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§CONSIGLI DI LETTURA: La chiocciola sul pendio



Collana: CIELO STELLATO

Arkadij e Boris Strugackij

“La chiocciola sul pendio” con una postfazione di Boris Strugackij Traduzione di Daniela Liberti

Carbonio Editore – Milano.

Titolo originale Улитка на склоне di Arkadij e Boris Strugackij Copyright © 1966.

Un libro poliedrico scritto a quattro mani dai fratelli Strugackij, in piena epoca sovietica, nel periodo di congiunzione tra le timide aperture di Krusciov con riferimento a una maggiore libertà di espressione in URSS, a quelle di ritorno a un controllo ortodosso di Kruscev. I fratelli Strugackij oltre a leggere e interessarsi di letteratura sempre di più negli anni, fino a intraprendere il mestiere di scrittori, curatori, pubblicisti, studiarono chimica, meccanica, ingegneria. Tale formazione, fu utile nell’uso e nella descrizione dei fenomeni biologici, geologici, chimici, meccanici nei loro libri e in particolare in ambito fantascientifico. L’uso di termini appropriati connotano una estrema verosimiglianza nella loro prosa. Il lettore entra con agio e leggerezza nei loro mondi, anche per l’uso di termini riferiti a strumenti consueti nel vivere quotidiano.

Negli anni, anche per non incombere nella censura e in problemi più pesanti, furono costretti ad un uso metaforico e satirico della loro poetica nel descrivere la realtà in cui erano immersi. Nonostante la loro scoppiettante capacità immaginifica, riescono a rendere la trama lineare. Questo romanzo dovette essere pubblicato all’estero. E il motivo è chiaro: vi è una critica alla burocrazia, all’amministrazione ottusa, alla volontà di controllare ogni aspetto della vita quotidiana, all’insensatezza di fondo in cui si reggono le organizzazioni preposte alla gestione del consenso e del controllo. Ma non sono, però direttamente rivendicativi. Cercano di ironizzare, mostrando le pratiche di ciò che era l’URSS nella quotidiana amministrazione in un modo fantastico, corredato da apparenti nonsense, quasi da richiamare i giochi di parole di Alice nel Paese delle Meraviglie. Scrittori abilissimi nello scrivere variando in diversi registri linguistici, mostrando una inventiva unica.

I due fratelli delineano personaggi che richiamano le caratteristiche delle leggende e delle fiabe russe, affinché il tema del “fantastico” sia un motore che avvia le scene, con luoghi topici delle favole come la foresta, la baita, la casa, la via, i funghi, gli animali della notte, i nani, le anime gloriose. La metafora degli spiriti nella cultura russa. Gli eventi sono descritti con aggettivi doppi e tripli, dove ognuno svolge la funzione dell’altro, sicché le persone diventano la loro funzione: l’origliatore, lo zoppo, il muto, pugnolesto, l’anziano, il giallo. E oltre alla predicazione vi è anche una relazione di attribuzione. Colori, forme, suoni, odori e posture assumono di volta in volta la funzione di predicato e la funzione di soggetto. Le descrizioni sono discendenti, gonfie, sovrabbondanti, ma nel ritmo della scrittura, come in una danza, tutto si tiene. Vi è un equilibrio nei dialoghi e nel ritmo. Tale iper caratterizzazione fornisce una visione fisica dei luoghi, degli eventi e si entra nella psicologia dei personaggi. E poiché questo è un mondo surreale, con frasi ossessive e deliranti da parte dei protagonisti, l’esplosione dei predicati verbali e nominali, per converso forniscono una logica coerente per accedere nel caos mentale dei protagonisti.

Ogni mania assume la veste di un patronimico russo dei protagonisti. Una propria carta di identità. La scansione veloce degli eventi permette al lettore di non disorientarsi e di seguire ogni scena avendo bene in chiaro l’insieme degli spazi immaginari e irreali. I luoghi come il canneto, la foresta, il villaggio, la distesa d’erba, i funghi, le radure dei morti viventi, assumono anche una funzione mitica. Come se si fosse dentro una Odissea con Ulisse che va da Circe e da Polifemo. Una prosa brillante, pazzoide, satirica eppure coerente, agile, fresca, ironica. E si avverte subito tra un registro fiabesco, mitico, fantascientifico, allegorico, satirico, d’avventura l’attacco contro l’amministrazione sovietica, nella veste della rigidità, del controllo, nell’illogicità a eseguire procedure emanate e scritte altrove, con logiche misteriose, esterne, formali, senza un riscontro immediato.

I dialoghi così serrati e veloci ma densi di immagini e di descrizioni, sono così ben scanditi da seguire passi di danza tra una domanda e una risposta dei dialoganti. E tra l’incomprensione reciproca, il conflitto, le litigate, il gioco dei termini omonimi e sinonimi, gli slittamenti semantici, si dispiega pian piano la trama, seminando per il lettore indizi su ciò che avverrà.

Una poetica avvincente per adulti e lettori molto giovani. L’assurdo come normalità, vestito di una involontaria ironia.

#RACCONTARE LA SCRITTURA. SECONDA PARTE.

Riuscii a comporre in modo organico le poesie, delle quali alcune pubblicate nei due libri, perché non praticai il mio modo usuale di scrittura, caratterizzata da una preliminare visione sistemica, seguita da una stesura analitica in settore delimitati, dove io ne ero al di fuori: freddo e calcolatore. Io divenni l’oggetto, nella veste della mia sensibilità tesa ad agire in modo analogo a una cassa armonica, amplificando le sensazioni che provavo e incanalandole in strutture concettuali che d’incanto uscivano già formate. Il giorno dopo, rileggendo quello che scrivevo in versi mi domandavo: “Ma ero io? Come ci sono riuscito? “

Queste domande non otterranno la risposta, perché hanno un presupposto che nega qualsiasi argomento: vi è un “io” sotto inteso!

Riesco a scrivere in flusso continuo, soltanto se mi dimentico. Naturalmente dopo segue la correzione. Emerge ciò che a livello metaforico è detto inconscio. Se penso di programmare tutto e di progettare quello che devo scrivere in versi o in prosa, mi blocco, oppure scrivo un programma di informatica, un trattato, un resoconto, un mini saggio, o un argomento filosofico su quel tema in cui all’inizio avevo la pretesa di romanzare o di versificare.

L’impegno ad ascoltare quella che metaforicamente talvolta è detta la parte energetica di sé, quella veramente creativa associata al “femminile” che ognuno di noi ha, anche se lo releghiamo nell’inconsapevolezza. Iniziai a rifletterci senza volerla limitare, perché ogni atto di volizione verso uno scopo immediato, avrebbe ottenuto l’effetto opposto. Non imponevo nulla, astenendomi da selezionare coscientemente un punto di vista nel determinare un orizzonte creativo, senza volerlo, almeno nelle intenzioni, racchiudere o incatenare.

Ripresi gli appunti datati a partire dal 1989 per l’ennesima volta nel mese di agosto del 2017. Ridevo per i termini usati, stupito nel rilevare una logica inusitata nel discorrere e nell’elaborare trame, approfondendo concetti più che mai attuali, anche se espressi con altri termini nei dibattiti pubblici. E ancora una volta mi chiesi: “Ma ero proprio io? E adesso ne sarei capace di questi slanci?”

Ebbene la risposta è affermativa: sviluppai in modo coerente quelle trame monche e incerte nella forma, perché mi lasciai andare e mi venne in mente l’analogia della bimba o del bimbo che gioca. In quei momenti il bimbo è serissimo, talvolta muto e totalmente impegnato in quel che fa. E se sbaglia, ricomincia daccapo. Si pensi al bimbo che, disteso sul pavimento, prende una matita e un foglio e inizia a scribacchiare. Le linee, progressivamente, acquisiscono forme più regolari. E continua, fino a infittire gli spazi del foglio. Si alza. Ne prende un altro e ricomincia in modo sempre più raffinato, moltiplicando le varietà del tratto, del segno e variando consapevolmente l’impugnatura. Non chiama la madre. Forse borbotta e parla con amici immaginari e inventa una storia.

Il tratto comune rispetto a tutti i bimbi che si comportano in questo modo è che si dimenticano delle loro voglie momentanee. Dal cantare filastrocche o dal disegnare, o nel modellare la creta, o roteando bambolotti in aria, in quel momento creano e ricreano un mondo.

La biografia itinerante dei tentativi e degli errori, costituisce la mappa per fondare una struttura tesa a comporre l’opera.

Certamente l’idea non scaturì per aver preso tra le mani quei vecchi appunti, in verità era il tarlo fisso che riemerse, pressato appunto dai me stesso più giovani. Lo sentivo dentro. Nei decenni passati lessi molto di romanzi, di poesie e non solo di quello. Cercai di ricordare le innumerevoli volte che per motivi di lavoro, di diletto, di curiosità e di necessità momentanee, ripresi i dizionari, i manuali di versificazione e le grammatiche, sia a livello scolastico sia di livello filologico. Basta. Avevo letto troppo. Inutile leggere ancora. Alcune stesure degli anni passati arrivarono quantitativamente a centinaia di pagine, ma non era più un romanzo, bensì un trattato, anzi un insieme di ricerche, riflessioni e piccoli saggi su argomenti molto specifici. Altri ancora nei decenni successivi, cioè dopo il 2000, apparivano nella forma di uno Zibaldone. Ecco avevo tanto, tantissimo materiale che paradossalmente non mi permetteva di iniziare, perché mi tratteneva nei fondali.

Era inutile portare tutto innanzi ancora una volta, sicché decisi di ritornare alla fonte, cioè all’idea principale. E mi convinsi. Provai verso la fine di agosto del 2017. Scappai subito. Compresi che stavo ripetendo lo stesso schema, come se dovessi svolgere un compito. No. Doveva partire dalla mia emotività, come per le poesie.

Cominciai con leggerezza il primo settembre 2017, senza pretendere di scrivere alcunché. E come mio solito cominciai vedendo dei quadri in internet relativi a un tema specifico, indugiando alla fantasia senza regole.

Annotai la data nella prima riga e scrissi di getto quasi tre pagine. Mi resi conto poi alla fine, dopo neanche 30 minuti, che all’inizio era un dialogo, e poi divenne una narrazione, quasi da monologo interiore, simile al mio altro scritto pubblicato in ebook “Tutto sotto controllo. Un corpo allo specchio”: un racconto breve con una voce sola narrante.

Non è un caso, perché nella scrittura in prosa, dopo le prime righe, in particolare per i neofiti, non si regge la concentrazione per interpretare i ruoli di chi parla o agisce, e si ritorna nel proprio io. Se si parla di un concetto o di una idea, e la si associa a un personaggio, alla fine per non perdere le idee, i luoghi, le immagini, ci si rifugia nel monologo. Va benissimo, ma non è il romanzo, eventualmente è l’embrione della situazione, dalla quale si incardinano i protagonisti, i dialoghi per porli in relazione alle trame che si snoderanno per tutto lo scritto, di decine e centinaia di pagine.

In quelle tre prime pagine avevo già in mente alcuni protagonisti, ma non erano ben delineati e mi confondevo con i nomi. L’inconscio mi diceva: “Fermo. Stai attento. Non puoi continuare così velocemente. La situazione è ottima ed è da sviluppare, ma devi descrivere il loro fisico, i loro nomi, i loro tratti. Continua comunque, ma fra qualche giorno ti dovrai fermare”.

E così accadde: per i giorni successivi scrissi in media una o due pagine al giorno. Cercando in rete, determinai il primo luogo in cui iniziarono gli eventi. Agivo come un rabdomante, ma trovai una difficoltà: pensavo come un poeta e non come uno scrittore in prosa. Mi usciva fuori una prosa poetante. Quasi melodica. Illeggibile per il lettore, a meno che non fosse un poeta avvezzo agli stili e di poco dissociato come lo ero io in quel momento!

#RACCONTARE LA SCRITTURA. PRIMA PARTE.

Perdonatemi se per qualche tempo presenterò alcune pubblicazioni egoriferite qui in facebook, in altri ambienti digitali e anche in presenza, mostrando una quota maggiore di vanità.

Il giorno 1 settembre 2017 presi un impegno che ho condotto giorno per giorno, al netto di pause per altri impegni e per le attività di gestione ordinaria che riguardano tutti noi. Ora è in fase di redazione finale da parte dell’editore.

Un onere e un piacere giornaliero che mi sono imposto, avendo giornate di sconforto, di meditazione che a occhi esterni potevano sembrare improduttive, vuote, grigie, ma che in realtà erano contraddistinte da fasi di lavoro inconscio e di incubazione.

Il bello è che stato, anche ora nelle ultime gocce di attività, un periodo creativo nel tradurre in opera le capacità di ideazione, scrittura ed interpretazione, assumendo il ruolo di un rabdomante che trova parole in territori inesplorati.

Non sono partito dal nulla. Vi era già una idea concepita nel lontano 1989. Scrissi, allora, quaderni di appunti, note, racconti, propositi in merito. Lasciai. Li ripresi dopo alcuni anni, ma lasciai ancora lì. Alcune riflessioni poi furono dedicate in ambiti diversissimi dalla prosa e dalla poesia. Ho scritto molto negli anni per lavoro, per ricerca e studio. E le pubblicazioni lì sono state incanalate. Dieci anni fa ripresi il progetto, ma ancora una volta seguì l’inclinazione che più propria sentivo nel comporre di poesia, nonostante che poi alcuni temi di quegli scritti del 1989, hanno attraversato la composizione dei due miei libri di poesia con immagini “Sogni Sospesi” e “Reciproche Rinascite”.

Dopo quasi trenta anni decisi di impegnarmi nella scrittura nella forma del romanzo.

/-/

Vorrei parlare con voi di come ho iniziato a scrivere il romanzo, che ora è in fase di redazione finale. Ciò mi serve per distaccarmi da esso e da ciò che è contenuto, perché, ripeto, il nucleo iniziale fu ideato decenni fa. E certamente a quei tempi usavo altri termini. Però, e qui è il punto che vorrei sottolineare, questo discorso costituisce una biografia narrante che si fa or ora che scrivo in un rendiconto mio nello stato di ideazione e creazione, attraverso il mio corpo. In questi anni, il me stesso adolescente, mi guardava alle spalle. Anzi molti me stesso, più giovani mi guardavano severi e sprezzanti: “Allora? Non hai finito? Di tutti questi tentativi e appunti cosa ne fai? Non mantieni le promesse!”

Il tribunale di noi stessi adolescenti è terribile. Non puoi fuggire. Ti conoscono. Sanno tutte le bugie e le scuse che dici allo specchio. Sanno tutto e di più di te.

Vorrei continuare a rispondere a loro, anche dopo la pubblicazione del libro e con voi, ma non soltanto per forme indirette di vanità, quanto per esprimere una individuazione della nostra capacità di creare e di ascoltare il nostro inconscio, o per meglio dire, il nostro cervello che lavora per la sua residuale attività cosciente.

Per tanti anni ho scritto versi, ma iniziai seriamente a comporre nel 2010, nonostante che io da sempre abbia letto di poesia. Se scrivevo per diletto o per occasioni particolari, mi uscivano versi attraverso uno stato di semi ipnosi. Un diluvio di frasi che componevano versi, scritti per un amico o per una amica, o per diletto in osteria o in birreria. Se invece mi cimentavo con l’intento di comporre qualcosa di programmatico, mi bloccavo. E, anzi, provavo un senso di scoramento, nell’incredulità a ricordarmi di aver scritto in fiumi di versi anche a comando, con stili del cinquecento, seicento, ottocento.

Ogni volta mi uscivano spiegazioni e trattati in prosa, che nulla avevano a che vedere con uno slancio creativo.

E figuriamoci nel tentativo di scrivere un romanzo. La questione strana, magari simile a quello che provate voi che mi state leggendo, è che nel momento in cui dimenticavo di me stesso, cioè non avevo il mio io presente, non avevo bisogno di concentrarmi, perché emergevano sensazioni che assumevano istantaneamente forme e strutture elaborate. Se pensavo a me, al mio “io” davanti a uno specchio o a un pubblico che applaude, mi bloccavo. La questione paradossale emergeva un istante dopo, se iniziavo a scrivere un saggio, o qualche scritto di ricerca o per lavoro: ero (e sono) velocissimo.

#22 CONTAMINAZIONI: NELLA CITTA’ DOLENTE

COLLEFERRO (RM) 18/19 Giugno 2016. – Dopo l’esperienza di “Storie dai Rifugi” del 2015 (   https://www.linomilita.com/contaminazioni/21-contaminazioni-guerra-non-suona-campana/ ), nella località S. Barbara a Colleferro, ivi compresa la piazzetta adiacente l’ingresso ai sotterranei. Lo spettatore è prima intrattenuto all’esterno con quadri scenici tratti dai Canti I e II dell’Inferno, con il supporto di videoproiezioni artistiche e la recitazione dal vivo e poi “accompagnato” da Virgilio nella “discesa”.

 

Con questa azione itinerante Colleferro mostra come il “sotterraneo”, nello sfondo e nell’inconscio di ogni agglomerato umano, offra la memoria di coloro che furono in vita e nelle opere. Di solito noi per nostra architettura mentale e memoriale attribuiamo fisicamente il passato nella morfologia dei cimiteri, nei monumenti e negli edifici o nelle targhe degli estinti. Colleferro ha sotterranei che furono usati per antichi scavi e anche per rifugiarsi dalla guerra e dai bombardamenti. La comunità di Colleferro agiva sopra e sotto la terra ogni giorno per la sussistenza, per il riparo, per demarcare una speranza per il futuro. L’inconscio del luogo è portato assiduamente in vista ai viventi e il riparo non ha significato l’oblio e il definitivo passaggio nell’altro mondo.

 

Colleferro e i suoi abitanti, quasi per ironia hanno agito, da secoli come Dante e Virgilio: un andirivieni tra il sopra e il sotto, tra passato e futuro, tra l’inconscio delle origini e tra le proiezioni nel futuro. Cercando sempre di riveder le stelle.

 

Lo spettacolo prende le mosse e il ritmo dal passo del pubblico che in piccoli gruppi, è prima introdotto nella selva Dantesca del primo canto dell’Inferno, e poi Virgilio conduce le anime e i corpi dentro i rifugi dove sono attesi da Caronte. Il teatro e la scenografia sono gli stessi sotterranei: luoghi, cavità, inabissamenti. Non vi è un teatro osceno che nasconde lo spazio: quest’ultimo è la rappresentazione da sempre incarnata nei luoghi e nelle ombre nascoste. Le luci e gli attori che permettono il passaggio e il cammino nei gironi infernali, vivono tra il gruppo degli itineranti: noi. Noi stessi piano piano dimentichiamo di essere spettatori, e diventiamo l’oggetto stesso dei canti. Paolo e Francesca, i golosi, i violenti contro se stessi e gli altri, i falsari, fino ad arrivare agli ultimi gironi, dove il freddo e l’umidità aumentano in assonanza all’avvicinamento del cuore dell’inferno costituito dal fuoco eterno che divora, ma non consuma, perché scuro e gelido. E alla fine noi del pubblico siamo i dannati, noi diventiamo Dante, per arrivare infine da “lui” che diversamente dall’ultimo canto dell’inferno,  esprime con parole diverse dall’originale, i percorsi compiuti da altri dopo Dante, cioè la follia suprema, le colpe per chi è credente, e le paure ancestrali dell’ateo, del mistico o dell’agnostico. Lui si pone al centro tra di noi e la finzione salta. Rimaniamo tutti a bocca aperta e immobili; non si ha il coraggio di muovere un braccio, perché lui esprime il dolore più nascosto che già da sempre abbiamo in dote.

Ma poi si ritorna a veder le stelle che s’affacciano sulla città dolente.. ma viva.

 

 

 

@ 25 Poetically: THE GIFTS OF YESTERDAY

I was at the post office recently. I was in line to pick up some books that I had ordered. Some seniors were not happy arrival of Christmas. They did not have much money to offer some gift his grandchildren. The tone their voice showed a paradox, because it was trembling for the sorrow and guilt for the happiness of being able to see again. They felt a strange shame to a sense of inadequacy – What I can offer but simple objects or some money that it will be less of their weekly pay? –

 

Some grandchildren were almost infants and others were teenagers. They spoke their childhood and how they satisfy themselves with small things. Their memories, however, showed anecdotes and episodes that they were a heritage their grandparents or great-grandparents. The improbable reconstructions were perhaps an attempt to regain his childhood and recall the child who was already in them. And maybe they wanted to talk to their deceased relatives, now. They evoked the lack of time as a limit to think about buying the appropriate gifts, but I believe that their excuses were more a limit due to the idea of having little time to live, because they were not seen younger.

 

I remember my Christmas holidays. Some holidays were sad and boring, others are not. I remembered the gifts, which at that time I forgot the next day. Have we have the charm only in childhood? When we are adults, there is no longer a child?

 

In the row where I was placed, my uncle appeared, my cousin, and other aunts and uncles. The days appeared confused: before and after Christmas. I helped my grandmother and my aunt to beat the eggs to prepare a donut with cream and chocolate frosting. I took wrappers silver cookie named greek and I witnessed my cousin to make up stars and animals. We support sheets of paper on a bench in the hallway. We designed with the pastel green grass, brown trails and then we built a small crib with over the pyramids of clothespins. My sister waved icing sugar to bring up the snow. In fact in those areas it was hot, but, in short, that suited us just fine.

 

In another Christmas I asked in vain for the game of “Battleship”. Someone joked that I had been bad. I cried, but after I took two sheets, I divided them into squares, and I wrote letters and numbers in the column on the first line. I drew two sheets. And with squares cut from another sheet, my sister and I We inserted (with the stapler that I gave my mother) small rectangles to invoke the idea of the ships.

 

With other cousins, we designed every ship with various symbols to divide them into two naval fleets. We finished the job in two hours all together. The adults played with our game. We are not going to play, because in the euphoria, we began to draw, each, a small path to the game of goose. When we finished we draw, we put in our designs in a box for shoes and delivered it to an uncle, that he gave to the poor kid. At that time, we were sure that Uncle would perform the task. We had to award the mandarins and we ate them together.

Io sorrisi, e gli altri in fila mi chiesero perché io stessi ridendo di loro. Io raccontai i Natali di ieri e quelli che avrebbero potuto essere oggi.

 

I related a recent Christmas. We did not have the tree. We used an umbrella stand and we put leaves with photos. Old toys became branches. We called: “tree of drawings and thoughts.” The fruits were envelopes for letters.

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Tree of ideas

We compose another smaller tree with an ashtray, paper clips, pens, caps without the ink. With a roll of toilet paper, we simulated the stars circling comets them as a vortex of a lampshade. We wrote some astral constellation names and the names of deities. Even the younger cousins wrote (in code) all the beautiful phrases that we would have wanted to say to our affections and laziness or pride, or we did not say we could not say (Some relatives were no longer alive). We put the phrases in the envelopes of the first tree. Each of us had his own gift: “I love myself, my life, your life only.”

 

The elders in a row (they laughed) asked me, how old was the youngest of us in this recent Christmas. I said thirty-three years.

 

 

@25 POETICAMENTE: I DONI DI IERI

Di recente presso l’ufficio postale ero in fila per ritirare alcuni libri ordinati, e alcuni in avanti con l’età lamentavano l’incombenza del Natale, per non aver così tanti soldi da poter offrire qualche regalo ai nipoti, in particolare quelli che da lontano sarebbero venuti a trascorrere con loro le feste. Un paradosso la loro voce: tremula per il dispiacere e in colpa per la felicità di poterli rivedere. Una strana vergogna per un senso di inadeguatezza – Cosa posso offrire se non semplici manufatti o qualche soldo che sarà meno della loro paghetta? –

 

Alcuni erano nipoti piccoli ed altri già prossimi all’adolescenza da quanto capivo. E parlavano di un tempo e di come da piccoli ci si accontentasse di poco, ma nei loro ricordi si manifestavano aneddoti ed episodi che erano un patrimonio più dei loro nonni o bisnonni. Le inverosimili ricostruzioni forse erano un tentativo di riprendere la fanciullezza e di richiamare il bambino che già era in loro. E di parlare con coloro che più non erano. Evocavano la mancanza di tempo come un limite per pensare a regali adeguati, ma credo che fosse più un limite dovuto alla riduzione delle stanze dei giorni futuri, data la loro età non più adolescenziale.

 

Dagli angoli della memoria uscirono ricordi miei e dei miei coetanei, e le loro esperienze e racconti a ridosso del Natale. Comparvero regali dimenticati subito dopo. Feste tristi e noiose e altre meno. Quale era la differenza? Solo il passaggio dall’età dell’incanto infantile a quello dell’azione rituale adulta? Eppure anche da adulto ebbi bei ricordi.

 

Nella fila dove ero collocato, s’accostarono altre figure: mio zio e mio cugino, e ancora mio cugino più grande e altre zie e zii acquisiti. I giorni si confondono: forse prima di Natale o proprio il giorno stesso. Aiutai mia nonna e mia zia a sbattere le uova per un ciambellone da farcire con la crema e cospargerlo con la glassa di cioccolato. Con gli incarti argentati di biscotti dal nome greco, assistetti mia cugina più grande per comporre origami a forma di stelle e di animali. Sopra una panca nel corridoio, appoggiammo fogli di carta che disegnammo a pastello con erba e sentieri stilizzati marroni e poi edificammo un piccolo presepe con sopra mollette appoggiate a piramide per simulare la stalla. Mia sorella sventolò lo zucchero a velo per richiamare la neve, anche se in realtà in quelle zone era caldo, ma, insomma, andava bene lo stesso.

 

In un altro Natale chiesi invano il gioco della battaglia navale e qualcuno scherzò dicendo che ero stato cattivo. Dal pianto, alla rabbia, e poi presi due fogli, li divisi in quadretti, e misi di colonna le lettere dell’alfabeto e di riga i numeri. Ne disegnai due. E con i quadretti ritagliati da un altro foglio con la spillatrice datami da mia madre, spillai piccoli rettangolini aiutato da mia sorella per richiamare l’idea delle navi, e poi con altri cugini, stavolta più piccoli, li disegnammo con simboli per dividerli in squadre. In due ore lo finimmo tutti assieme e giocarono subito dopo gli adulti; a noi più non andava, perché nell’euforia, iniziammo a disegnare ognuno un piccolo percorso del gioco dell’oca, e tutti poi li inserimmo in una scatola per le scarpe e lo consegnammo a uno zio, affinché lo desse a un bambino povero. Non so se lo fece, ma in quel momento ne fummo convinti. Ci diedero per premio mandarini che mangiammo assieme tutti.

 

Io sorrisi, e gli altri in fila mi chiesero cosa di loro mi rallegrasse. Raccontai i natali di ieri e quelli che avrebbero potuto essere oggi.

 

E raccontai un altro Natale. Recentissimo, dove non si aveva l’albero. Usammo un portaombrelli e allegammo foglie di foto, rami di vecchi giocattoli, e lo nominammo l’albero dei disegni e dei pensieri, con buste per lettera come frutti.

 

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Albero delle idee

 

Ne componemmo un altro più piccolo di un portacenere con graffette, penne, tappi scaduti e senza più inchiostro. Con un tronco di carta igienica e in strisce, simulammo le stelle comete volteggianti a vortice su un paralume. E scrivemmo alcune sigle delle costellazioni astrali e nomi di divinità. Anche i più piccoli, scrissero in codice tutte le frasi belle che avremmo voluto dire ai nostri affetti e per pigrizia o per orgoglio non si dissero o non si poterono più dire, perché più non vi sono. Le inserimmo nelle buste del primo albero. Ognuno si fece il regalo: “I mi voglio bene, della mia vita, della vostra vita unica“.

 

Divertiti mi chiesero, quanti anni avesse avuto il più piccolo di noi in questo recente Natale. Io risposi: trentatré anni.

 

 

#21 CONTAMINATION: WAR IS NOT THE BELL TOLLS.

November 8, 2015. The Municipality of Colleferro (Rome) for the eightieth anniversary of the founding of the city, organized the project “STORIES FROM THE REFUGES”, in the historic city refuges. The initiative recalls the facts of when the people took refuge from the bombing along the tunnels, between 1943 and 1944. The documentation work of Renzo Rossi, the actors of the “Theatre Workshop of Colleferro”, with the artistic direction of Claudio Dezi the participation of the vocal group “the Slam” of signs, have formed a touring theatrical action in different “circles” in the galleries. They have presented the costumes, the objects of their age and they have played some testimonies of those who lived in the refuges.

 

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Colleferro and neighboring countries such as Segni, Valmontone, Artena, Montecassino were behind the Gustav Line (the defensive line that was prepared by Hitler on Oct. 4, 1943 and it was destroyed May 18, 1944). The plain of Colleferro, chemical plants of the arms industry (the largest in Italy), the Lepine mountains around (with countries of strategic control as Segni and Carpineto), the way “Casilina” – who arrived in Rome – constituted, all , strategic military sites.

 

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The German lines of fortification.

 

Colleferro suffered terrible bombing by allied forces from November onwards, as the March – the fortieth – where were destroyed the electrical connections and any useful infrastructure. The people tried to survive the refuges that were built before the birth of the city. The refuges were pozzolana quarries that were used to build the first buildings for the workers of the munitions factory “Bombrini Parodi Delfino.” In the hills within the city they were traced 6km tunnel, with fifteen different entrances. There was a ban on the use lighting. It set up the artificial fog to hide the sites of interest to allied planes.

 

The refuges were a second Colleferro and life oscillates from hell above, the catacombs below.

 

The actors have recalled the activities of each day. Solidarity (a donut for a wedding that was prepared thanks to the black market). Firefighters, every day after the bombing, they climbed to extinguish fires, to recover the dead, to shine the unexploded bombs and they were going to control the chemical deposits in the industry, so that it would not explode, because it was operating: the workers were forced under the control of the fascists and the Germans.

 

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The Factory “Bombrini Parodi Delfino”

 

Young people drinking wine, in the evening, which was bought on the black market. They played and sang along with the Germans, the Russians and Ukrainians prisoners, and no one understood a word. The next morning, all they went up in hell as enemies, to obtain the salt, for drying clothes because of the moisture of the subsoil. They could not light fires for the small air exchange. Inside the refuges there were a chapel, a registry office, an infirmary. Women did not go out for fear of being raped, if not killed (the film “The Women” with Sophia Loren, is an example in this regard).

 

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One frame of the film “La Ciociara”

 

Fear, darkness, hunger, dirt, infections and the control by the fascist authorities, were the pendulum of days.

 

I have witnessed the magnificent traveling representation. Everything has been a blow to the stomach to every word. Everything seemed to happen at that time, while the public walked at the descent of the dead.

 

I feel the same feeling walking in Amsterdam (Netherlands) at the Anne Frank House (the Jewish girl who died in the field of Auschwizt, – the author of the famous and tragic “Diary”): fear and claustrophobia. Half my family is originally from Valmontone. It is the country that borders Colleferro. Valmontone was completely destroyed in 1944, except the Church, the “Doria’s Building”, and two or three houses. Every square meter was bombed. The deaths of these countries are the patrimony of each family. It is no coincidence that there has been a re-enactment. Witnesses died almost everyone. I was little and adults who had more than fifty years, and they said that they were old, they told these events, in the seventies. I peered through the door, because “old” did not want us small we listened. And at parties, after lunch, in the afternoon hours of digestion, telling them the facts of that time, and their eyes they were changing: their was young, but with tears.

 

We speak of the bombing with extreme superficiality, today. A bomb shakes the body, even at a distance. Well, you have an empty air. The ear stores the noise and any balance is lost. And in the future, for every such timbre, the brain reverts to primordial patterns, causing the beat of the teeth, leaving the adrenaline and the iron in the mouth. The nightmares become brothers every night, if we remain in good health and if we do not go crazy, because insanity is the ultimate gift.

 

The refugees have no homes today. They do not have water. Every ten minutes a difficulty appears. Lice do company. You may not feel the smell of dirt. The skin and hair age immediately. The teeth are lost. Diseases gnaw the body. The little food is dry and bland, but it leaves the temptation to eat insects.

 

The refuge away death, but it shortens life. The population, before the horror was surprised: “To us, just us? – Near Rome? From the Duce?”.

 

I offer a paraphrase of what my grandparents told him (which they did two years of military service in war and they left soon after), my grandmothers and aunts: “War is not the bell tolls. The war is not knocking at door. The war is already within “.

#21 CONTAMINAZIONI: LA GUERRA NON SUONA LA CAMPANA

L’8 Novembre 2015 si è svolto un evento patrocinato dal Comune di Colleferro (Roma) in occasione dell’80° anniversario della fondazione della città: il progetto “STORIE DAI RIFUGI“, all’interno degli storici rifugi cittadini. L’iniziativa prevede una rievocazione storica lungo le gallerie dove, fra il 1943 e il 1944, la popolazione trovò riparo dai bombardamenti. Dal lavoro di documentazione drammaturgico di Renzo Rossi e dagli attori dell’Officina Teatro di Colleferro, con la direzione artistica di Claudio Dezi e la partecipazione del gruppo vocale “Gli Slams” di Segni, si è costituita un’azione teatrale itinerante nei diversi “ambienti” ricostruiti nelle gallerie, presentando costumi, oggetti d’epoca e interpretando alcune delle numerose testimonianze raccontate da chi ha abitato sotto i rifugi.

 

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Colleferro e paesi limitrofi come Segni, Valmontone, Artena, fino a Montecassino erano a ridosso della linea Gustav (la linea fortificata difensiva approntata in Italia con disposizione di Hitler del 4 ottobre 1943 e che crollò il 18 maggio 1944). In più la piana di Colleferro, gli stabilimenti chimici d’industria bellica (i più grandi d’Italia), i monti Lepini intorno (con Segni e Carpineto – paesi di controllo strategico), la via Casilina – che arrivava direttamente a Roma – passando per Valmontone – costituivano un luogo di controllo per l’area a sud di Roma, assieme ovviamente ad Anzio per lo sbarco dal mare.

 

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Linee di fortificazioni tedesche

 

Colleferro subì tremendi bombardamenti da parte delle forze alleate da novembre in poi, come quello di marzo – il quarantesimo – dove furono distrutti i collegamenti elettrici e qualsiasi infrastruttura utile. La popolazione cercò di sopravvivere nei Rifugi realizzati prima della nascita della città: erano cave di pozzolana scavate per costruire i primi edifici per i lavoratori della fabbrica di munizioni “Bombrini Parodi Delfino”. Furono tracciati 6 km di tunnel nelle colline all’interno della città, con 15 diverse entrate. Vi fu il divieto di usare l’illuminazione. Fu creata la nebbia artificiale per celare i siti di interesse agli aerei alleati.

 

S’ebbe una seconda Colleferro e la vita oscillò dall’inferno di sopra, alle catacombe di sotto.

 

Gli attori hanno rievocato con crudezza le azioni di ogni giorno. La solidarietà (un ciambellone per un matrimonio, preparato grazie al mercato nero), i pompieri che ogni giorno dopo i bombardamenti salivano per spengere incendi, recuperare i morti, brillare le bombe inesplose (e ancora oggi se ne trovano dopo settanta anni) e che si recavano a controllare i depositi di materiale chimico dell’industria, affinché non esplodesse, perché era in funzione: gli operai erano coatti, sotto il controllo dei fascisti e dei tedeschi.

 

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Fabbrica “Bombrini Parodi Delfino”

 

Talvolta di sera bevevano i giovani una goccia di vino – presa al mercato nero, e si suonava e si cantava assieme a tedeschi, prigionieri ucraini, russi, senza capire una parola e il giorno dopo si risaliva nell’inferno come nemici, per reperire il sale, per asciugare i panni a causa dell’umidità del sottosuolo. Era impossibile accendere i fuochi per l’esiguo ricambio di aria. Vi era una cappella, un ufficio anagrafe, un’infermeria. Le donne non uscivano per paura di essere violentate, se non uccise (il film “La Ciociara” con Sofia Loren è indicativo in merito).

 

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Un fotogramma del film “La Ciociaria”

 

La paura, il buio, la fame, la sporcizia, le infezioni e il controllo da parte delle autorità fasciste erano il pendolo dei giorni.

 

Ho assistito alla magnifica e professionale rappresentazione itinerante. È stato un colpo allo stomaco per ogni parola. Tutto sembrava accadesse in quel momento, camminando presso la discesa dei morti.

 

La stessa sensazione che provai nel camminare ad Amsterdam presso la casa di Anna Frank: paura e claustrofobia. Metà della mia famiglia è di Valmontone, il paese che confina con Colleferro. Valmontone nel 1944 fu completamente distrutto, a parte la Chiesa, il palazzo Doria, e due o tre case. Ogni metro quadrato fu bombardato. I morti di questi paesi sono patrimonio di ogni famiglia. Ora non è un caso che vi sia stata la rievocazione. I testimoni sono morti quasi tutti. Negli anni settanta ero piccolo e gli adulti che avevano cinquanta e più anni, ed erano detti vecchi, raccontavano tali eventi. Io sbirciavo dalla porta, perché non volevano che noi piccoli ascoltassimo. E nelle feste, quando si vedevano i parenti, dopo aver mangiato, in quelle ore di digestione pomeridiane, loro raccontavano i fatti di quei tempi, e gli occhi cambiavano, ridiventavano giovani, ma di lacrime.

 

Oggi con estrema superficialità noi parliamo di bombardamenti. Una bomba squassa il corpo, anche a distanza. Vi è un vuoto di aria. L’orecchio memorizza il rumore e ogni equilibrio è perso. E in futuro, per ogni timbro simile, il cervello regredisce a schemi primordiali, causando il battito dei denti, lasciando adrenalina e ferro in bocca. E gli incubi diventeranno fratelli di ogni notte, se si rimane in buona salute e non s’impazzisce. Sì, perché la pazzia è l’ultimo regalo.

 

E succede oggi; ogni giorno. I rifugiati non hanno casa. Non hanno acqua. Ogni dieci minuti appare una difficoltà. I pidocchi ti fanno compagnia. Non senti l’odore dello sporco. La pelle e i capelli invecchiano subito. I denti si perdono. Le malattie rosicchiano il corpo. Il poco cibo è secco e insipido, ma allontana la tentazione di mangiare insetti.

 

Il rifugio allontana la morte, ma accorcia la vita. La popolazione, prima dell’orrore, ebbe un moto d’incomprensione e di sorpresa: “A noi, proprio a noi? – Vicino a Roma? Dal Duce ?”.

 

Parafrasando quello che dissero i sopravvissuti dei miei nonni (i quali espletarono due anni di leva e subito dopo partirono in guerra) e le mie nonne e le zie: “La guerra non suona la campana, la guerra non bussa alla porta. La guerra è già dentro casa”.

@ 24 POETICALLY: The Expulsion from Paradise

November 25 is the day of violence against women. Violence against women is expressed through the phrases “stalker” and “femicide” in Italy. The discussions mainly concern the brutal facts of chronicle. Journalists oscillate between an apocalyptic vision in one of irrelevance. Conditions at work, on time management for the care of family and self, and access to education, have improved significantly since the seventies for all: males and females. The element of discussion in Italy is still elementary: the woman’s body. Public opinion sometimes doubts on physical violence to women. Many people debate whether the responsibility is the victim. The media analyze a single event and not the system of social networks. The system of repression, the legal, health and economic minimum subsistence, amplifies all the violence and the condition of subjugation of women.

 

 

Males do not speak. They are indifferent. Some males are violent. Males comment on the violence, sometimes with witticism and stereotypes. Or not?

 

Men should recognize the phenomenon. If men were witnessed events of violence against women, they should honestly express judgments about themselves and about their attitudes.

 

It was a Sunday afternoon in late May in 1985. The air was warm and the sky was clear. I was sitting with friends on the stairs of the main entrance of the municipality of Marino (town near Rome). A woman appeared with the dress to the nines. She ran to the streets asking for help. A scruffy old burly man chasing her. The man grabbed the woman and threw her to the ground. The brute slapped the woman. It all happened in less than 10 seconds. We did not have time to move. We looked at each other in disbelief, inert and dazed. A young man came over and ordered him to stop the brute. Another man arrived: an undercover policeman.

 

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Colonna’s Palace – Municipality of Marino (Rome)

The brute calmed down. The woman gets up and pulled himself together. We remained standing as puppets. Some acquaintances of the couple arrived and they talked animatedly. Everyone left a few minutes later.

 

On the side, there were some ladies sitting on the balcony and others on chairs outside their house entrances. I knew them all along: how many times they told me to be careful of the cars when I was a kid and I used to play with their children, and when they offered snacks to their children and to me. They infused the stability, security and a sense of time. They were lovely: a trace my childhood.

 

Their look was grim and dour. I observe for the first time those faces. I listened to their harsh comments against the woman who was appealed as a “prostitute”. I do not I caught no judgment toward the man. The “acquired” aunts looked like statues full of cold and soot, now.

 

The houses appeared black with a sky without a reflection. I had the image of the first page of the novel “The Protocny’ alley” Elijah Ehrenburg, where a man hit in the head with a brick a woman in the street. And what for me was experienced as a fiction, all this he twisted bowel, now. I stammered incoherently as my two friends next door.

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We looked at each other still blushing. We were humiliated our inactivity and fear. And after a long time before the mirror and no excuses, I realized that the shame which I had after the event, was also an excuse: we thought to ourselves, not to the woman. The tangle of emotions was a network off the violence and absurdity of the scene. I had buried the woman in the streets of my mind. I had become, in spite myself, an accomplice of that violence. It answered that, at that moment, the safe childhood was disintegrated: I was expelled from Paradise.

@ 24 POETICAMENTE: La Cacciata dal Paradiso

Il 25 novembre è “La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” e di solito i luoghi comuni nei mezzi di comunicazione di massa e nei luoghi di ritrovo declinano essenzialmente verso il tema della violenza fisica con recenti neologismi come “stalker” e “femminicidio”. Le discussioni sembrano appiattite ed hanno reazioni polari che oscillano da una visione apocalittica a una di irrilevanza. Le condizioni sulle sperequazioni sul lavoro, sulla gestione del tempo per la cura dei famigliari e di sé, e sull’accesso alle istituzioni addette alla formazione, sono migliorate sensibilmente dagli anni settanta e ne hanno usufruito tutti: maschi e femmine. Per una inerziale semplificazione dei temi, i giudizi di merito volgono sul corpo della donna e sul dubbio a proposito della veridicità della violenza: ancora oggi si discute se la colpa e la responsabilità sia della vittima. E ci si sofferma su un singolo evento e non sul sistema di reti sociali, per le quali il sistema di repressione, l’ordinamento giuridico, l’assistenza minima economica e di sussistenza, amplificano la violenza e la condizione di soggezione.

In questo dibattito il maschio che dice? E’ relegato solo nella figura dell’indifferente o del violento ? O di colui che inventa motti di spirito e luoghi comuni nei mezzi di comunicazione di massa e nei ritrovi gregari tipici del sesso “forte”?

Gli uomini dovrebbero mostrare la volontà di riconoscere il fenomeno e se fossero stati testimoni di eventi di tale genere, che esprimano onestamente giudizi su di sé e sui propri atteggiamenti.

Era una domenica di tardo pomeriggio di fine maggio nel 1985, con aria calda e cielo chiaro. Ero seduto con amici sulle scale dell’entrata principale del municipio di Marino (località in provincia di Roma).

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Palazzo Colonna – Municipio di Marino (Roma)

Apparve una donna con il vestito a festa correre in piazza chiedendo aiuto, e dietro un uomo corpulento più anziano e trasandato che la rincorreva. La gettò a terra e la schiaffeggiò. Il fatto si svolse in meno di 10 secondi. Non facemmo in tempo a muoverci. Increduli ci guardammo inerti e imbambolati. Nel frattempo, accorse un adulto molto più giovane dell’assalitore e lo intimò di fermarsi. Ne arrivò un altro: si seppe che quest’ultimo era un agente in borghese. L’energumeno si calmò e la donna si rialzò e si ricompose. Noi, in piedi, come burattini. Poi arrivarono conoscenti di quella coppia e parlarono animatamente. Infine, tutti se ne andarono e la donna con loro.

Di lato, vi erano signore sedute sul balcone e altre su sedie fuori i rispettivi ingressi di casa. Alcune le conoscevo da sempre: quante volte mi dissero di stare attento alle macchine in corsa, quando più piccolo con altri giocavamo rincorrendoci per le strade, oppure quando offrivano ai figli e ai nipoti e a me, la merenda. Erano persone che infondevano la stabilità, la sicurezza e il senso del tempo. Amabili: una traccia della propria infanzia.

Il loro sguardo era torvo e arcigno: era la prima volta che osservavo quelle facce. Non capivo, e poi ascoltai i loro duri commenti verso la donna che fu appellata con male parole, come una poco di buono con tutto il rosario di aggettivi correlati. Non captai nessun giudizio verso l’uomo. Le zie “acquisite” ora apparivano come statue piene di freddo e fuliggine.

Le case mi apparvero nere con un cielo senza riflesso ed ebbi l’immagine della prima pagina del romanzo “Nel vicolo Protocny” di Il’ja Grigor’evič Ėrenburg, dove un uomo prende a mattonate in testa una donna per strada. E quello che per me, anche se orribile, era sentito come una finzione narrativa, ora ritornava contorcendomi le viscere, balbettando parole sconnesse come i miei due amici accanto.

 

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E ci guardammo ancora arrossendo, umiliati per la nostra deficiente azione e per la paura diffusa nella pelle rabbrividita. E dopo lungo tempo, davanti allo specchio e senza giustificazioni, io compresi che la vergogna provata dopo l’evento, era anch’essa una scusa: pensavamo a noi stessi, non a quella donna. Il groviglio d’emozioni era una rete che allontanò la violenza e l’assurdità di quella scena. L’avevo sotterrata nelle strade della mia mente. Ero diventato, mio malgrado, un complice di quella violenza. Lo specchio rispose che in quell’istante si frantumò il luogo sicuro d’infanzia: fui cacciato dal Paradiso.