@ 25 Poetically: THE GIFTS OF YESTERDAY

I was at the post office recently. I was in line to pick up some books that I had ordered. Some seniors were not happy arrival of Christmas. They did not have much money to offer some gift his grandchildren. The tone their voice showed a paradox, because it was trembling for the sorrow and guilt for the happiness of being able to see again. They felt a strange shame to a sense of inadequacy – What I can offer but simple objects or some money that it will be less of their weekly pay? –

 

Some grandchildren were almost infants and others were teenagers. They spoke their childhood and how they satisfy themselves with small things. Their memories, however, showed anecdotes and episodes that they were a heritage their grandparents or great-grandparents. The improbable reconstructions were perhaps an attempt to regain his childhood and recall the child who was already in them. And maybe they wanted to talk to their deceased relatives, now. They evoked the lack of time as a limit to think about buying the appropriate gifts, but I believe that their excuses were more a limit due to the idea of having little time to live, because they were not seen younger.

 

I remember my Christmas holidays. Some holidays were sad and boring, others are not. I remembered the gifts, which at that time I forgot the next day. Have we have the charm only in childhood? When we are adults, there is no longer a child?

 

In the row where I was placed, my uncle appeared, my cousin, and other aunts and uncles. The days appeared confused: before and after Christmas. I helped my grandmother and my aunt to beat the eggs to prepare a donut with cream and chocolate frosting. I took wrappers silver cookie named greek and I witnessed my cousin to make up stars and animals. We support sheets of paper on a bench in the hallway. We designed with the pastel green grass, brown trails and then we built a small crib with over the pyramids of clothespins. My sister waved icing sugar to bring up the snow. In fact in those areas it was hot, but, in short, that suited us just fine.

 

In another Christmas I asked in vain for the game of “Battleship”. Someone joked that I had been bad. I cried, but after I took two sheets, I divided them into squares, and I wrote letters and numbers in the column on the first line. I drew two sheets. And with squares cut from another sheet, my sister and I We inserted (with the stapler that I gave my mother) small rectangles to invoke the idea of the ships.

 

With other cousins, we designed every ship with various symbols to divide them into two naval fleets. We finished the job in two hours all together. The adults played with our game. We are not going to play, because in the euphoria, we began to draw, each, a small path to the game of goose. When we finished we draw, we put in our designs in a box for shoes and delivered it to an uncle, that he gave to the poor kid. At that time, we were sure that Uncle would perform the task. We had to award the mandarins and we ate them together.

Io sorrisi, e gli altri in fila mi chiesero perché io stessi ridendo di loro. Io raccontai i Natali di ieri e quelli che avrebbero potuto essere oggi.

 

I related a recent Christmas. We did not have the tree. We used an umbrella stand and we put leaves with photos. Old toys became branches. We called: “tree of drawings and thoughts.” The fruits were envelopes for letters.

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Tree of ideas

We compose another smaller tree with an ashtray, paper clips, pens, caps without the ink. With a roll of toilet paper, we simulated the stars circling comets them as a vortex of a lampshade. We wrote some astral constellation names and the names of deities. Even the younger cousins wrote (in code) all the beautiful phrases that we would have wanted to say to our affections and laziness or pride, or we did not say we could not say (Some relatives were no longer alive). We put the phrases in the envelopes of the first tree. Each of us had his own gift: “I love myself, my life, your life only.”

 

The elders in a row (they laughed) asked me, how old was the youngest of us in this recent Christmas. I said thirty-three years.

 

 

@25 POETICAMENTE: I DONI DI IERI

Di recente presso l’ufficio postale ero in fila per ritirare alcuni libri ordinati, e alcuni in avanti con l’età lamentavano l’incombenza del Natale, per non aver così tanti soldi da poter offrire qualche regalo ai nipoti, in particolare quelli che da lontano sarebbero venuti a trascorrere con loro le feste. Un paradosso la loro voce: tremula per il dispiacere e in colpa per la felicità di poterli rivedere. Una strana vergogna per un senso di inadeguatezza – Cosa posso offrire se non semplici manufatti o qualche soldo che sarà meno della loro paghetta? –

 

Alcuni erano nipoti piccoli ed altri già prossimi all’adolescenza da quanto capivo. E parlavano di un tempo e di come da piccoli ci si accontentasse di poco, ma nei loro ricordi si manifestavano aneddoti ed episodi che erano un patrimonio più dei loro nonni o bisnonni. Le inverosimili ricostruzioni forse erano un tentativo di riprendere la fanciullezza e di richiamare il bambino che già era in loro. E di parlare con coloro che più non erano. Evocavano la mancanza di tempo come un limite per pensare a regali adeguati, ma credo che fosse più un limite dovuto alla riduzione delle stanze dei giorni futuri, data la loro età non più adolescenziale.

 

Dagli angoli della memoria uscirono ricordi miei e dei miei coetanei, e le loro esperienze e racconti a ridosso del Natale. Comparvero regali dimenticati subito dopo. Feste tristi e noiose e altre meno. Quale era la differenza? Solo il passaggio dall’età dell’incanto infantile a quello dell’azione rituale adulta? Eppure anche da adulto ebbi bei ricordi.

 

Nella fila dove ero collocato, s’accostarono altre figure: mio zio e mio cugino, e ancora mio cugino più grande e altre zie e zii acquisiti. I giorni si confondono: forse prima di Natale o proprio il giorno stesso. Aiutai mia nonna e mia zia a sbattere le uova per un ciambellone da farcire con la crema e cospargerlo con la glassa di cioccolato. Con gli incarti argentati di biscotti dal nome greco, assistetti mia cugina più grande per comporre origami a forma di stelle e di animali. Sopra una panca nel corridoio, appoggiammo fogli di carta che disegnammo a pastello con erba e sentieri stilizzati marroni e poi edificammo un piccolo presepe con sopra mollette appoggiate a piramide per simulare la stalla. Mia sorella sventolò lo zucchero a velo per richiamare la neve, anche se in realtà in quelle zone era caldo, ma, insomma, andava bene lo stesso.

 

In un altro Natale chiesi invano il gioco della battaglia navale e qualcuno scherzò dicendo che ero stato cattivo. Dal pianto, alla rabbia, e poi presi due fogli, li divisi in quadretti, e misi di colonna le lettere dell’alfabeto e di riga i numeri. Ne disegnai due. E con i quadretti ritagliati da un altro foglio con la spillatrice datami da mia madre, spillai piccoli rettangolini aiutato da mia sorella per richiamare l’idea delle navi, e poi con altri cugini, stavolta più piccoli, li disegnammo con simboli per dividerli in squadre. In due ore lo finimmo tutti assieme e giocarono subito dopo gli adulti; a noi più non andava, perché nell’euforia, iniziammo a disegnare ognuno un piccolo percorso del gioco dell’oca, e tutti poi li inserimmo in una scatola per le scarpe e lo consegnammo a uno zio, affinché lo desse a un bambino povero. Non so se lo fece, ma in quel momento ne fummo convinti. Ci diedero per premio mandarini che mangiammo assieme tutti.

 

Io sorrisi, e gli altri in fila mi chiesero cosa di loro mi rallegrasse. Raccontai i natali di ieri e quelli che avrebbero potuto essere oggi.

 

E raccontai un altro Natale. Recentissimo, dove non si aveva l’albero. Usammo un portaombrelli e allegammo foglie di foto, rami di vecchi giocattoli, e lo nominammo l’albero dei disegni e dei pensieri, con buste per lettera come frutti.

 

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Albero delle idee

 

Ne componemmo un altro più piccolo di un portacenere con graffette, penne, tappi scaduti e senza più inchiostro. Con un tronco di carta igienica e in strisce, simulammo le stelle comete volteggianti a vortice su un paralume. E scrivemmo alcune sigle delle costellazioni astrali e nomi di divinità. Anche i più piccoli, scrissero in codice tutte le frasi belle che avremmo voluto dire ai nostri affetti e per pigrizia o per orgoglio non si dissero o non si poterono più dire, perché più non vi sono. Le inserimmo nelle buste del primo albero. Ognuno si fece il regalo: “I mi voglio bene, della mia vita, della vostra vita unica“.

 

Divertiti mi chiesero, quanti anni avesse avuto il più piccolo di noi in questo recente Natale. Io risposi: trentatré anni.

 

 

#21 CONTAMINATION: WAR IS NOT THE BELL TOLLS.

November 8, 2015. The Municipality of Colleferro (Rome) for the eightieth anniversary of the founding of the city, organized the project “STORIES FROM THE REFUGES”, in the historic city refuges. The initiative recalls the facts of when the people took refuge from the bombing along the tunnels, between 1943 and 1944. The documentation work of Renzo Rossi, the actors of the “Theatre Workshop of Colleferro”, with the artistic direction of Claudio Dezi the participation of the vocal group “the Slam” of signs, have formed a touring theatrical action in different “circles” in the galleries. They have presented the costumes, the objects of their age and they have played some testimonies of those who lived in the refuges.

 

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Colleferro and neighboring countries such as Segni, Valmontone, Artena, Montecassino were behind the Gustav Line (the defensive line that was prepared by Hitler on Oct. 4, 1943 and it was destroyed May 18, 1944). The plain of Colleferro, chemical plants of the arms industry (the largest in Italy), the Lepine mountains around (with countries of strategic control as Segni and Carpineto), the way “Casilina” – who arrived in Rome – constituted, all , strategic military sites.

 

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The German lines of fortification.

 

Colleferro suffered terrible bombing by allied forces from November onwards, as the March – the fortieth – where were destroyed the electrical connections and any useful infrastructure. The people tried to survive the refuges that were built before the birth of the city. The refuges were pozzolana quarries that were used to build the first buildings for the workers of the munitions factory “Bombrini Parodi Delfino.” In the hills within the city they were traced 6km tunnel, with fifteen different entrances. There was a ban on the use lighting. It set up the artificial fog to hide the sites of interest to allied planes.

 

The refuges were a second Colleferro and life oscillates from hell above, the catacombs below.

 

The actors have recalled the activities of each day. Solidarity (a donut for a wedding that was prepared thanks to the black market). Firefighters, every day after the bombing, they climbed to extinguish fires, to recover the dead, to shine the unexploded bombs and they were going to control the chemical deposits in the industry, so that it would not explode, because it was operating: the workers were forced under the control of the fascists and the Germans.

 

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The Factory “Bombrini Parodi Delfino”

 

Young people drinking wine, in the evening, which was bought on the black market. They played and sang along with the Germans, the Russians and Ukrainians prisoners, and no one understood a word. The next morning, all they went up in hell as enemies, to obtain the salt, for drying clothes because of the moisture of the subsoil. They could not light fires for the small air exchange. Inside the refuges there were a chapel, a registry office, an infirmary. Women did not go out for fear of being raped, if not killed (the film “The Women” with Sophia Loren, is an example in this regard).

 

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One frame of the film “La Ciociara”

 

Fear, darkness, hunger, dirt, infections and the control by the fascist authorities, were the pendulum of days.

 

I have witnessed the magnificent traveling representation. Everything has been a blow to the stomach to every word. Everything seemed to happen at that time, while the public walked at the descent of the dead.

 

I feel the same feeling walking in Amsterdam (Netherlands) at the Anne Frank House (the Jewish girl who died in the field of Auschwizt, – the author of the famous and tragic “Diary”): fear and claustrophobia. Half my family is originally from Valmontone. It is the country that borders Colleferro. Valmontone was completely destroyed in 1944, except the Church, the “Doria’s Building”, and two or three houses. Every square meter was bombed. The deaths of these countries are the patrimony of each family. It is no coincidence that there has been a re-enactment. Witnesses died almost everyone. I was little and adults who had more than fifty years, and they said that they were old, they told these events, in the seventies. I peered through the door, because “old” did not want us small we listened. And at parties, after lunch, in the afternoon hours of digestion, telling them the facts of that time, and their eyes they were changing: their was young, but with tears.

 

We speak of the bombing with extreme superficiality, today. A bomb shakes the body, even at a distance. Well, you have an empty air. The ear stores the noise and any balance is lost. And in the future, for every such timbre, the brain reverts to primordial patterns, causing the beat of the teeth, leaving the adrenaline and the iron in the mouth. The nightmares become brothers every night, if we remain in good health and if we do not go crazy, because insanity is the ultimate gift.

 

The refugees have no homes today. They do not have water. Every ten minutes a difficulty appears. Lice do company. You may not feel the smell of dirt. The skin and hair age immediately. The teeth are lost. Diseases gnaw the body. The little food is dry and bland, but it leaves the temptation to eat insects.

 

The refuge away death, but it shortens life. The population, before the horror was surprised: “To us, just us? – Near Rome? From the Duce?”.

 

I offer a paraphrase of what my grandparents told him (which they did two years of military service in war and they left soon after), my grandmothers and aunts: “War is not the bell tolls. The war is not knocking at door. The war is already within “.

#21 CONTAMINAZIONI: LA GUERRA NON SUONA LA CAMPANA

L’8 Novembre 2015 si è svolto un evento patrocinato dal Comune di Colleferro (Roma) in occasione dell’80° anniversario della fondazione della città: il progetto “STORIE DAI RIFUGI“, all’interno degli storici rifugi cittadini. L’iniziativa prevede una rievocazione storica lungo le gallerie dove, fra il 1943 e il 1944, la popolazione trovò riparo dai bombardamenti. Dal lavoro di documentazione drammaturgico di Renzo Rossi e dagli attori dell’Officina Teatro di Colleferro, con la direzione artistica di Claudio Dezi e la partecipazione del gruppo vocale “Gli Slams” di Segni, si è costituita un’azione teatrale itinerante nei diversi “ambienti” ricostruiti nelle gallerie, presentando costumi, oggetti d’epoca e interpretando alcune delle numerose testimonianze raccontate da chi ha abitato sotto i rifugi.

 

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Colleferro e paesi limitrofi come Segni, Valmontone, Artena, fino a Montecassino erano a ridosso della linea Gustav (la linea fortificata difensiva approntata in Italia con disposizione di Hitler del 4 ottobre 1943 e che crollò il 18 maggio 1944). In più la piana di Colleferro, gli stabilimenti chimici d’industria bellica (i più grandi d’Italia), i monti Lepini intorno (con Segni e Carpineto – paesi di controllo strategico), la via Casilina – che arrivava direttamente a Roma – passando per Valmontone – costituivano un luogo di controllo per l’area a sud di Roma, assieme ovviamente ad Anzio per lo sbarco dal mare.

 

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Linee di fortificazioni tedesche

 

Colleferro subì tremendi bombardamenti da parte delle forze alleate da novembre in poi, come quello di marzo – il quarantesimo – dove furono distrutti i collegamenti elettrici e qualsiasi infrastruttura utile. La popolazione cercò di sopravvivere nei Rifugi realizzati prima della nascita della città: erano cave di pozzolana scavate per costruire i primi edifici per i lavoratori della fabbrica di munizioni “Bombrini Parodi Delfino”. Furono tracciati 6 km di tunnel nelle colline all’interno della città, con 15 diverse entrate. Vi fu il divieto di usare l’illuminazione. Fu creata la nebbia artificiale per celare i siti di interesse agli aerei alleati.

 

S’ebbe una seconda Colleferro e la vita oscillò dall’inferno di sopra, alle catacombe di sotto.

 

Gli attori hanno rievocato con crudezza le azioni di ogni giorno. La solidarietà (un ciambellone per un matrimonio, preparato grazie al mercato nero), i pompieri che ogni giorno dopo i bombardamenti salivano per spengere incendi, recuperare i morti, brillare le bombe inesplose (e ancora oggi se ne trovano dopo settanta anni) e che si recavano a controllare i depositi di materiale chimico dell’industria, affinché non esplodesse, perché era in funzione: gli operai erano coatti, sotto il controllo dei fascisti e dei tedeschi.

 

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Fabbrica “Bombrini Parodi Delfino”

 

Talvolta di sera bevevano i giovani una goccia di vino – presa al mercato nero, e si suonava e si cantava assieme a tedeschi, prigionieri ucraini, russi, senza capire una parola e il giorno dopo si risaliva nell’inferno come nemici, per reperire il sale, per asciugare i panni a causa dell’umidità del sottosuolo. Era impossibile accendere i fuochi per l’esiguo ricambio di aria. Vi era una cappella, un ufficio anagrafe, un’infermeria. Le donne non uscivano per paura di essere violentate, se non uccise (il film “La Ciociara” con Sofia Loren è indicativo in merito).

 

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Un fotogramma del film “La Ciociaria”

 

La paura, il buio, la fame, la sporcizia, le infezioni e il controllo da parte delle autorità fasciste erano il pendolo dei giorni.

 

Ho assistito alla magnifica e professionale rappresentazione itinerante. È stato un colpo allo stomaco per ogni parola. Tutto sembrava accadesse in quel momento, camminando presso la discesa dei morti.

 

La stessa sensazione che provai nel camminare ad Amsterdam presso la casa di Anna Frank: paura e claustrofobia. Metà della mia famiglia è di Valmontone, il paese che confina con Colleferro. Valmontone nel 1944 fu completamente distrutto, a parte la Chiesa, il palazzo Doria, e due o tre case. Ogni metro quadrato fu bombardato. I morti di questi paesi sono patrimonio di ogni famiglia. Ora non è un caso che vi sia stata la rievocazione. I testimoni sono morti quasi tutti. Negli anni settanta ero piccolo e gli adulti che avevano cinquanta e più anni, ed erano detti vecchi, raccontavano tali eventi. Io sbirciavo dalla porta, perché non volevano che noi piccoli ascoltassimo. E nelle feste, quando si vedevano i parenti, dopo aver mangiato, in quelle ore di digestione pomeridiane, loro raccontavano i fatti di quei tempi, e gli occhi cambiavano, ridiventavano giovani, ma di lacrime.

 

Oggi con estrema superficialità noi parliamo di bombardamenti. Una bomba squassa il corpo, anche a distanza. Vi è un vuoto di aria. L’orecchio memorizza il rumore e ogni equilibrio è perso. E in futuro, per ogni timbro simile, il cervello regredisce a schemi primordiali, causando il battito dei denti, lasciando adrenalina e ferro in bocca. E gli incubi diventeranno fratelli di ogni notte, se si rimane in buona salute e non s’impazzisce. Sì, perché la pazzia è l’ultimo regalo.

 

E succede oggi; ogni giorno. I rifugiati non hanno casa. Non hanno acqua. Ogni dieci minuti appare una difficoltà. I pidocchi ti fanno compagnia. Non senti l’odore dello sporco. La pelle e i capelli invecchiano subito. I denti si perdono. Le malattie rosicchiano il corpo. Il poco cibo è secco e insipido, ma allontana la tentazione di mangiare insetti.

 

Il rifugio allontana la morte, ma accorcia la vita. La popolazione, prima dell’orrore, ebbe un moto d’incomprensione e di sorpresa: “A noi, proprio a noi? – Vicino a Roma? Dal Duce ?”.

 

Parafrasando quello che dissero i sopravvissuti dei miei nonni (i quali espletarono due anni di leva e subito dopo partirono in guerra) e le mie nonne e le zie: “La guerra non suona la campana, la guerra non bussa alla porta. La guerra è già dentro casa”.

@ 24 POETICALLY: The Expulsion from Paradise

November 25 is the day of violence against women. Violence against women is expressed through the phrases “stalker” and “femicide” in Italy. The discussions mainly concern the brutal facts of chronicle. Journalists oscillate between an apocalyptic vision in one of irrelevance. Conditions at work, on time management for the care of family and self, and access to education, have improved significantly since the seventies for all: males and females. The element of discussion in Italy is still elementary: the woman’s body. Public opinion sometimes doubts on physical violence to women. Many people debate whether the responsibility is the victim. The media analyze a single event and not the system of social networks. The system of repression, the legal, health and economic minimum subsistence, amplifies all the violence and the condition of subjugation of women.

 

 

Males do not speak. They are indifferent. Some males are violent. Males comment on the violence, sometimes with witticism and stereotypes. Or not?

 

Men should recognize the phenomenon. If men were witnessed events of violence against women, they should honestly express judgments about themselves and about their attitudes.

 

It was a Sunday afternoon in late May in 1985. The air was warm and the sky was clear. I was sitting with friends on the stairs of the main entrance of the municipality of Marino (town near Rome). A woman appeared with the dress to the nines. She ran to the streets asking for help. A scruffy old burly man chasing her. The man grabbed the woman and threw her to the ground. The brute slapped the woman. It all happened in less than 10 seconds. We did not have time to move. We looked at each other in disbelief, inert and dazed. A young man came over and ordered him to stop the brute. Another man arrived: an undercover policeman.

 

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Colonna’s Palace – Municipality of Marino (Rome)

The brute calmed down. The woman gets up and pulled himself together. We remained standing as puppets. Some acquaintances of the couple arrived and they talked animatedly. Everyone left a few minutes later.

 

On the side, there were some ladies sitting on the balcony and others on chairs outside their house entrances. I knew them all along: how many times they told me to be careful of the cars when I was a kid and I used to play with their children, and when they offered snacks to their children and to me. They infused the stability, security and a sense of time. They were lovely: a trace my childhood.

 

Their look was grim and dour. I observe for the first time those faces. I listened to their harsh comments against the woman who was appealed as a “prostitute”. I do not I caught no judgment toward the man. The “acquired” aunts looked like statues full of cold and soot, now.

 

The houses appeared black with a sky without a reflection. I had the image of the first page of the novel “The Protocny’ alley” Elijah Ehrenburg, where a man hit in the head with a brick a woman in the street. And what for me was experienced as a fiction, all this he twisted bowel, now. I stammered incoherently as my two friends next door.

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We looked at each other still blushing. We were humiliated our inactivity and fear. And after a long time before the mirror and no excuses, I realized that the shame which I had after the event, was also an excuse: we thought to ourselves, not to the woman. The tangle of emotions was a network off the violence and absurdity of the scene. I had buried the woman in the streets of my mind. I had become, in spite myself, an accomplice of that violence. It answered that, at that moment, the safe childhood was disintegrated: I was expelled from Paradise.

@ 24 POETICAMENTE: La Cacciata dal Paradiso

Il 25 novembre è “La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” e di solito i luoghi comuni nei mezzi di comunicazione di massa e nei luoghi di ritrovo declinano essenzialmente verso il tema della violenza fisica con recenti neologismi come “stalker” e “femminicidio”. Le discussioni sembrano appiattite ed hanno reazioni polari che oscillano da una visione apocalittica a una di irrilevanza. Le condizioni sulle sperequazioni sul lavoro, sulla gestione del tempo per la cura dei famigliari e di sé, e sull’accesso alle istituzioni addette alla formazione, sono migliorate sensibilmente dagli anni settanta e ne hanno usufruito tutti: maschi e femmine. Per una inerziale semplificazione dei temi, i giudizi di merito volgono sul corpo della donna e sul dubbio a proposito della veridicità della violenza: ancora oggi si discute se la colpa e la responsabilità sia della vittima. E ci si sofferma su un singolo evento e non sul sistema di reti sociali, per le quali il sistema di repressione, l’ordinamento giuridico, l’assistenza minima economica e di sussistenza, amplificano la violenza e la condizione di soggezione.

In questo dibattito il maschio che dice? E’ relegato solo nella figura dell’indifferente o del violento ? O di colui che inventa motti di spirito e luoghi comuni nei mezzi di comunicazione di massa e nei ritrovi gregari tipici del sesso “forte”?

Gli uomini dovrebbero mostrare la volontà di riconoscere il fenomeno e se fossero stati testimoni di eventi di tale genere, che esprimano onestamente giudizi su di sé e sui propri atteggiamenti.

Era una domenica di tardo pomeriggio di fine maggio nel 1985, con aria calda e cielo chiaro. Ero seduto con amici sulle scale dell’entrata principale del municipio di Marino (località in provincia di Roma).

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Palazzo Colonna – Municipio di Marino (Roma)

Apparve una donna con il vestito a festa correre in piazza chiedendo aiuto, e dietro un uomo corpulento più anziano e trasandato che la rincorreva. La gettò a terra e la schiaffeggiò. Il fatto si svolse in meno di 10 secondi. Non facemmo in tempo a muoverci. Increduli ci guardammo inerti e imbambolati. Nel frattempo, accorse un adulto molto più giovane dell’assalitore e lo intimò di fermarsi. Ne arrivò un altro: si seppe che quest’ultimo era un agente in borghese. L’energumeno si calmò e la donna si rialzò e si ricompose. Noi, in piedi, come burattini. Poi arrivarono conoscenti di quella coppia e parlarono animatamente. Infine, tutti se ne andarono e la donna con loro.

Di lato, vi erano signore sedute sul balcone e altre su sedie fuori i rispettivi ingressi di casa. Alcune le conoscevo da sempre: quante volte mi dissero di stare attento alle macchine in corsa, quando più piccolo con altri giocavamo rincorrendoci per le strade, oppure quando offrivano ai figli e ai nipoti e a me, la merenda. Erano persone che infondevano la stabilità, la sicurezza e il senso del tempo. Amabili: una traccia della propria infanzia.

Il loro sguardo era torvo e arcigno: era la prima volta che osservavo quelle facce. Non capivo, e poi ascoltai i loro duri commenti verso la donna che fu appellata con male parole, come una poco di buono con tutto il rosario di aggettivi correlati. Non captai nessun giudizio verso l’uomo. Le zie “acquisite” ora apparivano come statue piene di freddo e fuliggine.

Le case mi apparvero nere con un cielo senza riflesso ed ebbi l’immagine della prima pagina del romanzo “Nel vicolo Protocny” di Il’ja Grigor’evič Ėrenburg, dove un uomo prende a mattonate in testa una donna per strada. E quello che per me, anche se orribile, era sentito come una finzione narrativa, ora ritornava contorcendomi le viscere, balbettando parole sconnesse come i miei due amici accanto.

 

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E ci guardammo ancora arrossendo, umiliati per la nostra deficiente azione e per la paura diffusa nella pelle rabbrividita. E dopo lungo tempo, davanti allo specchio e senza giustificazioni, io compresi che la vergogna provata dopo l’evento, era anch’essa una scusa: pensavamo a noi stessi, non a quella donna. Il groviglio d’emozioni era una rete che allontanò la violenza e l’assurdità di quella scena. L’avevo sotterrata nelle strade della mia mente. Ero diventato, mio malgrado, un complice di quella violenza. Lo specchio rispose che in quell’istante si frantumò il luogo sicuro d’infanzia: fui cacciato dal Paradiso.