Nota dell’autrice: Questo romanzo è basato su fatti storici e numerose testimonianze. Tuttavia, per il bene della storia, l’autrice ha talvolta semplificato il corso degli eventi, soprattutto per rispettare i ricordi parzialmente confusi di Mun-halmeoni.
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In aggiunta, io credo che molti di quegli avvenimenti siano stati a Lei attribuiti, dato che sembrano attribuibili, per mere logiche spaziali e temporali, a persone diverse. Ciò deriva anche dal fatto di non riferirsi a eventi in cui tantissime vittime (le donne di conforto – le prostitute schiave) hanno subito.
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I Giapponesi non hanno mai subito un processo simile a quello avviato per i tedeschi a Norimberga.
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In guerra i militari, se sono fortunati, hanno qualche giorno di riposo e di licenza, le donne no, perché esse subiscono la guerra ogni ora. I militari difendono una linea, un terreno, le donne, invece, salvaguardano l’intero ambiente e ne sono le prime a morire.
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È un viaggio in un altro universo pieno di sensazioni, bellezze, speranze, orrori, tragedie, tutte vere ed accadute.
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È rievocata la lunga guerra che parte dalla fine dell’ottocento, che la Corea subisce per opera dell’invasione del Giappone e di come ognuno cerchi di sopravvivere alle pratiche di oppressione costante e pervasiva per opera dei giapponesi: cancellare la lingua e l’identità di una nazione. Renderla una periferia dell’impero. I giapponesi perseguirono la volontà di generare intere popolazioni di Iloti: schiave del sesso, schiavi nel lavorare e prestare servizio, prostituirsi ideologicamente: vendere le proprie radici, e per pochi privilegi, diventare giapponesi di serie B. Rigettare la propria religione aderendo allo Shintoismo e venerando il Tenno: l’imperatore.
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La storia rievocata di questa donna, dal nonno combattente, alla madre e al padre in dissidio, la famiglia di lei, fieramente resistente ai giapponesi, e il padre, devoto e ricco per aver venduto la sua anima all’oppressore.
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La lettura del libro costituisce un’occasione per conoscere la cultura millenaria delle Coree, attraverso il cibo, le usanze, le parole, le spiegazioni di questi alfabeti e la loro differenza rispetto al linguaggio nipponico. Quante bellezze e sofferenze sono rievocate da queste culture millenarie che hanno subito invasioni dai mongoli, dai cinesi, dai giapponesi ripetutamente, dai francesi, e poi dagli americani. Fino ai nostri giorni, in cui l’attuale divisione nel trentottesimo parallelo, demarca a nord la fame e l’oppressione e a sud, oggi fiorente, l’addensarsi di nuove ostilità contro la Cina, e forse in prospettiva, nuovi ambiti di tensione contro il Giappone. Si respirano profumi e sapori intensi vivendo con i protagonisti e si subiscono emotivamente i flussi dei conflitti millenari e degli odi secolari.
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Ed è notevole lo stile dell’autrice che alterna una descrizione del contesto conforme al lunghissimo monologo biografico della protagonista che parla ad una giovane che sta andando via dalla Corea. Tale stratagemma conferisce dinamicità rispetto allo svolgersi degli eventi, moltiplicando i personaggi in una loro concreta posizione antagonistica. L’espediente narrativo facilita un andirivieni coerente e lineare della postura presente dei dialoghi verso eventi prossimi e remoti. Riacquistano vita le sensazioni del suo corpo, dall’orrore della prigionia, alla solitudine da parte della famiglia, ad eccezione della solidarietà e cura donata dai nonni materni.
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È mostrata, giorno per giorno la caduta nell’abisso senza fondo delle donne costrette alla prostituzione: la forma più infame, crudele e distruttiva di schiavitù. Nonostante tutto si riesce ad assaporare la volontà di vivere e di assaporare i pochi e residuali attimi di speranza. È offerta una sintassi di umanità che è comune a loro e a noi qui in Italia. Un abbraccio tra due mondi distanti, eppure così in risonanza, tra le paure e le speranze.
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E quanto vi è di più universale dello svolgersi in presenza e nel tempo del rapporto tra una madre e la figlia? Tra la Corea e i suoi figli?