relazioni che il poeta ha con l’amante, con il cielo, il Sole. Le sensazioni nel ritmo dei versi, attraverso le sinestesie e le metafore in una espressione progressivamente più intensa di aggettivi sostantivati, compongono l’io del poeta in quell’istante che è tutto. Tutto lui, tutto il mondo e l’integrale delle emozioni che si hanno rispetto a ciò che è innanzi. Le sue poesie sono un grande collettore di metafore, che, più complesse sono, più riescono ad abbracciare gli astri in un cammino aperto e infinito.
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Natalka Bilocerkivec’ (poetessa) tende lo stile in un passaggio conflittuale tra la realtà e la sua rappresentazione, componendo per ulteriore contrasto un’affinità tra i due poli, considerando la vita quotidiana e quindi anche sotto quella della censura, una recita teatrale, vera però e concreta, fertile comunque per il poeta. L’attività estetica è la memoria di questa ipotetica scissione, e il testo poetico ne è la rivelazione, indicando, in più, un vivere ulteriore e indefinitamente più ampio.
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Oksana Zabuźko (poetessa) porta l’intero popolo ucraino nel tempo del novecento, mostrando come nel secolo del presente, il vivere e il respiro sia stata rubato e truffato da parole e idee che hanno ferito le città, i giardini, le terre. Il ritmo del poetare varia da strofa a strofa, in connessioni logiche ed entimematiche di più livelli, dove l’invocazione e la richiesta di attenzione verso il lettore, attraverso gli oggetti mancanti e quelli desiderati, proietta il futuro all’indietro in questo presente agro. Il collasso temporale è la stessa composizione poetica che permette la memoria, feconda e innovativa per chi sa e per chi voglia raccogliere le voci nostalgiche convertite nella speranza pudica, ma tenace.
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Ihor Rymaruk il poeta che nella prigionia, avverte l’impossibilità di porsi in relazione libera con l’ambiente, attraverso lo slancio poetico, decomponendo il suo io, per immergersi di volta in volta, e in concomitanza, con gli animali, con la risata di un bambino, con una rosa. Vi sono analogie che diventano legami corporei fino a fondersi nelle interiezioni che invece di troncare gli accenti e le consonanze, aprono ai suoni che compongono slanci ibridi di nuove forme estatiche, al di fuori dei manuali, delle regole, degli ordini, delle prescrizioni artistiche. La terra d’Ucraina è la pagina infinita di questo versificare.
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Oleh Lyšeha La fuga come libertà, l’inversione simbolica che rompe il mare di ghiaccio e di violenza fredda e istituzionale. L’io è più libero e vero, quando si estrania, alienandosi da sé, nel senso non di negare concetti, idee e valori di vita, quanto nel riconoscere la loro limitatezza. Tutto ciò, essendo piccolo, non può inglobare il mondo inconosciuto. Non a caso il suo poetare è centrifugo, ma i versi che dileguano, le allitterazioni e le invocazioni che non si chiudono, i singoli predicati che offrono plurimi complementi oggetti in quanto astratti, quindi possibili di singole individuazioni, ecco tutto ciò non è sintomo di una demolizione. Lo stato apparente di vuoto riceve una costellazione di tracce timbriche lasciate dalle strofe, in modo tale che l’io del lettore abbia il suo sentiero biografico da percorrere.
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Attyla Mohyl’nyj diffonde versi che invertono i tempi portando un passato non pienamente compreso e vissuto, che, diventando una mancanza, viene catapultato in un futuro anteriore, attraverso il ritmo poetico riferito alle assonanze predicative verbali del camminare, vagare, salire e scendere, tra vie e filobus, tra muri e periferie, tra tempi di lavoro e di svago. È una clessidra che dal centro proietta strofe verso le due basi in modo simmetrico, applicando un collasso temporale, in cui la linea del tempo narrato diventa un nastro circolare, e in esso s’emana l’abbraccio della speranza, dell’amore, dell’amata, e del canto. Un inno alla casa comune che è l’Ucraina.
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Jurij Andruchovyč offre il gran pentolone degli stili che convergono in vortici di consonanze terminologiche e assonanze metriche che rimandano a canti dei cosacchi, alla poesia “importante” europea. A prima vista sembra un vestito di Arlecchino di citazioni, ma ognuna di loro è strettamente connessa nell’offrire una melodia tra le parafrasi che permette il gioco, in modo da rompere le catene della prosa lineare e carceraria. Non è un caso che i tratti biografici emergano, come la fuga in Italia, e la consapevolezza di esser straniero e clandestino, ma nella volontà di lasciarsi giudicare e parlare dagli italiani, lui e la sua compagna, in modo da assorbire i nuovi punti di vista e le estranee parole per tradurle nell’ultima struggente poesia pubblicata qui. Ed è questo lo spirito Ucraino: accogliere gli influssi altrui per riproporli in una sensibilità inedita.
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Tra gli anni Novanta e Duemila appaiono i “poeti dell’Indipendenza”, coloro che nacquero tra gli anni Settanta e Ottanta. E si caratterizzano in primo luogo per le esibizioni orali al pubblico, più che comunicare prevalentemente con la carta stampata. Si moltiplicano i caffè letterari e gli ascoltatori. E partendo da un’impostazione orale, il verso libero ne è la matrice, per il quale all’interno della prosodia, fioriscono i neologismi, gli slang e il lessico quotidiano. L’io del poeta, passa in primo luogo attraverso il corpo, la materia, l’odore. Esplodono le assonanze e le allitterazioni. Le piazze sono il luogo di sintesi come nel 1990 per la “Rivoluzione sul Granito”, la prima Majdan, successivamente nel 2004 e infine nel 2013-2014. Il poeta non guarda all’istituzione, a un posto di docente, ma di vivere della propria libera professione di poeta che è quindi una pratica di vita.
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Serhij Žadan
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La presenza del proprio tempo. Qui la storia delle terre d’Ucraina e delle genti, del passato, delle loro confluenze tra i popoli, tutti convergono nel conflitto che inizia, non tanto per rivendicare una nazione libera, quanto per rivendicare l’autonomia che già esiste, nonostante sia malferma, per gli attacchi esteri, e per conflitti interni. Qui Žadan versifica nel confine e nei punti cardinali che orientano i vortici dei conflitti, ove i linguaggi, i tempi, e il mito sono concretamente confluiti nella sofferenza dei singoli. Si mantiene la propria aspirazione alla vita e alla libertà attraverso lo sguardo strabico che ha ogni cittadino. Est e ovest: i poli che conferiscono un senso ai confini del paese e che, nel contempo emanano spinte di opposta direzione. Il treno, la ricerca di uno spazio e di un lavoro, oltre a ingegnarsi ogni giorno con il fucile per sopravvivere a una guerra subita, sublimano in versi che diventano un memoriale. L’innovazione risiede nello scambiare il ritmo dei verbi che descrivono i patimenti dell’<io> ucraino, in un inno che celebra la normalità del quotidiano come un fine da perseguire, respirando arterie di ferrovie, globuli rossi di vagoni, tra le giunture dei capolinea. Un corpo che pulsa dolore e vita della terra.
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Marianna Kijanovs’ka
Una poetessa che moltiplica il proprio io in tante donne, che, tutte assieme, rappresentano le anime delle genti d’Ucraina, dove ognuna di esse s’accomuna con le lacrime, la gioia, e la morte. Il corpo dell’io della donna diventa un amplificatore dei moti della natura, degli animali, della flora, in cui ogni verso utilizza aggettivi e attributi dell’ambiente vivo e inanimato, rendendoli soggetti che compongono le declinazioni di questo poetare. Questo versificare è lo stesso patimento del corpo e della voce della poetessa. Tra le esplosioni di metafore, di allegorie e di sinestesie, tutte però non fuggono, ma convergono in questa terra. Tra i magnifici versi, ne cito solo uno che dice tutto in una volta: “L’ambra e lo smalto di una pioggia calda”.
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Halyna Kruk ci avvolge con spirali prosodiche nelle quale l’<io> del poeta si converte nelle strofe in un “noi”. Il patimento, il dolore, e la speranza, non è solo mia che li canto e li declamo, ma di tutti, e di tutte queste anime di questa terra, e di me stessa, Halyna : una pluralità di voci che hanno una relazione con ogni altra pluralità fuori di me. Esplodono le allegorie, tra un arcobaleno di metafore tra sentimenti, unioni, corpi, nascite e morti.
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Oleh Kocarev cammina tra versi di uno o due parole concatenate foneticamente e intrecciate semanticamente, in una struttura sequenziale che va di pari passo con il tempo. È un versificare che scandisce e riporta i secondi che viaggiano, trasformandoli in storia. Tutto ciò che appare e muta in modo concomitante, attraverso il poeta che raffigura e che prefigura, il mondo si sfila in un binario temporale. Attraverso una descrizione della terra, del popolo e della lingua, le strofe esprimono la tensione prosodica tra l’aria che disperde e la terra che sotterra, e qui nei tentativi di render senso alla memoria e scopo per il futuro, come due acciarini, la fiamma poetante crepita senza fine.
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Olesja Mamčyč è il luogo della poesia che riporta un mondo reale come se fosse una favola. Ogni predicato è già una sintesi di significati, concreti e duraturi. Lo stare dell’io del poeta, si rivela attraverso gli entimemi e la sineddoche. Ogni luogo diventa un ambiente attraverso la prosodia, e quindi ogni relazione assume una funzione attraverso l’armonia delle consonanze. È l’infanzia che gioca e crea.
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Dopo gli eventi cruenti del 2014, sull’onda della Rivoluzione della Dignità, l’ucraina ha cominciato a pensarsi in un’ottica di ricostruzione e in particolare anche per la cultura. I poeti risentono della violenza, dello scoppio della guerra come se d’improvviso la terra si rivelasse una zattera su un mare in tempesta, sotto le intemperie di un vento che riporta le urla ancestrali del giogo e del sangue. Gli strumenti espressivi risultano monchi rispetto ai nuovi e tragici avvenimenti, ma tantissimi poeti versificano e vivono sulla loro pelle ciò che di lirico riescono ad esprimere. Dal 2014 come per reazione alle bombe e agli spari che rimbalzano sul terreno, riverbera una montagna di polvere che muta in poesia e in un inno verso le genti che ora definitivamente si vedono ucraine. Ed infatti ora i poeti provengono da ogni zona del paese.
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Iryna Cilik
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Ella più di tutti all’inizio canta come gli elementi siano violati, di come le nuvole sporche e appesantite lottino contro il Sole, e che i vapori siano intrisi dei fumi di sangue di un cielo ferito. Il mondo urla alla primavera che sembra dileguata. L’io del poeta che si proietta come corpo nel mondo, si ricompone nel dolore, attraverso la domanda del perché di tutto questo e di come ogni speranza sembra convergere in un imbuto silente e interrato. Lo stile innovativo dispone versi di domande incastonate e descrizioni semanticamente disallineate, rimanendo però inscritte in forme canoniche come i sonetti. Ed è qui, anche nel grigio irrespirabile, che il canto riemerge e fornisce un nuovo sentiero temporale e melodico.
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Ljuba Jakymčuk riprende i temi di Iryna Cilik e approfondisce la decomposizione squartata di Luhans’k, di Donec’k, di Debal, con sperimentazioni innovative in tratti grafici appositi. È un poetare che va letto e parlato. La ripetizione e le cantilene compongono una struttura bivalente e a più livelli, infattida canto funebre commemorativo, si passa al lamento e allo strazio, generando un ritmo che si trasforma in iati e troncamenti. Le concatenazioni vuote, però, demarcano strofe che agiscono in parallelo e che quindi risentono e si riconoscono nella mancanza di una unione vivifica. Come radici di un albero divelto, i versi si immergono nel terreno per trarre linfa da nuove ramificazioni di senso.
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La poesia pubblicata di Anastasija Afanas’jeva sembra rispondere a Ljuba Jakymčuk: Sì. È possibile poetare dopo che la gente è divisa, dopo Donec’k, Luhans’k, dopo che lo stesso versificare è considerato un rumore di fondo indistinguibile. Sì: è possibile perché, anche nella flebilità più anemica di energie e speranze, rimane l’ultima fiammella cui attingere il tempo, il senso, lo scopo, l’immagine stessa del vivere.
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Ija Kiva, Jurij Izdryk si avventurano nel territorio strappato, nelle lingue bucate e censurate, nella ricerca di un nuovo equilibrio, dove il privato e il pubblico tentano nuovi intrecci, perché costellati da burroni di tombe, e rattoppi dispersi sui frammenti di pelle delle terre d’Ucraina. I versi attraversano i verbi all’infinito che predicano le azioni che si dovranno intraprendere per cercare le radici di una vita che non ha ancora un nome. L’ambiente ferito sgorga ancora linfa vivificante dalle vene lacerate. Si è obbligati a concatenare le strofe tagliandosi le mani e la bocca, ma non vi è scelta, perché la strada stilistica del patimento del poeta è quella che può dissotterrare le puzzolenti parole umide, per rischiararle con fatica sotto un Sole ottenebrato dal cielo fumante di ferro e acciaio. Le trame prosodiche sono lise custodi del tempo futuro.
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Oksana Lutsyshyna e Pavlo Korobčuk parlano del divenire tramortito, dei figli mai nati e nominati, alternandola la rabbia e la preghiera verso il padre e il signore. I versi incuneano una collana di eventi nel presente che, essendo luttuoso, tramuta la prosodia in una catena che immobilizza. Nella fissità temporale i predicati verbali collassano in attributi degli oggetti che descrivono i colori del canto del poeta. Le Invettive e le preghiere ritornano sul poeta stesso, perché, non essendoci una risposta trascendente e immanente oltre la linea di confine del dolore, i complementi oggetti mancanti lasciano una esortazione che suggella le strofe in liriche d’attesa.
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Serhij Žadan già citato nelle righe precedenti, riappare nel tempo della guerra di questi anni e come Oksana Lutsyshyna e Pavlo Korobčuk, converge il suo stile in un tono d’esortazione lirica che descrive il destino dei popoli e di queste terre, nel fuggire momentaneamente e portare con sé ciò che vale: le lettere, il pane della rinascita, le verdure delle terra che risponde sì, e non solo attraverso il sangue avvelenato. Dato che ogni confine è un Limes di guerra, il poetare deve versificare non più camminando, bensì nuotando nell’oralità dei fiumi e nelle correnti cromatiche tra le stelle, per conservare il nucleo di ciò che stava nascendo di questi anni. Il pesce deve volare. Le metafore debbono diventare verticali. Le allegorie utilizzano temi marinari. È struggente ed indicativa il titolo di una sua poesia: “Non dire mai queste parole se non fosse possibile” in cui vi è un verso che risponde “Proprio per questo non smetto mai di parlare”. I testi del poetare mutano le loro strofe in branchie e le loro relazioni in ovuli in cui germina la speranza.
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Kateryna Kalitko si inoltra nelle strade della notte, nelle terre silenziose, nei cieli senza sole, e negli anfratti di un al di là, dopo la devastazione e la perdita, eppure il ritmo dei versi in questa discesa fredda e infernale, pone il suo canto, che riverbera in una prosodia evocante l’eco di un futuro che rinasce dal passato. Il cammino e la strada, la strofa e l’elisione connettono un sentiero, dove le tracce di coloro che vivi furono, segnano la presenza nelle mele d’inverno, nella terra nera che risplende, nelle ossa dei cadaveri che si offrono agli uccelli. Per il ciclo ritmico delle assonanze che ripromettono il pasto che trasfigura in una nuova comunione.
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Iryna Šuvalova e Julija Musakovs’ka offrono i canti dell’amore che proiettano elegie, laudi, inni alla ricerca del contatto verso l’altro, la terra, il mondo. Da un trifoglio emerge l’apertura d’un abbraccio in uno stile che è proprio del clima mutevole delle terre d’Ucraina. Anche dal freddo, dal ghiaccio, e dal ramo d’acciaio argentato che batte su un letto di fiume sparso di ossa, tra le scritte doloranti sui muri, nuove carezze richiamano il viandante con suoni evocanti la comunione dei versi.
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E anche Borys Chersons’kyj con la satira e l’invettiva e Alex Averbuch con uno stoico realismo, indicano le strade per una rinascita. Uno giocando con gli stili linguistici, per affermare una lingua che è uno strano miscuglio come quella ucraina, e lo fa con un tono da giullare, in una corrosiva rima antiautoritaria. Mentre Alex Averbuch nella consapevole insensatezza di nascere tra una linea di morte e dolore che finisce come un chiodo di legno rinsecchito, trasfigura il versificare in una palingenesi che abbraccia il destino di ogni essere umano. Il terrore dell’esistenza informa che riconosciamo il dolore e che quindi esistiamo pienamente consci nello stare nel mondo. È una lirica che avanza a tentoni, incespicando nella violenza, ma è tenace nel richiamo e nell’ode verso il caos della vita.
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Le poesie scritte dopo gli eventi del 2014 sono tronche, documentaristiche, con il precetto morale di assolvere anche a una testimonianza storica, perché accerchiata, dato che la lingua e la possibilità di versificare sono sotto attacco con la minaccia di essere entrambe obliate. Più che mai ora, dal 2022 fino a queste ore e le prossime, tale condizione è presente e sempre più concreta.
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Iryna Šuvalova dai precedenti canti d’amore, ora è costretta a patire il tragico senso poetico della guerra, non in modo metaforico o allegorico, o con sinestesie. Qui l’io della poetessa è totalmente fisico: il rifugio, la perforazione e la decrepitezza sotto i colpi e i fendenti della morte che ora è presente, dura, antropomorfa. I baci sono di questa amante nera che aspira cuore e anima a tutti. Le rime e le assonanze rispondono all’andirivieni della mietitrice di arti e di sentimenti, con il contrappunto della consapevolezza. Le strofe iniziano per negazione, mostrando come la realtà sicura è flebile e decomposta, ma nel contempo allaccia nuove versificazioni nel voler parlare un secondo in più, perché il dolore è ancora un segno di vita, come indica Julia Musakovs’ka.
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Lesyk Panasjuk riporta il dolore e la morte in un memoriale che ha lo scopo di documentare ciò che i russi stanno compiendo. Eppure dai volti sparsi sulla terra fioriscono gambi e steli di resistenza che, nel canto poetico, imbrigliano le prose scarne e dirette dei russi. Una terra d’Ucraina che permane e cresce.
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E si conclude con Oleksandr Irvanec’, Viktorija Amelina e Halyna Kruk che offrono la resistenza del poeta assieme a quella del singolo individuo. Vi è il cuore che ritma, rima e pulsa in assonanza con le terre martoriate e in consonanza con l’impegno e la declamazione della promessa che fonda il futuro di un’Ucraina più unita e salda. Pienamente consapevole di una lingua che tra l’orrore, il buio e la morte, parla, patisce, e tiene salda la sorgente poetica, la quale in una funzione germinale coltiva il senso del vivere e del sorridere.
Allacciate le cinture. Non vi lasciate ingannare: non è solo un libro che ci informa di ciò che fu, perché è anche una mappa di un viaggio possibile verso noi stessi. E non è una gita turistica.
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Non si tratta soltanto del genocidio, delle stragi e dell’orrore. No, qui si va nel sottoscala del luogo più profondo del buio del “male assoluto”, perché è evocato in carcere tra i commilitoni tedeschi imprigionati, aventi la convinzione di non essere ascoltati.
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Questo volume ci schianta non solo perché mostra il nostro sapere superficiale di ciò che fu. Subiamo un tarlo che corrode la patina di normalità, per lasciar emergere l’orrore più profondo del cuore nero… che potremmo averlo anche noi, ognuno di noi dentro di sé. Nella lettura ci si interroga se anche noi si abbia viva e presente la voragine della morte.
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Sono trascritti i modi di interloquire che non hanno lo scopo di rivolgersi alle mogli, ai famigliari, agli avvocati, quindi non sono censurati, con fini opportunistici, di negazione, di deresponsabilizzazione, per cercare di salvarsi, o anche di negare a se stessi il proprio terribile e tragico operato. Sono sinceri e colloquiali. Sanno di non essere ascoltati, e quindi emerge l’inconscio. Lasciano emergere le memorie, anche quelle che a loro non sono ben manifeste in ordine al senso, ai motivi più profondi del loro operato terribile e orrorifico, oltre la vicenda bellica e di scontro che già di sé è una espressione massima di violenza.
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Questo parlare serve anche a catalogare il proprio passato assieme ad altri, per non impazzire. Sapere che vi sono altri che assieme a te hanno condiviso quelle esperienze e che attribuiscono nelle profondità emotive inespresse il senso delle parole e delle gesta, allontana la solitudine della propria responsabilità, che ha e avrà gli specchi della vergogna, della condanna, e i segni degli sguardi delle vittime. Sono sinceri nel cercare di dire l’inespresso perché tentano di mantenere lontana la morte, e quindi l’insensatezza della loro esistenza che ha avuto un segno soltanto nel regime della crudeltà.
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E proprio perché parlano di un oceano nascosto, il lettore ha l’occasione di riflettere sulla multiforme composizione dell’animo umano, e di come, ed è qui ciò che ci terremota il cuore, un nostro simile, e quindi anche noi stessi che ci riteniamo normali, possa compiere ciò che la storia, la società, il nostro sistema di valori indicano come l’aberrazione: la negazione del nostro dirci esseri umani.
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Quei discorsi trascritti di nascosto, attraverso i microfoni e gli agenti travestiti da prigionieri, e dalle spie, invitano a riformulare la domanda che ognun di noi conosce nel profondo, e che ha pudore a esprimerla agli altri e di fronte allo specchio mentre ci si guarda: “Ma…. Anche io potrei compiere tutto ciò? Se cambiassero le condizioni storiche e ambientali, sarebbe così facile divenire un mostro?”
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La lettura di questa opera di studio, narrata con uno stile quasi da “memoriale”, fornisce l’occasione di estendere i nostri dubbi, aiutandoci a non essere noi principalmente l’oggetto di giudizio. Tale stratagemma aiuta emotivamente a sostenere lo sguardo dell’abisso che è già dentro di noi, e quindi ci facilita nell’intento di una migliore consapevolezza nell’affrontare l’imprevisto che potrebbe attirarci nell’abisso.
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Questi prigionieri non parlano per informare principalmente: usano frasi sconnesse, con richiami e associazioni e rimandi su uno stesso racconto. Si parlano tra loro per intavolare relazioni lì nel carcere per un simulacro di comunanza di vedute per quello che hanno compiuto, anche e principalmente per allearsi in una ricerca di un fondo emotivo simile. Una fratellanza di crudeltà, considerata da loro necessaria, e quindi che non sia passibile di giudizio o di messa in questione. I racconti e i loro dialoghi hanno un tono di una cruda evidenza: si comportarono da sadici assassini perché era così che andava. Non vi è un motivo: è ciò che accadde. Questo è il punto: ne parlano come se stessero in un bar a bere assieme, parlando delle cronache sportive. L’oceano infernale può emergere se non è messo in questione, cioè posto in luce. Può esser intravisto da noi, perché si traveste da mondo normale.
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La bugia: È la guerra: così accade e così andrà.
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Anzi è la necessità che impone l’agire indipendentemente dal singolo. E già dalle prime pagine emerge la volontà di mistificare l’orrore in modo inespresso, entimematico, senza nominarlo: rendendolo un oggetto che vi è da sempre, e che quindi non ha origine da noi. Noi, quindi, non siamo responsabili. Ci troviamo immersi in esso, perciò non ne siamo gli artefici. Vi è una doppia menzogna: oltre a mentire su tale condizione, mentono a se stessi quando comunicano le loro storie agli altri prigionieri. Credono veramente alle loro bugie, alla cronaca fredda che descrive i nemici e i civili: ostacoli da abbattere.
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138 “[…] Si delineano così i confini del dicibile, di ciò che ci si può aspettare dalle conversazioni intercettate: nulla, della violenza di cui si parla, va contro le aspettative dell’interlocutore. Nei racconti di guerra, le storie di fucilazioni, stupri e saccheggi appartengono alla quotidianità: quando se ne parla, non capita quasi mai che si arrivi a un confronto, che ci siano obiezioni di carattere morale o litigi. Conversazioni dal contenuto decisamente violento si svolgono in modo armonico; i soldati si capiscono, vivono nello stesso mondo, si informano a vicenda sugli eventi che li riguardano e sulle cose che hanno visto o fatto. Le raccontano e le interpretano all’interno di un quadro ben preciso dal punto di vista storico, culturale e situazionale: la cornice di riferimento. […]”
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I verbali delle intercettazioni catturano in tempo reale il modo in cui i soldati vedono la guerra e ne parlano. I loro commenti e le loro conversazioni sono diversi da come si è soliti immaginarli, anche perché, a differenza nostra, i soldati non sanno come andrà a finire la guerra e quale sarà il destino del Terzo Reich e del suo Führer. Per noi, il loro futuro – sognato o reale che sia – è già passato, mentre per loro è ancora aperto. Solo pochi mostrano interesse nei confronti dell’ideologia, della politica, dell’ordine mondiale e di faccende simili; non combattono per convinzione, ma perché sono soldati e combattere è il loro lavoro. Molti sono antisemiti, ma ciò non significa essere nazisti o avere la stessa disposizione omicida. Non pochi odiano gli ebrei, ma provano indignazione quando vengono fucilati. Alcuni sono antinazisti convinti, ma appoggiano apertamente la politica antisemita del regime nazista. Molti sono sconvolti dal fatto che centinaia di migliaia di prigionieri russi siano condannati a morire di fame, ma non esitano a fucilarli quando sorvegliarli e portarli a destinazione diventa troppo faticoso o pericoloso.
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A una prima lettura, la maggior parte dei racconti appare incoerente. Questo però solo se si suppone che le persone si relazionino secondo le proprie «posizioni», e che queste dipendano in gran parte da ideologie, teorie e convinzioni radicate. In realtà, gli uomini si relazionano proprio come ci si aspetta che facciano – e questo libro vuole dimostrarlo.
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E vi è lo sgomento, perché noi oggi giudichiamo il genocidio degli ebrei, e di tutte le cosiddette “minoranze di minorati” secondo i nazisti come un processo pianificato, chiaro, ed evidente a livello personale e collettivo in Germania. Eppure dai discorsi in cella di questi militari si ricava un sistema di norme, di presupposti, di valori, di usi, di modi di vedere il mondo, completamente diversi dai nostri. Attenzione anche da parte di chi osteggiava le fucilazioni in massa, e i gas contro gli ebrei, ma NON PER I MOTIVI e LE CONDANNE che noi oggi attribuiamo. No. In realtà, a parte poche decine di individui sui milioni delle SS e dell’esercito cosiddetto regolare della WEHRMACHT l’antisemitismo non era una questione, non era un elemento di dibattito, o di studio, non era una etichetta che permetteva di caratterizzare l’appartenenza politica, di censo, di tifo, di simpatia o no verso o contro gli ebrei. No: l’antisemitismo era un quadro di riferimento. Ovvero, anche coloro che criticavano l’approccio dello sterminio, tra le righe dei discorsi e del non detto e di ciò che era scontato, non si condannava l’omicidio in sé, la strage di donne e di bambini per fucilazione, il soffocamento, la fame, il freddo, il gas e il fuoco. Molti esprimevano dubbi per questioni di opportunità diplomatiche. Alcuni criticavano il metodo. Altri come alcuni generali, osteggiavano la politica e le SS, perché distoglievano risorse e militari dai due fronti: sovietici ed occidentali. Eventualmente si sarebbero potuti ucciderli tutti dopo con discrezione.
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Alcuni più avveduti, ritenevano che alcuni ebrei avrebbero potuto essere alleati temporanei durante la guerra. Molti, specie tra i civili, ritenevano che poi gli ebrei si sarebbero vendicati, perché controllavano gli USA e la Gran Bretagna. Insomma, si rileva che in guerra si libera e già in quei decenni lo era come dato di fatto, la possibilità di uccidere per noi, con i nostri occhi di paesi in pace all’interno dell’Unione Europea da decenni, dove generazioni di uomini e donne non hanno visto concretamente la guerra.
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Questi soldati poi vedevano solo piccoli eventi. All’interno delle fasi di combattimento, di invasione, di bombardamento, di avanzata e di ritirata, l’uccisione e la deportazione degli ebrei era spezzettata in tante fasi e da persone diverse. Era un episodio tra i tanti. Non avevano molti (a parte i più istruiti e gli alti in grado) la strategia complessiva posta in atto dai quadri nazisti. In più i modi di uccidere si sperimentavano per renderli efficienti: togliere le prove, non sprecare le pallottole, bilanciare poi il bisogno di schiavi da lavoro e di sesso per ricavare materiale da un’economia di guerra, eventualmente poi si sarebbero consumati per la fame, la fatica, il freddo. Tecnica sperimentata dai sovietici, e dai cinesi di Mao, oltre che da Pol Pot in Cambogia nei decenni successivi.
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La visione del genocidio è venuta dopo anni la fine della guerra. Questo non significa che i tedeschi siano giustificati. No, peggio: significa che gli ebrei e le minoranze considerate tali dai nazisti traeva una legittimazione dagli usi e consuetudini delle realtà germaniche. Ovvero, i valori con tutte le variazioni possibili, erano condivisi. E qui si crea una voragine etica. Ovviamente i militari tutti non è che pensassero alle camere a gas: il primo problema era sopravvivere e combattere, l’altro andava eliminato. Ma il punto è che anche coloro che non fossero nemici apparenti, erano considerati oggetti, che se reputati ostacoli, andavano annichiliti.
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Ed è terribile leggere che i civili, volessero partecipare a uccidere in massa i prigionieri e gli ebrei, chiedendo ai militari di poter usare i loro fucili, e di come in tante parti dei paesi dell’est fino ai territori dell’URSS occupati, facessero foto e si divertissero come se fossero in un Colosseo, e come indicassero ai militari di sparare in un modo coreografico o di puntare alcuni gruppi, anche le donne, sì tutti. Nessuno e nessuna esclusa. La possibilità di una violenza AUTOTELICA e dell’omicidio avente l’illusione dell’assenza di colpa.
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Il dramma è che si parla della popolazione normale. E allora dopo il disgusto e lo sgomento che si prova a leggere ogni riga, ci si fissa sull’orrore di ciò che accadde e lo si rifiuta. Ma vi è un’altra voragine: tutto questo, sotto sotto, ci fa pensare, e non lo vogliamo dire, che anche noi, forse, in contesti valoriali e ambientali simili, avremmo agito in modo analogo. Quello che vogliamo sancire come male assoluto, significa che è così grande da non potersi ripetere. Fu di loro, non riguarda noi. Eppure il male assoluto si è ripetuto in Siberia con molti più morti e in Cina con stragi maggiori.
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Il tabù che abbiamo noi oggi: nel cuore di ogni individuo, ora, in questo momento, è la possibilità di incarnare quell’orrore. Si dirà: ma vi è la responsabilità individuale! Certo, ed è qui il punto, per molti non si può imputare la scusa che sia stato plagiato come un adolescente, o come una persona vissuta in perenne privazione. No, vi furono individui, benestanti e acculturati tra i civili che acconsentirono, anzi che vollero sparare per divertirsi.
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E qui entrano i blocchi che abbiamo oggi nell’analizzare il nostro passato fascista, e il modo volutamente superficiale di non condannare la Russia di oggi, o di dire che è solo colpa di Putin.
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Queste forse sono strategie che coprono la paura più grande, oltre quella di morire, che io e voi, si possa volere di compiere il “male assoluto”, di credere di averne utilità, giustezza, ma ancor di più un enorme godimento e piacere.
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Le mentalità precedono le decisioni, ma non le determinano. Anche quando le percezioni e le azioni umane sono legate a condizioni sociali, culturali, gerarchiche, biologiche o antropologiche, c’è sempre un margine per l’interpretazione e la negoziazione. Per saper interpretare e decidere bisogna sapersi orientare, conoscere la propria realtà ed essere coscienti delle conseguenze delle proprie decisioni. Le mentalità però non spiegano perché qualcuno ha fatto qualcosa, a maggior ragione quando soggetti con la stessa forma mentis giungono a conclusioni e decisioni diametralmente opposte. È qui che ci vengono in aiuto le teorie sulle guerre ideologiche o sui regimi totalitari. La domanda è sempre la stessa: in che modo le «visioni del mondo» e le «ideologie» si traducono in percezioni e interpretazioni individuali? Come influenzano l’agire del singolo? La cornice di riferimento può essere uno strumento valido, e i discorsi che si fanno i prigionieri di guerra, rappresentano il quadro del sottosuolo.
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25 “[…] L’azione psicologica profonda dei doveri sociali fa sì che, contrariamente a quanto si pensi, gli uomini non agiscano sulla base di motivazioni fondate e calcoli razionali, ma all’interno di relazioni sociali. Queste ultime rappresentano una variabile fondamentale per le decisioni umane. Ciò vale in particolare per le decisioni prese in condizioni di stress, simulate nei celebri esperimenti sull’obbedienza condotti da Stanley Milgram. In quel caso era soprattutto la costellazione sociale a rivestire un ruolo rilevante nel grado di obbedienza dimostrata dalle cavie nei confronti dell’autorità. […]”
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26-27 La vicinanza sociale avvertita o reale, con i doveri che essa comporta, costituisce un elemento centrale nelle cornici di riferimento. I doveri sociali non devono essere per forza consci, ma sono così interiorizzati che fungono da agente di orientamento senza che la persona in questione lo sappia. In questo caso gli psicoanalisti parlano di delega. Il ruolo degli obblighi sociali si chiarisce ulteriormente se si accetta la mono dimensione della cornice di riferimento nel contesto delle situazioni militari e la limitazione dello spazio sociale dei soldati al solo gruppo dei camerati. Mentre la famiglia, le fidanzate, gli amici, i compagni di scuola e di università costituiscono numerosi punti di riferimento quando ci si trova a prendere una decisione, al fronte tale pluralità si riduce al gruppo dei camerati. E questi ultimi lavorano all’interno del medesimo quadro di riferimento, con gli stessi obiettivi: adempiere il proprio dovere e sopravvivere. Per questo in battaglia la tenuta e la cooperazione sono decisive; in quella situazione il gruppo costituisce l’elemento più forte della cornice di riferimento. Le regole del gruppo agiscono in profondità in quanto sono decisive per la sopravvivenza. Tuttavia, anche quando non combatte, il singolo soldato è legato al gruppo a filo doppio: non sa né quanto durerà la guerra né quando gli verrà concesso un congedo o quando verrà trasferito, cioè quando verrà allontanato dal gruppo totale e tornerà a far parte di gruppi plurali. Così inteso, il cameratismo comporta non solo la massima concentrazione del dovere sociale, ma anche l’esonero da tutto ciò che conta nel mondo reale. Il cameratismo, quindi, non è un mito militare idealizzante, ma è un luogo sociale che diventa più importante di qualunque altro.
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Dai colloqui sembra che è la pratica della violenza specifica a un gruppo, molto più di qualunque motivazione e classificazione di ordine cognitivo, a motivare e rendere comprensibili le azioni dei soldati. Il passaggio dalla cornice di riferimento della vita civile a quella della guerra è il fattore decisivo, più importante di qualsiasi disposizione. Queste sono rilevanti solo per ciò che i soldati ritengono di potersi aspettare, per ciò che stimano giusto, irritante o indegno, ma non per ciò che fanno. L’ideologia può fornire occasioni per una guerra, ma non può essere presa come spiegazione del perché i soldati uccidono o commettono crimini di guerra. La guerra, le azioni svolte dai lavoratori e il lavoro della guerra sono banali, banali come è sempre la condotta umana in condizioni eteronome: al lavoro, in un’istituzione, a scuola o all’università. Tuttavia questa banalità ha partorito la violenza più estrema della storia dell’umanità, ha lasciato dietro di sé più di cinquanta milioni di morti e un continente sotto molti aspetti devastato per decenni.
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Una ipotesi che emerge dal libro è che la cornice di riferimento della violenza nelle società moderne sia diversa da quella delle culture non moderne. È quindi errato contrapporre la violenza alla non violenza: si tratta piuttosto di capire come essa venga regolata. Perché una persona decida di ucciderne un’altra, basta che si senta minacciata nella sua esistenza, che si senta autorizzata a farlo o che attribuisca al proprio atto un significato politico, culturale o religioso. E questo non solo in guerra, ma anche in altre situazioni sociali. La violenza praticata dai soldati della Wehrmacht non è quindi più «nazionalsocialista» di quella praticata dai soldati inglesi o americani. Diventa tipicamente nazionalsocialista solo quando è finalizzata allo sterminio premeditato di un gruppo di persone, che, persino in malafede, non può essere definito una minaccia militare. È il caso dell’uccisione dei prigionieri di guerra sovietici e, soprattutto, dello sterminio degli ebrei. In quelle occasioni – come del resto in tutti i genocidi – la guerra ha fornito un contesto in cui si sono abbattute le barriere della civiltà.
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E qui alla fine gli autori propongono tale asserzione che è compito di noi lettore discuterla in modo compiuto. Ma ciò esige che ci si guardi allo specchio, ovvero: “Le persone uccidono per i motivi più diversi. I soldati uccidono perché quello è il loro compito.”
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È veramente così? Il libero arbitrio è questa linea di confine tra le due tendenze micro (psichica) e macro (normatività sociale)? È un dovere morale interrogarsi su tale questione. Cioè su di noi.
Tanto è stato scritto riguardo a tale capolavoro che divenne un classico, per impostare le trame, tra intrighi dei potenti (nobili, proprietari terrieri, banchieri, clero) e nuovi attori che dalle guerre napoleoniche apparvero come soggetti autonomi nei racconti e nei romanzi: il popolo, gli intellettuali d’assalto. E ancor di più, la messa in questione tra la lingua, il popolo, il regno, il territorio, la libertà e l’autonomia giuridica.
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La guerra non fu più solo intesa come una espansione territoriale e imperiale, perché si volle rendere visibile una nuova equazione geografica tra lo Stato e il regno, il ducato e il principato, con il popolo che è ora caratterizzato da una omogeneità culturale e linguistica. Ciò fu inteso come una proiezione, non la realtà di fatto di quel tempo.
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Stendhal (ovvero Marie-Henri Beyle) partecipò alle guerre rivoluzionarie e poi napoleoniche. Attraversò anche il territorio italico, e qui soggiornò nei diversi regni conquistati. Conobbe gli italiani, ma non quelli che noi riteniamo tali oggi. No: gli italiani che erano dell’Impero Austriaco, del Regno Sabaudo, del Granducato di Toscana, dei Regni Pontifici, dei vari ducati di Parma e di Modena, e così via.
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I potenti si sentivano sì italiani, ma come un’unione (e non un’unità) culturale che derivava da una radice storica per i vari dialetti in una lingua che si formò dal latino. Noi oggi riteniamo scontata a livello formale (non sostanziale perché molti stereotipi li abbiamo anche oggi e li consideriamo reali e viventi tra di noi) l’unità linguistica e giuridica dei soggetti nel territorio, tra l’individuo e le istituzioni, le norme e la cultura, all’interno di un territorio ben delimitato che ha una prassi del diritto pubblico. Oggi vi è la legislazione formale che associa a un territorio omogeneo quella unità di analisi detta “popolo”.
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È un tema più che mai attuale, specialmente per noi, qui in Italia, abituati a un paese lungo, costeggiato dal mare, che si sente tale perché omogeneo, credendo quindi che altrove sia così.
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I parmensi si vedevano magari più vicini al Granducato di Toscana che al regno Sabaudo, più vicini all’imperatore D’Austria che allo Stato Pontificio. E tutti guardavano molto male il Regno delle Due Sicilie, che poi fu anche Regno di Napoli, ove al suo interno vi erano amministrazioni territoriali diverse, come quelle tra le isole, le capitanate, e i grandi centri metropolitani.
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Stendhal ne fu un testimone diretto, infatti parla molto di noi, comparando il modo di agire dei popoli italici sia a livello “alto” sia a quello “popolare”.
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È un romanzo moderno, e non è un caso che altri scrittori come Alexander Dumas ne abbiano attinto per ricavare spunti relativamente alla prigionia, alle questioni relative alle guerre intestine in Italia, e alla figura della donna. Le protagoniste femminili, dalle duchesse alle cameriere, agiscono in piena autonomia cognitiva e di azione nel rapportarsi ai corrispettivi maschili. Le donne ragionano in modo sottile sulle tecniche di comunicazione e di interpretazione circa gli eventi e i processi mentali dei maschi. Ciò è una novità rispetto ai romanzi del settecento, dove vi sono donne eroiche, abili, perfide, intelligenti, capaci, ma queste dipendevano in primo luogo dall’emotività e dal vizio. Si praticava un approccio laico della visione religiosa secondo la quale, una donna capace è una strega che è serva del demonio.
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Nel romanzo le donne eticamente sono sullo stesso piano, sia le figure negative sia quelle commendevoli rispetto agli uomini. Certo vi è l’amore romantico che tenta di sublimare i contrasti e Stendhal che seguiva il suo pubblico, veicola la trama secondo questa logica, anche in modo affrettato, rispetto alla complessità delle descrizioni e degli eventi narrati nella prima parte del romanzo. Ciò dipende anche dalla necessità di ricavi monetari per la distribuzione dei romanzi, pubblicati a puntate nelle riviste settimanali o mensili. Ecco perché ogni tanto si rilevano ripetizioni e riassunti degli eventi. O talvolta vi siano stacchi netti da una scena all’altra. E forse per motivi contrattuali, o personali, Stendhal ebbe fretta di finire.
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Occorre considerare che lui tra la vita militare e di corte, partecipò a vicende dure, rocambolesche, con alti e bassi, vivendo da nomade. Per quanto riguarda la descrizione delle battaglie e delle rivolte, siamo nel periodo dopo Waterloo: quello che va dalla restaurazione fino ai moti del 1830. Il libro è ambientato in un periodo di apparente ritorno alla tradizione, ma si vede come i nobili oramai avessero il terrore del “popolo” che appariva sempre più una espressione di interessi diversi e articolati. Il periodo di “pace” in realtà fu una pentola a pressione di conflitti che emersero momentaneamente a livello locale.
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Stendhal era innamorato degli italici e del loro modo di agire. Vi sono, infatti, richiami alle loro modalità di comunicazione e di relazione. Nel romanzo vi sono ripetute comparazioni rispetto ai popoli nordici. La lettura di quest’opera è anche un’occasione per rilevare come ragionassero e si vedessero gli italici lombardi sotto l’Austria, i nobili dei vari ducati, l’aristocrazia e il popolo sabaudo.
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La bellezza delle sue opere risalta anche nel modo in cui esprime i sentimenti e le riflessioni interiori dei personaggi, in un modo delicato conducendo per mano il lettore, mostrando infatti la causa delle loro azioni successive. La narrazione, a parte gli stacchi, derivati dalle puntate sulle riviste, segue un filo logico lineare all’interno di più storie parallele. E su questo è un autore superlativo. Una forza della natura, data anche la sua vasta produzione letteraria.
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Rispetto ai nostri giorni si rileva un pudore nel mostrare scene scabrose di sesso, di violenza e di guerra. E ricordiamo che lui la guerra la fece per davvero. Non è un caso che alcune descrizioni dei campi di battaglia siano dirette, sintetiche, scarne, ma efficaci, appropriate, ed evocate con poche parole. Eppure non calca la mano. In certi casi, relativamente alla malattia, alle ferite, al sangue e allo sporco, il suo timbro è veloce, da apparire tenue ed ovattato. Ciò dipende in primo luogo dalla sua sensibilità. Era una persona curiosa, che voleva apprendere, leggere e migliorarsi. Man mano negli anni divenne sempre più sofisticato: sapeva vivere nel quotidiano e a corte. Anzi era addirittura severo con alcuni ambienti nobili e letterari per la superficialità.
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L’uomo sacrificava lo scrittore per non apparire eccessivamente “volgare”. In generale, però, la sensibilità del tempo era molto più vicina alla malattia e alla guerra che offendono il corpo rispetto ai contemporanei. Non vi erano riflessioni riguardo la relazione tra il conflitto e la carneficina. Noi, e oggi diremmo fortunatamente, siamo molto più sensibili al dolore e alla presenza del cadavere, del caduto in guerra putrescente, all’amputazione e alla menomazione.
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La morte non era configurata come un elemento astratto, ma si individuava nel fato che portava le malattie, e nello scontro tra ladri, malfattori e militari. Però Stendhal ci informa di un primo slittamento semantico: le guerre napoleoniche causarono vere e proprie stragi di massa che, per quei tempi, corrispondevano a devastazioni continue e generalizzate, e non più a scontri individuati in luoghi precisi. La razzia e l’attacco ai civili non fu più una conseguenza della disfatta e dell’occupazione, ma una tecnica complementare all’azione della battaglia. Gli eserciti si specializzarono distaccandosi sempre più dai civili, i quali divennero un obiettivo tattico.
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La “Certosa di Parma” fu una miniera di spunti per i grandi romanzi dei decenni successivi in ordine alle guerre, alle avventure di corte tra gli amori e gli intrighi e alle nuove determinazioni delle politiche e delle relazioni internazionali.
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Più di tutto, però, perché Stendhal scrive in un modo meraviglioso: mai un predicato o un aggettivo fuori posto, mai descrizioni ridondanti, a parte i raccordi delle puntate editoriali. Si respira aria di letteratura montana: aria fresca e corposa che riempie i polmoni.
“[…] Il titolo è un gioco di parole tra l’espressione evangelica “liberaci dal male” e il paese natale di Malo in provincia di Vicenza. Meneghello propone in una sorta di rivisitazione autobiografica gli usi, i costumi, le figure tipiche, la vita sociale che ha conosciuto nel corso della sua infanzia e giovinezza nel paese natale e traccia un ritratto della provincia vicentina, della sua gente e della sua cultura dagli anni trenta agli anni sessanta […]”
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All’interno del discorso relativo alla funzione antropologica e letteraria del dialetto, proprio degli anni sessanta del secolo scorso, Meneghello esplicitamente scrive che esso rappresenta il volume delle correnti sotterranee dell’oceano dei nostri modi di comunicare in noi stessi, nel mondo, e tra il tempo in cui il presente, il passato e il futuro giocano, inventando percorsi temporali infiniti. Ogni percorso è una biografia individuale che si rifrange, si moltiplica, cambia nelle memorie.
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Tali correnti dispongono il patrimonio delle coorti generazioni che permette la costruzione infinita delle comunità. Ovvero il luogo in cui i soggetti hanno la fiducia di attribuire simboli, significati, azioni e scopi adeguati, congruenti e conformi nelle interazioni che ognuno ha con l’altro. E in particolare anche a quelli che risiedono nelle fantasie, nelle memorie, e nelle biografie continuamente reinventate.
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La lingua formale italiana è vista da Meneghello nella funzione di un artefatto successivo a quello che è originario della comunità, in particolare alla prima manifestazione nella biografia di ognuno: il rapporto con la madre e i genitori, quindi alla casa, e successivamente all’ambiente circostante, come la stia, la via, la cascina, il villaggio.
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Nel dibattito dei due decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, relativo alla autonomia conoscitiva e al fondamento della soggettività di ogni agente sociale, tra il linguaggio italiano istituzionale e quello dialettale, all’interno delle variazioni e delle preferenze che attribuivano a una visione polare un peso distintivo tra le due sorgenti creatrici dell’identità e del senso del tempo, Meneghello in via prioritaria non attribuisce uno schema “vero-genuino” per una e “imposto-artefatto” l’altra. O ancora che un polo sia il vero luogo del linguaggio e l’altro una tappa di crescita biografica.
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Meneghello imposta la sua visione nella forma dialettale che è in osmosi con la comunità: questa si riconosce tale perché è nel luogo di interazione dei dialetti, in cui è in essa si riconosce, usandola come strumento e fonte di significato nell’attribuire senso e coerenza agli scopi prefissi di sopravvivenza, di relazione e di proiezione rispetto al mondo (ciò che ignoto e lontano).
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Carlo Emilio Gadda in quel periodo usava il dialetto per approfondire le tecniche narrative del linguaggio e sue relazioni tra lingua e idiomi. Pierpaolo Pasolini lo intendeva come il luogo della concretezza del singolo rispetto ai mutamenti sociali ed economici, in cui la valenza comunicativa e culturale rappresenta l’affermazione di una propria dignità e di autonomia di rivendicazione sociale diretta. Meneghello ammette che nel dialetto abbiamo una immediatezza originaria tra parola e cosa. L’esperienza infantile, infatti, nell’acquisire il dialetto in modo embrionale e impreciso, definisce una forma vocativa e idiomatica ambigua nell’uso delle parole verso le cose. L’esperienza primigenia è per sua natura metamorfica. La comunità è questa mappa che, crescendo nella biografia, denota una struttura di senso per orientare gli scopi di mantenimento e di riproduzione della comunità stessa.
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La lingua formale è sempre posteriore non tanto in senso temporale, per il singolo, ma è derivata in senso logico rispetto al dialetto. È la costellazione delle insegne stradali, ovvero delle regole che devono essere estese alle relazioni tra i singoli prescindendo dall’esclusività del singolo. Occorre un riconoscimento sì, ma una separazione di ogni biografia del linguaggio nelle interazioni sociali tra il nome e la cosa. Emerge allora la necessità di perseguire la coerenza, la distinzione, tra il segno, il simbolo e il soggetto in uno schema riproducibile e riconoscibile, e per questo occorre una mediazione. Ecco allora che per Meneghello sono veri e concomitanti i mondi dei due linguaggi, dove lui bimbo, e altri bimbi si trovano a comunicare. In tale contesto il linguaggio istituzionale è accessibile in virtù della mediazione del linguaggio del nido, quello vernacolare e quindi quello della comunità, che con la sua crescita si amplia sempre più, fino a mutare in un luogo separato simbolico e di memoria con quello sociale (istituzionale).
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Ma, vi è un “ma”. È un romanzo sì, ma può essere inteso anche come un gigantesco affresco poetico, che non riesce ad essere tale, perché collassa in una forma in prosa. Un testo di poesia che è proiettato quasi topologicamente in un piano di prosa.
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Nel linguaggio dialettale per Meneghello vi è una osmosi tra la parola e la cosa, e ogni variazione fonetica della parola dialettale è unica, e quindi tutte quelle che appaiono, coprono il mondo dell’esperienza. Questa ipotesi genera un dissidio con incoerenze nascoste. Non è un caso che il testo dello scritto inframezza la narrativa con cantilene, proverbi, detti, vocativi: cioè il linguaggio poetico che è voce, suono.
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E il linguaggio poetico serve perché è verticale secondo le caratteristiche del dialetto posto da Meneghello stesso, cioè osmosi e non semplice rapporto (come nel linguaggio formale) tra parola e cosa. È un ottimo stratagemma, forse inconsapevole: lui ci si è trovato. Non poteva fare altrimenti. Il libro, se lo si legge anche sentendo la voce interiore e il suono, sembra cantata, più precisamente narrata secondo lo stile un grande vecchio dei paesi dell’Africa che racconta la storia di tutto il villaggio, partendo dall’inizio e non può essere interrotto. Deve percorrere tutto il tragitto per riviverlo, adattandolo in rapporto alla disponibilità, alla memoria e al sistema simbolico dell’ascoltatore. E quindi serve il mito, il ciclo, la paratassi, l’analogia.
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E la prima è la voce il suono. Si parte dalla madre per il dialetto, cioè il luogo del vernacolo. Ma è proprio vero che l’osmosi tra la parola e la cosa sia così originaria e immediata? Non può essere che anche essa sia derivata in modo diverso rispetto a quella istituzionale del linguaggio formale?
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I suoni e le vibrazioni sono già a livello intrauterino tra madre e figli. Prima ancora degli occhi e del verbo. Le frequenze e le relazioni specifiche uniche e irripetibili tra madre e embrioni, costituiscono la derivazione invece originaria nella nascita dove vi è il vocativo. L’urlo di nascita. Non è già quella una separazione tra nome e cose, tra voce, soggetto e oggetto? Ora tutto ciò è comune per ogni madre di ogni tempo. Ma il punto però è che l’idioma mantiene la sua osmosi anche con lo stratagemma poetico che è verticale, nel tempo attraverso le memorie e queste si nutrono delle interazioni che uno ha verso il mondo. E quindi anche con il linguaggio istituzionale dove egli stesso è un produttore di suoni, significati e simboli. E questi servono poi ai dialetti per offrire simboli coerenti ai percorsi biografici di ognuno.
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La poesia aiuta, ma proprio perché è verticale, è libera di nuotare tra correnti superficiali e sotterranee e agire e parlare in modo concomitante (e non stratificato) all’interno di ogni vocativo co tutti i livelli e profondità.
Ciò comporta allora l’ipotesi che i dialetti e i linguaggi formali siano mediati entrambi, rispetto a qualcosa di altro, e la forma poetica ci avverte come una sonda di questo “nascosto”.
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Ecco perché questo libro di Meneghello è da vivere, percorrendo consapevolmente con la propria biografia, per incorporarlo nel nostro sentire vocativo, evocativo, comunitario e sociale. Ci ritroveremo in esso. Sentiremo che siamo tutti collassati, ma non per questo ridotti a una stenografia di un mondo. Anzi, siamo molto di più e abbiamo tanto da parlare, e poetare di ciò che è il nostro tesoro.
Le mie sono solo risposte a un tuo continuo richiamo…