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CONSIGLI DI LETTURA: Il Signore Delle Mosche

Il signore delle mosche, di William Golding (Autore),
Filippo Donini (Traduttore), Mondadori, Milano, 2024
– (Ed. Originale: Lord of the Flies, 1954)

Il signore delle mosche è l’altra faccia del battito del nostro cuore, ovvero la risonanza che non è voluta sentire. Ciò che è di più intimo di noi nella veste dell’animo, o della psiche o del carattere, considerato come il tesoro del fiore più intimo, ha anche il petalo più orrendo e crudele, secondo William Golding.

In base alle esperienze che visse durante la seconda guerra mondiale e alla sua professione di docente, in particolare rivolta ai bimbi, ebbe quotidiani elementi di riflessione partecipata circa le inclinazioni e i modi spontanei di aggregazione e di determinazione dei ruoli, tra i gruppi informali e le comunità, come quelle scolastiche o più semplicemente tra un gruppo di amici.

Il romanzo ha per matrice originaria quella di una lezione didascalica di fatti narrati in modo incrementale che offrono una conoscenza progressiva del tema posto. Non è un caso infatti che, nonostante le opere successive, i ruoli di docente universitario, di scrittore e di intellettuale, fu sempre considerato un insegnante. Più volte citò gli aneddoti di come i lettori, scrivendo lettere di plauso e di chiarimento, lo considerassero il maestro che rispiega la lezione per far comprendere appieno elementi non del tutto chiari.

Certamente l’opera non è solo una esposizione, perché, se così fosse, risulterebbe alquanto piatta e noiosa in conformità alle aspettative rivolte alla fruizione estetica della lettura di un romanzo. Vi sono gli elementi salienti che pongono tensioni estreme, oscillando tra la sopravvivenza, il gesto eroico e generoso, in contrappunto alla sopraffazione, alle lotte per il potere, alla razzia, e alla violenza più cruda.

La descrizione quasi anatomica dei caratteri fisici e morali è sapientemente connessa al ritmo della narrazione e alla dinamica avvincente degli eventi. Vi è una scrittura giornalistica che muta in una scansione telegrafica degli elementi di conflitto, affinché il lettore senta dentro di sé la tensione della fatica, e il peso del dolore.

Nei momenti di relativa calma, l’apparente stasi, invece, è avvolta dall’angoscia più cupa che si trasforma nel timore, quando i pericoli evocati, compaiono nella loro intera crudezza.

Ebbe un enorme successo questa prima opera, sia per lo stile amichevole e confidenziale per il lettore degli anni cinquanta che si formava nei pocket tascabili sia per la complessità delle stratificazioni di pathos crescenti, determinando una tensione da evento sportivo.

I soggetti sono i bambini, che, dispersi su un’isola cercano di sopravvivere, tentando nel contempo di farsi avvistare da qualche aereo o nave. Dopo l’inizio quasi idilliaco di un paradiso che sembra tutto offrire in un clima confortevole, la consapevolezza della limitazione delle risorse e delle preoccupazioni per il futuro, facilita l’emersione di loro inclinazioni tese a compiere atti sempre più tragici e crudeli.

William Golding ha una visione pessimistica dell’animo umano. Volutamente e con metodo non ha voluto porre un piano di una differenza di religioni, o di visioni ideologico-politiche, o di individui fuori della norma, devianti massimi per una sorta di malattia mentale, o di perversione morale.

Non ha voluto neanche porre l’aggregato, la comunità, la società come enti metafisici che determinano primariamente le gesta e i conflitti tra gli umani. No, perché le considera un derivato delle interazioni sociali che avvengono in primo luogo tra gli individui. Non vi sono adulti, per analizzare quasi da etologo, come gli stessi bimbi in determinate circostanze ambientali, e quindi non storiche, crescendo, diventano adulti nel macchiarsi del crimine. La colpa non è solo scaturita dal singolo atto, ma anche dalla consapevolezza di aver dentro il proprio cuore l’inclinazione all’orrore e alla crudeltà. Anzi, l’adulto è tale, perché rivela a sé stesso che l’incanto dell’innocenza degli imberbi è una bugia.

L’autore, però, nel porre i suoi argomenti, rivela alcune criticità di questa visione innata, che diventa a sua volta quasi presupposta, e non ben determinata. È consigliata la lettura della post-fazione, scritta anni dopo, contraddistinta da riflessioni più ponderate e meno apodittiche.

Fanno paura questi bimbi, in particolare nell’elemento più cupo e sotterraneo nel dubbio che siano specchi dei pensieri che abbiamo avuto nell’infanzia e che determinarono alcuni tratti di ciò che siamo ora.

Un libro da leggere tutto di un fiato, senza conoscere in dettaglio la trama, perché è una doccia fredda che si spera sia salutare.

CONSIGLI DI LETTURA: IL SANGUE DELLE MADRI

Il sangue delle madri (Urania Jumbo)
di Francesca Cavallero, 2022,
Mondadori, Milano

Perdonatemi tutti, se almeno per questo consiglio di lettura entra la mia personale senile vanità, perché ho ritrovato molto dello spirito e dei modi con i quali io scrissi il mio romanzo “Dentro l’Apocalisse”. Con questo non voglio assolutamente paragonarmi o accodarmi allo stile e alla caratura del romanzo di Francesca Cavallero, ma, a differenza di molti romanzi contemporanei, qui mi sono scaturite assonanze profonde: lo stile che talvolta straborda nelle espressioni poetiche. Vi sono aggettivazioni, predicati oggettivanti, allitterazioni, sinestesie che si innestano in modo fluido nella prosa.

Lo stile è composito e varia in diversi ritmi e climax che si incrociano. La trama è a più livelli e coinvolge la biologia, la terra, il corpo, la relazione sociale, e l’inconscio in modo integrato e non separato, cui la sintesi rimanda a ciò che non è totalmente esprimibile dal linguaggio. Ciò crea il mistero e quindi lo sviluppo degli avvenimenti, la cui proiezione è avvertita in modo lirico e individuale, come se, appunto, il lettore fosse invitato ad abbracciare una visione estetica complessiva nel dolore, nella speranza e nello struggimento.

I personaggi non sono banali. E come anche nel mio libro vi sono digressioni nelle descrizioni politiche ed economiche dello scenario offerto. Sì, Francesca Cavallero non ha scritto un romanzo usa e getta ripetibile, facile da indossare e scartare un secondo dopo la fruizione veloce per un altro manufatto quasi simile.

Non è una lettura facile per chi legge con altre fonti di distrazioni, o per facilitare il sonno. È una lettura che richiede la tua entrata nella scena, con tutto il tuo corpo, e il pulsare delle vene, oltre al godimento intellettuale di seguire percorsi a più dimensioni interpretative e con domande non banali circa le questioni fondamentali della nostra esistenza caduca nel proprio e ciclo di vita.

Vi è infatti un notevole stile lirico e poetico con una sovrabbondanza di descrizioni dei fenomeni atmosferici, delle situazioni, degli ambienti, dei manufatti con le allegorie, le metafore, le sinestesie.

Si ha un’ottima conoscenza di più registri linguistici. Vi è una cura particolare della scelta degli aggettivi, delle attribuzioni.

Le predicazioni poi slittano in referenti testuali che partono anche dalla impressione che fanno sui protagonisti, i quali le ricevono dando l’illusione di conservarle così integre, fornendo l’occasione al lettore di goderne appieno.

Una finzione che è anche propria del poeta che usa i correlati oggettivi, per lasciarli presentare direttamente al lettore.

Le caratteristiche qualitative dei manufatti, e quelle morali degli individui, si concretizzano in stati della realtà e indicatori di senso degli avvenimenti: sono un crocevia dei timbri che scandiscono la trama del racconto. Si vuole stimolare continuamente a creare analogie e simboli nell’interpretare gli eventi.

Vi è una sovrabbondanza di significati in ogni scena che è incastonata in modo certosino. Una descrizione così barocca da fornire l’illusione di porre una realtà concreta, carnale, emotiva diretta.

Le protagoniste, tre donne, hanno avuto madri biologiche morte, o lontane, o madri putative morte ma che sono putative e nume per indirizzare gli eventi. Occorre vedere se anche loro diventeranno madri e creeranno il futuro e la speranza, ed è qui che convergeranno in un destino comune di rinnovamento, nella crescita, nella nascita e nella morte.

Sya, Nebra, Nadja.

Qui le donne sono viste a tutto tondo, non vi è neanche bisogno di distinzioni di genere. Sono individui, persone: ognuna ha una soggettività integra. Le protagoniste coprono la vasta gamma delle tipologie dei comportamenti sociali, delle situazioni emotive, degli odi, degli amori, delle meschinità e delle speranze.

Gli innesti tecnologici ampliano le possibilità di diversificare le prestazioni. In questo le donne e gli uomini sono alla pari. Anzi non vi è bisogno di un criterio di mediazione, perché la distinzione e la relativa metrica non hanno più senso. I personaggi sono robusti, poliedrici, complessi, e compongono le mille sfaccettature del cuore umano: dalla possibilità di compiere atti di generosità commovente e nel contempo di attrezzarsi ad agire nel modo più orrendo e crudele.

La sopravvivenza, l’accesso alle risorse, a un luogo stabile, a difendersi dalle comunità ostili, in perenne conflitto per il vincolo delle fonti di sussistenza, costituiscono i luoghi universali in cui le comunità evolvono in gruppi sociali, alleanze, strutture statuali più complesse, concertando i diritti, le norme, e gli stili di comunicazione.

Senza declamare, ma semplicemente narrando le loro avventure, di per sé nella trama, traspare la ricchezza e la centralità della donna come il perno della sopravvivenza del genere umano e come la fonte primaria di energia, che, sì può confliggere come quella dei maschi, ma che, parallelamente, costruisce e stabilisce l’ambiente in cui possano definirsi agglomerati sociali robusti e duraturi.

255-256 “[…] Il calore del terreno gonfio e il freddo che striscia via dalla notte si contendono il suo corpo in un caos termico che, è certa, pagherà caro. Da tempo cammina nel grigio/verde di un mattino flaccido, senza ore né minuti, arrancando fra gli acquitrini e le prime distese di tundra rigonfie di gas caldi: rottami adunchi e cavi di veicoli aerospaziali emergono dai liquami come ossa di antichi cetacei. Su alcuni Nebra registra, senza vederle, ottuse successioni di numeri, scoloriti stemmi di una o l’altra città-Stato e acronimi che per lei non hanno alcun senso. Trascina i piedi, pesanti della melma che le colma gli scarponi, attraverso la gelatina di vegetali in macerazione, sperando che i crampi bastino a tenerla cosciente. Lentamente la vegetazione cambia, si raggruma in macchie, si abbassa e infoltisce: la temperatura del terreno aumenta man mano che Nebra si avvicina alle Rowdy Mountains […]”

323-324 […] Penso che potrebbero essere trascorsi eoni dall’incidente: il tempo non ha significato mentre lo sento sgretolarsi intorno a me. Le grida sono cessate, l’intera miniera ogni livello ogni nicchia, pozzo, cunicolo sepolti nella montagna risuona di frequenze liquide. Un battito. Una consonanza. Un cuore. Nel tempo ogni suono si acquieta, riflettendosi e assorbendosi mille e mille volte fra le pareti della miniera, animandone il corpo. Nascono e crescono lussureggianti banchi floreali di profondità, che s’impadroniscono dei macchinari abbandonati e li riempiono di bisbigli. La loro è… un’acusintesi che si spiega solo ascoltando la voce dei morti, e gronda di misteri che si schiudono per me. La terra fiorisce nell’oscurità, ogni radice è fatta di suono, sangue e respiri. Sprofondano, lentamente, fino a raggiungere le cavità interne di antichi e colossali ammonoidi fossili, sepolti in sterminate colonie di madreperla. Non mi occorre vedere, ne ascolto la forma. Do loro un nome perché vivono attraverso me. I miei sensi ne ricostruiscono lo spettro dai suoni raccolti, una sinfonia discontinua che risale lungo labirinti giganti, formati dai corpi asciutti di organismi bentonici che milioni di anni hanno animato con un canto di creazione e morte

Qui, nella risacca antica di un oceano preistorico che si è fatto roccia, echeggia il pianto delle Madri.

 «Le Madri…» mi sfugge.

 La culla del nostro dolore.

La nostra eco.

 Sangue e grida.

Evoluzione.

[…]”

CONSIGLI DI LETTURA: La Saga di Gösta Berling di Selma Lagerlöf

La Saga di Gösta Berling di Selma Lagerlöf (Autore),
G. Pozzo (Traduttore), 2010 (prima edizione 1891),
Iperborea, Milano

La saga è avvincente e parla dei luoghi atavici della Svezia anche in relazione con le comunità finniche. Vi sono come nelle saghe a noi vicine, i luoghi universali dell’eroe che lotta contra il nemico, l’estraneo, il bosco, le entità sovra mondane e quelle degli abissi. Il pericolo e le minacce provengono anche dal cuore degli esseri umani, sì virtuosi, ma passibili di cadere nel male.

Il bisogno di crescere, di procreare, e di accedere nell’aldilà, è continuamente ostacolato dall’imprevedibilità del mondo. Il racconto, come in ogni saga, e quindi in ogni narrazione che tesse i miti, tenta di porre un ordine e di chiudere i cicli, per continuare a a dotare di senso lo scorrere del tempo.

Dagli ordini ciclici della natura, si passa a quello degli stadi della nascita, alla giovinezza, fino alla morte, in modo che l’ostacolo e l’attrito che si ha contro gli altri, il mondo, il mistero, si accordino come i criteri morali e leggi del mondo, che sono anche etiche, aventi a fondamento quelle ultra mondane.

Poiché nelle storie che riproducono il senso del mondo, alcunché può esser lasciato fuori, ogni oggetto e manifestazione naturale hanno un senso che oltrepassa la semplice presenza; il solo stare. Vi è sempre una intenzione talvolta non immediatamente manifesta, una caratteristica della materia, l’influsso di uno spirito, il moto dell’intero mondo. Lo scopo è quello di avere un “se e un allora”, che fornisca al tempo, una comune ragione del “cosa è”, del “chi è”, e del “perché dell’agire e del divenire”. I luoghi sono quelli dell’eroismo, dell’amore, dell’avidità, del coraggio, della cedevolezza, della prole, e della morte.

La saga di Selma Lagerlöf è tutto questo e di più. Ebbe un successo che diede all’autrice la possibilità di continuare a scrivere e a divenire una delle prime scrittrici quotate ed autonome nella attività imprenditoriale tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento in Svezia.

L’opera è qualcosa di più di una saga, perché, essendo un’opera che fu scritta in tempi lunghi e con racconti autonomi, anche nella pubblicazione preliminare nelle riviste, si snoda cambiando le prospettive, in base agli affinamenti dello scrivere dell’autrice. Da una serie di racconti a tema, si passa ai tempi di un romanzo. Da precetti già dati nel piano della morale, e dalla meccanica dei conflitti del protagonista contro il mondo, l’animo, la virtù, i precetti morali, la seduzione, il vizio, diventano la trama che descrive una comunità negli accadimenti della storia ciclica.

Se nelle saghe tradizionali ed arcaiche che hanno un sapore orale, prima ancora della loro trascrizione, i protagonisti sono netti, chiari, aventi qualità e debolezze che fanno già intuire i loro appuntamenti nefasti o gioiosi con il destino, qui i cavalieri, i nobili, i fabbri, i sacerdoti, il male stesso, da reali e concreti, diventano di volta in volta, i luoghi mitici del racconto post datato, o figure implete, o emanazioni delle divinità paniche, fino a quelle religiose per ritornare poi ad essere in carne ed ossa. Stesso percorso è subito dai boschi, dai fiumi, dai mulini, dai guadi dei fiumi, agli animali e agli spiriti dei boschi che assumono un percorso speculare.

Vi sono in verità più racconti paralleli che si manifestano nei diversi episodi, incrociandosi talvolta.

Si passa dai toni picareschi, a quelli di formazione adolescenziali, a quelli di amor sacro e profano, fino alle storie edificanti. Non mancano riferimenti embrionali dell’orrore a quelli lirici.

L’autrice è abile, spregiudicata, curiosa nell’attraversare i generi entro la struttura della saga. La forza, la distorce, cerca di creare un nuovo stile, anzi più di uno. Invece di definirli compiutamente, però, li lascia incompiuti e li fa cozzare uno con l’altro. Lasciando l’idea che non è detta l’ultima parola sugli eventi narrati.

È una saga che esce fuori dalle regole canoniche. È un romanzo dell’ottocento che trasforma i protagonisti con più personalità in una forma novecentesca, perché usano la razionalità e le parti nascoste di sé per porsi in relazione con gli spiriti dei boschi e le allegorie monoteistiche.

In alcuni episodi l’epica volge in un’avventura sulle navi, sulle coste e sui fiumi, ma anche lì rimane inceppata, per ritornare sui luoghi saldi della terra.

È comunque coinvolgente: i dialoghi non sono banali, e, nonostante le dichiarazioni di virtù e di sacrificio, le norme e gli usi e le consuetudini vengono continuamente poste a critica.  

È un arcipelago di stili che si tengono insieme e stimolano la fantasia del lettore, solleticando l’indole a vedere con occhi nuovi e più profondi, i meccanismi con quali attribuiamo senso alle cose.

Quest’opera è un tesoro pieno di monete di diverso conio, che sta a noi, raccogliere e inquadrare in base ai nostri bisogni di progettare il futuro, e i vincoli morali.

CONSIGLI DI LETTURA: Racconti di Isaac Bashevis Singer

Racconti di Isaac Bashevis Singer, Editore Corbaccio,
Milano, 2013, traduttori: Bruno Oddera,
Maria Vasta Dazzi, Mario Biondi

Il corpo di questi racconti che hanno attraversato il vivere di Isaac Bashevis Singer mostrano le sue eccellenti doti nel creare storie brevi e concise, tali da esprimere un climax coerente nello svolgimento delle scene. Il lettore si sente a suo agio nell’introdursi nei mondi evocati dalle singole narrazioni. Non vi sono ambiguità nel delineare i personaggi, perché sono descritti fisicamente con un involucro di segni distintivi dei loro caratteri e con le rispettive morali e biografie.

La presenza di ogni personaggio dispiega immediatamente il suo mondo, le origini dei suoi modi e delle sue inclinazioni nei rapporti verso gli altri, la divinità e il tempo.

Nella brevità delle composizioni vi sono, però, più piani concomitanti di lettura, perché si rileva la descrizione di un mondo intero, che parte da una stanza, una via, un villaggio, una città, un paese, un popolo, una nazione, un intero continente. Non è solo una descrizione fotografica, perché ogni uso e consuetudine ha una sua storia, un tratto distintivo di regole morali e di rapporti con le autorità mondane e con le dimensioni religiose.

I protagonisti esprimono il carico di un popolo nell’interrogarsi sull’umanità di ognuno e degli altri individui appartenenti a religioni e paesi diversi e lontani.

Il nucleo narrativo è innestato nelle comunità degli ebrei aschenaziti: il gruppo religioso ebraico originario dell’Europa centrale e orientale, tradizionalmente di lingua e cultura yiddish. I racconti sono ambientati nei periodi che intercorrono tra la seconda metà dell’ottocento e nella prima metà del novecento, per intersecarsi, infine, con la biografia dell’autore, passando dalla giovinezza, fino ai racconti della vecchiezza.

I protagonisti sono tutti appartenenti alle comunità aschenazite si fondono con le vicende verosimili accadute in Prussia, Germania, Svezia, Russia, Ucraina, Lituania, Olanda, Francia, Israele, fino agli Stati Uniti.

La struttura narrativa esprime una tensione costante tra i precetti religiosi yiddish, densi di regole, consigli, dibattiti, interpretazione del divino e di ogni aspetto pubblico e privato delle proprie interazioni sociali ed amicali.

I demoni intervengono come attori in gioco, mostrando anch’essi le debolezze, i dubbi e i crucci sul proprio operato. Dibattono con i protagonisti, nel tentativo di dominarli e di soggiogarli in una tensione continua tra la fede, l’aderenza ai precetti religiosi, e l’esigenza di esprimere le proprie convinzioni.

Si ammirano le multiformi culture yiddish, nelle loro inclinazioni a dibattere circa la bontà dell’operato di ognuno dalle azioni e dalle scelte capitali fino alle pratiche quotidiane nell’osservanza dei precetti delle feste e delle preghiere. Vi è una esorbitante pervasività della religione che è correlata, però, alla sua messa in discussione perenne. Sono godibili, e in certi casi comici, i dissidi, e i conflitti tra chi agisce, chi giudica, chi si oppone, chi cerca di comporre una giustificazione del proprio operato, fino all’intera biografia personale. Si dibatte e si litiga anche da morti. L’ultramondano è un elemento essenziale del senso e dello scopo che si dà al tempo e allo spazio del mondo.

Ognuno si sente un estraneo nel suo tempo e in ogni luogo, ma ogni ambiente è famigliare, perché è passibile ad accogliere le comunità aschenazite, in perenne bisogno di un luogo stanziale, che è però accompagnato dalla consapevolezza di poter risiedere ovunque. Ogni sito è la propria casa, seppure litigiosa, instabile, sotto i colpi delle violenze altrui, dei pogrom, del razzismo, dell’odio e dell’ostilità preconcetta.

Si sopravvive, nonostante tutto, alle avversità esogene, e alle proprie debolezze e peccati. Nella pena subita, e nella disperazione, vi è comunque una speranza inconscia di poter rimediare e di avere una seconda possibilità, anche di fronte alla divinità giudicante.

Vi è una infinita, inestinguibile e incrollabile ricerca di senso. I messaggi e i tempi sottostanti travalicano questo popolo, per interpretare l’esigenza di ogni individuo: narrare il proprio vivere in una coerenza tale da permettere un giudizio su di sé e quindi uno scopo per il futuro e per l’eterno. La condizione universale della speranza.

Una ironica compassione è distesa nei ruoli e nei caratteri degli agenti sociali. L’amaro disincanto che trasuda nel ritmo dei dialoghi e degli eventi, però, non è mai sarcastico, perché l’autore parla di sé, assimilando le inclinazioni dei protagonisti.

Questi racconti gravitano presso una domanda che Isaac Singer rivolge a se stesso: sono stato degno? Di quanto il mio vivere è stato coerente con i precetti che mi sono imposto e a cui credo e mi identifico? E se ho, come sicuramente lo è per me, e per il mio popolo, oltre che per il genere umano, la possibilità di rimediare e di migliorare?

Che speranze abbiamo nonostante i limiti, i pregiudizi e la superficiale ignoranza che ci contraddistingue?

La lettura dei racconti è già una risposta ai quesiti dell’autore, perché si è invitati a contribuire con la propria fruizione e i propri giudizi in questo percorso infinito della fruizione estetica, tale da renderci più aperti a sentire il mondo e ad immaginare uno scopo commendevole.

Emerge la speranza di un uomo, di un popolo, del genere umano, di noi stessi che leggiamo: acconsentire al proprio vivere, testimoniare il proprio vissuto, pregare di poter ancora vivere, se non altro per rimediare alle parti più oscure che appesantiscono il cuore e l’anima.

La lingua yiddish ride di se stessa, svelando la sua limitatezza e dichiarando quindi la volontà di apprendere, quindi di affermare la volontà di vivere, nonostante tutto.

CONSIGLI DI LETTURA: Le stelle dei giganti di James P. Hogan

 Le stelle dei giganti (Urania),  di James P. Hogan,
Beata della Frattina (Traduttore),
Mondadori, Milano, 2016

La trilogia creata da James P. Hogan fu scritta dal 1977 al 1981 circa. I raccordi tra le opere non risultano essere eccessivamente ridondanti nei loro richiami e, sebbene tra la fine del secondo volume e l’inizio del terzo si avvertono forzature nello sviluppo degli eventi in una probabile previsione di un’altra opera, nel complesso riesce a innescare un proprio “pathos”.

I protagonisti compaiono nell’intera composizione, ma hanno una diversa rilevanza in base alle specifiche trame ove l’antagonista diventa poi il cardine del volume successivo. Ciò mostra una profonda elaborazione delle trame dei tre volumi.

James P. Hogan mostra il suo notevole estro nel creare l’attesa, circondando la narrazione di un mistero avvolgente che spinge il lettore nella curiosità di giungere al termine in un godimento dello spirito di avventura e dello svelamento dei fili nascosti.

Si parla di noi e delle nostre origini. Le teorie dell’evoluzione autoctona sono messe in relazione con quelle di un intervento extraterrestre. L’originalità di quest’opera risiede nell’imputare le epifanie galattiche anch’esse avvolte nel mistero, e dipendenti da fattori che diventano sempre più larghi e numerosi.

Siamo nella guerra fredda. I temi della scomparsa delle civiltà, e dei conflitti nazionali, risentono delle logiche degli scontri tra l’URSS, gli USA, e la Cina. Paradossalmente di questi ultimi due anni, purtroppo, su piani diversi, quelle atmosfere sono ritornate e in modo molto più complicato di allora, nella tensione tra i due blocchi. E già da allora l’autore ha una visione più articolata dei livelli di conflitto.

James P. Hogan è particolarmente versato nello stendere intrighi in modo coerente e drammatico, quasi a livello teatrale. Conosce i tempi del climax, per giungere poi a una conclusione, che però poi si mostra limitata e provvisoria. Questo intento perseguito in modo sistematico, ha lo scopo di porre la necessità di avere un approccio scientifico e sperimentale e non ideologico, o mistico religioso nell’elaborare spiegazioni e nel formulare teorie.

Gli obiettivi polemici nel primo libro sono rivolti a chi valuta la selezione naturale e le teorie dell’evoluzione in modo pigro, semplicistico, o razzista. Vi sono passi di una chiarezza estrema nel mostrare la capacità di ragionamento e di prova nel validare le ipotesi, non nell’imporle con la retorica che convince o con la violenza, ma con un appoggio investigativo, teso a metterle alla prova, a negarle, a rilevare la loro attitudine a superare le prove.

Nonostante che l’autore fosse un tipico inglese, e traspare dai comportamenti ora ritenuti alquanto testosteronici, con una visione delle donne talvolta svalutanti, però, in particolare nella seconda parte del secondo volume e nel terzo, l’autoironia velata ne mostra la ridicola postura e la severa inconsistenza.

Nel secondo volume vi è un approccio critico verso il centrismo culturale, ovvero di credere noi, tutti gli uomini del pianeta, si sia il centro dell’universo e che il mondo “occidentale” ne sia il parametro assoluto.

Vi è una maggiore dignità rivolta a tutte le specie viventi, nella consapevolezza che noi e loro si stia insieme in un percorso comune all’interno della galassia, extraterrestri compresi.

Nel terzo volume vi è un messaggio di pace che può essere perseguita nel rispetto degli interlocutori, nel condividere una storia comune, mantenendo però a mente che siamo dotati di lati oscuri e di tendenze aggressive. Proprio per questo occorre l’equilibrio delle forze, la garanzia di poter vivere e sviluppare le proprie capacità, nello sforzo della conoscenza e nell’elaborazione di politiche e di relazione sempre più complesse.

Il futuro è sia una proiezione di ciò che già accadde in luoghi tecnologicamente più avanzati rispetto a noi oggi, ed è anche una previsione di possibili scenari. Si nota che l’autore si è preparato in modo certosino nel descrivere i processi evoluzionistici, i fattori biologici, le teorie della relatività, l’astronomia e la meccanica di volo.

È ambientato nel nostro decennio e nel successivo. È divertente notare come alcune tecnologie descritte siano per oggi teoricamente e tecnicamente impossibili, come quelle di gestire i neutroni come combustibile per le navi, e ancor di più sfruttare la curvatura dello spazio nel senso della relatività generale, nel correlarla con le onde gravitazionali. Qui mostra una fantasia compositiva ben innestata con i processi fisici.

Poi vi è anche l’uso di tecnologie di comunicazione, e degli oggetti di uso quotidiano il cui impiego parte dalle logiche derivate dal livello scientifico degli anni settanta e ottanta. Noi oggi sorridiamo a leggerne la descrizione, avendo vicino manufatti che hanno avuto uno sviluppo diverso e molto più efficace. Tale valutazione però, potrebbe essere utile per noi contemporanei in un esercizio di previsione (a priori infondato) di come sarà il nostro agire quotidiano tra dieci o quindici anni con i supporti tecnologici e di come li intenderemo, ovvero le logiche di uso.

L’analisi riguardo le nostre tendenze di uso e di sviluppo delle tecnologie, è una base per applicare la logica del procedimento scientifico, allo scopo di considerarlo un modo naturale di operare. L’autore continuamente sottolinea che un atteggiamento settario, superstizioso e rigido porta alla morte e all’estinzione delle specie.

Vi è inoltre un risvolto morale nel porre in primo piano che anche le etiche, necessarie per formulare i giudizi e indirizzare le decisioni, non sono scritte nella pietra e che possono mutare in virtù delle nuove conoscenze e di nuove situazioni mai concepite cui si è costretti ad agire.

La prudenza nel giudicare accompagnata da una costante autocritica è la chiave per mantenersi aperti all’imprevedibilità, e quindi a non esserne fagocitati.

Da buon inglese, James P. Hogan sa essere pungente nel praticare una ironia discreta e puntuale sui luoghi comuni e sulle caratteristiche dei gruppi umani e di quelli extraterrestri.

Il messaggio, più incisivo, e forse neanche pianificato dall’autore, risultante, quindi dallo svolgersi dele vicende, risiede nella consapevolezza che ogni gruppo umano e extraterrestre, e ogni specie, nonostante marcate deficienze, o pericolose inclinazioni foriere di possibili estinzioni proprie altrui, sono anche essere passibili di risultare una risorsa per essere sublimate nell’affrontare pericoli mortali.

Ogni individuo e ogni gruppo ha la sua dignità di esistenza e di possibilità di inventare il proprio futuro.

Lo stile è avvincente, con variazioni di ritmo e con una buona descrizione psicologica dei protagonisti.

È un libro di etica mascherato da fantascienza Hard.

Tutto da godere.

Tutti i racconti di Beppe Fenoglio

Tutti i racconti di Beppe Fenoglio, Luca Bufano
(Curatore), Einaudi, 2018, Torino

I racconti di Beppe Fenoglio raccolti in questo tomo, suddivisi nelle aree temporali cui sono ambientati e precisamente dagli inizi del 900, passando per la grande guerra fino alla prima metà circa del regno fascista, per poi, infine distribuirsi negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale.

È una mole impressionante di scritti che mostra un luogo preferito di composizione. Non sono solo cicli a tema, o raccolte sporadiche di episodi. I racconti sono un diario vivente che non è un resoconto di ciò è accaduto in una giornata o in un anno, ma una fucina sempre accesa che cola la materia del passato e del presente, individuata dal singolo esperire dell’autore.

Gli attori, i linguaggi, gli accadimenti, sono presenti e vicini alla sua vita lì, nelle langhe, e si rifanno a personaggi veri e alcuni a lui contemporanei. I luoghi sono quelli della sua origine, del suo lavoro, e delle faccende quotidiane. I racconti del novecento che sembrano rivestiti dal mito e sfumati dalle innumerevoli variazioni sul tema, per il passaparola intergenerazionale, rimangono comunque negli ambiti della cronaca, e dell’avventura, perché gli aedi che narrano le gesta, sono in carne ed ossa ed ascoltati da Beppe Fenoglio, per le vie della città e dei paesi, delle osterie, del suo luogo di lavoro, del cortile fuori della sua casa. In più questi hanno conosciuto in gioventù i protagonisti effettivi degli eventi passati.

Non sono neanche concepiti in modo seriale e rapsodico, perché si hanno rimandi a protagonisti di racconti ulteriori e di eventi già trascritti. Beppe Fenoglio non pensa episodicamente con la creatività dell’attimo, perché in mente ha già in mondo. Forse questa complessità del suo estro immaginifico, è una causa preminente che lo porta a preferire istintivamente il racconto breve. Distilla, infatti, in un flusso ordinato il ritmo degli accadimenti. Non è un caso, allora, che i suoi romanzi, sembrano quasi espansioni dei racconti lunghi, che attingono appunto a questo lavoro quasi quotidiano di scrittura, dato che un’opera chiusa e compatta in un mondo esclusivo, avrebbe ristretto la visione panoramica dell’autore.

Nei romanzi, e ancor di più nei racconti, quindi, si rilevano collegamenti e presenze di modi di dire, esperimenti linguistici e attori che compaiono in modo orizzontale nelle composizioni. Da qui emerge una caratteristica di Beppe Fenoglio: la scelta dei nomi e la variazione di alcuni finali per questi attori cui le caratteristiche fisiche, l’idioma, il soprannome, portano già una chiave del loro destino.

Il mito narrato da Beppe Fenoglio, allora non è una trama collegata dai fili del presente e così intessuta: sembra quasi la matrice che produce la cronaca del presente, conferendo ad esso un significato, attraverso un collegamento logico con il passato.

Egli visse in modo distaccato. Lucido rispetto alle battaglie ideologiche e politiche dei contemporanei e quindi da tutti criticato. Prudente ma disinvolto a sfruttare i nuovi stimoli di retorica e di stile moderno che ricevettero idee e modelli dalle letterature estere, come quella inglese. Era presente e attento a ciò che fermentava nel dopoguerra fino alla sua morte, ma non volle mai porsi come un rappresentante esplicito di nuovi corsi, nonostante che iniziasse a usare termini inglesi, e gli stili diretti dei romanzi di largo consumo che si stavano espandendo anche oltre oceano. Anzi, negli anni ‘50, importò anche il gergo giornalistico, sportivo, e di cronaca popolare. Cercò di porre in relazione gli idiomi natii con la lingua italiana nelle versioni formali ed autoritarie fasciste, per quelle auliche delle tradizioni letteraria, a quelle dell’italiano che si stava formando con la televisione.

Beppe Fenoglio reperiva e ad inventava le storie vivendo ogni giorno con i suoi concittadini. La difficoltà risiedeva nell’impegno a sublimarle nell’opera poetica, mantenendo però, la verosimiglianza, la coerenza compositiva, la creatività stilistica.

In questi racconti il lettore riceverà un tesoro di spunti negli approcci alla composizione e alla rifinitura quotidiana, senza sconti, con una disciplina ed una rara onestà intellettuale nel sottoporsi a severe auto analisi. Quest’opera in divenire è continuamente modellata da mani che impastano la creta delle idee con un’estrema e delicata precisione e che scolpiscono il marmo delle forme letterarie con il sudore e il dolore, al fine di ricavare un contrappunto per una tensione di ricerca estetica senza fine.

Un tesoro di fatica a noi donato.

TRILOGIA DEI MENDICANTI DI Nancy Kress

Trilogia dei mendicanti di Nancy Kress,
Traduzione di Antonella Pieretti, 2022,
Urania Millemondi, Mondadori,
Milano (Ed. Originali dei tre romanzi: 1993, 1994, 1996 )

Il Ciclo di questi romanzi fu scritto tra il 1993 e il 1996.  Narra di vicende che partono dai primi anni del 2000. In un certo senso è un romanzo distopico connotato da una verosimiglianza per l’espediente letterario che pone un principio scientifico per noi condivisibile che innesta l’avvio della narrazione. Il fattore fantascientifico è rivolto alle tecnologie afferenti agli studi del campo della genetica, e nell’introduzione del diritto privato e del diritto commerciale nel poter predeterminare attivamente alcune caratteristiche morfologiche e cognitive dei propri figli.

Nancy Kress è una scrittrice prolifica e immaginifica che riesce a coniugare il ritmo della narrazione con un coerente sviluppo degli eventi collocati in ambienti tecnologici avanzati all’interno di una cornice fantascientifica. Dopo più di trenta anni dalla pubblicazione, noi, oggi, non siamo dotati, come allora, di manipolare in modo puntuale e attendibile le caratteristiche specifiche delle generazioni a venire.

Nonostante tutto, le tecnologie di comunicazione e gli ambienti virtuali risentono delle conoscenze e delle applicazioni degli anni novanta. Decisamente ora siamo avanti in un ambiente telematico molto più virtuale di quello descritto nel libro. Tale limitazione è comunque un indice di un libro di eccellente qualità che ha un impianto solido e robusto nel disporre gli eventi. E questo apre il discorso sul desiderio di conferire un potenziamento intellettivo predeterminato spinge alla riflessione riguardo temi più che mai attuali.

Dalla nozione di invidia verso chi ha più capacità, a quella del rancore sociale verso chi è più ricco. Vi è il senso del tempo e del decadimento delle generazioni che si susseguono. Attraverso l’ausilio di nuove tecnologie vi è il tentativo di concepire nuove opportunità tese all’acquisizione di nuove conoscenze e all’ottenimento di nuove ricchezze. In concomitanza emerge la visione di strati sociali che intendono bloccare e inibire le prospettive di miglioramento.

Sono posizioni odierne che ritroviamo nel conflitto di chi lavora e ha privilegi, verso coloro che cercano di accedere a un vivere più pieno di interazioni sociali e di guadagno. Si va dal singolo lavoratore che ha paura di perdere il posto del lavoro, se non la stessa nozione delle sue mansioni, agli stati che di fronte allo sviluppo economico e commerciale di altri limitrofi, si chiudono come un riccio, assumendo atteggiamenti nazionalistici.

Nel primo tomo vi è la fase della crescita e dell’adolescenza degli “insonni” e dei “dormienti” e i loro contrasti, che in età adulta si riverberano verso le interazioni sociali e formali.

Gli insonni, essendo una minoranza della popolazione, vengono bersagliati da improperi, minacce, insulti e aggressioni fisiche, i quali si difendono espandendo le reti commerciali e patrimoniali, anche per finanziare l’edificazione i luoghi ben precisi dove risiedere e difendersi in una posizione di separazione rispetto a tutti gli altri.

Si rilevano analogie con il processo di formazione di uno Stato che in origine è un luogo di rifugiati come è inteso dai più.

Vi è anche il rapporto tra i genitori e i figli. Gli amori dedicati e quelli negati. Le reazioni dei figli o di quelli che aderiscono ad un identico stile di vita dei genitori. Vi sono temi universali posti in termini oppositivi nell’ambito dell’etica, come la simmetria tra la solidarietà e l’individualità, la cooperazione e la competizione.

Un ruolo fondamentale che fa da contrappeso narrativo alle singole vicende, è interpretato dal ruolo della comunicazione e dello spettacolo anche nei tribunali. È sottile la capacità dell’autrice di narrare i dibattiti processuali, mostrando i temi giuridici, morali ed etici su questioni che anche oggi sono di pubblico dibattito. Indirettamente e con lentezza emerge il problema dell’idea della giustizia e della libertà, come quello di poter praticare la ricerca scientifica.

Nel secondo tomo sono narrati i mutamenti sociali derivati da una maggiore disponibilità a concepire la prole, secondo indicazioni prescrittive.

Vi è il presupposto per il quale dal punto di vista legislativo e culturale, è accettata la possibilità di manipolare il patrimonio genetico del feto, in modo da indurre una filogenesi di tratti somatici, corporei, e cognitivi, prestabiliti dai futuri genitori. Tale pratica innesta una coincidenza tra caste sociali e differenziazione biologica di specie. Vi sono i muli, ovvero le persone più prestanti, che producono, detengono il potere, comprano le elezioni. Sono quelli che si danno da fare, studiano, sperimentano, ma esigono il potere da gestire in modo esclusivo. Vi sono i mendicanti, coloro che vivono di elargizioni e si collocano in modo marginale rispetto al vivere sociale. I vivi, coloro che consumano, e che perciò completano il ciclo economico. Di modesta intelligenza e cultura, vivono come cicale, sebbene la loro condizione di vita sia quasi prestabilita dai muli, che li considerano una zavorra necessaria, anche dal punto di vista istituzionale. Il loro valore è il voto e il consenso da influenzare, e veicolare secondo canali prestabiliti.

Gli sviluppi tecnologici vanno avanti, ed emergono gli insonni che, con una costituzione sempre più robusta, vivono quasi più di due secoli in buona salute e in una forma di giovinezza apparente. Diventano ricchissimi e cercano di usurpare il potere dei muli. Da qui in poi, fino al terzo tomo, vi è la storia degli scontri di questi corpi sociali e di specie, che si intensifica ancor di più con la comparsa dei figli modificati degli insonni: i super insonni i quali sono ancora più dotati e hanno l’idea come i loro padri di modificare la società, e il destino di tutti secondo i loro criteri di valutazione.

Entrano in gioco tanti attori, per una trama avvincente, costellata di climax che via via emergono. Le tre caste hanno alterne vicende di successo, in un viatico dove tutti subiscono modifiche sia in rapporto all’igiene, al modo di mangiare, alla ricerca continua di energia. Non dico altro: è una lettura che va goduta fino alla fine.

Però alcune considerazioni si possono dispiegare come la concezione iniziale della scrittrice che richiama una critica ad una idea del capitalismo alquanto semplificato di un motore che determina una dialettica binaria tra gli sfruttati e gli sfruttatori, dove i primi per la loro condizione di minorità, hanno un’etica superiore. La dialettica economica e il demone della figura mitologica del “capitalismo, sebbene siano figure suggestive e facilmente comprensibili, invitano a ulteriori chiavi interpretative che oltrepassano quelle esclusivamente economiche.

Ogni protagonista mostra lati oscuri, anche in virtù delle buone intenzioni dichiarate. Nancy Cress scrivendo questi tre romanzi e approfondendo sempre più i temi esposti, affina l’analisi circa le logiche del potere, del carisma, della ricerca del leader -semidio, all’affidamento da parte del singolo per la sua razionalità limitata, a risposte semplici e dirette, che si mostrano poi crudeli e fallimentari. E arriva, forse inconsapevolmente, a delineare un tema di sottofondo: la nozione di persona, come unità di corpo, di soggetto, di cognizione, di animo, si spande e si rifrange nelle nuove relazioni sociali che emergono in virtù anche alle incredibili e nuove disponibilità tecnologiche in uso. L’integrità del corpo diventa un incrocio di forme da assumere.

Ciò comporta, in particolare nel terzo tomo, a nuove inedite interazioni sociali. Ad differenza dei primi due tomi, si passa da una critica etica e psicologica, ad una analisi sociologica di questi nuovi e immaginifici corpi sociali, attraverso la volontà di diventare un corpo sociale autonomo e isolato rispetto agli altri. Emerge il conflitto che è scaturito dalla volontà di accaparrarsi le risorse a disposizione, arrivando a un paradosso di una guerra universale ordalica.

Da tale contraddizione si sviluppano gli eventi del terzo tomo.

Nancy Cress è veramente una autorità della “Fantascienza dura”: studia approfonditamente di biologia, genetica, medicina e di economia. Miscela tali nozioni in sviluppi coerenti, aventi come è tradizione una idea che è propriamente fantascientifica. Inoltre è una scrittrice immaginifica che è capace di grandi visioni di società alternative ben determinate.

Il voler scrivere una saga, però, comporta la necessità di richiamare i protagonisti dei tomi precedenti per fissarli nei nuovi contesti. E ciò crea ridondanze e slabbrature circa la prosecuzione degli eventi.

Ciò è compensato però dalla sua straordinaria capacità di cambiare i registri linguistici tra i protagonisti e di variare il ritmo della scansione degli eventi, in modo che il lettore sia stimolato ad andare avanti.

È un’opera imponente che ha retto lo sviluppo tecnologico trentennale e che anzi, propone ancora oggi domande per noi inevase.

277-78 Quando aveva cominciato a trovare buffe cose come i piedi? Certamente non quando era giovane, a venti, trenta o cinquant’anni. Tutto era stato molto serio allora, di conseguenze tali da sconvolgere la terra. Non soltanto le cose che avrebbero potuto effettivamente scuotere la terra, ma tutto. Doveva essere stata davvero pesante. Forse i giovani non avevano alcuna possibilità di essere seri senza essere pesanti. Mancava loro l’importantissima dimensione della fisica: il momento torcente. Troppo tempo davanti, troppo poco alle spalle, come un uomo che tentasse di portare orizzontalmente una scala tenendola a un’estremità. Nemmeno un’onorevole passione poteva fornire un buon equilibrio. Mentre ci si muoveva faticosamente a scatti, solo per mantenere il proprio equilibrio, come si sarebbero potute trovare divertenti le cose?

280-282 «Nooo. Hanno scuole loro.» Guardò Leisha come se lei fosse stata tenuta a saperlo, e, ovviamente, lei lo sapeva. Gli Stati Uniti erano ormai una società a tre strati: i nullatenenti, che tramite il misterioso e edonistico narcotico della Filosofia del Vivere Vero erano divenuti i beneficiari del dono dell’ozio. I Vivi, l’ottanta per cento della popolazione, che si erano liberati dell’etica del lavoro per sostituirla con una godereccia versione popolare dell’antica etica aristocratica: i fortunati non devono lavorare. Sopra di loro, oppure sotto, c’erano i Muli, Dormienti migliorati geneticamente che gestivano la macchina politica ed economica, come dettato dai, e in cambio dei, voti signorili della nuova classe oziosa. I Muli tiravano avanti: i loro robot lavoravano. Alla fine c’erano gli Insonni, quasi tutti invisibili all’interno del Rifugio, che venivano trascurati dai Vivi, se non dai Muli. L’intera organizzazione a trifoglio, Es, Io e Super Io, come qualcuno l’aveva sardonicamente etichettata, veniva assicurata dall’economica, onnipresente energia-Y che alimentava le fabbriche automatizzate rendendo possibile l’esistenza di una prodiga assistenza sociale che barattava pane e giochi del circo con voti. »

297-298 Non si poteva mai riposare. Il Corano e la storia degli Stati Uniti concordavano almeno su un punto: “E coloro che raggiungeranno il loro accordo solenne e sopporteranno con coraggio la sfortuna, le difficoltà e il pericolo… questi saranno i veri fedeli al loro credo”. E poi: “Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza”.

353-354 Jennifer si sedette con grazia sulla sedia della scrivania di Tony. Le pieghe della sua nera abaya si adagiarono a terra accanto al corpo accucciato di Miri. «Per la prima parte della sua vita, sì. La produttività, però, è una cosa relativa. Un Dormiente può avere cinquant’anni di produttività, iniziando, diciamo, dai venti. Ma, a differenza di noi, verso i sessanta o i settant’anni i loro corpi si indeboliscono, sono preda di esaurimenti, si sfaldano. Possono vivere tuttavia per almeno altri trent’anni, un fardello per la comunità, una vergogna per se stessi perché è una vergogna non lavorare quando gli altri lo fanno. Anche se un Dormiente fosse industrioso, ammassasse denaro per la vecchiaia, acquistasse robot che si prendessero cura di lui, finirebbe per essere isolato, incapace di prendere parte alla vita quotidiana del Rifugio, degenerando. Morendo. Dei genitori che amano il proprio bambino lo condannerebbero a un simile destino? Una comunità potrebbe mantenere molte di queste persone senza assumersi un fardello spirituale? Pochi, sì: ma che sarebbe dei principi coinvolti? «Un Dormiente allevato fra noi non sarebbe soltanto un estraneo qui, inconscio e morto cerebralmente per otto ore al giorno, mentre la comunità va avanti senza di lui. Avrebbe anche il tremendo peso di sapere che un giorno o l’altro potrebbe avere una paralisi, un attacco di cuore, un cancro o una delle miriadi di malattie cui sono soggetti i mendicanti. Sapendo che lui stesso diventerà un peso. Come potrebbero un uomo o una donna di sani principi vivere in questo modo? Sai che cosa dovrebbero fare?» Miri capì. Ma non lo disse. «Dovrebbero suicidarsi. Una cosa tremenda a cui costringere il bimbo che ami!» Miri strisciò fuori da sotto la scrivania. «M-m-ma, n-nonna… t-t-tutti d-d-dovremo m-m-orire un giorno. Anche t-t-tu.» «Ovviamente» rispose con compostezza Jennifer. «Ma quando lo farò, sarà dopo una vita lunga e produttiva come membro completo della mia comunità: il Rifugio, il sangue del nostro cuore. Non vorrei niente di meno per i miei figli e per i miei nipoti. Non mi accontenterei di niente di meno. Nemmeno la madre di Joan.»

678 Miri mi aveva detto una volta che esistevano solamente quattro domande importanti che si potevano porre su qualsiasi essere umano: come riempie il proprio tempo? Che sensazioni ha riguardo al modo in cui riempie il proprio tempo? Che cosa ama? Come reagisce rispetto a coloro che ritiene inferiori oppure superiori? «Se fai sentire le persone inferiori, anche non intenzionalmente» aveva detto con un intenso sguardo negli occhi scuri «loro si sentiranno a disagio in tua presenza. In questa situazione, alcune persone attaccheranno. Alcune cercheranno di ridicolizzarti per “ridurre la tua dimensione”. Alcune tuttavia ti ammireranno e impareranno da te. Se tu fai sentire le persone superiori, alcune reagiranno licenziandoti. Alcune eserciteranno il loro potere in modo maggiore o minore. Alcune, tuttavia, si sentiranno portate a proteggere e aiutare. Tutto questo si applica ad appartenenti a una piccola loggia così come a un gruppo di governi.»

690-91 «Ha fatto centro, signor Arlen. I Vivi sono il vero popolo di questo paese, proprio come lo era l’esercito di Marion. Avevano la volontà di decidere per se stessi in quale tipo di paese volevano vivere e anche noi abbiamo la volontà di decidere per nostro conto. Abbiamo la volontà e abbiamo l’ideale di come dovrebbe essere questa gloriosa nazione, anche se adesso non lo è ancora. Noi I Vivi. E se non ci crede, caspiterina, guardi che casino hanno fatto i Muli di questo grande paese. Debiti nei confronti di nazioni straniere, alleanze capestro che ci risucchiano ogni risorsa, l’infrastruttura che ci si sgretola in faccia, la tecnologia mal utilizzata. Proprio come gli inglesi utilizzavano male i cannoni e i fucili ai loro tempi.»

Nota mia: (ricorda più di una recente campagna elettorale… )

704  «Oh, figliolo, ma non vi insegnano proprio niente in quelle vostre scuole alla moda? Non dovrebbe essere permesso, no, non dovrebbe proprio. Caspita, proprio qui nel Preambolo, c’è scritto chiaro come il sole che “Noi, il Popolo” stiamo scrivendo questa cosa “così da formare un’Unione più perfetta, amministrare la Giustizia, assicurare Tranquillità domestica, fornire la difesa comune” eccetera. Dove sta la perfetta unione se si lascia che i Muli controllino il genoma umano? Questo non fa altro che separare ancora di più le persone. Dove sta la Giustizia nel non permettere al bimbo di Abby e Joncey di partire dalla stessa base di un bambino Mulo? Come può creare tranquillità domestica? Che diavolo, crea invidia e risentimento ecco cosa crea. E che caspita può essere, sulla verde terra del buon Dio, la “difesa comune” se non la difesa della gente comune, i Vivi, in modo che possano avere dei figli che contano esattamente come un bimbo modificato geneticamente? Abby e Joncey stanno combattendo per loro stessi, proprio come i genitori naturali di ogni posto, e la Costituzione dà loro il diritto di farlo, proprio lì, in quel sacro paragrafo.»

Il libro mostra il carisma, il settarismo, il credo religioso messianico che però si fonda sul nemico da creare, da perseguire e distruggere perché ad esso è attribuito il male. Tale attribuzione è conferita per la fede. Esclusivamente per la fede. Il complotto è il teatro che risolve tutto.

1178-1179 «Miranda, non conosco la parola giusta per descrivere come diventa la gente quando non si sente più ferita e sola. Però le accade qualcosa. Quando continua a prendere quel genere di neurofarmaci per non sentirsi “se stessa”, presto non riesce più a sentire nemmeno l’altra gente. Diventano tutti come gli amici di Cazie, e forse come la stessa Cazie, non so. Cazie è buona, in fondo, ma ha inalato tanta roba per coprire la propria sofferenza che non si è più accorta nemmeno della sofferenza di Jackson e, dopo, non si è più accorta nemmeno di Jackson. Lui è solo un altro mobile nella sua vita, un altro robot. «Le persone devono soffrire. Devono permettersi di sentire la sofferenza. Devono sopportarla e non cercare di eliminarla con l’Endorbacio, i neurofarmaci, il sesso, i soldi: è l’unico motivo per cui sappiamo che dovremmo fare qualcosa di diverso, che dovremmo continuare a cercare con più impegno dentro di noi e dentro gli altri. Non si può solo aggirare il dolore, bisogna passarci attraverso per arrivare dall’altra parte, dove l’anima è… Oh, non lo so! Non sono abbastanza intelligente per sapere! Nella mia modificazione genetica embrionale è andato storto qualcosa, non sono intelligente come Cazie o Jackson, ma so che dovresti darci altre siringhe del Cambiamento perché i bambini vivano abbastanza a lungo da sentire il proprio dolore e cominciare a imparare. Forse non avresti dovuto darci le siringhe. Però lo hai fatto e ora i Vivi non possono sopravvivere senza perché noi Muli li abbiamo lasciati in asso e controlliamo tutte le risorse. Ci devi dare altre siringhe del Cambiamento perché quei bambini possano vivere abbastanza da cercare quello che importa davvero.

1241-42 Eden. Per quanto tempo ancora? C’erano siringhe nascoste, probabilmente, famiglia per famiglia, in tutte le enclavi, una o due qui, altre lì. I neonati sarebbero stati iniettati, segretamente, prima che gli outsider venissero a conoscenza dell’esistenza delle siringhe per poterle rubare. Quando le siringhe messe da parte fossero finite tutte, il tasso di natalità sarebbe crollato anche più di quanto già non avesse fatto, quando i genitori Cambiati avessero preso in considerazione i problemi relativi a malattie e al bisogno di cibo dei figli non-Cambiati. Alla fine la gente avrebbe ricominciato comunque ad avere bambini, perché succedeva sempre così. A quel punto la medicina si sarebbe ripresa dal febbricitante coma di ricerche nel campo delle droghe del piacere e i Muli se la sarebbero cavata bene, più o meno come avevano sempre fatto, dietro i loro scudi a energia-Y, sempre più impenetrabili, che si sarebbero estesi ogni anno a causa della necessità di destinare aree sempre maggiori all’agricoltura, alle industrie casearie e a quelle di sintesi della soia. Le enclavi si sarebbero adattate. Avevano tutta la tecnologia per riuscirci. Non ci sarebbe stata alcuna cacciata dall’Eden. E i Vivi? Non c’era bisogno di chiedersi cosa sarebbe accaduto loro. Accadeva già. Carestia, morte, malattia, guerra. Alla fine, avrebbero imparato nuovamente le tecniche per la sopravvivenza. Se invece il neurofarmaco che inibiva la tolleranza per le novità avesse continuato a diffondersi, non avrebbero imparato. Sarebbero rimasti attaccati alle vecchie mansioni adatte a corpi Cambiati che la nuova generazione non avrebbe posseduto. I Muli, inaspriti dalle Guerre del Cambiamento e consci che i Vivi non erano più necessari economicamente per almeno tre generazioni, non avrebbero fatto nulla. Genocidio tramite immobilismo universale. Il Signore non aiuta i cerebrochimicamente incapaci di aiutare se stessi, troppo terrorizzati dai cambiamenti per lasciare che qualcuno si avvicini loro e che hanno perso da poco i loro ultimi paladini extraterrestri.

1253 PARTE TERZA MAGGIO 2121 È impossibile, per una creatura come l’uomo, restare completamente indifferente riguardo al benessere o al malessere dei suoi simili e non essere pronta, per proprio conto, a stabilire, nel caso in cui non abbia particolari impedimenti, che ciò che promuove la loro felicità è bene e ciò che porta alla loro afflizione è male. DAVID HUME, Ricerca sui principi della morale

SUNFALL DI JIM AL-KHALILI

Sunfall di Jim Al-Khalili, 2014, Traduzione
di Carlo Prosperi, (Prima ed. 2019), 2022,
Bollati Boringhieri, Torino

L’autore è in primo luogo un fisico di fama internazionale, che con la presente opera si è prestato a redigere un romanzo, a differenza di altri suoi scritti di divulgazione sulle nozioni e sugli sviluppi della Fisica contemporanea. I concetti e i termini impiegati sono veri e verosimili, in quanto i neutralini, sebbene siano già stati ipotizzati e circoscritti in modelli coerenti a livello teorico, in data attuale non hanno avuto un preciso riscontro sperimentale. L’appunto a queste particelle che dovrebbero costituire la materia oscura, è la base su cui si innesta quest’opera: una narrazione distopica di eventi possibili qui e ora.

Le tempeste solari in modo ciclico investono i pianeti che gravitano intorno alla nostra stella. La Terra grazie alla intensità del suo campo magnetico riesce a deviare gran parte di queste radiazioni, mantenendo così integra la sottilissima pellicola che chiamiamo atmosfera e per conseguenza gli ecosistemi per noi vitali. Le tempeste solari negli evi passati hanno invertito i poli del nostro campo magnetico, e in queste fasi per le leggi fisiche relative alla densità di campo, lo hanno indebolito, e quindi hanno permesso una maggiore incidenza radioattiva negli strati più bassi dell’atmosfera. Si ipotizza che ciò abbia contribuito a causare l’estinzione di specie viventi, dalla flora fino agli animali a sangue caldo.

Il romanzo si incentra su questo evento e nella concomitanza della tragica evidenza che il polo magnetico avrebbe raggiunto una sua inversione e quindi un equilibrio in un periodo di tempo molto più lungo di quello delle coorti generazionali dell’uomo, in termini di nascita, età adulta, e morte. La conseguenza è una altissima probabilità di estinzione dei mammiferi, per il caldo crescente, per i raggi solari letali, per l’innalzamento delle acque, e nel complesso per lo sconvolgimento climatico sì temporaneo, ma devastante.

È un romanzo di avventura, di spionaggio, che si incentra nel tentativo di veicolare i neutralini in un modo tale da permettere al campo magnetico di assestarsi. Non rivelo nulla, e lascio al lettore il gusto dell’approfondimento e della scoperta, anche perché è un romanzo che scorre in un ritmo che cerca il climax e la sorpresa.  

I personaggi sono però stereotipati, perché nelle dinamiche di relazione sembrano che vivano tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Sì vi sono donne e uomini che nel campo della scienza, della politica, e dello spionaggio risultano pari agli uomini nelle prestazioni, ma nelle disposizioni emotive verso i colleghi di lavoro, i partner e i familiari stretti, seguono modelli di due generazioni fa.

La visione di fondo tra gli uomini e le donne sebbene sia limitata in questi stereotipi prevedibili, da una parte facilita la comprensione degli eventi scanditi in un ritmo agevole. Tale semplificazione lascia quindi il tempo per concentrarsi riguardo la comprensione dei concetti di fisica che via via sono espressi, dai quali si ricavano le connessioni di causa ed effetto delle azioni dei protagonisti.

Vi è un tema di fondo reale e non fantascientifico che è rivolto nella concreta possibilità dell’avverarsi di accadimenti terrestri e cosmologici di frequenza singolare o ciclica tali da arrecare danni all’ambiente di vita favorevole nel suo complesso per la nostra sopravvivenza.

La gravità di tali rischi nel loro concretizzarsi in pericoli manifesti abbisogneranno di una collaborazione interstatuale tra i popoli. La condivisione delle conoscenze, la partecipazione democratica al loro sviluppo e messa in opera, definiscono la speranza di concepire la soluzione.

La convinzione di adottare un approccio collaborativo nell’integrare le proprie risorse materiali, tecnologiche e di sapere, avviano le strategie di impieghi impensabili delle nostre capacità nel manifestare positivamente la nostra volontà di sopravvivenza.

L’umiltà di considerarsi solo una parte del pianeta Terra che è la nostra unica e sola casa di fronte alla collettività, garantisce di una caratura morale che invita alla fiducia e alla volontà di agire non solo per i propri esclusivi interessi.

È un libro progettato per attrarre il grande pubblico nella lineare scansione degli eventi e nella costruzione, non estremamente sofistica, nel delineare le personalità dei protagonisti. La voluta semplicità della trama, però, offre un linguaggio tecnologico rivolto a problemi scientifici attuali che fa sentire il lettore partecipe di questo processo nel pensare su di sé e sul proprio destino, vivendo da quasi due secoli in un ambiente che non è mai stato così favorevole in tutta la storia dell’umanità.

443-445

Nota tecnica dell’autore sulla materia oscura L’idea di fondo del Progetto Odino si basa sul comportamento della materia oscura. Ma quanto c’è di scientificamente accurato in tutto questo? Be’, lasciatemi chiarire un paio di cose. Anzitutto, la materia oscura è reale. È ciò che tiene insieme le galassie. Anzi, nell’universo la materia oscura è cinque volte la materia cosiddetta normale. Il problema è che, al momento in cui scrivo, ossia dicembre del 2018, non sappiamo ancora di cosa la materia oscura sia composta. Quali che siano le sue particelle costituenti, a oggi non ne conosciamo nulla. I fisici la chiamano «materia non barionica».

Sappiamo che la materia oscura percepisce la forza di gravità ma non quella elettromagnetica (il che le permette di attraversare la materia normale come se questa non ci fosse). Il secondo punto è che uno dei potenziali candidati come costituente della materia oscura è effettivamente il neutralino, un’ipotetica particella prevista da una teoria tuttora speculativa chiamata Supersimmetria. La mia remora nell’usare il neutralino in Sunfall era che potesse essere scoperto prima dell’uscita del libro o, ancora peggio, che qualche nuovo risultato sperimentale escludesse categoricamente la sua esistenza, magari rivelandoci che la materia oscura è composta da tutt’altra particella. Finora, invece, tutto bene. I neutralini sono ancora in corsa. Quanto al fatto che i fasci di materia oscura interagiscono con se stessi, ciò è all’incirca corretto, almeno sulla base delle attuali conoscenze.

Al proposito, tuttavia, mi sono preso alcune libertà, nel senso che l’auto-interazione della materia oscura è probabilmente molto debole, altrimenti ne vedremmo le testimonianze in astronomia. D’altro canto, se al momento di collidere i fasci sono dotati di sufficiente intensità ed energia… Quanto alla questione del decadimento dei neutralini pesanti in chargini e di questi, a loro volta, in neutralini leggeri – tutta quella roba necessaria affinché la traiettoria del fascio possa essere deviata dai magneti – be’… non è sbagliata ma solo estremamente semplificata. Se ne stanno occupando fisici teorici di tutto il mondo, attualmente al lavoro su modelli matematici come il Modello Standard Supersimmetrico Minimale con parametri complessi (o cMSSM) o il modello di concordanza cosmologica, ΛCDM, che si legge «lambda-CDM» e ha per elementi costitutivi la materia oscura fredda e la costante cosmologica. Oh, siete stati a voi a chiedermelo! Come dite? No? Ah, ok.

LA FISICA DEI PERLESSI DI JIM AL-KHALILI

La fisica dei perplessi. L’incredibile mondo dei quanti
di Jim Al-Khalili, 2014,
Traduzione di Laura Servidei, (Quantum.
A Guide for Perplexed, 2003),  Bollati Boringhieri, Torino

 

È un libro che suggerisce alcune vie interpretative di questo universo in continua espansione di ricerca che è la meccanica quantistica, spiegando i punti di vista storici e logici iniziali della suddetta.

Chiunque negli ultimi 80 anni abbia sentito parlare di ciò che gli scienziati si occupano riguardo la fisica, patisce una sorta di perplessità riguardo i modelli e i fenomeni relativi ai quanti. Per la media della popolazione che ha studiato qualche nozione di fisica nei periodi della scuola dell’obbligo, inconsciamente valuta il mondo dei quanti con l’occhio e i modelli propri della fisica classica. Ed è ovvio che sia così, perché la fisica che parte e si sviluppa con Isacco Newton si occupa di primo impatto dei fenomeni quotidiani cui abbiamo a che fare ogni giorno, anzi ogni minuto.

Tali modelli del 1700, nonostante siano variati in quasi quattrocento anni, li consideriamo come se fossero l’ambiente stesso in cui stiamo e viviamo. Riteniamo ovvi i concetti dello spazio, del movimento, delle cause che producono moti e mutazioni dei materiali, con il corredo di spiegazioni di fenomeni che riteniamo curiosi come l’elettricità, le calamite, la possibilità di volare, il passaggio dallo stato solido a quello liquido. La condizione di “naturalità” è avvalorata dal funzionamento dei manufatti costruiti secondo tali criteri.

Aggiungiamo poi che i fisici ne parlano con il linguaggio matematico sofisticato, ed ecco che l’opinione pubblica non può che averne o il rigetto, o la curiosità del pittoresco, oppure una malia esoterica.

Se abbiamo la fortuna, il caso, le possibilità e il lusso di comprenderlo, e se non si crepa prima, il mondo è difficilmente comprensibile in modo immediato.

Sarebbe auspicabile accettare che noi, forse il novanta per cento della popolazione, e quindi anche il sottoscritto ha una intelligenza mediocre, cioè nella media e che se non la si esercita, si perde la curiosità. Se poi si lascia che la vecchiezza ci abbracci con la pigrizia di quanto già appreso, non possiamo che scadere ulteriormente nei nostri processi cognitivi.

L’ignoranza è un lusso: ti fa diventare povero e alla lunga crepare anzitempo.

Le nostre incertezze e conoscenze labili della fisica, oltre alle nostre elementari capacità di ragionamento inducono l’irriflessa attitudine a comprendere della meccanica quantistica con gli occhi della fisica del ‘700. E l’esito non può che essere fallimentare.

Questo libro è meraviglioso, perché non si getta a evocare le magie dei quanti. Inizia a introdurre i punti di vista con i quali si è cercato di adottare una serie di strumenti matematici, e di pratiche sperimentali nel descrivere fenomeni oscuri, nell’approfondire analisi ambigue, e opache. In particolare del mondo così piccolo che nel novecento era quasi impossibile vederlo e misurarlo. E ancor di più, nel rendersi conto che lo stesso concetto di misura non fosse scontato.

L’autore ha scritto questo libro partendo dal modo di vedere comune il mondo, per estenderlo verso approcci definiti quantistici. Rafforza il suo tentativo mostrando che la fisica dei quanti ha applicazioni che riguardano il nostro vivere quotidiano: i raggi x, la radiografia, il nucleare, i chip, i laser, i computer.

Negli ultimi trenta anni, anche il mondo dei quanti sembra nascondere e suggerire che vi è qualcosa di altro descrivibile nuovi con linguaggi, occhi, e pensieri.

È un libro che va letto piano, immaginando ciò che si comprendere, e provando ad ampliare le nozioni che si hanno della realtà. Questo libro è un tesoro. Ed è un vero viatico pedagogico.

MERIDIANO DI SANGUE O ROSSO DI SERA NEL WEST DI Cormac McCarthy

Meridiano di sangue o Rosso di sera nel West, di Cormac McCarthy (Autore), Raul Montanari (Traduttore), Einaudi, Torino, 2014, ed. originale: Blood Meridian or The Evening Redness in the West, 1985 

Il meridiano di sangue è una traccia scritta dagli eventi per opera dei protagonisti. La mappa del mondo è raffigurata con i radianti delle ossa e gli angoli delle armi. Il corpo umano è quello degli Stati Uniti in formazione. Le configurazioni statuali figliano involucri di pus e di sangue disseminati tra la terra e l’acqua che viaggiano tra est ed ovest, crollando uno dopo l’altro, fornendo un linguaggio e un senso dei confini, attraverso la consunzione e la decomposizione.

Il ritmo della narrazione è scandito dal timbro della violenza. Ogni trama è descritta dall’offesa della natura contro gli esseri viventi. Le vite sono pollini sparsi dall’Atlantico verso l’Oceano Pacifico, con pochi che germogliano, e la massa che invece crepita nel baratro, collassando tra la crudeltà, il sadismo, e la vacua razzia, aggrappandosi a scheletri di trofei macilenti e velenosi.

Vi sono richiami storici ben precisi, e per noi europei quasi oscuri, circa la storia dell’America del Nord, riguardo la guerra civile degli Stati Uniti d’America (detta da noi impropriamente guerra di secessione), le lotte decennali tra l’ex impero spagnolo e francese, gli agglomerati statuali transitori e in perenne conflitto tra quelle nebulose chiamate Louisiana, Messico, Texas e gli stati centrali e dell’ovest dell’Unione di recente formazione, fino alla California.

Ricordando comunque che già dapprima vi erano guerre senza fine tra i creoli, gli ispanici, le varianti che noi facilmente e in modo superficiale denominiamo Apache o Sioux, i Comanche identificandoli semplicemente come indiani, attraverso i film Western del secolo scorso. No, i complessi gruppi ed etnie stanziali prima dell’avvento degli spagnoli, dei francesi e degli inglesi, e poi di tutta quella sterminata immigrazione senza patria dell’ottocento, erano già agglomerati in conflitto ed ibrida mutazione.

Lo stile di scrittura è piano e lineare e paradossalmente con pochi superlativi. Di prima impressione sembra sia costellato da ritmi giornalistici, di cronaca addirittura, per planare su resoconti storici indiretti con nomi nascosti di generali, di personalità del periodo, che per il lettore veloce e superficiale sembreranno gettati così senza un criterio. Si passa dalla cronaca di eventi bellici, fino alle narrazioni dell’uomo settecentesco che affronta una natura ostile alla Robinson Crusoe.

Questa capacità istrionica è sublimata in una forma di romanzo, che è incorniciata dalle descrizioni ambientali delle Montagne Rocciose, e relativi dirupi, con un’alluvione di termini geologici, botanici, nonché zoologici. Vi è una capillare descrizione etnologica dei gruppi etnici, e delle bande, oltre degli eserciti che lottano tra loro. Emerge una visione antropologica dei modi di vivere degli agglomerati, posti, indipendentemente dalle loro dimensioni, tra il deserto, i boschi, il freddo, la siccità, in un oceano di ostilità, dove l’orizzonte è un continuo generatore di pericoli, di nemici: un bardo del dolore e della morte.

I protagonisti sono coraggiosi e capaci, che agiscono senza enfasi. Quasi in un richiamo ipnotico si avverte l’impressione di leggere stanche descrizioni di marinai anziani seduti davanti al caminetto raccontando dei tempi che furono, gli argomenti trattati e gli eventi sono lo spasimo. Almeno all’inizio, perché poi, appena si entra in questo mondo, non vi è un attimo di tregua. Il ritmo varia in un crescendo di azione violenta, su scenari di orrore e di morte.

La crudeltà è il pendolo che oscilla tra un vortice di sadismo e di una assurda tranquillità, nella quale i protagonisti quasi morenti e in sofferenza estrema, riflettono sulla loro condizione, sull’etica, sul senso del proprio agire. Il dolore e l’angoscia della propria scomparsa, aprono la possibilità di un tono lirico, e veramente letterario tra il tragico, il poetico, il drammatico.

Non si salva nessuno: ognuno di loro uccide, imbrattato di sangue e di repellenza. Appare pulito e accettabile nel raffigurarlo esteticamente, il personaggio che non subisce la morale e la compassione, e che cerca di rimanere integro alle pallottole, alle coltellate, alle frecce, alle ferite invalidanti, tra la bile e il vomito.

Anche chi riesce a razziare, a portare gli scalpi e vendere le orecchie e le teste essiccate, sperpera il ricavato in veleni d’alcool e d’azzardo che portano alla rissa, all’omicidio, alla prigione, alla morte subita quasi senza senso dal compagno dell’ora prima, che uccide totalmente ubriaco, in una abiezione sessuale che comunque porta all’infezione.

Non vi è una giustificazione: l’avidità e la ricerca del piacere perverso non sono nobilitati, e non sono descritti come ciò che ottunde la ragione, salvando quindi la razionalità, bella e buona. No. Questo è un romanzo che affronta di petto la cattiveria, l’altra parte del cuore nero che tutti abbiamo e che cerchiamo di delimitarlo con questa linea di sangue. Sì, perché questo meridiano è disegnato nel cuore di ogni essere umano.

Oltre la violenza fisica e immediata, vi è uno scontro sotterraneo tra una visione data da un protagonista che descrive il senso della storia, del vivere e del mondo in un piano amorale, e chi invece cerca di aggrapparsi ancora con un dito nell’altra parte del confine, essendo però, assassino e spietato come il suo interlocutore.

Non è una dialettica dove vi è la sintesi tra il protagonista e l’antagonista. Più che la sublimazione, si dissolvono e lasciano al lettore di immedesimarsi, con il tranello che alla fine si sta parlando proprio di lui. Ed è ovvio che quasi nessuno potrà definire compiutamente queste posizioni, perché l’oggetto del contendere siamo io e te. Il mio e il tuo cuore.

Lo scritto innesta uno studio etico in una opera letteraria, finemente cesellata nei termini americani, spagnoli, amerindi. Nessuno è innocente.

Vi sono riferimenti non tanto nascosti relativi alle interpretazioni metodiste e battiste degli Usa, oltre al mix cattolico inca azteco dei popoli del Messico, innestato nelle correnti animiste dell’universo degli indiani. Il tutto cozza contro riferimenti espliciti alle metafore del “Così parlò Zarathustra”, di “Ecce Homo”, e della “Genealogia della morale” di Friedrich Nietzsche, come anche nelle pagine finali, circa il richiamo alla danza della “Gaia Scienza”.

In prima e anche in una seconda lettura, risulta quasi immediata la considerazione che il romanzo voglia svelare la nudità dei rapporti sociali e della propria posizione rispetto alla natura, in un’escrescenza etica labile, usata per il più come tattica di sopraffazione.

Eppure i momenti più lirici e di consapevolezza, avvengono nei momenti in cui si ha bisogno degli altri per le cure, per un sorso di acqua, per un riparo dalle asperità climatica. L’aiuto è fornito indipendentemente da una transazione di scambio di valore monetario, perché in quelle condizioni alcunché ha un valore, se non la soddisfazione immediata delle esigenze della sopravvivenza.

Sembra che alla fine vincano quelli che sono “Al di là del bene e del male” e che dicano “sì” al vivere che è insensatezza,

MA

agendo in modo tragico nell’accettare il caos, che è crudele perché gli si vuole dare un senso, ricercano un contrappunto nella propria morale. Non è un caso, infatti, che dichiarando di non avere il cuore, e offrendo solo questo meridiano, tutto rimane svuotato, ciò loro stessi, e la loro capacità di rispondere. Chi è giudice, diventa il giudicato, e chi vuol essere libero, non ha più parole per dire se le proprie mani siano o no incatenate.

E qui il dilemma è consegnato al nostro meridiano personale, attraverso questo capolavoro di romanzo che non offre sconti.

Le mie sono solo risposte a un tuo continuo richiamo…